martedì 30 ottobre 2012

F.Kafka:Il tacere* delle Sirene


Può servire come mezzo d’aiuto, per quanto insufficiente e puerile, questa ne è la prova:
per proteggersi di fronte alle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si fece incatenare saldamente all’albero. Lo stesso avrebbero potuto fare naturalmente da tempo immemorabile tutti i viaggiatori (salvo i sedotti già da lontano), ma, risaputo nel mondo intero, ciò era impossibile che servisse. Il canto delle Sirene penetrava ogni cosa, perfino attraverso la cera, e l’entusiasmo dei sedotti avrebbe spezzato ben altro che catene ed albero. Tuttavia Odisseo, quantunque avesse udito la cosa, non ci pensò, si fidò pienamente del grumo di cera e del rotolo di catena e si diresse incontro alle Sirene ingenuamente contento dei suoi espedienti.
Ora, tuttavia, le Sirene hanno un’arma ancora più spaventevole del loro canto, vale a dire il loro tacere. Non è davvero successo, ma è concepibile forse che qualcuno si sia salvato dal loro canto; certo, non dal loro ammutolire. Niente di terreno può resistere al senso di aver vinto da soli su di loro, alla conseguente superbia trascinante.
E in realtà quando Odisseo arriva  non cantano, queste impetuose incantatrici, sia che credano che possa avere la meglio su quest’avversario soltanto il tacere, sia che la vista della beatitudine sul viso di Odisseo, di null’altro pensieroso che della cera e delle catene, faccia loro scordare il canto.
Tuttavia Odisseo, per dir così, non ode il loro tacere, cantano, pensa, solo che lui è al riparo dall’udirle, di sfuggita vede anzitutto il moto delle loro gole, il respirare animalesco, gli occhi colmi di lacrime, la bocca dischiusa, ma pensa che ciò appartenga alle arie che, inascoltate, risuonano attorno a lui. Presto però tutto scorre in lontananza alla sua vista attenta, le Sirene di fatto scompaiono e, proprio quando lui è loro più vicino, ne ignora tutto.
Le Sirene però, più belle che mai, si distendono e si girano, lasciano fluire libere nel vento le sinistre capigliature, abbrancano lascive gli scogli, non vogliono più sedurre, soltanto carpire, finché è possibile, il riflesso dei grandi occhi di Odisseo.
Avessero avuto coscienza, sarebbero state, quella volta, annientate, tuttavia non si mossero, solo che Odisseo è loro sfuggito.
D’altra parte si tramanda anche una chiosa. Odisseo, si dice, era così astuto, una tale volpe, che nemmeno la dea della Fortuna poteva penetrare nel suo cuore, forse lui ha veramente notato il tacere delle Sirene, per quanto ciò sia oscuro da comprendere umanamente, ed ha in certo modo opposto come scudo a loro e agli Dei la summenzionata messinscena.

* Altri traduce con "silenzio", che è più semplice.



martedì 23 ottobre 2012

F.Kafka: Una normale confusione


Un episodio comune; sopportarlo è da eroi comuni; A. deve concludere un affare importante con B., del villaggio vicino, H. Per una discussione dei preliminari si reca alla volta di H., percorre la strada in dieci minuti alla volta, andata e ritorno, e a casa si vanta di questa notevole velocità. Il giorno dopo si reca di nuovo alla volta di H., per concludere l’affare; richiedendo la cosa presumibilmente diverse ore, A. esce già di buon mattino; tuttavia, nonostante che ogni dettaglio circostanziale, almeno secondo A.,sia del tutto uguale al giorno prima, stavolta egli impiega dieci ore a percorrere la via per H. Quando arriva stanco, a sera, gli si dice che B., irritato dall’assenza di A., dopo mezz’ora circa si è mosso verso A. e il villaggio di A.; avrebbero dovuto incontrarsi, in effetti. Sarebbe consigliabile che A. aspettasse B., che dovrebbe ritornare proprio tra poco. Tuttavia A., in ansia per l’affare, parte subito verso casa. Stavolta rifà la strada, senza farci molto caso, addirittura in un batter d’occhio. A casa viene a sapere che B. è arrivato presto, ancor prima che A. partisse, che ha incontrato A. proprio sulla porta di casa, che gli ha ricordato l’affare, ma che A. gli ha detto di non averne assolutamente tempo, che doveva partire in gran fretta. Che, nonostante questa incomprensibile condotta di A., B. è rimasto ad aspettare A. Che ha, certo, molte volte chiesto se A. fosse tornato, o se invece si trovasse ancora in camera sua. Fortunatamente A., intanto, sale di corsa le scale per poter parlare con B. e spiegargli tutto. E’ già di sopra, inciampa, si stira un tendine e presto, reso inerme dal dolore, incapace perfino di gridare, limitandosi a piagnucolare nel buio sente e vede che B., non si distingue se in gran lontananza o vicino, infuriato scende le scale e scompare definitivamente.









lunedì 15 ottobre 2012

F.Kafka: Il villaggio vicino


Mio nonno usava dire: “La vita è sorprendentemente breve. Ora si comprime così tanto nella mia memoria, che per esempio capisco a mala pena come un giovane possa decidere di recarsi a cavallo fino al villaggio vicino senza temere che –  tralasciando ogni coincidenza sfortunata – non basti affatto, per una gita del genere, il tempo della normale vita già felicemente trascorsa”.


lunedì 8 ottobre 2012

F.Kafka: Undici figli


Ho undici figli.
Il primo, esteriormente molto misero, è tuttavia serio e intelligente; ciò nondimeno non lo stimo, sebbene lo ami assai come figlio, al pari di tutti gli altri. Non guarda né a sinistra né a destra, e neppure in prospettiva; continua a ripercorrere il breve giro delle sue idee, oppure fa dietrofront.
Il secondo è bello, slanciato, ben fatto; incantevole, vederlo nella posizione dello schermitore. Anche lui è intelligente, ma anche uomo di esperienza; ha visto molte cose eppure  sembra che in lui il carattere del suo paese si esprima non meno ristrettamente di come si esprime in chi non si è mai mosso da casa. Tale pregio tuttavia non dipende in definitiva soltanto dall’aver lui viaggiato, ma riguarda molto di più l’inimitabilità di questo ragazzo, che per esempio viene apprezzato da chiunque voglia, dopo i suoi, rifarne i tuffi in acqua, le molteplici capriole, impetuose eppure controllate. L’imitatore esibisce fino in fondo all’asse del trampolino gioia e coraggio, ma a quel punto invece di saltare d’improvviso si pianta lì ed alza le braccia per giustificarsi. – Ciò nonostante (dovrei bearmi di un ragazzo simile) il mio rapporto con lui non è sereno. Ha l’occhio sinistro un po’ più piccolo del destro e lo stringe con un tic; solo un piccolo difetto, sicuro, che rende la sua faccia ancora più sfacciata di quel che altrimenti sarebbe, e nessuno biasimerà, di fronte all’inaccessibile indipendenza del suo carattere, quest’occhio più piccolo ammiccante. Io, il padre, lo faccio. Non è questo difetto fisico a darmi pena, ma una certa quale sregolatezza spirituale, un certo veleno che vaga nel suo sangue, una certa incapacità, che, a me solo visibili, danno in modo decisamente eccessivo l’impostazione alla sua vita. Proprio questo d’altra parte fa di lui, anche troppo, il mio vero figlio, infatti tale suo difetto è allo stesso tempo il difetto di tutta la nostra famiglia, in questo figlio solo più evidente.
Anche il terzo figlio è bello, ma la sua non è una bellezza che mi va a genio. Si tratta della bellezza del cantante: bocca tremula, occhi sognanti; la testa ha bisogno, per agire, dello sfondo di un drappeggio; il torace è troppo tondo; le mani si sollevano lievi, e troppo lievi si abbassano; le gambe, poiché non sanno portarlo, fan le leziose. E soprattutto: la tonalità della voce non è piena; per un attimo inganna, attira l’attenzione dell’intenditore; ma poi è corta di respiro. – Nonostante che tutto spinga a mettere in mostra questo figlio, io lo tengo più di tutto segreto; lui stesso non si fa largo, ma forse non perché sa la sua insufficienza, piuttosto per ingenuità. Si sente inoltre estraneo a quest’epoca; spesso è malinconico, come se appartenesse anche ad un’altra famiglia, non solo alla mia, e niente riesce a rasserenarlo.
Il mio quarto figlio è forse il più affabile di tutti. Un vero ragazzo del suo tempo, tutti lo capiscono, il suo terreno è quello comune a tutti e tutti hanno la tentazione di fargli un cenno di saluto. Forse da quest’approvazione generale il suo contegno trae un che di leggero, i suoi movimenti qualcosa di sciolto, i suoi giudizi qualcosa di spensierato. Qualcuna delle sue uscite sarebbe da riportare, solo qualcuna però, infatti in genere lui patisce di un’eccessiva leggerezza. Assomiglia a uno che abbia un ammirevole slancio, solchi l’aria lieve come una rondine, ma sconsolatamente finisca nella solitudine della polvere, annientato. Questi pensieri mi rendono amara la vista di questo ragazzo.
Il quinto figlio è buono e caro; prometteva assai meno di quel che faceva; era tanto insignificante che in presenza sua ci si sentiva davvero soli; ma ciò ha indotto alcuni a stimarlo. Mi si domandasse com’è successo, saprei rispondere con difficoltà. Innocente s’infila senza sforzo nell’infuriare degli elementi della vita, ed è innocente. Forse troppo. Benevolo con tutti. Forse troppo. Confesso: non mi sta bene, se lui mi viene lodato in faccia. Cioè, se si loda uno così evidentemente degno di lode com’è mio figlio, è una lode fatta troppo alla leggera.
Il mio sesto figlio sembra, almeno a prima vista, il più malinconico di tutti. Avvilito e tuttavia ciarliero. E’ per questo che non gli si sta facilmente vicino. E’ soggetto alla sconfitta, così s’abbandona ad un’invincibile afflizione. Va in sovrappeso e ci resta a forza di ciarle. Non gli nego una certa quale svagata passione; nel pieno del giorno si fa combattivamente strada tra i pensieri come in sogno. Senza esser malato – per lo più gode di un’ottima salute – talvolta barcolla, soprattutto all’imbrunire, ma non gli serve aiuto alcuno, non cade. Forse in quest’apparenza fisica risiede l’autentica spiegazione, lui è troppo grosso per la sua età. Ciò lo rende nel complesso non bello, nonostante certi dettagli visibilmente belli, per esempio le mani ed i piedi. Non bella del resto anche la fronte, la cui pelle, a causa della conformazione ossea, è grinzosa.
Il settimo figlio m’appartiene forse più di tutti gli altri. Il mondo non lo apprezza troppo; non capisce la sua particolare indole arguta. Non lo sopravvaluto; lo so che è piuttosto insignificante; se il mondo non avesse alcun altro difetto a parte quello di non saperlo apprezzare, sarebbe ancora perfetto. Ma non vorrei fare a meno di questo figlio nella mia famiglia. Porta dello sconvolgimento quanto del rispetto profondo, della tradizione, e li congiunge, secondo me, in un insieme incontestabile. Di quest’insieme certo lui sa fare, per quanto minimamente, qualcosa; non metterà in movimento la ruota del futuro, ma questa sua disposizione è così incoraggiante, così ricca di speranza; vorrei che avesse figli, e questi, di nuovo, figli. Sfortunatamente questo desiderio non sembra aver la prospettiva di essere esaudito. A causa di un certo comprensibile, ma non meno indesiderato amor proprio soddisfatto, che tuttavia è contraddetto con forza dal giudizio del suo ambiente, si muove da solitario, non si occupa delle ragazze, ciò nonostante non perderà mai il suo buon umore.
Il mio ottavo figlio è di quei ragazzi che danno molte preoccupazioni, ed io non ne so davvero la ragione. Mi guarda come un estraneo, eppure io mi sento, come padre, assai legato a lui. Il tempo ha lavorato molto bene; prima però, se pensavo a lui, ero assalito dal tremito. Percorre la sua strada; ha rotto tutti i legami con me e certamente, con la sua testa dura, il suo corpicino atletico – solo le gambe, da giovane, aveva piuttosto esili, ma nel frattempo deve averle sviluppate – se la caverà ovunque. Avevo spesso voglia di fargli un fischio, di chiedergli come stava, perché si isolava così dal padre e che cosa davvero voleva fare, ma ora tutto resta com’è. Sento dire che lui, solo tra i mei figli, porta un gran barba; in un uomo così piccolo naturalmente non va bene.
Il mio nono figlio è molto elegante ed ha secondo le signore uno sguardo decisamente dolce. Tanto dolce che capita anche a me di esserne sedotto, per quanto io sappia che, a cancellare tale sublime splendore, basta una spugna umida. Quel che è speciale in questo giovane, tuttavia, è che in pratica non cerca di sedurre; gli sarebbe sufficiente passar la vita sdraiato sul divano e vagare con lo sguardo al soffitto, o anche, molto meglio, tenerlo a riposo sotto le palpebre. In tale posizione a lui diletta parla, e non male; chiaro e conciso; tuttavia entro limiti stretti; se li varca, e ciò è inevitabile data la loro ristrettezza, lui discorre in modo assolutamente vacuo. Gli si farebbe capire a cenni che non va, se si sperasse che tale sguardo assonnato potesse farci caso.
Il mio decimo figlio è considerato una persona insincera. Non intendo contestare interamente questa pecca, né confermarla. Certo, chi lo vede avvicinarsi con quella compostezza assai incongrua con la sua età, sempre in finanziera ben abbottonata, con un cappello nero, vecchio, ma tenuto anche troppo pulito, impassibile il volto, mento sporgente, palpebre inarcate con gravità, le due dita portate alla bocca – chi lo vede così pensa: è un simulatore senza limiti. Ma lo si senta parlare! Assennato; cauto; di poche parole; vivacemente cattivo in risposta alle domande; in sorprendentemente spontanea e felice concordanza con il mondo intero; una concordanza che produce collo rigido e  testa alta. Molti, che si credono assai intelligenti e perciò, secondo loro, si sentivano staccati dal loro ambiente, lui li ha sedotti assai con le sue parole. Ora, tuttavia, pare che esistano persone indifferenti al loro ambiente alle quali le parole di lui sembrano ipocrite. Io, come padre, qui non voglio tuttavia giudicare, e devo riconoscere che questi ultimi censori in ogni caso sono degni di essere ascoltati come i primi.
Il mio undicesimo figlio è debole, davvero il più fragile tra i miei figli; ma d’ingannevole fragilità; sa essere infatti a tratti forte e deciso, forse però la fragilità in certo qual modo resta fondamentale. Non si tratta tuttavia di una imbarazzante fragilità, invece di qualcosa che solo nel nostro mondo sembra tale. Per esempio non si tratta neppure di fragilità in fatto di prontezza a prendere il volo - è tentennamento e indecisione? Mio figlio mostra qualcosa del genere. Simili caratteristiche naturalmente non rallegrano il padre; concorrono certo evidentemente alla distruzione della famiglia. Capita che mi guardi come se volesse dirmi: „Padre, io ti porto via con me.“ Io penso: “Saresti l’ultimo di cui mi fiderei.“ E il suo sguardo sembra aggiungere:“ Ed io voglio essere, almeno, l’ultimo.“
Ecco gli undici figli.



lunedì 1 ottobre 2012

F.Kafka:Il messaggio imperiale


A te l’imperatore, proprio a te, un privato misero suddito, ombra minuscola sfuggita nella lontananza più remota al sole imperiale, a te, dicono, ha appena inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha sussurrato di far inginocchiare il messaggero vicino al letto e gli ha parlato all’orecchio; gli premeva tanto il messaggio, che se lo è fatto ripetere di nuovo, all’orecchio. Con cenni del capo ha approvato la conformità del detto. E davanti a tutti quanti i testimoni della sua morte – abbattute tutte le pareti che erano d’ostacolo, stava la cerchia dei grandi dell’impero sulle alte armoniose scalinate – davanti a tutto questo egli ha dato il via al messaggio.
Il messo parte subito per il suo viaggio, forte, instancabile, si fa largo nella folla ora con un braccio, ora con l’altro, trova resistenza, mostra il petto con su il simbolo del sole, procede con gran facilità, come nessun altro farebbe, tuttavia la folla, i cui alloggiamenti non accennano a terminare, è così grande.
Il messaggero si aprirà svelto la strada, volando, e presto udrai il colpo magnifico dei suoi pugni sulla tua porta. No, invece lui incontra difficoltà snervanti, attraversa le stanze del palazzo interno sempre più a fatica, non le oltrepassa mai, e se gli riuscisse non avrebbe ottenuto niente, dovrebbe lottare per scendere le scalinate, e se gli riuscisse non basterebbe, ci sarebbero i cortili, il secondo palazzo che circonda il primo, e ancora scalinate e cortili, e ancora un palazzo, e così via per un migliaio di anni. Infine il messaggero cadrebbe proprio davanti alla porta esterna, ma la cosa non potrebbe mai, mai succedere; prima, davanti a lui, si allargherebbe la città, che è il centro del mondo, piena della sua feccia, dove nessuno può farcela, men che meno con il messaggio di un morto.
Eppure tu siedi alla finestra e desideri che arrivi, quando viene la sera.