venerdì 24 aprile 2020

Franz Kafka: Il processo - 4


Nell'aula delle assise
Lo studente
Gli uffici

K. attese durante la settimana seguente giorno dopo giorno una nuova comunicazione, non poteva credere che si fosse presa alla lettera la sua rinuncia all'interrogatorio, e, siccome l'attesa comunicazione ancora il sabato sera in realtà mancava, suppose di esser citato implicitamente nello stesso edificio e alla stessa ora. Per cui vi si recò di nuovo, di domenica, stavolta andò diretto per scale e corridoi, v'era gente che, ricordandosi di lui, lo salutò dalla porta, ma lui non doveva più far più domande a nessuno e presto arrivò alla porta giusta. Bussò, gli fu subito aperto e senza badare alla donna che aveva conosciuto, ferma sulla porta, intendeva andar subito nella stanza accanto. “Oggi non c'è assise”, disse lei. “Perché non dovrebbe esserci?” chiese lui, non disposto a crederle. La donna però lo convinse aprendo la porta della stanza accanto. Davvero era vuota e nel suo vuoto appariva ancora più misera che non la domenica prima. Sul tavolo che non diversamente si trovava sopra il podio c'erano alcuni libri. “Li posso guardare?” chiese K. non per particolare curiosità, ma per non esser venuto lì del tutto inutilmente. “No”, disse la donna richiudendo la porta, “non è permesso. Appartengono al giudice istruttore.” “Ah ecco”, disse K. annuendo, “sono libri certo di legge e fa parte dello stile di questa istituzione giudiziaria che si venga giudicati non solo da innocenti, ma anche da ignari.” “Sarà così”, disse la donna, che non l'aveva capito bene. “Allora me ne vado”, disse K. “Devo dire qualcosa al giudice istruttore?” chiese la donna. “Lo conoscete?” chiese K. “Naturale”, disse la donna, “mio marito è al servizio del tribunale.” Solo ora K. notò che la stanza in cui l'altra volta c'era solo un mastello per lavare ora costituiva un locale d'abitazione completamente arredato. La donna notò il suo stupore e disse: “Sì, noi abitiamo qui gratis, ma nei giorni di assise siamo obbligati a vuotare la stanza. Il posto di mio marito ha parecchi svantaggi.” “Non sono stupito tanto per la stanza”, disse K. guardando male la donna, “ma invece dal fatto che siete sposata.” “Vi riferite forse al fatto successo durante la scorsa assise, quando io disturbai il vostro discorso?” chiese la donna. “Certo”, disse K., “oggi non conta più e quasi è cosa dimenticata, ma sul momento mi ha reso addirittura furibondo. E ora voi, a dire di essere una donna sposata.” “Non fu a vostro svantaggio che il vostro discorso venisse troncato. In seguito lo si è giudicato assai negativamente.” “Può darsi”, disse K. divertito, “ma ciò non vi giustifica.” “Sono giustificata da tutti quelli che mi conoscono”, disse la donna, “quello che mi ha abbracciato mi sta dietro da parecchio tempo. In generale posso non essere attraente, ma per lui lo sono. Non c'è riparo a questa cosa, anche mio marito ci si è rassegnato; se vuole mantenere il posto lo deve tollerare, difatti quell'uomo è studente e arriverà prevedibilmente ad avere un potere più grande. Mi sta sempre dietro, se ne è andato proprio prima che veniste voi.” “A ogni altro va bene”, disse K., “ciò non mi sorprende.” “Avete intenzione d'introdurre qui delle riforme?” disse la donna, lenta e indagatrice, quasi che dicesse qualcosa di pericoloso tanto per lei quanto per K. “L'ho concluso dal vostro discorso, che a me personalmente è piaciuto molto. Del resto ne ho sentito solo una parte, l'inizio l'ho mancato e durante la conclusione giacevo con lo studente sul pavimento.” “Certo qui è un tale schifo”, disse dopo una pausa, e prese la mano a K. “Credete che vi riuscirà di migliorare le cose?” K. sorrise e ruotò un poco la sua mano nella mano soffice di lei. “In effetti”, disse, “non sono qui per migliorare le cose, per esprimersi come voi fate, e se lo diceste per esempio al giudice istruttore sareste derisa, oppure verreste punita. Di fatto non mi sarei certo immischiato di mia volontà in queste cose, né la possibile riforma di questa istituzione giudiziaria avrebbe mai turbato il mio sonno. Tuttavia dal momento che venni per così dire arrestato – insomma, sono in arresto – sono stato costretto a ingerirmi qui, senza dubbio di mia volontà. Se tuttavia intanto posso esservi utile in qualche modo, naturalmente lo farò molto volentieri. Non solo per amor del prossimo, diciamo così, ma soprattutto perché anche voi potete aiutare me.” “Ma come potrei?” chiese la donna. “Per esempio facendomi vedere i libri là sul tavolo.” “Ma certo”, esclamò la donna e lo tirò dietro di sé verso il tavolo. Erano vecchi libri sciupati, la copertina di uno era nella costola quasi rotta e i suoi pezzi erano sfibrati. “Com'è sudicio tutto, qui”, disse K. scuotendo il capo, e la donna strofinò via con il suo grembiule almeno la polvere superficiale prima che K. potesse prenderli. K. spalancò il libro che stava sopra e apparve una figura indecente. Un uomo e una donna sedevano nudi su un canapè, l'intento segreto dell'incisione era facile da intendere, ma la sua goffaggine era così grande che in definitiva erano visibili solo un uomo e una donna che in modo troppo corporeo dominavano la figura, sedevano troppo eretti e a causa della falsa prospettiva solo a fatica erano voltati l'uno all'altra. K. non voltò le pagine del libro oltre, invece aprì il secondo libro alla pagina del titolo, si trattava di un romanzo il cui titolo era: “Le tribolazioni che Grete ebbe da patire da parte di suo marito.” “Ecco i libri di legge che qui si studiano”, disse K. “Da persone così devo essere giudicato.” “Io vi aiuterò”, disse la donna. “Volete?” “Ma potreste farlo senza mettervi in pericolo? Dicevate prima che vostro marito è molto dipendente dai superiori.” “Voglio aiutarvi lo stesso”, disse la donna. “Venite, dobbiamo parlarne. Non parlate più di quel che io rischio, temo il rischio solo nei casi in cui voglio temerlo. Venite.” Gli indicò il podio e lo pregò di sedersi con lei sul gradino. “Avete dei begli occhi scuri”, disse dopo che si erano seduti guardando da sotto K. nel viso, “lo dicono anche a me che avrei dei begli occhi, ma i vostri sono molto più belli. Mi piacquero subito del resto, l'altra volta, quando entraste qui, all'inizio. Furono anche la ragione per cui poi più tardi venni all'assemblea, cosa che altrimenti mai avrei fatto e che in certo modo mi è proibita.” “Ecco, dunque”, pensò K., “mi si offre, è corrotta come tutti qua attorno, è stufa degli impiegati al tribunale, il che è certo comprensibile, per cui accoglie con favore un qualunque estraneo con un complimento per i suoi occhi.” E se ne stette zitto come se avesse espresso i suoi pensieri a voce così spiegando la propria condotta alla donna. “Non credo che voi potreste aiutarmi”, disse, “per aiutarmi davvero si dovrebbero avere rapporti con funzionari di alto grado. Voi tuttavia certamente conoscete gli impiegati di basso grado che fitti si aggirano qui. Costoro certo vi conoscono assai bene e da loro potreste ottenere parecchio, non ne dubito, ma il massimo che si potrebbe ottenere da loro sarebbe del tutto insignificante ai fini dell'esito definitivo del processo. Con ciò tuttavia vi sareste giocata pure alcuni amici. Questo non lo voglio. Continuate ad avere le relazioni solite con questa gente, mi spiego, mi sembra che ciò vi sia indispensabile. Non lo dico senza rammarico, difatti, per rispondere in qualche modo al vostro complimento, anche voi mi piacete, specie se come ora mi guardate con tanta tristezza, per quanto del resto non ne abbiate alcun motivo. Voi fate parte di questa compagine che io devo combattere, ma vi ci trovate molto bene, amate perfino lo studente, e se non lo amate, ugualmente lo preferite almeno a vostro marito. Fu facile riconoscerlo dalle vostre parole. “No”, esclamò lei, rimase seduta e prese la mano a K. che non la tirò via abbastanza svelto. “Non potete andarvene ora, non potete andarvene giudicandomi in modo sbagliato. Davvero siete capace di andarvene ora? Sono davvero così spregevole che voi neppure volete farmi il piacere di restar qui un altro momentino?” “Voi mi capite male”, disse K. sedendosi, “se davvero vi importa che resti qui, ci resto volentieri, il tempo non mi manca certo, sono venuto qui aspettandomi che oggi ci fosse un dibattimento. Con quel che vi dicevo prima desideravo solo pregarvi di non intraprendere nulla per me nel processo che mi riguarda. Tuttavia neppure di ciò dovete rammaricarvi, pensate invece che a me non importa nulla dell'esito del processo, e che su una condanna ci farò una risata. Ammesso che, in linea generale, si venga a una vera chiusura del processo, cosa di cui dubito molto. Credo anzi che il procedimento, a causa di infingardaggine o di smemoratezza, o forse addirittura a causa di paura da parte dell'insieme dei funzionari, sia già sospeso o che sarà sospeso quanto prima. Per altro è possibile anche che il processo venga apparentemente portato avanti nella speranza di un qualche maggior grado di corruzione, cosa del tutto inutile, come oggi posso già dire, difatti io non corrompo nessuno. Sarebbe tuttavia un favore che voi potreste farmi, se comunicaste al giudice istruttore o a qualcun altro che divulga volentieri notizie importanti, che io mai, e con nessun trucco di quelli di cui questi signori dispongono riccamente, sarò indotto alla corruzione. Sarebbe del tutto vano, questo potete dirglielo in modo chiaro. D'altra parte si sarà già visto, forse, e se anche non fosse così non me ne importerebbe molto, che era una cosa notoria. Con ciò verrebbe solo risparmiata fatica a quei signori, e a me alcune seccature che tuttavia volentieri mi assumo se so che ognuna è allo stesso tempo una bastonata per gli altri. E intendo curarmene, che lo divenga. Lo conoscete proprio il giudice istruttore?” “Naturalmente”, disse la donna, “ci pensai subito allorché vi offrii aiuto. Non sapevo che è solo un funzionario di basso grado, ma se lo dite voi, sarà probabilmente vero. Ciò nonostante credo che ciò che lui relaziona in alto abbia pur sempre qualche influenza. E di rapporti ne scrive così tanti. Voi dite che gli impiegati sono degli infingardi, certo non tutti, in particolare questo giudice istruttore non lo è, scrive moltissimo. Domenica scorsa per esempio l'assise durò fino a sera. Tutti se ne andarono, invece il giudice istruttore rimase nell'aula, dovetti portargli una lampada, ne avevo solo una piccola, da cucina, ma gli bastò e iniziò subito a scrivere. Intanto era arrivato anche mio marito che quella domenica per l'appunto era libero, andammo a prendere i mobili, ripristinammo l'arredamento della stanza, poi vennero anche i vicini, si passò il tempo al lume di candela; per farla breve: ci dimenticammo del giudice istruttore e andammo a dormire. Di colpo durante la notte, doveva già essere tardi, mi svegliai, accanto al letto c'era il giudice istruttore che faceva schermo alla lampada con una mano per non far cadere la luce su mio marito, cautela inutile, mio marito ha un sonno tale che la luce non lo avrebbe svegliato. Ero talmente spaventata che quasi avrei urlato, ma il giudice istruttore fu molto gentile, mi esortò alla cautela, mi sussurrò che aveva scritto fino a quel momento, che mi riportava la lampada e che mai avrebbe dimenticato lo spettacolo che gli avevo dato, trovandomi lui addormentata. Con tutto questo intendevo solo dirvi che in effetti il giudice istruttore scrive molti rapporti, in particolare su di voi: infatti la vostra audizione era certo uno degli oggetti principali dell'assise di domenica. I lunghi rapporti del giudice istruttore possono però non essere del tutto insignificanti. Inoltre potete anche vedere, per il caso vostro, che il giudice istruttore mi fa la corte e che proprio ora che siamo all'inizio, deve avermi notato dopotutto solo ora, posso avere su di lui una grande influenza. Che gl'importi molto di me ne ho adesso un'altra prova ancora. Ieri mi ha mandato in regalo tramite lo studente, di cui ha molta fiducia e che è suo collaboratore, delle calze di seta, all'apparenza perché sgomberi la stanza dell'assise, ma si tratta solo di un pretesto, difatti tale lavoro è mio dovere e mio marito è pagato per questo. Sono belle calze, guardate” - allungò le gambe, si tirò la veste su fino alle ginocchia e anche lei guardò le calze - “sono belle calze, ma in effetti troppo raffinate e non adatte a me.”
D'improvviso si interruppe, mise una mano su una mano di K., come volesse tranquillizzarlo, e mormorò: “Zitto, Bertold ci vede!” K. alzò lentamente lo sguardo. Sulla porta dell'aula di assise c'era un giovane, era piccolo, aveva le gambe non del tutto dritte e tentava di darsi un tono continuando a far vagare le dita nella sua corta e rada barba rossiccia. K. lo guardò incuriosito, si trattava davvero del primo studente della sconosciuta scienza giuridica che lui diciamo di persona incontrasse, un uomo che probabilmente sarebbe un giorno arrivato ad avere un posto da alto funzionario. Al contrario lo studente pareva non interessarsi affatto a K., fece un cenno alla donna con un dito, per un momento distolto dalla barba, e andò alla finestra, la donna si chinò verso K. e mormorò: “Non prendetevela con me, ve ne prego davvero, non pensate male di me, ora devo andare da lui, da quest'uomo ripugnante, basta che ne vediate le gambe storte. Torno subito, però, e poi vengo con voi, se mi portate con voi vengo dove volete, potete fare con me quel che volete, sarò felice se sto via di qui per il massimo possibile di tempo, meglio ancora se per sempre.” Accarezzò ancora una mano a K., saltò su e corse verso la finestra. Senza volere K. cercò di afferrarle una mano, a vuoto. Quella donna lo attraeva davvero, nonostante ogni riflessione lui non trovò alcun solido motivo per cui non dover cedere all'attrazione. Respinse senza fatica la fuggevole obbiezione che lei lo intrappolasse per conto del tribunale. In qual modo lei poteva intrappolarlo? Non continuava a restare, lui, tanto libero da riuscire subito a farla fuori, tutta quella corte di giustizia, almeno per quanto lo riguardava? Poteva non avere questo minimo di fiducia in se stesso? L'offerta di aiuto da parte di lei suonava sincera e forse non era vana. Forse non c'era una vendetta migliore sul giudice istruttore e sul suo codazzo che sottrarre loro questa donna e prendersela. Avrebbe potuto darsi il caso, una volta, che il giudice istruttore, fatto il faticoso lavoro di scrivere bugie su K., a notte fonda trovasse il letto della donna vuoto. Vuoto perché lei sarebbe stata di K., dato che quella donna lì, alla finestra, quel corpo voluttuosamente agile e caldo vestito di scura stoffa pesante, grezza, apparteneva senza dubbio solo a K.
Eliminate in tal modo le obbiezioni contro la donna, quel colloquio a voci basse alla finestra gli venne a noia, picchiò con le nocche sul podio, poi anche con un pugno. Lo studente guardò brevemente verso K. da sopra una spalla della donna, ma non si lasciò disturbare, anzi, le si spinse addosso di più e la cinse. Lei chinò ancor di più il capo come se stesse ad ascoltarlo attenta, lui la baciò rumoroso, lei abbassandosi, sul collo, senza smettere di parlarle. K. in ciò vide confermata la tirannia che lo studente, stando alle lagnanze di lei, esercitava sulla donna, si alzò e si mosse in giro per la stanza. Pensò sbirciando lo studente a come poter cacciarlo via nel più breve tempo possibile e quindi non salutò come cosa positiva che lo studente, chiaramente disturbato dal fatto che K. si aggirava nella stanza, osservasse: “se non avete pazienza potete andarvene. Avreste potuto andarvene anche prima, nessuno avrebbe sentito la vostra mancanza. Anzi, avreste addirittura dovuto andarvene già al mio arrivo, e alla svelta.” Magari in queste parole si sfogava tutta l'ira possibile, comunque in esse c'era anche l'alterigia del futuro funzionario tribunalizio che parlava a un imputato antipatico. K. gli si fermò molto vicino e sorridendo disse: “è vero, sono impaziente, ma quest'impazienza verrà eliminata nel modo più semplice dal fatto che voi ci lasciate. Siete forse venuto per studiare – ho sentito dire che siete studente - allora intendo farvi posto volentieri e me ne vado con lei. Del resto dovrete studiare ancora molto, prima di diventare giudice. Non conosco certo ancora molto bene la vostra qualità giuridica, ma ho idea che dovrà passare parecchio tempo perché non sia fatta solo di parole grossolane che certo già sapete dire in modo sfrontato.” “Non lo si sarebbe dovuto far girare così in libertà”, disse lo studente come se volesse dare alla donna una spiegazione di quel che K. aveva detto di offensivo, “fu uno sbaglio. L'ho detto al giudice istruttore. Lo si doveva almeno trattenere nella sua stanza, tra un interrogatorio e l'altro. Il giudice istruttore a volte è incomprensibile.” “Discorsi vani”, disse K. tendendo una mano alla donna. “Venite.” “Ah, è così” disse lo studente, “no no, voi non ve la prendete”, e con una forza che non gli si sarebbe attribuita prese su con un braccio la donna e a schiena curva, sogguardandola amoroso, si affrettò verso la porta. Indiscutibilmente lo studente fu preso, nel far ciò, da una certa paura di K., ciò nonostante osò provocarlo ancora strofinando e premendo con la mano che aveva libera il braccio della donna. K. si affrettò a seguirlo pronto ad acchiapparlo e nel caso a prenderlo per il collo, lei però disse: “Non serve a nulla, è il giudice istruttore che mi manda a chiamare, non posso venire con voi, questo sgorbietto”, disse facendo passare una mano sulla faccia dello studente, “questo sgorbietto non mi molla.” “E voi non volete esser liberata”, urlò K. piazzando addosso allo studente una mano, mano che quello azzannò. “No”, disse la donna respingendo con entrambe le mani K., “no, non è il caso, ma che vi viene in mente? Sarebbe la mia rovina. Lasciatelo fare, ve ne prego, lasciatelo fare. Sta solo eseguendo l'ordine del giudice istruttore, e mi porta da lui.” “E allora che vada, e voi non vi voglio più vedere”, disse K. infuriato per la delusione, e colpì lo studente sulla schiena, quello incespicò un attimo e poi subito balzò su ancor meglio con quel suo carico, per il piacere di non esser caduto. K. li seguì lentamente, capiva che si trattava della prima indubbia sconfitta che lui patisse da quella gente. Non c'era naturalmente alcun motivo di affliggersene, perché era lui a cercare la battaglia. Restando a casa a fare la sua solita vita, lui sarebbe stato in mille modi superiore a ognuna di quelle persone e avrebbe potuto levarsela di torno con un calcio. Si immaginò la comicissima scena che per esempio ci sarebbe stata se quel patetico studente, quel ragazzino borioso, quello sgorbio con la barbetta si fosse inginocchiato davanti al letto di Elsa e l'avesse pregata a mani giunte di fargli la grazia. Gli piacque tanto l'immagine, che decise, se l'occasione se ne fosse presentata, di portarlo da Elsa, una volta.
Per curiosità K. si affrettò verso la porta, voleva vedere dove sarebbe stata portata la donna, lo studente mica l'avrebbe portata in braccio per le strade. Si rivelò che il tragitto era molto più breve. Subito davanti alla porta dell'appartamento portava probabilmente alla soffitta una stretta scala di legno che faceva una curva, per cui non se ne vedeva il termine. Lo studente portò lentamente la donna su per quella scala, tra i gemiti, difatti la corsa lo aveva fiaccato. Lei salutò con una mano K., in basso, cercò facendo svariate volte spallucce di segnalare la sua incolpevolezza del rapimento, tuttavia in quelle mosse non v'era molto rammarico. K. la guardò inespressivo come un'estranea, non voleva mostrare che era deluso, né che avrebbe potuto vincere con facilità la delusione.
Quei due erano già scomparsi, ma K. restò sulla porta. Fu costretto ad ammettere che non solo la donna lo aveva imbrogliato ma, dicendo che veniva portata dal giudice istruttore, gli aveva anche mentito. Il giudice istruttore mica sarebbe stato ad aspettare in soffitta. La scala di legno non spiegava nulla finché non si guardava con attenzione. In quella K. notò un cartellino vicino all'ingresso della scala, ci andò e lesse, scritto in modo incerto e infantile, “Accesso agli Uffici del Tribunale”. E dunque lì, nelle soffitte di quella casa d'affitto, c'erano gli uffici del tribunale? Non c'era un'organizzazione capace di dedicarvi molta attenzione ed era tranquillizzante per un imputato figurarsi la pochezza dei mezzi economici a disposizione di questo tribunale, se esso collocava i suoi uffici lì dove gli inquilini, già di per sé appartenenti ai più poveri, depositavano la loro minutaglia superflua. Del resto non era escluso che di denaro se ne avesse abbastanza e che invece gli impiegati lo utilizzassero per sé prima che venisse impiegato per il tribunale. Ciò, stando alle esperienze fin lì avute da K., era addirittura assai probabile, un simile degrado per un imputato era certo umiliante, sì, tuttavia in fondo più tranquillizzante di quanto non fosse la miseria del tribunale. Ora K. capì anche che per il primo interrogatorio ci si fosse vergognati di citare l'imputato nella soffitta e si fosse preferito disturbarlo nella sua abitazione. E in qual posizione si trovava tuttavia K. nei confronti del giudice, che sedeva nella soffitta mentre lui nella banca aveva una grande stanza con un'anticamera e poteva guardar giù attraverso una enorme vetrata l'animata piazza cittadina? Certo, lui non disponeva di nessuna entrata secondaria da corruzione e peculato, né poteva farsi portare da un usciere alcuna donna in braccio nell'ufficio. A ciò però K. intendeva rinunciare, almeno in questa vita.
K. stava ancora davanti al cartellino quando un uomo salì la scala, guardò attraverso la porta aperta nella stanza da cui si poteva vedere anche il locale delle assise e alla fine chiese a K. se non avesse visto da poco una donna. “Siete l'usciere del tribunale, no?” “Sì”, disse quell'uomo, “ah sì, voi siete l'imputato K., ora vi riconosco, siate il benvenuto.” E porse la mano a K., che non se lo aspettava proprio. “Oggi però non è annunciata alcuna assise”, disse poi l'usciere, e K. tacque. “Lo so”, disse poi osservando l'abito civile dell'usciere che come unico segno di riconoscimento ufficiale accanto ad alcuni normali bottoni esibiva due bottoni dorati che sembravano essere stati staccati da un vecchio cappotto da ufficiale. “Ho parlato da poco con vostra moglie. Non è più qui. Lo studente l'ha portata dal giudice istruttore.” “Vedete”, disse l'usciere, “me la portano sempre via. Oggi è domenica, inoltre, e io sono libero, tuttavia solo per allontanarmi di qui mi si invia a portare una notifica, del resto inutile. Di fatto non mi si manda lontano, per cui ho la speranza, se faccio molto in fretta, di far ritorno, forse, in modo tempestivo. Dunque corro quanto posso, urlo all'ufficio cui sono stato mandato la mia comunicazione dalla soglia della porta, così senza fiato che mi capiranno a mala pena, corro di nuovo indietro, ma lo studente è stato più veloce di me, avendo lui del resto da fare un tragitto più breve, deve scendere solo la scala della soffitta. Se non fossi tanto in subordine, già da tempo lo avrei spiaccicato sul muro lo studente. Qui, presso il cartellino. E' il mio sogno, sempre. Un po' qui, sul pavimento, schiacciato, a braccia stese, le dita divaricate, quelle gambe storte attorcigliate, e attorno schizzi di sangue. Finora però è solo un sogno. “Non c'è un altro modo?” chiese K. sorridendo. “Non ne saprei un altro”, disse l'usciere. “E ora sarà anche peggio, fin qui se l'è presa solo per sé, ora la porta, del resto me lo aspettavo da tempo, anche dal giudice istruttore.” “Ma vostra moglie non ne ha proprio colpa?” chiese K., che dovette costringersi a fare questa domanda tanto sentiva anche lui la gelosia. “Ma certo”, disse l'usciere, “ne ha addirittura la colpa maggiore. Gli si è attaccata, anzi. Quanto a lui, corre dietro a ogni femmina. Solo in quest'edificio e stato buttato fuori già da cinque appartamenti in cui s'è intrufolato. Certo mia moglie è la donna più bella di tutta la casa e proprio da ciò non riesco a proteggermi.” “Se è così non c'è nulla da fare”, disse K. “Perché no?”, chiese l'usciere. “Lo studente, che è un codardo, si dovrebbe bastonare bene bene, la volta che vuole toccare mia moglie, in modo che non osi più farlo. Io però non posso e altri non mi fanno il piacere perché temono il potere che ci ha. Solo un uomo come voi potrebbe farlo.” “Ma perché io?” chiese K. stupito. “Siete ben l'imputato” disse l'usciere. “Sì”, disse K., “ma appunto per questo dovrei aver più paura che lui, quand'anche non abbia forse influenza sull'esito del processo, ne abbia sull'inchiesta preliminare.” “Sì, certo”, disse l'usciere come se il punto di vista di K. fosse precisamente uguale a quello suo. “Da noi però di solito non si fanno processi senza speranza.” “Non sono della vostra opinione”, disse K., “tuttavia ciò non m'impedirà di occuparmi all'occasione dello studente.” “Ve ne sarei molto grato”, disse l'usciere in modo un po' formale, in effetti non pareva credere all'esaudimento dei suoi desideri massimi. “Forse”, proseguì K., “si prodigherebbero anche altri dei vostri e forse tutti nello stesso modo.” “Sì sì”, disse l'usciere come se si trattasse di qualcosa di ovvio. Poi guardò K. in modo confidenziale, ciò che fin lì ancora non aveva fatto nonostante tutta la sua gentilezza, e proseguì: “ci si ribella sempre, come no?” Ma il discorso parve essergli diventato un po' scomodo, difatti s'interruppe e disse: “Ora ho da presentarmi nell'ufficio. Volete venire?” “Non ho niente da farci”, disse K. “Potreste vederla. Nessuno s'interesserà a voi.” “Ma è da vedere?” chiese K. esitante, però ne aveva una gran voglia. “Sapete”, disse l'usciere, “pensavo che vi avrebbe interessato.” “Va bene”, disse K. alla fine, “vengo con voi”, e salì la scala più in fretta dell'usciere.
Nell'entrare sarebbe caduto, difatti dietro la porta c'era un altro gradino. “Non è che si abbia molto riguardo per il pubblico”, disse. “Non se ne ha in generale”, disse l'usciere, “basta che vediate qui la stanza d'attesa.” Si trattava di un lungo andito dal quale porte rozzamente lavorate davano sui singoli reparti della soffitta. Nonostante che non vi fosse un accesso diretto di luce, non faceva completamente scuro, difatti parecchi reparti erano chiusi verso l'andito non da pareti piene, ma da semplici grate di legno – che altresì arrivavano fino al soffitto - attraverso le quali un po' di luce penetrava e si poteva anche vedere che alcuni impiegati erano al tavolo a scrivere o se ne stavano proprio alla grata a guardare dai fori coloro che si trovavano nell'andito. Probabilmente per il fatto che era domenica nell'andito c'era solo poca gente. Faceva un'impressione misera. A distanza quasi regolare l'uno dall'altro costoro sedevano su due lunghe panche di legno accostate ai due lati dell'andito. Erano vestiti in modo dimesso, per quanto in maggioranza, stando all'espressione facciale, alla postura, alla foggia della barba, appartenessero alle classi superiori. Mancando attaccapanni avevano messo i cappelli, probabilmente seguendo l'uno l'esempio dell'altro, sotto la panca. Quando quelli vicino alla porta scorsero K. e l'usciere si levarono per salutare; vedendo ciò, gli altri ritennero di dover salutare, per cui tutti si levarono progressivamente al passaggio dei due. Nessuno di loro si teneva proprio diritto, la schiena era piegata, le ginocchia pure, sembravano mendicanti in strada. K. aspettò l'usciere che camminava un po' dietro di lui e disse: “come devono essere afflitti!” “Sì”, disse l'usciere, “sono tutti imputati quelli che vedete qui, imputati.” “Davvero?” disse K. “Ma allora sono miei colleghi.” Si volse a quello più vicino, un uomo alto, magro, già con i capelli quasi grigi. “Che cosa state aspettando qui?”, chiese cortese. L'inattesa domanda tuttavia mise in confusione quell'uomo, cosa che apparve più penosa perché si trattava chiaramente di un uomo di mondo altrimenti capace di dominarsi il quale alla superiorità che su molti si era guadagnata non rinunciava facilmente. Stavolta però non seppe rispondere a una domanda tanto facile, guardò gli altri come se fossero tenuti a dargli un aiuto, come se nessuno potesse ottenere da lui una risposta mancandole tale aiuto. Allora si fece avanti l'usciere e per tranquillizzare e incoraggiare quell'uomo disse: “Questo signore chiede soltanto che cosa aspettate. Rispondete dunque.” La voce dell'usciere a lui forse nota ebbe un effetto migliore: “Aspetto -”, iniziò a dire, e si fermò. Chiaramente aveva scelto quest'inizio per rispondere come si deve alla domanda, ma ora non trovava come continuare. Alcuni di quelli che erano in attesa si erano avvicinati e stavano attorno al gruppo, ma l'usciere disse loro: “Via, via, liberate il passaggio.” Si ritirarono un po', ma non tornarono seduti. Intanto quell'uomo si era ripreso e rispose perfino con un sorrisetto: “Un mese fa ho fatto richiesta di escussione delle prove in merito al mio caso e attendo l'esito della mia richiesta.” “Sembrate davvero molto in pena”, disse K. “Certo”, disse quell'uomo, “si tratta del mio caso.” “Non tutti la pensano come voi”, disse K., “anch'io per esempio sono imputato, ma, quant'è vero che voglio andare in paradiso, non ho ancora fatto richiesta di escussione delle prove né intrapreso qualcosa del genere. Ma voi lo ritenete necessario?” “Non lo so bene”, disse quell'uomo di nuovo preso da completa incertezza; credeva chiaramente che K. si burlasse di lui, perciò avrebbe forse, per timore di far qualche nuovo errore, più volentieri di tutto ripetuto pari pari la risposta di prima, ma davanti all'occhiata impaziente di K. si limitò a dire: “per quel che mi riguarda ho fatto richiesta di escussione delle prove.” “Non ci credete, che io sia imputato?” chiese K. “Per carità, certo che ci credo”, disse quell'uomo spostandosi un po' di lato, ma nella sua risposta non c'era convinzione, c'era solo angoscia. “Non mi credete dunque?” chiese K. e, senza rendersi conto di provocare all'ossequio quell'uomo dal carattere ossequioso, lo prese per un braccio come se volesse costringerlo a credergli. Non voleva però fargli del male, lo aveva preso con delicatezza, ciò nonostante quell'uomo urlò come se K. l'avesse stretto non con due dita, ma con una pinza arroventata. Quell'urlo ridicolo disgustò K. definitivamente; non solo non ci si credeva, che lui fosse imputato, ma forse lo si prendeva per un giudice. E per congedarsi lo strinse davvero con più forza, lo ributtò indietro e andò oltre. “La maggior parte degli imputati sono talmente sensibili”, disse l'usciere. Dietro loro due quasi tutti coloro che erano in attesa fecero mucchio attorno a quell'uomo, che già aveva smesso di urlare, e sembrò che chiedessero informazioni adeguate sull'incidente. Ora venne incontro a K. una guardia, principalmente riconoscibile da una sciabola il cui fodero, almeno stando al colore, era fatto d'alluminio. K. se ne stupì e arrivò a toccarlo con una mano. La guardia, venuta a causa delle urla, chiese cos'era successo. L'usciere cercò di tranquillizzarla con qualche parola, ma la guardia spiegò che doveva verificare lui stesso, fece il saluto e andò oltre a passi lesti, ma molto brevi, forse soffriva di artrite.
K. non s'interessò a lungo a lui né alla compagnia seduta nell'andito, specie quando circa alla metà del medesimo vide la possibilità di infilarsi a destra in un'apertura priva di uscio. S'informò con l'usciere se quella era la via giusta, l'usciere annuì e di fatto K. ci s'infilò. Era fastidioso per lui dover precedere sempre di due o tre passi l'usciere, almeno in quel posto poteva sembrare come se lui venisse fatto precedere in qualità di imputato. Aspettò più di una volta dunque l'usciere, ma questi restava comunque indietro. Da ultimo per por fine al suo disagio K. disse: “Ora che ho visto com'è qui, voglio andarmene subito.” “Non avete ancora visto tutto”, disse l'usciere in tutta innocenza. “Non voglio vedere tutto”, disse K. che del resto si sentiva stanco davvero, “voglio andare, come si arriva all'uscita?” “Per caso vi siete perso, prima?” chiese stupito l'usciere, “andate fino all'angolo e poi a destra percorre l'andito fino alla porta.” “Venite con me”, disse K. “Indicatemi la strada, da solo la perdo, ve ne sono così tante.” “E' l'unica”, disse l'usciere, ora con aria di rimprovero, “non posso tornare indietro con voi, devo ancora presentare la notifica e ho già perso molto tempo per causa vostra.” “Venite con me”, disse di nuovo K., stavolta più aspro, quasi avesse colto finalmente l'usciere a dire una bugia. “Però non gridate in questo modo”, mormorò l'usciere, “qui ci sono dappertutto uffici. Se non volete andarvene da solo, allora venite insieme a me ancora per un pezzettino oppure aspettate qui che presenti la mia notifica, poi tornerò con voi volentieri.” “No no”, disse K., “non aspetterò, e voi dovete venire subito con me.” Ancora non si era guardato attorno, dove si trovava, solo quando una delle numerose porte che c'erano intorno si aprì lui guardò. Una ragazza che era stata richiamata dalle parole dette a voce alta di K. si fece avanti e chiese: “che cosa desidera il signore?” Dietro a lei si vedeva a distanza avvicinarsi anche un uomo, nella semioscurità. K. guardò l'usciere. Questi aveva detto che nessuno si sarebbe occupato di K., eppure eccone già due, mancava poco e gli impiegati tutti lo avrebbero notato, avrebbero voluto avere una spiegazione della sua presenza. L'unica spiegazione comprensibile e ammissibile era che lui era imputato e voleva sapere la data del prossimo interrogatorio, ma proprio quella spiegazione lui non voleva darla, in particolare perché non corrispondente nemmeno alla verità, difatti lui era lì solo per curiosità oppure, ma ciò non avrebbe spiegato alcunché, perché desiderava appurare il fatto che l'interno di quella istituzione giudiziaria era tanto ripugnante quanto l'esterno. Pareva che tale supposizione fosse giusta, ma lui non desiderava intrudersi di più, si accontentava di quel che aveva già visto, non era nella condizione di incontrare un funzionario di grado più alto che poteva saltar fuori da dietro ogni porta, voleva andarsene, o con l'usciere o da solo, se necessario.
Tuttavia il suo starsene senza parole dové sembrare strano, in realtà la ragazza e l'usciere lo guardavano come se tra un momento stesse per capitargli una gran trasformazione che loro non intendevano perdersi. Sulla porta stava quell'uomo che prima K. aveva notato in lontananza, si appoggiava alla trave superiore della bassa porta e scrutava un po' in punta di piedi, come fosse uno spettatore impaziente. La ragazza tuttavia capì che la condotta di K. era motivata da un leggero malessere, prese una sedia e chiese: “non volete sedervi?” K. si sedé subito e appoggiò, per tenersi meglio, i gomiti ai braccioli. “Avete un po' di capogiro, vero?” gli chiese. Lui ne aveva ora il viso davanti, vicino, un viso dall'espressione austera, quello che parecchie donne hanno proprio nella loro miglior giovinezza. “Non datevene pensiero”, disse lei, “non è cosa fuori del comune, qui, a quasi tutti succede quando vengono per la prima volta. E' la vostra prima volta qui? Ma sì, non è nulla di straordinario. Il sole brucia nel sottotetto e il legno che scotta rende l'aria talmente pesante e afosa. Il posto quindi non è molto adatto ad allocarvi degli uffici, d'altra parte offre grandi vantaggi. Quanto all'aria però, essa è nei giorni di grande affluenza delle parti <in causa – n.d.t.>, cioè quasi ogni giorno, appena respirabile. Se poi considerate che qui si stende ad asciugare una quantità di biancheria – agli inquilini non lo si può vietare – non vi meraviglierete più di aver avuto un piccolo malessere. Alla fine però ci si fa l'abitudine ottimamente, all'aria. La seconda o la terza volta che venite la sentirete appena l'oppressione. Vi sentite già meglio?” K. non rispose, era troppo penoso per lui essere consegnato, per la sua improvvisa debolezza, a quella gente lì, inoltre non stava meglio, ora che aveva saputo il motivo del suo malessere, ma anche un po' peggio. La ragazza se ne accorse subito, per procurare un po' di fresco a K. prese un bastone con un gancio che spinse sulla parete aprendo un abbaino proprio sopra a K., verso l'aria aperta. Ne venne giù tanta fuliggine però, che la ragazza fu costretta a richiuderlo subito e a pulire con un fazzoletto le mani a K., difatti lui era troppo stanco per farlo da sé. Sarebbe volentieri restato lì a sedere tranquillo fino a riprender forza bastevole ad andar via, ma ciò sarebbe successo tanto prima quanto meno ci si fosse occupati di lui. Per di più la ragazza disse, ora: “non potete restare qui, qui disturbiamo il passaggio” - K. chiese con lo sguardo qual mai passaggio lui disturbasse - “vi porterò, se volete, in infermeria.” “Aiutatemi, per favore”, disse lei a quell'uomo che stava sulla porta, che subito si avvicinò. K. però non voleva andare nell'infermeria, intendeva anzi evitare proprio di venir guidato oltre, più avanti andava e peggio la cosa diventava. “Sono già in grado di andarmene”, disse dunque e si alzò incerto, aveva già preso il vizio a star seduto comodo. Poi però non riuscì a tenersi eretto. “Non va mica”, disse scuotendo il capo, e si rimise seduto con un sospiro. Si ricordò dell'usciere che, nonostante tutto, avrebbe potuto con facilità portarlo fuori, ma questi sembrava non esser più lì da un bel po'; K. guardò tra la ragazza e quell'uomo che gli stavano davanti, ma di trovare l'usciere non gli riuscì.
Credo”, disse l'uomo, per altro vestito in modo elegante, specie per come colpiva la sua marsina grigia terminante in due lunghe code, “che il malessere del signore derivi da quest'aria, sarà perciò ottima cosa, e per lui la migliore, se non lo portiamo subito nell'infermeria, ma invece per prima cosa fuori dagli uffici.” “Ecco, sì”, esclamò K. quasi infilandosi, per la gran gioia, nelle parole di quell'uomo, “starò meglio subito, non sono nemmeno così debole, mi basta solo essere un po' sostenuto sotto le ascelle, non sarò loro di gran peso, non è nemmeno un percorso lungo, basta che mi portino fino alla porta, poi mi siedo un poco sui gradini e mi riprendo subito, voglio dire, non soffro mica di questi accessi, anch'io ne sono stupito. Sono anch'io un funzionario abituato all'aria degli uffici, ma qui è troppo, lo dicono loro stessi. Vogliano gentilmente portarmi un poco, mi spiego, ho il capogiro e alzarmi da solo non mi riesce.” E sollevò le spalle per meglio permettere ai due di prenderlo per le braccia.
Ma quell'uomo non ottemperò alla richiesta, mantenne tranquillo le mani nelle tasche dei calzoni e fece una gran risata. “Vedete”, disse alla ragazza, “che ci ho azzeccato. Non solo il signore non sta bene ora, non sta bene in generale.” La ragazza sorrise anche lei, ma con la punta delle dita diede un colpetto sul braccio di lui, quasi che si fosse permesso una battuta eccessivamente pesante. “Ma che cosa pensate?” disse l'uomo continuando a ridere, “certo che voglio portar fuori il signore.” “Va bene allora”, disse la ragazza intanto che chinava per un attimo la leggiadra testa. “Non date troppo peso alla risata”, disse la ragazza a K. che di nuovo intristito guardava davanti a sé e non sembrava necessitare di alcuna spiegazione, “questo signore - posso presentarvi?” (il signore lo concesse facendo con la mano un movimento) “- questo signore dunque è l'informatore. Dà alle parti in attesa tutte le informazioni di cui esse abbisognano, e, dal momento che la nostra istituzione giudiziaria non è molto nota tra la popolazione, si fa richiesta di molte informazioni. Egli ha una risposta a ogni domanda, potete, nel caso che lo desideriate, metterlo alla prova. Non è però la sua unica qualità, la sua seconda è l'eleganza dell'abito. Noi, intendo l'insieme dei funzionari, pensammo che colui che informa, che ha di continuo a che fare per primo con le parti, a motivo del decoro della prima impressione, dovesse esser vestito con eleganza. Noi altri, come voi potete vedere nel mio caso, purtroppo siamo vestiti molto male e non alla moda; non ha neppure molto senso cambiar qualcosa del vestiario, dato che noi siamo quasi sempre negli uffici, anzi ci dormiamo pure. Tuttavia, come detto, per l'informatore considerammo necessario un buon vestiario. Ma poiché non era possibile ottenerlo dalla nostra amministrazione, che è da questo punto di vista un po' particolare, ci mettemmo insieme – contribuirono anche le parti – e gli comprammo questo bell'abito e anche altri. Ora sarebbe tutto a posto per fare una buona impressione, ma lui con le sue risate guasta ciò che abbiamo fatto, e spaventa la gente.” “E' così”, disse canzonatorio quel signore, “ma non capisco, signorina, perché riferite al signore tutti i fatti nostri, o meglio glieli imponete, difatti lui non ne vuol proprio sapere. Basta che vediate come se ne sta lì, chiaramente occupato dagli affari suoi.” K. non aveva nemmeno voglia di replicare, l'intenzione della ragazza magari era buona, forse era diretta a distrarlo o a dargli la possibilità di riprendersi, ma il modo era sbagliato. “Dovevo spiegargli la vostra risata”, disse la ragazza.” “Ma era un modo offensivo.” “A lui toccherebbe perdonare offese anche peggiori, credo, se alla fine lo porto fuori.” K. non disse nulla, neppure guardava, tollerò che i 2 dibattessero su di lui come su una cosa, addirittura lo preferiva. Ma di colpo sentì una mano dell'informatore su un braccio e una mano della ragazza sull'altro. “Su, dunque, debole uomo”, disse l'informatore. “Vi ringrazio molto”, disse K. felicemente sorpreso, si sollevò pian piano e portò lui stesso quelle mani estranee dove di più gli servivano. “Pare”, disse piano la ragazza all'orecchio di K., intanto che essi si avvicinavano all'andito , “quasi che a me importi in modo molto particolare mettere in buona luce l'informatore, ma io desidero dire il vero, lo si creda. Non è mica crudele, di cuore. Non è tenuto a portare fuori di qui parti che hanno malori, eppure lo fa, come vedete. Forse nessuno di noi è crudele, di cuore, ci piacerebbe essere d'aiuto a tutti, ma come funzionari giudiziari facilmente ci tocca di apparire come se fossimo crudeli e non volessimo aiutare nessuno. Tendo a rammaricarmi di questo.” “Non volete sedervi un po' qui?” chiese l'informatore, si trovavano già nell'andito esattamente davanti all'imputato cui si era rivolto prima K., che quasi si vergognò; prima gli era stato così ben dritto davanti e ora dovevano sostenerlo in due, l'informatore gli teneva il cappello in equilibrio sulle dita, lui era spettinato, i capelli gli penzolavano sulla fronte sudata. Tuttavia quell'imputato non parve farci proprio caso, ossequioso stava in piedi al cospetto dell'informatore, il cui sguardo gli passava sulla testa, né fece alcunché, se non giustificare la sua presenza. “So”, disse, “che oggi non posso conoscere l'esito della mia istanza. Però sono venuto lo stesso, pensavo di poter attendere qui, è domenica, ho tempo e non reco disturbo, qui.” “Non dovete giustificarvi così”, disse l'informatore, “la vostra premura è anzi lodevole, certamente occupate il posto senza necessità, ma ciò nonostante non voglio, nella misura in cui ciò non mi incomoda, impedirvi affatto di seguire accuratamente l'andamento della vostra pratica. Quando s'è vista gente che trascura vergognosamente il suo dovere, s'impara ad avere pazienza con la gente come voi. Sedetevi.” “Come sa parlare con le parti”, mormorò la ragazza. K. annuì, ma subito sussultò quando l'informatore ripeté la domanda: “Non volete mettervi a sedere qui?” “No”, disse K., “non voglio riposarmi.” L'aveva detto con la massima decisione possibile, in realtà però gli avrebbe fatto molto bene mettersi a sedere; era come se avesse il mal di mare. Gli pareva di essere su una nave che si trovasse tra ardui marosi. Sembrava quasi che l'acqua si abbattesse sulle pareti di legno, quasi che dal fondo dell'andito venisse uno scroscio come di acqua a cavalloni, quasi che l'andito rollasse, quasi che le parti in attesa sui due lati venissero sprofondate e sollevate. Tanto più incomprensibile era la calma della ragazza e dell'uomo, che lo guidavano. Era in mano loro, se lo lasciavano per forza cadeva giù come una tavola di legno. Stringeva gli occhi, guardava qua e là; sentiva di procedere a passi simmetrici, ma senza prendervi parte, difatti veniva portato quasi, un passo dopo l'altro. Infine si accorse che gli parlavano, ma non li capiva, udiva solo il frastuono che tutto colmava e attraverso cui pareva risuonare sempre più alta la nota come di una sirena. “A voce più alta”, mormorò a testa china vergognandosi, difatti sapeva che avevano parlato a voce abbastanza alta, per quanto a lui incomprensibile. In quella finalmente, quasi che la parete che aveva davanti si fosse squarciata, gli arrivò addosso un soffio d'aria fresca, e vicino a sé udì queste parole: “prima vuole andar via, poi gli si può dire 100 volte che l'uscita è qui, e lui non si muove.” K. si accorse di essere davanti alla porta di uscita che la ragazza aveva aperto. Fu come se tutte le forze gli fossero tornate in una volta affinché lui si guadagnasse un assaggio di libertà, subito scese un gradino della scala e da lì si congedò dai suoi accompagnatori, che s'inchinarono. “Molte grazie”, rispose all'inchino, ripetutamente strinse loro le mani e smise solo quando ritenne di vedere che essi, abituati all'aria dell'ufficio, sopportavano male l'aria relativamente fresca che veniva dalla scale. Riuscirono a mala pena a rispondere e la ragazza sarebbe forse caduta, se K. con la massima sveltezza non avesse chiuso la porta. K. stette ancora un momento lì, si aiutò con uno specchietto a sistemarsi i capelli, prese il cappello, che si trovava sul pianerottolo successivo – era stato certo l'informatore a buttarcelo – e scese giù con tale freschezza e a balzi tanto lunghi che ne trasse quasi paura, da tale cambiamento. Sorprese del genere mai ancora gliene aveva propinate il suo stato di salute, di solito valido. Che il suo corpo volesse far diciamo una rivoluzione e propinargli un nuovo processo, dal momento che lui sopportava il vecchio processo tanto agevolmente?
Non respinse del tutto il pensiero di andare quanto prima da un medico, ciò nonostante voleva impiegare le prossime domeniche – questo era in grado di consigliarselo da solo – meglio di questa.




venerdì 17 aprile 2020

Franz Kafka: Il processo - 3


Prima assise istruttoria

K. era stato informato telefonicamente che la domenica successiva avrebbe avuto luogo una breve assise istruttoria in merito al suo caso. Lo s'informò del fatto che tali occasioni ora sarebbero seguite l'una all'altra con regolarità, forse una volta alla settimana, oppure con frequenza maggiore. Era da un lato d'interesse generale portare a termine il processo, dall'altro tuttavia le sedute istruttorie avrebbero dovuto essere sotto ogni aspetto accurate, e però a causa della fatica a esse collegata non avrebbero dovuto durare troppo a lungo. Perciò si era scelta la via di queste sedute frequenti, ma brevi. Si era preferito designare la domenica come giorno di assise al fine di non disturbare K. nel suo lavoro d'ufficio. Si supponeva che lui fosse d'accordo, qualora desiderasse un giorno diverso gli sarebbe venuti incontro alla meglio. Le sedute istruttorie sarebbero state per esempio possibili anche di notte, ma in quel caso K. non sarebbe stato abbastanza fresco. Comunque, fin quando K. non avesse fatto alcuna obbiezione, non si sarebbe cambiato il giorno, domenica. Era evidente che lui assolutamente dovesse comparire, non c'era bisogno neppure di farglielo notare. Gli venne menzionato il numero dell'edificio nel quale lui doveva presentarsi, era sito in una remota via di un sobborgo nel quale K. non era mai stato prima.
Avuta tale comunicazione K. agganciò il ricevitore senza rispondere; fu subito deciso ad andare, la domenica, ciò era certo necessario, il processo iniziava e lui doveva presenziarvi, anche nel caso che quella prima assise dovesse essere l'ultima. Restava ancora pensieroso presso l'apparecchio quando dietro di sé udì la voce del vice direttore che voleva telefonare e tuttavia K. gli sbarrava la strada. “Cattive notizie?” chiese il vice direttore alla leggera, non per informarsi, ma per distogliere K. dall'apparecchio. “No, no”, disse K., si fece da parte, ma non se ne andò. Il vice direttore prese il ricevitore e mentre aspettava il collegamento telefonico disse al di sopra del ricevitore: “permettete una domanda, signor K.? Potreste domenica mattina farmi il piacere di partecipare a un'uscita sulla mia barca a vela? Saremo così in bella compagnia, e certo vi saranno anche vostri conoscenti. Tra gli altri il procuratore di Stato Hasterer. Verrete? Via, venite!” K. cercò di prestare attenzione a quel che il vice direttore diceva. Non era una cosa banale per lui, difatti tale invito del vice direttore, con cui non era mai andato molto facilmente d'accordo, significava un tentativo di riconciliazione da parte sua e indicava quanto era diventato importante K. nella banca, e quanto appariva preziosa al secondo più alto funzionario la sua amicizia, o almeno la sua imparzialità. Tale invito era un abbassarsi, da parte del vice direttore, per quanto potesse esser stato espresso da sopra il ricevitore nell'attesa del collegamento telefonico. Tuttavia K., costretto a far seguire una seconda umiliazione, disse: “molte grazie! Ma purtroppo domenica non ho tempo, ho già un impegno.” “Peccato”, disse il vice direttore mettendosi a parlare al telefono, il cui collegamento era stato appunto stabilito. Non fu affatto una conversazione breve, ma distrattamente K. restò per tutto il tempo accanto all'apparecchio. Solo quando il vice direttore interruppe la comunicazione K. si spaventò e disse, per giustificare solo un poco il suo superfluo star lì: “sono stato chiamato al telefono ora, ho da andare in un posto, ma si sono scordati di dirmi l'ora.” “ Ma allora informatevene di nuovo”, disse il vice direttore. “Non è così importante”, disse K. nonostante che con ciò la sua giustificazione di prima, in sé difettosa, si sfasciasse ulteriormente. Nell'andarsene il vice direttore parlò ancora di altre cose, K. si costrinse a rispondere pensando tuttavia soprattutto che la cosa migliore sarebbe stata andare domenica verso le 9, infatti è a quell'ora che i tribunali nei giorni di lavoro iniziano a funzionare.
Domenica il tempo era nuvoloso, K. molto spossato, rimasto all'osteria fino a notte fonda per via d'una festa privata quasi non si era svegliato. In fretta e senza aver tempo di esaminare e ricomporre gli svariati piani escogitati durante la settimana, si vestì e corse senza aver fatto colazione in quel sobborgo indicatogli. Stranamente incontrò, anche se aveva poco tempo per guardarsi attorno, i tre impiegati partecipanti a quella cosa che era successa, Rabensteiner, Kullych e Kaminer. I primi due gli attraversarono la strada in tram, invece Kaminer, seduto nella terrazza di un caffè, si chinò incuriosito sul parapetto al passaggio di K. Tutti seguirono stupiti la corsa del loro superiore; fu un certo puntiglio a trattenere K. dal prendere il tram senz'altro da lì, era disgustato da qualsiasi, anche dal minimo, aiuto esterno in quella sua cosa, non voleva ricorrere a nessuno con ciò mettendolo a conoscenza di essa, e sia pure alla lontana, in definitiva però non aveva la minima voglia di abbassarsi di fronte alla commissione istruttoria con una eccessiva puntualità. Eppur tuttavia ora correva per arrivare se possibile attorno alle 9, per quanto non gli fosse stato fissato neanche un appuntamento preciso.
Aveva pensato di riconoscere già da lontano l'edificio per un qualche segno che lui stesso non si era figurato bene, oppure per un particolare movimento davanti all'entrata. Tuttavia la Juliusstrasse, in cui l'edificio doveva trovarsi, all'inizio della quale K. si fermò per un momento, conteneva su entrambi i lati edifici quasi tutti uguali, alte grige case d'affitto abitate da povera gente. A quell'ora di domenica mattina alla maggior parte delle finestre c'era qualcuno, uomini in maniche di camicia si sporgevano e fumavano, oppure reggevano bambini piccoli con cautela e garbo sul davanzale. Altre finestre erano tutte piene di coperte e lenzuola sopra cui compariva la testa scompigliata di una donna. Ci si chiamava a vicenda al di sopra della via, uno di questi gridi provocò una gran risata proprio sopra K. Regolarmente distribuiti si trovavano in quella lunga via negozietti di generi alimentari assortiti, posti in basso rispetto al livello stradale e raggiungibili da altrettante scale. Ne uscivano o ci entravano donne, oppure stavano sui gradini a chiacchierare. Un fruttivendolo che raccomandava la sua merce, tanto disattento quanto K., lo avrebbe quasi messo sotto con il suo carretto. Iniziò pure a suonare con crudeltà un grammofono residuato da quartieri migliori.
K. s'inoltrò nella viuzza lentamente come se avesse tempo, o come se il giudice istruttore lo vedesse da una qualche finestra e sapesse quindi che lui si era presentato. Erano da poco passate le 9. L'edificio si trovava piuttosto oltre, era esteso in modo quasi insolito, in particolare il portone d'ingresso era alto e largo. Era chiaramente destinato al carico e scarico dei diversi magazzini di merci che, ora chiusi, contornavano il grande cortile e recavano scritti i nomi di ditte che K. in parte conosceva per via del suo lavoro bancario. Si fermò anche un po' sull'entrata del cortile occupandosi con più precisione del suo solito di tutte quelle cose futili. Vicino, un uomo dai piedi nudi sedeva su una cassa e leggeva un giornale. Su un carretto a mano si dondolavano due ragazzi. Davanti a una pompa c'era una ragazzina magra con addosso una vestina da notte e, intanto che l'acqua scorreva nella sua brocca, guardava verso K. In un angolo del cortile venne tesa una corda cui già era appesa e fissata biancheria da asciugare. Un uomo dal basso dirigeva tale lavoro con qualche richiamo urlato.
K. si volse verso la scala per andare nella stanza dell'istruttoria, poi si fermò di nuovo, difatti a parte quella scala vide nel cortile tre diversi accessi a scale e oltre a ciò pareva che un breve passaggio al termine del cortile portasse in un secondo cortile. Se la prese perché non gli avevano indicato dov'era la stanza dell'istruttoria in modo più preciso; però! - era con una particolare trascuratezza, o indifferenza, che lo si trattava, si ripropose di dichiararlo forte e chiaro. Alla fine tuttavia salì la prima scala, mentalmente recitando un motto della guardia Willem che si ricordava: il tribunale viene attratto dalla colpa, dal che di fatto conseguiva che la stanza dell'istruttoria doveva trovarsi lungo la scala che K. sceglieva a caso.
Disturbò salendo molti bambini che giocavano per le scale e lo guardavano male se transitava tra loro. “Se dovessi ritornare”, si disse, “devo portare con me o dolciumi per rabbonirli o il bastone per dargliele.” Subito prima del primo piano fu costretto perfino ad attendere che una biglia terminasse il suo percorso, trattenendolo per i calzoni nel frattempo due ragazzini dallo strano volto da lazzarone fatto e finito; nel caso che avesse inteso scrollarseli di dosso avrebbe dovuto fargli male e ne paventò le urla.
Al primo piano iniziò la vera e propria ricerca. Non riuscendo tuttavia lui a chiedere dove fosse la commissione istruttoria, s'inventò un certo Lanz, falegname – gli venne in mente il nome perché così si chiamava il capitano, il nipote della signora Grubach – e si mise a chiedere in tutti gli appartamenti se lì abitava un certo Lanz, falegname, per avere la possibilità di guardare dentro. Si palesò tuttavia che per lo più si poteva guardare senz'altro all'interno, difatti quasi ogni uscio era aperto e i bambini correvano dentro e fuori. Erano stanze piccole e di regola con una sola finestra, e vi si cucinava pure. Parecchie donne avevano in braccio lattanti e lavoravano con la mano libera al fornello. Ragazze adolescenti con addosso apparentemente solo il grembiule trascorrevano avanti e indietro con la massima applicazione. In tutte le stanze i letti erano disfatti, vi si trovavano distesi ammalati, persone che ancora dormivano o che, vestite, si stiracchiavano. Agli appartamenti le cui porte erano chiuse K. bussò e chiese se vi abitasse il falegname Lanz. Per lo più apriva una donna, porgeva orecchio alla domanda e si girava verso qualcuno che si levava dal letto. “Il signore chiede se un certo falegname Lanz abita qui.” “Il falegname Lanz?” chiedeva chi s'era alzato dal letto. “Sì”, diceva K., per quanto non ci fosse dubbio che la commissione istruttoria lì non c'era e che quel che lui aveva da fare fosse concluso. Molti credettero che a K. importasse molto di trovare il falegname Lanz, ci pensavano a lungo, nominavano un falegname che però non si chiamava Lanz, o qualcuno che molto alla lontana si chiamava come Lanz, oppure chiedevano ai vicini, oppure accompagnavano K. a un uscio lontanissimo dove secondo loro forse abitava un uomo tipo Lanz, in subaffitto, o dove c'era chi avrebbe potuto dare informazioni migliori. Con quel metodo, finì che K. non dovette più quasi chiedere, venne invece trascinato per i vari piani della casa. Deplorò il suo metodo che all'inizio gli era sembrato tanto praticabile. Prima di salire al 5° piano si decise ad abbandonare la ricerca, si congedò da un simpatico giovane operaio che voleva continuare a guidarlo su e scese. Poi tuttavia lo irritò la vacuità dell'intera impresa e andò di nuovo a bussare alla prima porta del 5° piano. La prima cosa che vide nella stanzetta fu un grande orologio a muro che segnava già le 10. “Abita qui un certo Lanz, falegname?” chiese. “Prego”, disse una giovane donna dagli occhi neri e luminosi che stava lavando biancheria da bambini in un secchio, e gl'indicò con una mano bagnata la porta accanto, aperta.
K. credette di entrare in un'assemblea. Una ressa di gente la più varia - nessuno si curò di chi stava entrando – riempiva una stanza di media grandezza con due finestre; torno torno, in prossimità del soffitto, vi era un loggione anch'esso tutto occupato dove le persone riuscivano a stare solo piegate e urtavano con il capo e le spalle contro il soffitto. K. , essendo per lui l'aria troppo soffocante, uscì e a quella giovane donna che probabilmente lo aveva capito male disse: “non ho chiesto di un falegname, di un certo Lanz?” “Sì”, disse la donna, “prego, entrate.” K. forse non l'avrebbe seguita, se lei non gli si fosse avvicinata e avesse impugnato la maniglia della porta dicendo: “dopo di voi devo chiudere, nessun altro ha da entrare.” “Giustissimo”, disse K., “però è già strapieno.” Poi tuttavia rientrò nella stanza.
Tra 2 uomini che conversavano vicinissimi alla porta – l'uno faceva il movimento di quando si contano i soldi, tutt'e due le mani protese in avanti, l'altro lo guardava negli occhi con grande attenzione - una mano cercò di afferrare K. Si trattava di un giovane basso dalle guance rosse. “Venite, venite”, disse. K. si lasciò guidare, segnalandosi che pur nella calca brulicante c'era un passaggio libero che forse distingueva due fazioni; lo diceva anche il fatto che K. nelle prime file a destra e a sinistra a mala pena vide una faccia voltata verso di lui, ma solo schiene di gente che rivolgeva la parola e i gesti unicamente a quelli della propria fazione. La maggioranza era vestita di nero, con giacche da cerimonia all'antica, sbrendolate e lunghe. Tale abbigliamento rese perplesso K., sennò avrebbe guardato a quell'insieme come a un'assemblea politica di quartiere.
All'altra estremità dell'aula dove K. venne condotto, su un podio molto basso ugualmente stracolmo c'era un tavolino messo di traverso dietro cui, vicino al margine del podio, sedeva un omino grasso ansimante che stava conversando tra gran risate con chi gli stava dietro – i gomiti appoggiati alla spalliera della sedia, le gambe incrociate. A tratti costui brandiva un braccio in aria come se facesse il verso a qualcuno. Il giovane che guidava K. fece fatica a segnalarsi. Due volte aveva già tentato di ottenere qualcosa stando in punta di piedi senza che da quell'uomo sovrastanta gli fosse stata data attenzione. Solo quando una delle persone in alto sul podio lo notò, quell'uomo gli si rivolse e, piegato in basso, stette in ascolto di quel che il giovane comunicava sommessamente. Poi estrasse l'orologio e svelto guardò K. “Voi avreste dovuto comparire un'ora e cinque minuti fa”, disse. K. intendeva rispondere qualcosa, ma non ne ebbe il tempo, difatti non appena quell'uomo ebbe parlato si levò nella metà di destra dell'aula un generale brontolio. “Avreste dovuto comparire un'ora e cinque minuti fa”, ripeté quell'uomo a voce più alta e ora guardando rapido giù nell'aula. Subito anche il brontolio si fece più forte e si spense quando quell'uomo smise di parlare, però un poco alla volta. C'era adesso nell'aula molta più calma che non all'ingresso di K. Solo la gente in loggione non cessò di fare le sue considerazioni. Nei limiti di quanto si poteva distinguere lassù nella penombra, nella foschia e nella polvere, quella gente pareva maldisposta come quella di sotto. Parecchi avevano portato con sé cuscini che avevano messo tra il capo e il soffitto per non premercelo e scorticarlo.
K. aveva deciso di osservare più che parlare, per cui rinunciò a difendersi in merito al suo presunto ritardo e disse solo: “Posso esser venuto in ritardo, ora però ci sono.” Ne seguì dalla parte destra dell'aula un applauso di approvazione. “E' facile guadagnarsi il favore della gente”, pensò K., ora turbato dal silenzio della metà di sinistra, che gli si trovava proprio dietro e dalla quale si era levato solo un applauso del tutto isolato. Pensò a quello che poteva dire per guadagnarsi il favore degli altri, tutti in una volta o, se impossibile, almeno il favore temporaneo.
Sì”, disse quell'uomo, “ma ora non sono più tenuto a interrogarvi” - di nuovo borbottio, stavolta però non facile da interpretare, difatti quell'uomo proseguì, intanto che con una mano segnalava alla gente l'errore - “ciò non di meno oggi intendo in via eccezionale farlo. Un ritardo del genere però non si deve più ripetere. E ora fatevi avanti!” Qualcuno saltò giù dal podio in modo che si liberasse un posto per K., e lui salì. Si trovò strettamente pigiato al tavolo, la calca alle sue spalle era tanta che fu costretto a opporlesi, non intendeva sbatter giù dal podio il tavolo del giudice istruttore e magari anche quest'ultimo.
Il giudice istruttore tuttavia non se ne preoccupò, si mise abbastanza di traverso sulla sua sedia e prese, dopo che l'uomo dietro di lui gli ebbe detto qualcosa di conclusivo, un'agendina, unico oggetto sul suo tavolo. Sembrava un registro amministrativo commerciale, era vecchio, aveva molti fogli fuori posto. “Dunque”, disse il giudice istruttore, sfogliò il registro e si rivolse a K. in tono affermativo: “voi siete pittore?” “No”, disse K.,”sono primo procuratore di una grande banca.” A tale risposta seguì dalla fazione di destra una risata così cordiale che anche K. fu costretto a ridere. La gente si appoggiava le mani sulle ginocchia scossa come se avesse grandi attacchi di tosse. Rise qualcuno anche dal loggione. Il giudice istruttore che, molto arrabbiato, probabilmente non poteva far nulla con chi stava sotto, cercò di rifarsi con quelli del loggione, saltò su, li minacciò e le sue sopracciglia altrimenti poco appariscenti gli si trasformarono in cespugli neri sopra gli occhi.
La metà di sinistra dell'aula era tuttavia ancora silenziosa, la gente stava su diverse file, aveva rivolto il viso verso il podio e udiva le parole lassù scambiate con la stessa calma con cui udiva il chiasso dell'altra fazione, tollerava perfino che alcuni dei suoi qua e là si comportassero come quelli dell'altra fazione. La gente della fazione di sinistra, che del resto era poco numerosa, poteva in fondo essere trascurabile come quella della destra, ma la calma della sua condotta lasciava trasparire che essa contava. Quando K. iniziò il suo dire fu costretto a parlare tenendola in considerazione.
Signor giudice istruttore, la vostra domanda se io sono pittore – anzi non l'avete affatto domandato, ma me lo avete detto in faccia – è indicativa dei modi complessivi del procedimento a mio carico. Potete obbiettare che non si tratta affatto di un procedimento, e ben a ragione, infatti lo è solo se io lo riconosco come tale. Tuttavia io lo riconosco per il momento diciamo per compassione. Non se ne può avere che compassione, volendo porvi attenzione. Non dico che sia un procedimento trasandato, ma mi piacerebbe proporvi tale denominazione ai fini della vostra presa di coscienza.”
K. s'interruppe e guardò giù nell'aula. Ciò che aveva detto era tagliente più di quanto si fosse proposto, e però giusto. Avrebbe meritato qua e là approvazione, però tutto taceva, era chiaro che si aspettava intensamente il seguito, forse si preparava in silenzio un qualcosa di prorompente che avrebbe posto un termine al tutto. Fu un disturbo che ora si aprisse in fondo all'aula una porta, quella giovane lavandaia forse aveva finito il suo lavoro, entrò e nonostante tutta la sua cautela attirò alcuni sguardi su di sé. Soltanto il giudice istruttore fece la gioia immediata di K., difatti parve subito colpito dalle parole di K. Fin lì era stato a sentire, sorpreso dalla allocuzione di K., rivolto in piedi a quelli del loggione. Ora durante la pausa del discorso di K. si mise giù pian piano come se non dovesse farsene accorgere. Riprese l'agendina forse per darsi un tono.
Non serve a nulla”, continuò K., “anche la vostra agenda signor giudice istruttore conferma quel che dico.” Soddisfatto di udire solo le proprie parole tranquille in quella estranea riunione K. osò addirittura togliere senz'altro l'agenda al giudice istruttore e tirarne su con la punta delle dita, quasi ne avesse timore, un foglio centrale, per cui da entrambi i lati i fogli, macchiati e coperti di scrittura fitta, penzolarono giù. “Ecco la documentazione del giudice istruttore”, disse lasciando cadere l'agenda sul tavolo. “Leggete ancora con calma, signor giudice istruttore, non ho paura di quest'agenda, per quanto non possa toccarla e riesca a prenderla solo con due dita.” Sia che ciò fosse solo un segno di più profonda umiliazione o che per lo meno fosse preso come tale, il giudice istruttore prese l'agenda, che era caduta sul tavolo, cercò di rimetterla un po' in sesto e di nuovo se la mise davanti per consultarla.
Le facce della gente in prima fila erano tanto intensamente rivolte su K. che lui per un attimo restò a guardarle. Erano uomini tutti quanti anziani, alcuni avevano la barba bianca. Forse erano determinanti, potevano influire sull'intera assemblea, la quale nemmeno dall'umiliazione del giudice istruttore si faceva distogliere dall'immobilità in cui era sprofondata dopo quel che aveva detto K.
Ciò che mi è accaduto”, riprese a dire K. a voce un po' più bassa di prima e continuando a scandagliare le facce della prima fila, cosa che tolse al suo discorso un po' di incisività, “ciò che mi è accaduto è certamente solo un caso singolo e come tale non è molto importante, nemmeno io lo prendo tanto sul serio, ma segnala un modo di procedere che viene usato con molti. Per questi io rispondo, non per me.”
Aveva involontariamente alzato la voce. Da qualche parte qualcuno alzò le mani in un applauso, gridando “bravo! Perché no? Bravo, e ancora bravo!” Alcuni di quelli in prima fila si misero le mani nella barba, nessuno si guardò attorno per via di quell'evviva. Nemmeno K. la valutò significativa, tuttavia ne fu incoraggiato; non riteneva nemmeno necessario che tutti esprimessero approvazione, era sufficiente che in generale cominciassero a meditare sulla faccenda e che solo uno alla volta venissero persuasi.
Non voglio successo oratorio”, disse K. dopo tale riflessione, “neppure riuscirei a ottenerlo. Il signor giudice istruttore probabilmente parla molto meglio, è il suo mestiere. Quel che voglio è solo la discussione pubblica di un abuso pubblico. Stiano a sentire: circa 10 giorni fa sono stato arrestato, l'effettività dell'arresto mi fa ridere, ma questo ora non c'entra. Venni colto di sorpresa nel letto, forse si aveva l'ordine – non è escluso, stando a ciò che disse il giudice istruttore – di arrestare un pittore innocente come me, ma si scelse me. La stanza accanto alla mia fu presidiata da due guardie. Se fossi stato un pericoloso bandito non si sarebbe potuto provvedere meglio. Quelle guardie erano bricconi corrotti, mi riempirono di chiacchiere, volevano farsi ungere, con vane promesse volevano carpirmi biancheria e abiti, volevano soldi per portarmi a quanto pare un po' di colazione dopo che avevano mangiato la mia davanti a me con sfacciataggine. Non basta. Venni condotto in una terza stanza davanti all'ispettore. Era la camera di una signora che stimo molto e io fui costretto a stare a vedere come a causa mia, ma senza mia colpa, per la presenza delle guardie e dell'ispettore essa veniva per così dire profanata. Non fu facile mantenere la calma. Però mi riuscì e chiesi tranquillissimo all'ispettore – se fosse qui sarebbe costretto a confermarlo – perché fossi in arresto. E cosa rispose quest'ispettore? – me lo vedo ancora davanti come sta sulla sedia della menzionata signora, rappresentazione dell'arroganza più ottusa. Miei signori, in fondo non rispose alcunché, forse davvero non sapeva nulla, mi aveva arrestato e gli bastava. Addirittura ha fatto di più e nella camera di quella signora a portato 3 impiegati di basso rango della mia banca che han badato bene a tocchicchiare e a mettere a soqquadro delle fotografie appartenenti alla signora. La presenza di questi impiegati aveva naturalmente un altro scopo, essi dovevano, tanto quanto la mia padrona di casa e la sua cameriera, diffondere la notizia del mio arresto, danneggiare la mia immagine pubblica e far vacillare la mia posizione nella banca. Nulla di ciò neppure minimamente è riuscito, anche la mia padrona di casa, persona semplicissima – qui voglio farne il nome in segno di stima, si chiama Grubach – anche la signora Grubach fu in grado di capire che un simile arresto non ha un significato maggiore di un manifesto di quelli che in strada giovani non abbastanza controllati espongono. Ripeto, il tutto mi ha provocato solo dispiaceri e rabbia transitoria, ma non avrebbe potuto avere conseguenze maggiori?”
Qui interrottosi, K. guardò dalla parte del giudice istruttore e gli sembrò di notare che questi desse un'occhiata d'intesa a qualcuno della folla. K. sorrise e disse: “proprio qui accanto a me il signor giudice istruttore fa a qualcuno di loro un segnale segreto. Vi son dunque persone tra loro che son dirette da quassù. Non so se il segnale doveva provocare fischi o applausi e, ben consapevole del fatto che vado parlando troppo presto dei fatti miei, rinuncio a sapere il significato di quel segnale. Esso mi è del tutto indifferente e autorizzo il signor giudice istruttore a guidare apertamente a voce alta e non a segni segreti i suoi stipendiati che stanno laggiù, dicendo loro una volta, a un dipresso, 'fischiate', e la volta dopo 'applaudite'. “
Imbarazzato o impaziente il giudice istruttore si mosse avanti e indietro sulla sedia. Quell'uomo che aveva alle spalle e con il quale già prima aveva parlato si chinò di nuovo verso di lui, o per incoraggiarlo in modo generico, o per consigliarlo in modo specifico. In basso la gente si parlava a voce bassa, ma in modo vivace. Le due fazioni, che prima sembravano di opinioni tanto contrastanti, si mescolarono, c'era gente che segnava a dito K. e altra che indicava il giudice istruttore. La foschia nebbiosa nella stanza era estremamente molesta, impediva addirittura di veder bene chi stava lontano. In particolare per coloro che erano ospiti del loggione doveva essere disturbante, erano costretti, del resto dando timide occhiate di lato al giudice istruttore, a far domande a bassa voce ai partecipanti all'assemblea per informarsi meglio. Si rispondeva loro ugualmente a bassa voce riparandosi con la mano.
Ho quasi finito”, disse K., che in mancanza di una campanella batté un pugno sul tavolo, cosa che fece voltare la testa di colpo al giudice istruttore e al suo consigliere, impauriti: “l'intera faccenda non mi riguarda, ne consegue che io la commenti con tranquillità, e loro possono, supposto che un poco siano interessati a questo cosiddetto dibattimento, ricavare un gran vantaggio, se mi stanno a sentire. Li prego di rimandare a dopo le loro scambievoli osservazioni circa ciò che propongo, difatti non ho affatto tempo e presto me ne andrò.”
Subito vi fu silenzio; tanto K. dominava l'assemblea. Si smise di parlarsi a vicenda urlando come all'inizio, non si applaudì neppure, ma parve che si fosse già convinti, o sulla via di esserlo.
Non v'è dubbio”, disse K. a voce molto bassa, difatti l'intensità dell'ascolto di tutta l'assemblea gli piaceva, in quel silenzio c'era un brusio più stimolante del plauso più estasiato, “non v'è dubbio che dietro quanto di questo tribunale è visibile, nel caso mio dietro l'arresto e dietro l'istruttoria odierna, si trovi una grossa organizzazione. Una organizzazione che impiega non solo guardie corruttibili, ispettori inetti e giudici istruttori destinati ai casi più facili, ma che mantiene inoltre una magistratura di alto e altissimo livello con un seguito innumerevole di indispensabile personale di servizio, di scrivani, di gendarmi e di assistenti, forse perfino di boia, non indietreggio di fronte a questa parola. E qual è la finalità di tale organizzazione, miei signori? Quella di arrestare persone innocenti e di istruire contro di loro insensati e il più delle volte, come nel caso mio, inutili procedimenti. Come si poteva evitare, in presenza di questa totale insensatezza, la peggiore corruzione dei funzionari? E' impossibile che ci riuscisse neppure il giudice di grado più alto. Perciò le guardie tentano di levar di dosso all'arrestato gli abiti, perciò gli ispettori penetrano a forza negli appartamenti altrui, perciò gli innocenti invece di essere interrogati vengono umiliati davanti a intere assemblee. Le guardie mi hanno riferito di un deposito in cui si portano le proprietà dell'arrestato, vorrei vederlo una volta questo deposito in cui va in malora la proprietà con fatica guadagnata dal lavoro dell'arrestato, laddove non sia rubata da ladreschi addetti al deposito.”
K. venne interrotto da un gemito squittente in fondo all'aula, si fece ombra sugli occhi per poter vedere, difatti la luce del giorno, offuscata, imbiancava la foschia e accecava. Si trattava della lavandaia che K. subito, all'ingresso di lei nell'aula, aveva riconosciuto come un effettivo disturbo. Se ora lei ne avesse colpa o non ne avesse, non si riusciva a capire. K. vide solo che un uomo l'aveva tirata presso la porta e se la stringeva addosso. Tuttavia non lei squittiva, ma l'uomo, che aveva allargato la bocca e guardava verso il soffitto. Si era formato attorno ai due un circoletto, gli ospiti del loggione in quei pressi parevano entusiasti del fatto che la serietà indotta da K. nell'assemblea venisse in questo modo interrotta. K. intendeva, secondo la sua prima impressione, correre subito sul posto, pensava inoltre che a tutti importasse che vi fosse portato ordine e che per lo meno la coppia fosse mandata fuori dall'aula, ma le prime file davanti a lui restarono ben ferme, nessuno si mosse, nessuno fece passare K. Al contrario lo si ostacolò, gli anziani misero le braccia avanti e una mano – non ebbe tempo di voltarsi – lo prese per il colletto; K. in effetti non pensò più a quella coppia, ebbe l'impressione che la propria libertà venisse ristretta, quasi che con l'arresto si facesse sul serio, per cui balzò senza riguardi giù dal podio. Ora si trovò faccia a faccia con la ressa. Aveva giudicato in modo erroneo quella gente? Aveva creduto troppo all'effetto delle proprie parole? Si era finto, mentre lui parlava, e ora, che lui era arrivato a tirar le fila del suo discorso, se ne aveva abbastanza di fingere? Che facce attorno a lui! Occhietti neri guizzanti, guance lasche, come da alcolizzati, lunghe barbe rade e infeltrite che, a toccarle, non erano barbe, ma roba da graffiarcisi. Sotto però – fu la scoperta di K. – i colletti delle giacche luccicavano di distintivi di svariata grandezza e colore. Tutti avevano quei distintivi, a quanto si poteva vedere. Tutti rispettivamente appartenevano alle fittizie fazioni di destra e di sinistra, e quando lui si voltò d'improvviso vide gli stessi distintivi sul colletto del giudice istruttore, che, le mani in grembo, guardava tranquillamente giù. “Ecco ecco!” esclamò levando in alto le braccia - l'improvvisa scoperta voleva spazio, “voi siete tutti impiegati, come vedo, siete anzi quella banda di corrotti contro cui parlavo, vi siete accalcati qui in qualità di uditori e ficcanaso, avete formato fazioni fittizie e una ha applaudito per mettermi alla prova, voi volete imparare come si devono sedurre gli innocenti. Dunque non siete stati qui a vuoto, spero, vi ha divertito che qualcuno abbia atteso da voi una difesa dell'innocente oppure – lasciami o le prendi”, gridò K. a un vecchio tremolante che gli si era spinto particolarmente vicino, “oppure sono io che ho imparato davvero qualcosa. E con ciò vi auguro fortuna professionale.” Rapido prese il cappello che stava sul bordo del tavolo e si spinse verso l'uscita nel silenzio generale, comunque pieno di sorpresa. Il giudice istruttore parve tuttavia esser stato ancor più svelto di K., difatti era sulla porta ad aspettarlo. “Un momento”, disse, e K. si fermò guardando però non il giudice istruttore, ma la porta, di cui aveva già afferrato la maniglia. “Volevo solo rendervi noto”, disse il giudice istruttore, “che oggi – potreste ancora non esserne consapevole – vi siete privato del vantaggio che un interrogatorio in ogni caso significa per l'arrestato.” K. rise in direzione della porta. “Farabutti”, esclamò, “ve li lascio tutti, gli interrogatori”, aprì la porta e scese in fretta le scale. Alle sue spalle si levò il chiasso dell'assemblea, di nuovo vivace, che forse iniziava a discutere i fatti avvenuti, come usano gli studenti.

venerdì 10 aprile 2020

Franz Kafka: Il processo - 2


Colloqui, con la signora Grubach prima, con la signorina Buerstner poi

In quella primavera K. di solito passava le serate dopo il lavoro – stava in ufficio fino alle 9 – facendo se possibile una passeggiatina da solo o con dei conoscenti, poi andava in una birreria dove abitualmente sedeva fino alle 11 a un tavolo riservato, insieme per lo più ad anziani signori. C'erano però eccezioni a tale orario, quando per esempio K. veniva invitato dal direttore della banca, che ne stimava molto la laboriosità e affidabilità, a fare un giro in auto o a cena nella sua villa. A parte ciò una volta alla settimana K. andava da una signorina di nome Elsa che lavorava di notte e fino alla tarda mattina come cameriera in una mescita di vino, e di giorno accoglieva visite solo stando a letto.
Quella sera però – la giornata era volata tra l'intenso lavoro e i molti auguri rispettosi e affettuosi di compleanno – K. volle andare subito a casa. Durante ogni piccola pausa del lavoro ci aveva pensato; senza avere una chiara opinione, gli pareva che fosse stata, da quel che era accaduto la mattina, causata una gran confusione in tutto l'appartamento della signora Grubach, e che proprio lui servisse a rimettervi ordine. Una volta ripristinato l'ordine, ogni traccia dell'accaduto sarebbe stata cancellata e tutto avrebbe ripreso il suo vecchio andamento. In particolare dai 3 impiegati non c'era niente da temere, erano di nuovo immersi nella burocrazia bancaria, in loro non si notava alcun cambiamento. K. più volte li aveva convocati da soli o in gruppo nel suo ufficio con il solo scopo di osservarli; e sempre aveva potuto congedarli soddisfatto.
Arrivando verso le 9,30 di sera davanti alla casa dove abitava, sul portone incontrò un giovanottino che se ne stava a gambe larghe a fumare la pipa. “Chi siete?”, chiese subito K. avvicinando il viso al giovane, nella penombra dell'atrio non ci si vedeva bene. “Sono il figlio del portinaio, egregio signore”, rispose il giovane, tolse di bocca la pipa e si fece da parte. “Il figlio del portinaio?”, chiese K. colpendo impaziente il suolo con il bastone. “Il signore desidera qualcosa? Devo andare a chiamare il babbo?” “No no”, disse K., c'era nella sua voce un che di scusa, quasi che il giovane avesse fatto qualcosa di male e lui lo perdonasse. “Va bene”, disse poi e proseguì, ma prima di salire le scale si girò ancora una volta.
Avrebbe potuto andare diretto in camera sua, ma poiché voleva parlare con la signora Grubach bussò subito al suo uscio. Era seduta e lavorava a maglia, sul tavolo un mucchio di calze. Generico, K. si scusò di venire così tardi, ma la signora fu molto gentile e non intese alcuna scusa: lui poteva sempre parlarle, lo sapeva molto bene di essere il suo migliore e più caro pensionante. K. si guardò attorno, la stanza non era affatto diversa dal solito, le stoviglie della colazione che la mattina si trovavano presso la finestra non c'erano più. Eh, le mani di una donna sono capaci di far molto e senza chiasso, pensò, le stoviglie lui le avrebbe fatte a pezzi sul posto, sì, ma certo non sarebbe riuscito a portarle via. Guardò la signora con una certa gratitudine. “Perché lavorate ancora così tardi?”, chiese. Ora sedevano entrambi al tavolo, di tanto in tanto K. infilava una mano tra le calze. “C'è molto da fare”, disse lei, “e di giorno sono tutta dei pensionanti; se voglio sistemare le mie cose, mi restano solo le serate.” “Oggi vi ho causato davvero una fatica extra.” “E perché poi?”, chiese lei con più calore, e il lavoro le giacque in grembo. “Mi riferisco agli uomini che stamani erano qui.” “Ah, sì”, disse lei placandosi, “non mi ha causato una fatica extra.” K. in silenzio guardò il lavoro a maglia che riprendeva. Pare meravigliata che io ne parli, pensò, pare che non lo ritenga dovuto. Tanto più è necessario che io lo faccia. Solo con una donna anziana ne posso parlare. “Eppure di certo è stato faticoso”, disse allora, “ma non succederà di nuovo.” “No, non può succedere ancora”, disse lei come per sottolineare, e sorrise a K. quasi con malinconia. “Dite sul serio?”, chiese K. “Sì”, disse lei a bassa voce, “ma prima di tutto non dovete prendervela troppo. Sono cose che capitano! Visto che voi, signor K., mi parlate così in confidenza, posso confessarvi che sono stata un po' ad ascoltare dietro l'uscio e che le due guardie hanno riferito qualcosa anche a me. Si tratta, è certo, della vostra felicità, che davvero mi sta a cuore più di quanto forse mi spetti, dato che resto la vostra affittacamere, unicamente. Dunque, ho udito qualcosa, ma non posso dire che fosse particolarmente negativo. No. Siete certo in arresto, ma non com'è arrestato un ladro. Essere in arresto come un ladro, questo è negativo, ma quest'arresto … Mi pare qualcosa come una lezione, scusate se dico una sciocchezza, mi pare qualcosa che io non capisco di certo, e che però neppure deve esser capito.”
Non è per niente una sciocchezza quel che avete detto, signora Grubach, in parte almeno sono della vostra opinione, solo che do un giudizio complessivo ancora più caustico del vostro, semplicemente non prendo l'accaduto come una lezione, ma come un nulla, proprio. Venni colto di sorpresa, ecco cosa fu. Se fossi stato sveglio, senza farmi ingannare dall'assenza dell'Anna mi sarei subito levato e senza riguardo per chi mi fosse capitato tra i piedi sarei venuto da voi, avrei per una volta fatto un po' di colazione in cucina, vi avrei fatto portare i miei abiti dalla mia stanza, per farla breve se mi fossi comportato in modo razionale non sarebbe accaduto altro, e tutto, fosse quel che fosse, sarebbe stato soffocato. Si è così poco preparati, tuttavia. Alla banca per esempio sono preparato, lì sarebbe impossibile che mi capitasse una cosa simile, ho una persona al mio servizio, lì, il telefono esterno e quello interno stanno davanti a me sul tavolo, continua a venire gente, impiegati e clienti; inoltre e soprattutto lì sono sempre operativo, per cui ci sto con la testa, lì sarebbe addirittura un passatempo per me venir confrontato con una faccenda simile. Ora è passata e in effetti non ne volevo nemmeno parlare, desideravo solo sentire il vostro giudizio, il giudizio di una donna assennata, e sono molto lieto che siamo d'accordo. Però ora dovete porgermi la mano, trovarsi d'accordo così deve venir consolidato da una stretta di mano.”
Me la porgerà la mano? L'ispettore non l'ha fatto, pensò lui guardando la donna che, diversamente da prima, lo scrutava. Lei si levò perché anche lui si era levato, un po' imbarazzata poiché non aveva capito tutto quello che aveva detto K. Conseguentemente a tale imbarazzo disse però qualcosa che non voleva affatto dire e che non c'entrava proprio: “ma non fatela tanto difficile, signor K.”, disse, aveva il pianto nella voce e naturalmente scordò la stretta di mano. “Non sapevo di farla difficile”, disse K. con improvvisa stanchezza, capendo la vanità di tutta l'approvazione di quella donna.
Ancora sulla porta chiese: “la signorina Buerstner è in casa?” “No”, disse la signora Grubach, sorrise di tale informazione ridotta all'osso e ne dette una ragionevolmente più ampia. “E' a teatro. Desiderate qualcosa da lei? Devo dirle qualcosa?” “Oh, volevo solo scambiarci due parole.” “Purtroppo non so quando viene; quando è a teatro di solito torna tardi.” “Va bene lo stesso”, disse K. e inchinava già la testa andando verso la porta, “volevo solo scusarmi con lei per averle occupato la stanza, oggi.” “Non serve, signor K., avete troppi riguardi, la signorina Buersrtner non ne sa proprio nulla, non era a casa già dal primo mattino e tutto è stato rimesso in ordine, vedete voi stesso.” E aprì l'uscio che dava nella stanza della signorina Buerstner. “Grazie, lo credo anch'io”, disse K., però si diresse verso l'uscio aperto. La luna splendeva serena nella stanza buia. Per quanto si poteva vedere tutto era davvero al suo posto, neanche la camicetta stava più appesa alla maniglia della finestra. Faceva spettacolo l'altezza dei cuscini sul letto, in parte illuminati dalla luce della luna. “La signorina Buersrtner torna spesso a casa tardi”, disse K. guardando la signora Grubach come se lei ne avesse la giustificazione. “E' tanto giovane!”, disse a mo' di scusante la signora Grubach. “Certo, certo”, disse K., “però capita di passare i limiti.” “E' vero”, disse la signora Grubach, “come dite bene, signor K. E proprio in questo caso. Non voglio certo denigrare la signorina Buerstner, è una ragazza buona e cara, gentile, ordinata, puntuale, lavoratrice, ciò lo apprezzo molto, ma una cosa è vera, dovrebbe essere più altera, riservata. Questo mese l'ho già vista due volte in strade fuori mano e sempre insieme a un signore diverso. Mi addolora molto, lo racconto, Dio mi è testimone, solo a voi, signor K., ma sarà inevitabile che ne parli anche con la signorina Buersrtner. Del resto non è l'unica cosa che m'insospettisce.” “Siete del tutto fuori strada”, disse K., adirato e quasi incapace di nasconderlo, “del resto avete capito male anche la mia osservazione sulla signorina Buersrtner, non mirava a questo. Vi metto in guardia sinceramente dal dire un qualcosa alla signorina Buersrtner, sbagliate completamente, io la conosco molto bene, non c'è nulla di vero in quel che dicevate. Del resto forse esagero, non ho intenzione di impedirvi di dirle ciò che volete. Buona notte.” “Signor K.”, disse la signora Grubach implorante seguendolo fino alla sua porta, da lui già aperta, “davvero non ho intenzione di parlare con la signorina Buersrtner, è naturale che prima io voglia ancora continuare a studiarla, vi ho solo confidato quel che sapevo. In fin dei conti è necessario conoscere ogni inquilino quando si cerca di mantenere la pensione pulita, non sto mirando a nient'altro.” “Pulizia!” esclamò K. che era ancora sulla porta appena aperta, “se volete mantenere pulita la pensione, per prima cosa dovete mandare via me.” Poi la chiuse senza badare più a un certo leggero bussio.
Decise, dal momento che non aveva nessuna voglia di dormire, di restare sveglio e con ciò di accertarsi di quando sarebbe tornata la signorina Buerstner. Magari avrebbe potuto anche parlarci un po', per quanto sconveniente ciò potesse essere. Stette alla finestra, strinse gli occhi stanchi e per un momento pensò addirittura di castigare la signora Grubach convincendo la signorina Buerstner a lasciare insieme a lui la pensione. Subito però la cosa gli sembrò tremendamente esagerata, stava prendendo ciò che era successo la mattina come scusa per cambiare abitazione, sospettò suo malgrado. Nulla di più insensato e soprattutto di più vano, e di più vile.
Quando fu stufo di star lì a guardare le strade vuote si mise sul canapè dopo aver socchiuso la porta che dava sull'anticamera per poter vedere subito da quella posizione chiunque entrasse in casa. Più o meno fino alle 11 se ne stette tranquillo a fumare una sigaretta. Dopo però ne ebbe abbastanza e andò un po' in anticamera come se con questo potesse affrettare l'arrivo della signorina Buerstner. Non che ne avesse alcun particolare desiderio, non era nemmeno in grado di ricordarsene bene l'aspetto, ma ora voleva parlarci, e lo irritava che lei tardando recasse inquietudine e disordine anche in coda a quella giornata. Aveva anche colpa del fatto che lui non aveva cenato e aveva trascurato di far la progettata visita a Elsa. D'altra parte poteva riparare a entrambe le cose andando ora alla mescita dove lavorava Elsa. Aveva intenzione di farlo più tardi, dopo aver parlato con la signorina Buerstner.
Erano più delle 11 e mezzo quando si udì qualcuno per le scale. K., che abbandonato ai suoi pensieri camminava qua e là rumorosamente nell'anticamera come se quella fosse camera sua, scappò dietro la propria porta. Era la signorina Buerstner, era arrivata. Rabbrividendo di freddo nel chiudere la porta si avvolse le scarne spalle con uno scialle di seta. Tra un momento sarebbe entrata nella sua stanza dove certo K. non poteva permettersi di infilarsi a quell'ora; per cui doveva rivolgerle la parola subito, però sfortunatamente non aveva acceso la luce elettrica in camera sua, per cui farsi avanti dal buio sarebbe sembrato un agguato, come minimo una cosa da far spavento. Non sapendo che fare e in mancanza totale di tempo, sussurrò dalla porta socchiusa: “signorina Buerstner.” Aveva il tono di una preghiera, non di un richiamo. “Chi è?” chiese la signorina facendo tanto d'occhi e guardandosi attorno. “Sono io”, disse K. muovendosi verso di lei. “Oh, signor K.!” disse la signorina Buersrtner sorridendo. “Buona sera”. Gli porse la mano. “Volevo dirvi due parole, me lo concedete ora?” “Subito?” chiese la signorina Buersrtner, “proprio ora? Non è un po' insolito?” “Vi aspetto dalle 9.” “Mah, ero a teatro, non sapevo mica di voi.” “Il motivo per cui desidero parlarvi è emerso soltanto oggi.” “Ah, non è che abbia qualcosa in contrario, così per principio, solo che sono stanca morta. Venite da me per qualche minuto. Qui davvero non possiamo parlare, svegliamo tutti e mi spiacerebbe più per noi che per la gente. Aspettate che accenda la luce in camera mia e poi spegnetela qui.” K. eseguì, poi però aspettò fino a quando la signorina Buersrtner, fuori dalla sua stanza, lo incoraggiò di nuovo a voce bassa. “Sedetevi qui”, disse indicandogli l'ottomana, lei restando in piedi vicino a una colonna del letto, nonostante la stanchezza di cui aveva parlato; non si tolse neppure il cappello, piccolo ma strapieno di ornamenti floreali. “Che cosa desiderate dunque? Sono davvero curiosa.” Sovrappose leggiadra le gambe. “Forse direte”, iniziò K., “che la cosa non è così urgente da dirsi ora, però ...” “I preamboli faccio sempre come se non li sentissi”, disse la signorina Buersrtner. “Questo facilita il mio compito”, disse K. “La vostra stanza stamani in certo qual modo per colpa mia è stata messa un po' in disordine, lo fecero degli estranei a dispetto della mia volontà, eppure, come ho detto, per colpa mia; di questo volevo chiedervi scusa:” “La mia stanza?” chiese la signorina Buersrtner, e invece che la stanza, guardò indagatrice K. “E' così”, disse K. ed entrambi si guardarono per la prima volta negli occhi, “la ragione e il modo per cui ciò avvenne in sé non merita verbo alcuno.” “Però in effetti è interessante”, disse la signorina Buersrtner. “No”, disse K. “Ora, non voglio immischiarmi in cose segrete”, disse la signorina Buersrtner, “se insistete che non è interessante non intendo fare obbiezioni. Come voi mi chiedete, vi scuso volentieri, in particolare perché non riesco a trovare alcuna traccia di disordine.” Le scarne mani affondate sui fianchi, fece un giro nella stanza. Si fermò alla stuoia con su le fotografie. “Guardate, però”, disse ad alta voce, “le mie fotografie sono tutte a soqquadro. Però, è orribile. Qualcuno dunque è stato nella mia stanza senza autorizzazione.” K. annuì e maledisse in silenzio l'impiegato Kaminer, che non riusciva mai a frenare la sua monotona e stupida vivacità. “E' insolito “, disse la signorina Buersrtner, “che io sia costretta a proibirvi qualcosa che voi stesso dovevate proibire, cioè che si entrasse in camera mia in mia assenza.” “Ma ve lo spiegai, signorina Buersrtner”, disse K. avvicinandosi anche lui alle fotografie, “non fui io a violare le fotografie; ma poiché non mi credete devo ammettere che la commissione istruttoria ha condotto qui tre impiegati della banca uno dei quali, che quanto prima butterò fuori, probabilmente ha preso in mano le fotografie.” “Sì, una commissione istruttoria qui”, continuò K., infatti la signorina Buersrtner lo guardava con aria interrogativa. “Su di voi?” chiese. “Sì”, rispose K. “No”, esclamò lei, e si mise a ridere. “Però”, disse K., “ci credete che io sia innocente?” “Ora, innocente ...”, disse lei, “non ho intenzione di esprimere un giudizio impegnativo, neppure vi conosco, tuttavia bisogna essere un gran delinquente per vedersi appioppata così senza mediazioni una commissione istruttoria. Poiché però siete libero – almeno lo concludo dalla vostra calma, che non siete incappato nell'incarcerazione – non potete essere incorso in un crimine.” “Sì”, disse K., “ma la commissione istruttoria può aver compreso anche che non sono colpevole, oppure non così colpevole come presunto.” “Certo, può essere”, disse la signorina Buersrtner assai guardinga. “Vedete”, disse K., “voi non avete molta esperienza in fatto di giustizia. “ “No, non ne ho”, disse lei, “e spesso me ne sono rammaricata, difatti mi piacerebbe sapere tutto e sommamente m'interessano le cose della giustizia. I tribunali hanno un fascino particolare, no? Tuttavia completerò di sicuro le mie conoscenze in merito, difatti il mese prossimo entro in uno studio legale come segretaria.” “E' una cosa molto buona”, disse K., “allora potrete aiutarmi un po' nel mio processo.” “Potrebbe essere”, disse la signorina Buersrtner, “perché no? Impiegherò volentieri le mie conoscenze.” “Dico sul serio”, disse K., “o almeno per metà sul serio come intendete voi. La faccenda non è al livello di un avvocato, ma di un consigliere potrei aver bisogno.” “Sì, ma come consigliere dovrei sapere di che si tratta”, disse la signorina Buersrtner. “E' proprio questa la difficoltà”, disse K., “non lo so neanch'io.” “Allora vi siete permesso di prendermi in giro”, disse la signorina Buersrtner con gran disinganno, “era inutile al massimo grado scegliersi quest'ora di notte per farlo.” Si staccò dalle fotografie, dove lui e lei erano rimasti insieme tanto a lungo. “Ma no, signorina Buersrtner”, disse K., “non vi ho presa in giro affatto. Peccato che non mi vogliate credere! Già vi ho detto quello che so. Forse più di quello che so, difatti mica si trattava di una commissione istruttoria, la chiamo così perché non ne so alcun altro nome. Non vi fu alcuna istruttoria, venni arrestato e basta, ma non da una commissione.” La signorina Buersrtner sedette sull'ottomana e rise di nuovo: “E cos'era allora?” chiese. “Una cosa spaventosa”, disse K. senza neppure pensarci, tutto preso dalla vista della signorina Buersrtner, che appoggiava il viso su una mano – il gomito sul cuscino dell'ottomana – mentre con l'altra mano si sfiorava lentamente il fianco. “E' troppo generico”, disse lei. “Che cosa è generico?” chiese K. Poi si riprese e chiese: “Devo descrivervi com'è stato?” Voleva far qualcosa, ma non andar via. “Sono già stanca”, disse la signorina Buersrtner. “Tornaste così tardi”, disse K. “Ora finisce che vengo rimproverata, è anche giusto, difatti non avrei dovuto farvi entrare. E non serviva nemmeno, come si è dimostrato.” “Era necessario, ora lo vedrete”, disse K. “Posso staccare dal letto il tavolino da notte?” “Ma che cosa vi viene in mente?” disse la signorina Buersrtner, “certo che no!” “Allora non posso farvi vedere”, disse K. esasperato, come se gli si si recasse un danno smisurato. “Sì, se vi serve alla dimostrazione, allora tiratelo indietro, il tavolino, ma piano”, disse la signorina Buersrtner aggiungendo poi, a voce affievolita: “sono così stanca che concedo più di quanto è bene concedere.” K. piazzò il tavolino nel mezzo della stanza e vi si mise dietro. “Dovete immaginare correttamente la distribuzione dei personaggi, ciò è molto interessante. Io sono l'ispettore, là sul baule siedono due guardie, vicino alle fotografie si trovano i tre giovani. Alla maniglia della finestra è appesa una camicetta bianca, la menziono solo di sfuggita. E ora comincia. Anzi, mi dimentico il personaggio principale, io mi trovo qui davanti al tavolino. L'ispettore sta seduto con la massima comodità, le gambe accavallate, un braccio qui attaccato al dietro della spalliera, un tanghero come pochi. E ora comincia sul serio. L'ispettore chiama come se dovesse svegliarmi, addirittura urla, anch'io purtroppo sono costretto a urlare, se voglio farvi capire, d'altra parte si tratta solo del mio nome, che quello urla.” La signorina Buersrtner, che sorridendo stava a sentire, portò l'indice sulla bocca per impedire che K. urlasse, ma tardi, K. era troppo dentro la parte, gridò lentamente “Joseph K.!”, del resto non tanto a voce alta come aveva minacciato, eppur tuttavia in un modo per cui il grido, cacciato all'improvviso, parve diffondersi nella stanza solo pian piano.
Fu bussato all'uscio della stanza accanto diverse volte, con forza, a colpi brevi e regolari. La signorina Buerstner impallidì e si mise le mani sul cuore. K. ne fu spaventato in modo particolare in quanto per un po' non era stato capace di pensare ad altro che ai fatti della mattina e alla ragazza cui lui li rappresentava. Appena ripresosi balzò verso la signorina Buersrtner e le prese una mano. “Non abbiate alcun timore”, mormorò, “metterò io tutto a posto. Ma chi può essere? Qui accanto c'è solo la stanza di soggiorno, dove non dorme nessuno.” “No” mormorò a sua volta la signorina Buersrtner all'orecchio di K., “da ieri ci dorme un nipote della signora Grubach, un capitano. Tutte le camere sono occupate. Anch'io me n'ero dimenticata. Ma dovevate urlare così? Ne sono sgomenta.” “Non ve n'è motivo alcuno”, disse K. e, quando lei affondò nel cuscino, le baciò la fronte. “Via, via”, disse lei tirandosi di nuovo su in fretta, “andate, andate, una buona volta. Che cosa volete, lui sta ad ascoltare alla porta, sente tutto. Voi mi tormentate in un modo!” “Non me ne vado”, disse K., “finché non vi calmate un po'. Venite dall'altra parte della stanza, lì non ci può sentire.” Lei vi si lasciò guidare. “Voi non considerate”, le disse, “che per voi si tratta di un fastidio, certo, ma non di un rischio, assolutamente no. Lo sapete quanto la signora Grubach mi veneri, addirittura, e quanto creda in modo incondizionato a tutto quello che dico, ed è lei che decide in queste cose, in particolare dal momento che il capitano è suo nipote. Lei per altro dipende da me, difatti le pago un importo maggiorato. Mi faccio carico di ogni vostro suggerimento di una spiegazione del nostro esser qui insieme, basta che sia solo un po' adatto allo scopo, e garantisco di indurre la signora Grubach a credere davvero e sinceramente a tale spiegazione, non solo a crederci pro forma. Non dovete avere alcuna indulgenza per me. Qualora vogliate propalare che io vi ho colto di sorpresa, la signora Grubach verrà informata in tal senso, e ci crederà senza perdere la fiducia che ha in me, tanto mi è affezionata.” La signorina Buersrtner guardava il suolo, in silenzio e un po' accasciata. “Perché la signora Grubach non dovrebbe credere che vi ho colto di sorpresa”, continuò K. Si vide davanti la chioma di lei, rossastra, spartita, un po' gonfia, compatta. Credeva che avrebbe volto lo sguardo su di lui, invece senza cambiare postura lei disse: “perdonate, mi sono tanto spaventata per quei colpi alla porta, non per le conseguenze che potrebbe avere la presenza del capitano. C'era un tal silenzio dopo il vostro urlo, ed ecco i colpi, per ciò sono tanto spaventata, mi trovavo lì presso la porta, il rumore era quasi accanto a me. Vi ringrazio della vostra proposta, ma non la accetto. Per tutto quello che succede in camera mia posso assumermi la responsabilità, e precisamente nei confronti di tutti. Mi stupisco che non vi accorgiate di che razza di affronto per me ci sia nelle vostre proposte, naturalmente accanto alle buone intenzioni che certo riconosco. Ora però andate, lasciatemi sola, ne ho più bisogno di prima. Da quei pochi minuti che avete chiesto è uscita una mezz'ora e più.” K. le prese la mano e poi il polso: “però non ce l'avete con me, vero?” disse. Lei sfilò la mano e rispose: “No, no, non ce l'ho mai con nessuno, io.” Lui le riprese il polso, lei ora sopportò e fu in quel modo che lo condusse alla porta. Lui era fermamente deciso ad andarsene. Ma davanti all'uscio, come se non si fosse aspettato di trovarcelo, si fermò; la signorina Buersrtner ne approfittò per liberarsi della presa, aprì la porta, sgattaiolò nell'anticamera e da lì disse piano a K. “Su, venite, ora, per favore. Guardate” - indicò l'uscio del capitano da sotto il quale usciva una lama di luce - “ha acceso e si diverte a nostre spese.” “Eccomi, vengo”, disse K., svelto uscì, la strinse, la baciò sulla bocca e su tutto il viso come un animale assetato si butta con la lingua sull'acqua sorgiva finalmente trovata. Infine la baciò sulla gola e lì lasciò posate le labbra. Un rumore dalla stanza del capitano gli fece alzare lo sguardo. “Ora me ne andrò”, disse, voleva chiamare la signorina Buerstner per nome, ma non lo sapeva. Lei annuì stancamente, gli abbandonò, già quasi voltata, la mano da baciare, quasi senza sapere di farlo, e china andò in camera sua. Poco dopo K. giaceva a letto. Presto si addormentò, prima ripensò per un poco alla sua condotta, ne era soddisfatto, ma si stupì di non esserne ancor più soddisfatto; si dava seriamente pensiero per la signorina Buerstner a causa del capitano.


* Secondo capitolo de "Il processo"