venerdì 3 aprile 2020

Franz Kafka: Il processo - 1


Arresto

Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., difatti senza che avesse fatto qualcosa di male una mattina venne arrestato. La cuoca della signora Grubach, sua affittacamere, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, stavolta non venne. Ciò ancora non era mai accaduto. K. Attese ancora un po', guardò dal suo guanciale la vecchia che abitava di fronte osservarlo con una curiosità del tutto insolita, poi però, insieme sorpreso e affamato, suonò. Subito bussarono e un uomo che lui non aveva mai visto in quest'appartamento entrò. Era snello eppure di complessione solida, indossava un abito nero aderente provvisto, similmente ai completi da viaggio, di diverse pieghe, tasche, fibbie, bottoni, e di una cintura, per cui, senza che si capisse bene a che cosa servisse, sembrava particolarmente pratico. “Chi siete?”, chiese K. subito, a metà tirandosi su nel letto. L'uomo trascurò tuttavia la domanda come se si dovesse tollerare la sua comparsa, e disse soltanto: “Avete suonato?” “Anna deve portarmi la colazione”, disse K. cercando, soprattutto senza domande, di stabilire con l'attenzione e la riflessione chi fosse in effetti quell'uomo. Tuttavia costui non si espose troppo a lungo allo sguardo di K., ma si voltò verso l'uscio che aprì un poco per dire a qualcuno che evidentemente vi si trovava subito dietro: “Vuole che Anna gli porti la colazione.” Nella stanza accanto seguì una risatina, dal suono non fu chiaro se più persone vi partecipassero. Nonostante che l'estraneo non potesse essersi informato in merito alla colazione di nulla che già in precedenza non sapesse, disse però a K. nel tono di un annuncio: “E' impossibile.” “Sarebbe una novità”, disse K., saltò su dal letto e indossò i calzoni. “Ma voglio vedere che ci fa questa gente nella stanza accanto e come la signora Grubach mi giustificherà questo disturbo.” Certo gli venne subito in mente che non avrebbe dovuto dirlo a voce alta e che con ciò in certo qual modo lui riconosceva un diritto di controllo all'estraneo, ma per il momento questo non gli parve importante. Comunque l'estraneo la intese in quel modo, difatti disse: “Non è meglio che restiate qui?” “Non voglio restar qui né venir interpellato da voi fintanto che non vi presentate.” “Ben detto”, disse l'estraneo aprendo quindi deciso l'uscio. Nella stanza accanto, in cui K. entrò con più lentezza di quanto volesse, alla prima occhiata tutto appariva in ordine quasi come la sera prima. Si trattava del soggiorno della signora Grubach, forse in esso, strapieno di mobili, tovaglie, porcellane e fotografie, oggi v'era un po' più spazio del solito, non si capiva subito, tanto meno lo si capiva essendo il principale mutamento la presenza di un uomo che sedeva presso la finestra aperta con un libro da cui ora sollevò lo sguardo. “Avreste dovuto restare in camera vostra! Non ve l'ha detto Franz?” “Va be', ma cosa volete?”, disse K. volgendo lo sguardo dalla nuova conoscenza a quella chiamata Franz, il quale era rimasto sulla porta e poi era tornato indietro. Dalla finestra aperta si scorgeva di nuovo la vecchia che con curiosità davvero senile era passata a una ulteriore finestra di fronte per continuare a vedere tutto. “Io comunque voglio la signora Grubach”, disse K. muovendosi come per liberarsi dai 2 uomini, che tuttavia erano distanti da lui, con l'intenzione di proseguire. “No”, disse l'uomo alla finestra, gettò su un tavolino il libro e si alzò. “Non siete autorizzato ad andarvene, voi siete anzi in arresto.” “Ne ha l'apparenza”, disse K. “Ma perché?” chiese poi. “Non ci è stato ordinato di dirvelo. Andate nella vostra stanza e aspettate. Il procedimento è avviato e saprete tutto a tempo debito. Oltrepasso il mio compito se mi rivolgo a voi in modo così gentile. Tuttavia spero che nessuno mi senta oltre a Franz, anche lui gentile con voi a dispetto di ogni regolamento. Qualora abbiate anche più avanti la stessa fortuna nella designazione della vostra guardia, allora potete essere ottimista.” K. intendeva sedersi, ma ora vide che in tutta la stanza non ve n'era alcuna opportunità, a parte la sedia presso la finestra. “Capirete anche quanto tutto ciò sia vero”, disse Franz insieme all'altro dirigendosi su K. In particolare il secondo, che lo superava considerevolmente in altezza, gli appioppò svariati colpetti sulle spalle. Entrambi tastarono la camicia da notte di K. e dissero che ora lui avrebbe dovuto indossarne una molto peggiore, che però loro avrebbero custodito quella camicia e anche il resto della sua biancheria e, qualora la cosa dovesse andare a finir bene, gliela avrebbero restituita. “E' meglio che voi diate le cose a noi piuttosto che darle al deposito”, dissero, “difatti al deposito spesso avvengono sottrazioni e inoltre dopo un certo tempo si vende tutto senza considerare se il procedimento in questione è terminato o no. E quanto durano processi del genere, specie negli ultimi tempi! Poi alla fine certo ricevete il ricavato dal deposito, ma questo ricavato intanto è già minimo, difatti, prima cosa, nella vendita non è decisiva l'altezza dell'offerta ma il grado di corruzione, seconda cosa questi ricavati diminuiscono, conformemente all'esperienza, qualora vengano passati di mano in mano, e di anno in anno.” K. badò appena a quel discorso, non valutava molto il diritto di disporre della sua roba, del quale forse ancora lui era in possesso, molto più importante era per lui avere chiara la sua situazione; in presenza di tali persone tuttavia non era neppure in grado di pensare, il ventre della seconda guardia – non potevano essere altro che guardie - continuava a urtare, in apparenza amichevolmente, su di lui, che però guardò in su e vide una faccia ossuta e asciutta nient'affatto adatta a quel pancione, dal naso molto storto, la quale al di sopra di lui faceva cenni d'intesa all'altra guardia. A cosa miravano? Di che parlavano? A quale autorità appartenevano? K. viveva in uno Stato di diritto, ovunque regnava la pace, tutte le leggi restavano in vigore, chi osava acchiapparlo all'improvviso nella sua abitazione? Lui tendeva a prendere tutto il più possibile alla leggera, a pensare il peggio solo all'arrivo del peggio, a non preoccuparsi affatto del futuro neppure quando era un futuro tutto minaccioso. Il caso presente non gli pareva vero, certo si poteva guardare al tutto come a uno scherzo, come a un grossolano scherzo che per motivi ignoti, forse perché oggi era il suo 30° compleanno, i colleghi di banca gli avevano organizzato, naturalmente era possibile, forse bastava che lui, diciamo, ridesse in faccia alle guardie, e anche loro avrebbero riso, forse si trattava dei facchini all'angolo, non erano diversi da quelli – nonostante ciò in effetti già al primo sguardo della guardia di nome Franz, ora, K. decise di rinunciare anche al minimo giudizio di cui magari lui disponeva nei confronti di quei due. Nel fatto che poi si sarebbe detto che lui non aveva capito lo scherzo K. vedeva un rischio minimo, ma si rammentò – senza che fosse sua abitudine imparare dalle esperienze – di alcuni casi in sé insignificanti nei quali lui a differenza dei suoi amici si era comportato consapevolmente in modo incauto senza alcuna considerazione delle possibili conseguenze, per cui come risultato era stato punito. Non doveva accadere di nuovo, soprattutto stavolta, se era una commedia allora lui intendeva parteciparvi.
Era ancora libero. “Mi consentano”, disse passando in fretta tra le guardie per andare nella sua stanza. “Pare esser ragionevole”, sentì dire alle sue spalle. In camera aprì subito i cassetti della scrivania, tutto era in ordine, ma proprio i documenti d'identità che cercava non riuscì a trovarli immediatamente, turbato com'era. Finalmente trovò il patentino da ciclista e già intendeva andare dalle guardie con quello, però poi gli sembrò un documento troppo insignificante e cercò ancora, finché non trovò il certificato di nascita. Quando fu tornato nella stanza accanto si aprì l'uscio proprio dirimpetto, la signora Grubach intendeva entrare. La si vide solo per un momento, poi non appena si accorse di K. palesemente imbarazzata chiese scusa e con estrema attenzione chiuse l'uscio. “Ma entrate”, poté appena dire K., invece si fermò in mezzo alla stanza con le sue carte, guardò ancora in direzione dell'uscio, che non si riaprì, e bastò a farlo sobbalzare una voce delle guardie, che sedevano presso la finestra aperta e, come vide K. , mangiavano la sua colazione. “Perché non è entrata?”, chiese lui. “Non le è permesso”, disse la guardia grassa. “Siete bene in arresto”. “Ma come posso essere in arresto così in questo modo?” “Ora ricominciate”, disse la guardia inzuppando un panino al burro in un vasetto di miele. “A tali domande noi non rispondiamo.” “Loro devono rispondere”, disse K. “Ecco i miei documenti d'identità, mostratevi i vostri e soprattutto l'ordine di arresto!” “Dio del cielo!”, disse la guardia, “è possibile che non riusciate a rassegnarvi alla vostra situazione e che a quanto pare abbiate intenzione di provocarci a vanvera, noi, che ora probabilmente tra tutti i vostri simili vi siamo i più vicini?” “Davvero, credete a noi”, disse Franz senza portarsi alla bocca la tazza di caffè che teneva in mano, ma dando a K. una lunga e forse significativa ma incomprensibile occhiata. K. arrischiò senza volere un dialogo fatto di sguardi con Franz, poi tuttavia dette un colpo sulle sue carte e disse: “Ecco i mie documenti d'identità.” “E a noi che ce ne importa?”, fece la guardia grassa, “fate le bizze come un bambino. Ma che volete? Volete porre rapido termine al vostro maledettissimo processo discutendo con noi, che siamo le guardie, di identità e di ordine d'arresto? Noi siamo modesti impiegati che s'intendono appena di documenti di identità e con la vostra faccenda non hanno niente a che fare, se non sorvegliarvi 10 ore al giorno e per questo venir pagati. E' tutto quel che siamo, ma ciò nonostante sappiamo capire che le alte autorità al cui servizio siamo prima di disporre un simile arresto s'informano con gran precisione sui motivi dell'arresto e sulla persona dell'arrestato. Non v'è alcun equivoco. La nostra autorità, a quanto ne so, e ne so il minimo, non cerca mica la colpa, diciamo, nel popolo, ma viene dalla colpa attirata, come recita la legge, ed è costretta a inviare noi guardie. E' la legge. Dove sarebbe l'equivoco?” “Questa legge non la conosco”, disse K. “Peggio per voi”, disse la guardia. “Ma esiste solo nella vostra testa”, disse K. volendo in qualche modo insinuarsi nei pensieri della guardia, volgerli a suo favore oppure ambientarvisi. La guardia però bruscamente si limitò a dire: “Riuscirete a capirlo.” Franz s'inserì e disse: “Vedi Willem, lui ammette di non conoscere la legge e afferma allo stesso tempo di essere senza colpa.” “Hai proprio ragione, ma non si può farglielo capire”, disse l'altro. K. non rispose più niente; devo ancora lasciarmi confondere, pensò, dalle chiacchiere di questi bassi esecutori – come loro ammettono di essere? Stanno in ogni modo parlando di cose che proprio non capiscono. La loro sicurezza è resa possibile dalla loro stupidità. Due parole insieme a un uomo del mio rango chiariranno tutto, tutt'altro che i lungi discorsi con questi qui. Si mosse su e giù diverse volte dove c'era posto nella stanza, vide la vecchia là davanti, aveva trascinato alla finestra uno ancora più vecchio e se lo teneva stretto a sé; K. doveva por fine a tale spettacolo: “Mi portino dal loro superiore”, disse. “Quando lui lo desidera, non prima”, disse la guardia chiamata Willem. “Ora vi consiglio”, proseguì, “di andare nella vostra stanza, di stare tranquillo e di aspettare ciò che verrà disposto su di voi. Vi consigliamo di non perdervi in pensieri inutili, ma di concentrarvi, importanti cose vi saranno richieste. Non vi siete comportato con noi come la nostra gentilezza avrebbe richiesto, avete dimenticato che in confronto a voi almeno ora, e magari per sempre, siamo uomini liberi, non è mica una piccola differenza di peso. Ciò nonostante siamo pronti, se avete i soldi, a portarvi dal caffè di fronte una modesta colazione.”
Senza rispondere a tale offerta K. rimase in silenzio per un po'. Forse quei due non si sarebbero azzardati, se lui avesse aperto l'uscio della stanza vicina, o perfino quello dell'ingresso, a impedirglielo, forse sarebbe stata la soluzione più facile dell'intera cosa, che lui ricorresse all'estremo rimedio. Forse invece lo avrebbero impacchettato, e una volta domato lui avrebbe perso anche tutta la superiorità che ancora nei loro confronti da un certo punto di vista manteneva. Perciò preferì la certezza della soluzione che il prosieguo naturale doveva comportare, e tornò nella sua stanza, senza che né da parte sua né da parte delle guardie venisse detto altro.
Si buttò sul letto e dal tavolino da notte prese una bella mela che aveva preparato la sera prima per la colazione. Adesso era la sua unica colazione, comunque, come accertò al primo gran morso, molto migliore di quel che sarebbe stata la colazione venuta dal lurido caffè che per grazia delle guardie lui avrebbe ricevuto. Si sentì bello ottimista, certamente in mattinata il lavoro in banca lo mancava, ma ciò, data la posizione relativamente alta che vi aveva, era facilmente giustificato. Doveva addurre la giustificazione vera? Pensò di sì. Se non gli avessero creduto, cosa in questo caso comprensibile, avrebbe portato a testimone la signora Grubach, o anche quei due vecchi là, tuttora mobilitati alla finestra di fronte. Stupiva K., almeno stando al modo di ragionare delle guardie, che lo avessero mandato in camera e lo avessero lasciato solo dove aveva la possibilità dieci volte maggiore di uccidersi. Insieme d'altronde si chiese, stavolta secondo il suo modo di ragionare, che motivo mai avesse di farlo. Perché quei due di là, per dire, se ne stavano seduti a mangiargli la colazione? Sarebbe stato così insensato uccidersi che anche se lui avesse voluto farlo non ne sarebbe stato capace a causa proprio di quell'insensatezza. Non fosse stata tanto vistosa la ristrettezza mentale delle guardie, si sarebbe potuto ammettere che anch'essi, a seguito di una certezza uguale, non avessero visto alcun pericolo nel fatto di lasciarlo solo. E se intendevano guardarlo mentre andava all'armadietto a muro dove teneva una buona acquavite e ne vuotava prima un bicchierino al posto della colazione, poi ne destinava un secondo allo stesso scopo, ciò solo in previsione dell'improbabile caso che ve ne fosse necessità, magari lo avrebbero incoraggiato.
In quella un grido dalla stanza accanto lo spaventò al punto di urtare i denti sul vetro. “Vi convoca l'ispettore!”. Solo l'urlo lo spaventò, reciso, breve, militaresco, di cui lui non avrebbe creduto capace la guardia Franz. In sé il comando gli fu assai benvenuto, “finalmente”, dichiarò in risposta, chiuse l'armadietto a muro e corse subito nella stanza accanto. Le due guardie che si trovavano là lo ricacciarono, come fosse cosa ovvia, nella sua stanza. “Che vi viene in mente?”, gridarono, “intendete andare dall'ispettore in camicia? Lui vi fa bastonare, e noi con voi!” “Lasciatemi, porco demonio”, gridò K., già ricacciato fino all'armadio, “quando mi si prende di sorpresa a letto non ci si può aspettare di trovarmi con l'abito da cerimonia.” “Smettetela”, dissero le guardie che sempre quando K. urlava si facevano quieti, anzi quasi mesti, e con ciò lo confondevano, o in certo qual modo lo facevano ritornare in sé. “Cerimonie ridicole!”, bofonchiò, tuttavia già levando una giacca dalla sedia e reggendola per un pochino con entrambe le mani come per presentarla al giudizio delle guardie. Che scossero il capo. “Dev'essere nera”, dissero. Al che K. la buttò per terra e disse, senza sapere in qual senso lo dicesse: “Non è ancora mica l' udienza d'apertura in tribunale.” Le guardie sorrisero senza però scostarsi dal loro “dev'essere nera”. “Se con questo accelero la faccenda, mi sta bene”, disse K., aprì di suo l'armadio, cercò a lungo tra gli abiti, scelse il suo migliore vestito nero, un completo avvitato che tra i conoscenti aveva fatto quasi scalpore, indossò un'altra camicia e iniziò a vestirsi accuratamente. In generale riteneva così di aver ottenuto un'accelerazione della cosa, e che le guardie avessero dimenticato di costringerlo a lavarsi. Li guardò, magari se ne sarebbero ricordati, ma naturalmente a quelli non venne nemmeno in mente, al contrario Willem non dimenticò di mandare Franz dall'ispettore con l'annuncio che K. si vestiva.
Una volta vestito di tutto punto dové, precedendo di poco Willem, attraversare la stanza accanto, vuota, e andare nell'altra, il cui uscio aveva già i battenti aperti. Era una stanza abitata da poco tempo, come K. ben sapeva, da una certa signorina Buerstner, dattilografa, che di solito andava molto presto al lavoro, tornava tardi e con K. aveva scambiato non molto più del saluto. Adesso il tavolino da notte era spostato rispetto al letto nel mezzo della stanza a mo' di tavolo per udienze. Vi sedeva l'ispettore. Aveva le gambe accavallate e teneva un braccio sulla spalliera della sedia. In un angolo della stanza c'erano tre giovani che guardavano le fotografie della signorina Buerstner, attaccate a una stuoia appesa al muro. Alla maniglia della finestra, aperta, era appesa una camicetta bianca. Alla finestra di fronte stavano ancora i due vecchi, ma a loro si erano aggiunta un'altra persona, un uomo che alle loro spalle li sovrastava di molto, aveva una camicia aperta sul petto e con le dita si premeva e rigirava il pizzo rossiccio.
Joseph K.?”, chiese l'ispettore forse solo per richiamare su di sé lo sguardo distratto di K. K. annuì. “Vi sorprende davvero molto quel che sta accadendo stamani?”, chiese l'ispettore spostando intanto con entrambe le mani quel po' di oggetti che si trovavano sul tavolino da notte, la candela, i fiammiferi, un libro e un porta aghi, quasi fossero cose che gli servivano per l'udienza. “Certo”, disse K., preso dalla piacevole sensazione di trovarsi finalmente di fronte un uomo ragionevole e di poter parlare con lui della sua cosa, “certo che sono sorpreso, ma tutt'altro che molto sorpreso.” “Non molto sorpreso?”, chiese l'ispettore mettendo ora attorno alla candela, nel centro del tavolino, gli altri oggetti. “Forse mi fraintendete”, si affrettò a precisare K.. “Voglio dire” - qui s'interruppe e si guardò attorno alla ricerca di una sedia. “Ma posso sedermi?”, chiese. “Non si usa”, rispose l'ispettore. “Voglio dire”, disse K. senz'altra pausa, “certo che sono assai sorpreso, ma quando si è al mondo da 30 anni e si è dovuto farsi largo da sé come è toccato a me, si è fatto il callo alle sorprese e non le patiscono troppo. In particolare questa di oggi.” “Perché in particolare questa di oggi?” “Non voglio dire che io considero tutto ciò uno scherzo, tuttavia la messa in scena a me pare eccessiva. Aver dovuto coinvolgere tutti i membri della pensione, voi tutti inoltre, ha oltrepassato i limiti di uno scherzo. Non intendo dunque dire che sia uno scherzo.” “Giustissimo”, disse l'ispettore verificando il numero dei fiammiferi che si trovavano nella loro scatola. “D'altra parte”, continuò K. e si volse verso tutti; avrebbe volentieri attirato l'attenzione anche dei 3 presso le fotografie; “D'altra parte può anche darsi che non siano cose molto importanti. Arguisco di essere incriminato, ma non riesco a rintracciare il più piccolo delitto per cui s'è potuto incriminarmi. Anche questo però è secondario, la questione principale è: da chi sono incriminato? Qual è l'autorità che conduce il procedimento? Siete un funzionario? Nessuno ha un'uniforme, a meno che si voglia denominare il vostro abito” - e si volse verso Franz - “come un'uniforme, quando invece è un abito da viaggio. A queste domande esigo chiare risposte e sono persuaso che dopo tale chiarimento noi potremo congedarci reciprocamente in modo cordiale.” L'ispettore abbassò con un colpo la scatola dei fiammiferi sul tavolo. “Vi trovate gravemente in errore”, disse. “I signori qui ed io siamo completamente secondari in rapporto alla faccenda, anzi dirò di più, non ne sappiamo quasi niente. Potremmo indossare le uniformi più regolamentari e la vostra cosa non sarebbe affatto peggiore. Non so assolutamente dirvi neppure che siete incriminato, o meglio non so se lo siete. Siete in arresto, questo sì, non so altro. Se gli agenti hanno chiacchierato di qualcos'altro, sono state proprio solo chiacchiere. Se dunque nemmeno io posso rispondere alle vostre domande posso invece consigliarvi, pensate meno a noi e a quel che vi succederà, attento a voi, piuttosto. Non fate tanto chiasso con quanto vi sentite innocente, ciò turba la non malvagia impressione che per il resto fate. Dovreste anche esser cauto in genere coi discorsi, quasi tutto ciò che avete detto finora si sarebbe potuto apprendere dalla vostra condotta anche se aveste detto poche parole, senza contare che assolutamente non vi giovava.”
K. guardò fisso l'ispettore. Stava ricevendo insegnamenti da scolaretto da un uomo forse più giovane? Veniva rampognato a causa della sua schiettezza? Senza sapere nulla sul motivo dell'arresto né del suo mandante? Una certa eccitazione lo colse, andò su e giù nella stanza, senza che nessuno glielo impedisse, si mise a posto i polsini, si toccò il pettorale della camicia, si ravviò i capelli, avvicinò i 3 signori, disse “ma non ha senso”, al che essi si voltarono verso di lui e lo guardarono concilianti, ma seri, e infine si fermò di nuovo davanti al tavolo dell'ispettore. “Il procuratore di Stato Hasterer è mio buon amico”, disse, “posso telefonargli?” “Certo”, disse l'ispettore, “ma non so che senso avrebbe ciò, dal momento che si tratterebbe per forza di qualche privata faccenda di cui avete da parlare con lui. ”Che senso?” gridò K., più sconcertato che arrabbiato. “Ma chi siete voi, per pretendete un senso mentre inscenate la cosa più insensata che ci sia? Ci sarebbe da piangere! Prima i signori mi prendono di sorpresa, e ora stanno in piedi o seduti qui attorno e lasciano che io faccia evoluzioni d'alta scuola davanti a voi. Che senso avrebbe telefonare a un procuratore di Stato quando, a quel che si dice, sono in arresto? Bene, non telefonerò.” “Ma fatelo”, disse l'ispettore tendendo una mano verso l'anticamera, dov'era il telefono, “fatelo pure, prego.” “No, non mi va più”, disse K., e andò alla finestra. Di là c'era ancora quella gente, la placidità del loro guardare apparentemente turbata un poco dal fatto che alla finestra era venuto K. I vecchi intendevano levarsi, ma l'uomo che avevano dietro li tranquillizzò. “C' abbiamo anche tanto di spettatori”, disse K. ad alta voce all'ispettore, indicandoglieli. “Via di là”, gridò loro. Quei tre arretrarono subito di poco, i due vecchi addirittura dietro l'uomo; questi li coprì con il suo vasto corpo e a giudicare dai movimenti della bocca disse qualcosa di incomprensibile da quella distanza. Tuttavia non sparirono completamente, ma sembrò che aspettassero il momento in cui, non visti, potevano di nuovo accostarsi. “Gente molesta, senza riguardo!”, disse K. quando si fu voltato verso la stanza. L'ispettore era d'accordo con lui, forse, come K. ritenne di capire guardandolo con la coda dell'occhio. Era però altrettanto possibile che non fosse stato neppure a sentire, infatti aveva una mano permuta sul tavolo e sembrava che ne paragonasse la lunghezza delle dita. Le due guardie sedevano su un baule nascosto da una coperta ornamentale e si massaggiavano le ginocchia. I tre giovani, le mani sui fianchi, si guardavano attorno in modo vacuo. V'era il silenzio d'un qualche ufficio dimenticato. “Orbene, miei signori”, esclamò K. parendogli di portarseli tutti sulle spalle per un momento, “stando a quel che loro mostrano esteriormente dovremmo trovarci al termine dell'udienza. Sono del parere che la cosa migliore sia non rimuginare più circa il buono o malo diritto della loro condotta e concludere la cosa con una reciproca stretta di mano di conciliazione. Se anche loro sono del mio parere, allora prego - “ e andò al tavolo dell'ispettore porgendogli la mano. L'ispettore alzò gli occhi, si mordicchiò le labbra e guardò quella mano tesa, K. continuando a credere che lui l'avrebbe stretta. Invece quello si alzò, prese una bombetta che stava sul letto della signorina Buerstner e se la mise in testa con entrambe le mani accuratamente, come si fa provando un cappello nuovo. “La fate facile voi!”, disse a K. “Dovremmo concludere con una conciliazione, credete? No, no, davvero non ci siamo. Non che io del resto voglia dire con ciò che dobbiate disperare. No, perché poi? Siete solo in arresto, tutto qui. E' quel che avevo da comunicarvi, l'ho fatto e ho visto anche come voi avete accolto la cosa. Per oggi basta così, possiamo salutarci, certo solo provvisoriamente. Intendete dunque andare alla banca?” “Alla banca?”, chiese K. ”Pensavo di essere in arresto.” K. lo chiese con una certa tracotanza, difatti per quanto la sua stretta di mano non fosse stata accolta, si sentiva, in particolare da quando l'ispettore s'era alzato, svincolato da tutte quelle persone. Giocò una parte, con loro. Era intenzionato, nel caso che se ne andassero, a seguirli fino all'uscio di casa e a dichiarasi loro pronto all'arresto. Per cui replicò: “Come faccio ad andare alla banca se sono in arresto?” “Ah, vedo”, disse l'ispettore, che era già sul portone, “mi avete capito male, siete in arresto, certo, ma ciò non v'impedisce di fare il vostro lavoro. Anche nel vostro modo di vivere non dovete subire impedimenti.” “Ma allora lo stato di arresto non è tanto serio”, disse K. avvicinandosi all'ispettore. “Mai pensato altrimenti”, disse costui. “Ma allora neppure la comunicazione dell'arresto, pare, era molto necessaria”, disse K. avvicinandosi ancora. Anche gli altri si erano avvicinati. Erano tutti insieme alle strette presso la porta. “Era il mio dovere”, disse l'ispettore. “Un dovere balordo”, disse K. con durezza. “Può darsi”, rispose l'ispettore, “ma non abbiamo intenzione di perdere il nostro tempo con discorsi del genere. Avevo supposto che intendeste andare alla banca. Dal momento che voi fate attenzione a ogni parola, aggiungo: non vi costringo ad andare alla banca, avevo solo fatto la supposizione che lo voleste. Per facilitarvi e per rendere il meno vistoso possibile il vostro arrivo alla banca, ho tenuto qui a vostra disposizione i signori, questi 3 vostri colleghi.” “Che?”, esclamò K. rimirando i tre. Quei giovani esangui, indistinguibili, che lui ricordava ancora solo raggruppati vicino alle fotografie della signorina Buerstner, erano in effetti impiegati della sua banca, non colleghi, ciò era esagerato e significava che l'onniscienza dell'ispettore presentava una lacuna, ma certo erano impiegati subordinati della banca. Come aveva fatto K. a ignorarlo? E tuttavia avevano dovuto tollerare, l'ispettore e le guardie, che lui non li riconoscesse. Il freddo Rabensteiner, quello che armeggiava con le mani, il biondo Kullich, quello con gli occhi infossati, e Kaminer, quello che sorrideva senza smettere per via di una cronica contrazione muscolare. “Buon giorno!”, disse dopo una pausa K. porgendo la mano a quei signori che si inchinarono come dovuto. “Non vi ho riconosciuto per niente. E ora dunque andremo al lavoro, no?” Quei signori annuirono ridendo e zelanti, quasi che avessero atteso tutto il tempo solo che K. si accorgesse che gli mancava il cappello, corsero tutti, uno dietro l'altro, a prenderlo in camera sua, dov'era rimasto, cosa definibile come imbarazzante. K. non si mosse e li seguì con lo sguardo attraverso le due porte aperte, l'ultimo naturalmente fu l'indifferente Rabensteiner, che si limitò a trottare con eleganza. Kaminer porse il cappello e K. fu costretto a dirsi espressamente, come d'altra parte più volte era stato immancabile in banca, che il sorriso di Kaminer non era intenzionale, ma che anzi in genere lui non riusciva a ridere di suo. In anticamera la signora Grubach, che non aveva l'aria di essere affatto consapevole della sua colpa, aprì a tutta la compagnia la porta dell'abitazione e K. , come faceva assai spesso, abbassò lo sguardo sul nastro del grembiule, stretto inutilmente in profondità su quel ventre poderoso. Dabbasso, l'orologio in mano, K. si decise a prendere un'automobile per non aumentare inutilmente il ritardo, già di mezz'ora. Kaminer corse all'angolo per chiamare una vettura, gli altri due stavano cercando apertamente di distrarre K., quando Kullich indicò a un tratto il portone prospiciente, sul quale compariva per l'appunto l'uomo con il pizzo biondo, che dapprima, un po' imbarazzato dal fatto di mostrarsi ora in tutta la sua mole, arretrò verso la parete e vi si appoggiò. I vecchi erano forse rimasti per le scale. K. si adirò con Kullich perché richiamava l'attenzione di quell'uomo che lui stesso già aveva visto, anzi, che si era addirittura aspettato di vedere. “Smettete di guardare”, proruppe senza considerare quanto strambo fosse un tal modo di dire nei confronti di uomini indipendenti. Non fu tuttavia necessaria alcuna spiegazione dato che stava arrivando l'automobile, si misero seduti e se ne andarono. In quella K. si ricordò di non aver neppure fatto caso al fatto che l'ispettore e le guardie se ne erano andati via, l'ispettore gli aveva mascherato i 3 impiegati e ora, di nuovo, gli impiegati l'ispettore. Ciò non dimostrava una gran presenza di spirito e K. si propose di tenersi meglio d'occhio in tal senso. Comunque senza volere si girò e si chinò verso il dietro dell'automobile per poter magari scorgere l'ispettore e le guardie. Subito tuttavia si voltò di nuovo senza neppure aver tentato di vedere qualcuno e si mise comodo in un angolo. Nonostante che proprio ora non sembrasse il caso, gli sarebbe stato utile parlare, ma quei signori apparivano stanchi, Rabensteiner guardava fuori dalla vettura, a destra, a sinistra Kullych <sic>, e solo Kaminer era disponibile col suo ghigno, su cui scherzare purtroppo era umanamente vietato.

*E' il primo capitolo de Il processo.



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