Nell'aula delle
assise
Lo
studente
Gli
uffici
K.
attese durante la settimana seguente giorno dopo giorno una nuova
comunicazione, non poteva credere che si fosse presa alla lettera la
sua rinuncia all'interrogatorio, e, siccome l'attesa comunicazione
ancora il sabato sera in realtà mancava, suppose di esser citato
implicitamente nello stesso edificio e alla stessa ora. Per cui vi si
recò di nuovo, di domenica, stavolta andò diretto per scale e
corridoi, v'era gente che, ricordandosi di lui, lo salutò dalla
porta, ma lui non doveva più far più domande a nessuno e presto
arrivò alla porta giusta. Bussò, gli fu subito aperto e senza
badare alla donna che aveva conosciuto, ferma sulla porta, intendeva
andar subito nella stanza accanto. “Oggi non c'è assise”, disse
lei. “Perché non dovrebbe esserci?” chiese lui, non disposto a
crederle. La donna però lo convinse aprendo la porta della stanza
accanto. Davvero era vuota e nel suo vuoto appariva ancora più
misera che non la domenica prima. Sul tavolo che non diversamente si
trovava sopra il podio c'erano alcuni libri. “Li posso guardare?”
chiese K. non per particolare curiosità, ma per non esser venuto lì
del tutto inutilmente. “No”, disse la donna richiudendo la porta,
“non è permesso. Appartengono al giudice istruttore.” “Ah
ecco”, disse K. annuendo, “sono libri certo di legge e fa parte
dello stile di questa istituzione giudiziaria che si venga giudicati
non solo da innocenti, ma anche da ignari.” “Sarà così”,
disse la donna, che non l'aveva capito bene. “Allora me ne vado”,
disse K. “Devo dire qualcosa al giudice istruttore?” chiese la
donna. “Lo conoscete?” chiese K. “Naturale”, disse la donna,
“mio marito è al servizio del tribunale.” Solo ora K. notò che
la stanza in cui l'altra volta c'era solo un mastello per lavare ora
costituiva un locale d'abitazione completamente arredato. La donna
notò il suo stupore e disse: “Sì, noi abitiamo qui gratis, ma nei
giorni di assise siamo obbligati a vuotare la stanza. Il posto di mio
marito ha parecchi svantaggi.” “Non sono stupito tanto per la
stanza”, disse K. guardando male la donna, “ma invece dal fatto
che siete sposata.” “Vi riferite forse al fatto successo durante
la scorsa assise, quando io disturbai il vostro discorso?” chiese
la donna. “Certo”, disse K., “oggi non conta più e quasi è
cosa dimenticata, ma sul momento mi ha reso addirittura furibondo. E
ora voi, a dire di essere una donna sposata.” “Non fu a vostro
svantaggio che il vostro discorso venisse troncato. In seguito lo si
è giudicato assai negativamente.” “Può darsi”, disse K.
divertito, “ma ciò non vi giustifica.” “Sono giustificata da
tutti quelli che mi conoscono”, disse la donna, “quello che mi ha
abbracciato mi sta dietro da parecchio tempo. In generale posso non
essere attraente, ma per lui lo sono. Non c'è riparo a questa cosa,
anche mio marito ci si è rassegnato; se vuole mantenere il posto lo
deve tollerare, difatti quell'uomo è studente e arriverà
prevedibilmente ad avere un potere più grande. Mi sta sempre dietro,
se ne è andato proprio prima che veniste voi.” “A ogni altro va
bene”, disse K., “ciò non mi sorprende.” “Avete intenzione
d'introdurre qui delle riforme?” disse la donna, lenta e
indagatrice, quasi che dicesse qualcosa di pericoloso tanto per lei
quanto per K. “L'ho concluso dal vostro discorso, che a me
personalmente è piaciuto molto. Del resto ne ho sentito solo una
parte, l'inizio l'ho mancato e durante la conclusione giacevo con lo
studente sul pavimento.” “Certo qui è un tale schifo”, disse
dopo una pausa, e prese la mano a K. “Credete che vi riuscirà di
migliorare le cose?” K. sorrise e ruotò un poco la sua mano nella
mano soffice di lei. “In effetti”, disse, “non sono qui per
migliorare le cose, per esprimersi come voi fate, e se lo diceste per
esempio al giudice istruttore sareste derisa, oppure verreste punita.
Di fatto non mi sarei certo immischiato di mia volontà in queste
cose, né la possibile riforma di questa istituzione giudiziaria
avrebbe mai turbato il mio sonno. Tuttavia dal momento che venni per
così dire arrestato – insomma, sono in arresto – sono stato
costretto a ingerirmi qui, senza dubbio di mia volontà. Se tuttavia
intanto posso esservi utile in qualche modo, naturalmente lo farò
molto volentieri. Non solo per amor del prossimo, diciamo così, ma
soprattutto perché anche voi potete aiutare me.” “Ma come
potrei?” chiese la donna. “Per esempio facendomi vedere i libri
là sul tavolo.” “Ma certo”, esclamò la donna e lo tirò
dietro di sé verso il tavolo. Erano vecchi libri sciupati, la
copertina di uno era nella costola quasi rotta e i suoi pezzi erano
sfibrati. “Com'è sudicio tutto, qui”, disse K. scuotendo il
capo, e la donna strofinò via con il suo grembiule almeno la polvere
superficiale prima che K. potesse prenderli. K. spalancò il libro
che stava sopra e apparve una figura indecente. Un uomo e una donna
sedevano nudi su un canapè, l'intento segreto dell'incisione era
facile da intendere, ma la sua goffaggine era così grande che in
definitiva erano visibili solo un uomo e una donna che in modo troppo
corporeo dominavano la figura, sedevano troppo eretti e a causa della
falsa prospettiva solo a fatica erano voltati l'uno all'altra. K. non
voltò le pagine del libro oltre, invece aprì il secondo libro alla
pagina del titolo, si trattava di un romanzo il cui titolo era: “Le
tribolazioni che Grete ebbe da patire da parte di suo marito.”
“Ecco i libri di legge che qui si studiano”, disse K. “Da
persone così devo essere giudicato.” “Io vi aiuterò”, disse
la donna. “Volete?” “Ma potreste farlo senza mettervi in
pericolo? Dicevate prima che vostro marito è molto dipendente dai
superiori.” “Voglio aiutarvi lo stesso”, disse la donna.
“Venite, dobbiamo parlarne. Non parlate più di quel che io
rischio, temo il rischio solo nei casi in cui voglio temerlo.
Venite.” Gli indicò il podio e lo pregò di sedersi con lei sul
gradino. “Avete dei begli occhi scuri”, disse dopo che si erano
seduti guardando da sotto K. nel viso, “lo dicono anche a me che
avrei dei begli occhi, ma i vostri sono molto più belli. Mi
piacquero subito del resto, l'altra volta, quando entraste qui,
all'inizio. Furono anche la ragione per cui poi più tardi venni
all'assemblea, cosa che altrimenti mai avrei fatto e che in certo
modo mi è proibita.” “Ecco, dunque”, pensò K., “mi si
offre, è corrotta come tutti qua attorno, è stufa degli impiegati
al tribunale, il che è certo comprensibile, per cui accoglie con
favore un qualunque estraneo con un complimento per i suoi occhi.”
E se ne stette zitto come se avesse espresso i suoi pensieri a voce
così spiegando la propria condotta alla donna. “Non credo che voi
potreste aiutarmi”, disse, “per aiutarmi davvero si dovrebbero
avere rapporti con funzionari di alto grado. Voi tuttavia certamente
conoscete gli impiegati di basso grado che fitti si aggirano qui.
Costoro certo vi conoscono assai bene e da loro potreste ottenere
parecchio, non ne dubito, ma il massimo che si potrebbe ottenere da
loro sarebbe del tutto insignificante ai fini dell'esito definitivo
del processo. Con ciò tuttavia vi sareste giocata pure alcuni amici.
Questo non lo voglio. Continuate ad avere le relazioni solite con
questa gente, mi spiego, mi sembra che ciò vi sia indispensabile.
Non lo dico senza rammarico, difatti, per rispondere in qualche modo
al vostro complimento, anche voi mi piacete, specie se come ora mi
guardate con tanta tristezza, per quanto del resto non ne abbiate
alcun motivo. Voi fate parte di questa compagine che io devo
combattere, ma vi ci trovate molto bene, amate perfino lo studente, e
se non lo amate, ugualmente lo preferite almeno a vostro marito. Fu
facile riconoscerlo dalle vostre parole. “No”, esclamò lei,
rimase seduta e prese la mano a K. che non la tirò via abbastanza
svelto. “Non potete andarvene ora, non potete andarvene
giudicandomi in modo sbagliato. Davvero siete capace di andarvene
ora? Sono davvero così spregevole che voi neppure volete farmi il
piacere di restar qui un altro momentino?” “Voi mi capite male”,
disse K. sedendosi, “se davvero vi importa che resti qui, ci resto
volentieri, il tempo non mi manca certo, sono venuto qui aspettandomi
che oggi ci fosse un dibattimento. Con quel che vi dicevo prima
desideravo solo pregarvi di non intraprendere nulla per me nel
processo che mi riguarda. Tuttavia neppure di ciò dovete
rammaricarvi, pensate invece che a me non importa nulla dell'esito
del processo, e che su una condanna ci farò una risata. Ammesso che,
in linea generale, si venga a una vera chiusura del processo, cosa di
cui dubito molto. Credo anzi che il procedimento, a causa di
infingardaggine o di smemoratezza, o forse addirittura a causa di
paura da parte dell'insieme dei funzionari, sia già sospeso o che
sarà sospeso quanto prima. Per altro è possibile anche che il
processo venga apparentemente portato avanti nella speranza di un
qualche maggior grado di corruzione, cosa del tutto inutile, come
oggi posso già dire, difatti io non corrompo nessuno. Sarebbe
tuttavia un favore che voi potreste farmi, se comunicaste al giudice
istruttore o a qualcun altro che divulga volentieri notizie
importanti, che io mai, e con nessun trucco di quelli di cui questi
signori dispongono riccamente, sarò indotto alla corruzione. Sarebbe
del tutto vano, questo potete dirglielo in modo chiaro. D'altra parte
si sarà già visto, forse, e se anche non fosse così non me ne
importerebbe molto, che era una cosa notoria. Con ciò verrebbe solo
risparmiata fatica a quei signori, e a me alcune seccature che
tuttavia volentieri mi assumo se so che ognuna è allo stesso tempo
una bastonata per gli altri. E intendo curarmene, che lo divenga. Lo
conoscete proprio il giudice istruttore?” “Naturalmente”, disse
la donna, “ci pensai subito allorché vi offrii aiuto. Non sapevo
che è solo un funzionario di basso grado, ma se lo dite voi, sarà
probabilmente vero. Ciò nonostante credo che ciò che lui relaziona
in alto abbia pur sempre qualche influenza. E di rapporti ne scrive
così tanti. Voi dite che gli impiegati sono degli infingardi, certo
non tutti, in particolare questo giudice istruttore non lo è, scrive
moltissimo. Domenica scorsa per esempio l'assise durò fino a sera.
Tutti se ne andarono, invece il giudice istruttore rimase nell'aula,
dovetti portargli una lampada, ne avevo solo una piccola, da cucina,
ma gli bastò e iniziò subito a scrivere. Intanto era arrivato anche
mio marito che quella domenica per l'appunto era libero, andammo a
prendere i mobili, ripristinammo l'arredamento della stanza, poi
vennero anche i vicini, si passò il tempo al lume di candela; per
farla breve: ci dimenticammo del giudice istruttore e andammo a
dormire. Di colpo durante la notte, doveva già essere tardi, mi
svegliai, accanto al letto c'era il giudice istruttore che faceva
schermo alla lampada con una mano per non far cadere la luce su mio
marito, cautela inutile, mio marito ha un sonno tale che la luce non
lo avrebbe svegliato. Ero talmente spaventata che quasi avrei urlato,
ma il giudice istruttore fu molto gentile, mi esortò alla cautela,
mi sussurrò che aveva scritto fino a quel momento, che mi riportava
la lampada e che mai avrebbe dimenticato lo spettacolo che gli avevo
dato, trovandomi lui addormentata. Con tutto questo intendevo solo
dirvi che in effetti il giudice istruttore scrive molti rapporti, in
particolare su di voi: infatti la vostra audizione era certo uno
degli oggetti principali dell'assise di domenica. I lunghi rapporti
del giudice istruttore possono però non essere del tutto
insignificanti. Inoltre potete anche vedere, per il caso vostro, che
il giudice istruttore mi fa la corte e che proprio ora che siamo
all'inizio, deve avermi notato dopotutto solo ora, posso avere su di
lui una grande influenza. Che gl'importi molto di me ne ho adesso
un'altra prova ancora. Ieri mi ha mandato in regalo tramite lo
studente, di cui ha molta fiducia e che è suo collaboratore, delle
calze di seta, all'apparenza perché sgomberi la stanza dell'assise,
ma si tratta solo di un pretesto, difatti tale lavoro è mio dovere e
mio marito è pagato per questo. Sono belle calze, guardate” -
allungò le gambe, si tirò la veste su fino alle ginocchia e anche
lei guardò le calze - “sono belle calze, ma in effetti troppo
raffinate e non adatte a me.”
D'improvviso
si interruppe, mise una mano su una mano di K., come volesse
tranquillizzarlo, e mormorò: “Zitto, Bertold ci vede!” K. alzò
lentamente lo sguardo. Sulla porta dell'aula di assise c'era un
giovane, era piccolo, aveva le gambe non del tutto dritte e tentava
di darsi un tono continuando a far vagare le dita nella sua corta e
rada barba rossiccia. K. lo guardò incuriosito, si trattava davvero
del primo studente della sconosciuta scienza giuridica che lui
diciamo di persona incontrasse, un uomo che probabilmente sarebbe un
giorno arrivato ad avere un posto da alto funzionario. Al contrario
lo studente pareva non interessarsi affatto a K., fece un cenno alla
donna con un dito, per un momento distolto dalla barba, e andò alla
finestra, la donna si chinò verso K. e mormorò: “Non prendetevela
con me, ve ne prego davvero, non pensate male di me, ora devo andare
da lui, da quest'uomo ripugnante, basta che ne vediate le gambe
storte. Torno subito, però, e poi vengo con voi, se mi portate con
voi vengo dove volete, potete fare con me quel che volete, sarò
felice se sto via di qui per il massimo possibile di tempo, meglio
ancora se per sempre.” Accarezzò ancora una mano a K., saltò su e
corse verso la finestra. Senza volere K. cercò di afferrarle una
mano, a vuoto. Quella donna lo attraeva davvero, nonostante ogni
riflessione lui non trovò alcun solido motivo per cui non dover
cedere all'attrazione. Respinse senza fatica la fuggevole obbiezione
che lei lo intrappolasse per conto del tribunale. In qual modo lei
poteva intrappolarlo? Non continuava a restare, lui, tanto libero da
riuscire subito a farla fuori, tutta quella corte di giustizia,
almeno per quanto lo riguardava? Poteva non avere questo minimo di
fiducia in se stesso? L'offerta di aiuto da parte di lei suonava
sincera e forse non era vana. Forse non c'era una vendetta migliore
sul giudice istruttore e sul suo codazzo che sottrarre loro questa
donna e prendersela. Avrebbe potuto darsi il caso, una volta, che il
giudice istruttore, fatto il faticoso lavoro di scrivere bugie su K.,
a notte fonda trovasse il letto della donna vuoto. Vuoto perché lei
sarebbe stata di K., dato che quella donna lì, alla finestra, quel
corpo voluttuosamente agile e caldo vestito di scura stoffa pesante,
grezza, apparteneva senza dubbio solo a K.
Eliminate
in tal modo le obbiezioni contro la donna, quel colloquio a voci
basse alla finestra gli venne a noia, picchiò con le nocche sul
podio, poi anche con un pugno. Lo studente guardò brevemente verso
K. da sopra una spalla della donna, ma non si lasciò disturbare,
anzi, le si spinse addosso di più e la cinse. Lei chinò ancor di
più il capo come se stesse ad ascoltarlo attenta, lui la baciò
rumoroso, lei abbassandosi, sul collo, senza smettere di parlarle. K.
in ciò vide confermata la tirannia che lo studente, stando alle
lagnanze di lei, esercitava sulla donna, si alzò e si mosse in giro
per la stanza. Pensò sbirciando lo studente a come poter cacciarlo
via nel più breve tempo possibile e quindi non salutò come cosa
positiva che lo studente, chiaramente disturbato dal fatto che K. si
aggirava nella stanza, osservasse: “se non avete pazienza potete
andarvene. Avreste potuto andarvene anche prima, nessuno avrebbe
sentito la vostra mancanza. Anzi, avreste addirittura dovuto
andarvene già al mio arrivo, e alla svelta.” Magari in queste
parole si sfogava tutta l'ira possibile, comunque in esse c'era anche
l'alterigia del futuro funzionario tribunalizio che parlava a un
imputato antipatico. K. gli si fermò molto vicino e sorridendo
disse: “è vero, sono impaziente, ma quest'impazienza verrà
eliminata nel modo più semplice dal fatto che voi ci lasciate. Siete
forse venuto per studiare – ho sentito dire che siete studente -
allora intendo farvi posto volentieri e me ne vado con lei. Del resto
dovrete studiare ancora molto, prima di diventare giudice. Non
conosco certo ancora molto bene la vostra qualità giuridica, ma ho
idea che dovrà passare parecchio tempo perché non sia fatta solo di
parole grossolane che certo già sapete dire in modo sfrontato.”
“Non lo si sarebbe dovuto far girare così in libertà”, disse lo
studente come se volesse dare alla donna una spiegazione di quel che
K. aveva detto di offensivo, “fu uno sbaglio. L'ho detto al giudice
istruttore. Lo si doveva almeno trattenere nella sua stanza, tra un
interrogatorio e l'altro. Il giudice istruttore a volte è
incomprensibile.” “Discorsi vani”, disse K. tendendo una mano
alla donna. “Venite.” “Ah, è così” disse lo studente, “no
no, voi non ve la prendete”, e con una forza che non gli si
sarebbe attribuita prese su con un braccio la donna e a schiena
curva, sogguardandola amoroso, si affrettò verso la porta.
Indiscutibilmente lo studente fu preso, nel far ciò, da una certa
paura di K., ciò nonostante osò provocarlo ancora strofinando e
premendo con la mano che aveva libera il braccio della donna. K. si
affrettò a seguirlo pronto ad acchiapparlo e nel caso a prenderlo
per il collo, lei però disse: “Non serve a nulla, è il giudice
istruttore che mi manda a chiamare, non posso venire con voi, questo
sgorbietto”, disse facendo passare una mano sulla faccia dello
studente, “questo sgorbietto non mi molla.” “E voi non volete
esser liberata”, urlò K. piazzando addosso allo studente una mano,
mano che quello azzannò. “No”, disse la donna respingendo con
entrambe le mani K., “no, non è il caso, ma che vi viene in mente?
Sarebbe la mia rovina. Lasciatelo fare, ve ne prego, lasciatelo fare.
Sta solo eseguendo l'ordine del giudice istruttore, e mi porta da
lui.” “E allora che vada, e voi non vi voglio più vedere”,
disse K. infuriato per la delusione, e colpì lo studente sulla
schiena, quello incespicò un attimo e poi subito balzò su ancor
meglio con quel suo carico, per il piacere di non esser caduto. K. li
seguì lentamente, capiva che si trattava della prima indubbia
sconfitta che lui patisse da quella gente. Non c'era naturalmente
alcun motivo di affliggersene, perché era lui a cercare la
battaglia. Restando a casa a fare la sua solita vita, lui sarebbe
stato in mille modi superiore a ognuna di quelle persone e avrebbe
potuto levarsela di torno con un calcio. Si immaginò la comicissima
scena che per esempio ci sarebbe stata se quel patetico studente,
quel ragazzino borioso, quello sgorbio con la barbetta si fosse
inginocchiato davanti al letto di Elsa e l'avesse pregata a mani
giunte di fargli la grazia. Gli piacque tanto l'immagine, che decise,
se l'occasione se ne fosse presentata, di portarlo da Elsa, una
volta.
Per
curiosità K. si affrettò verso la porta, voleva vedere dove sarebbe
stata portata la donna, lo studente mica l'avrebbe portata in braccio
per le strade. Si rivelò che il tragitto era molto più breve.
Subito davanti alla porta dell'appartamento portava probabilmente
alla soffitta una stretta scala di legno che faceva una curva, per
cui non se ne vedeva il termine. Lo studente portò lentamente la
donna su per quella scala, tra i gemiti, difatti la corsa lo aveva
fiaccato. Lei salutò con una mano K., in basso, cercò facendo
svariate volte spallucce di segnalare la sua incolpevolezza del
rapimento, tuttavia in quelle mosse non v'era molto rammarico. K. la
guardò inespressivo come un'estranea, non voleva mostrare che era
deluso, né che avrebbe potuto vincere con facilità la delusione.
Quei
due erano già scomparsi, ma K. restò sulla porta. Fu costretto ad
ammettere che non solo la donna lo aveva imbrogliato ma, dicendo che
veniva portata dal giudice istruttore, gli aveva anche mentito. Il
giudice istruttore mica sarebbe stato ad aspettare in soffitta. La
scala di legno non spiegava nulla finché non si guardava con
attenzione. In quella K. notò un cartellino vicino all'ingresso
della scala, ci andò e lesse, scritto in modo incerto e infantile,
“Accesso agli Uffici del Tribunale”. E dunque lì, nelle soffitte
di quella casa d'affitto, c'erano gli uffici del tribunale? Non c'era
un'organizzazione capace di dedicarvi molta attenzione ed era
tranquillizzante per un imputato figurarsi la pochezza dei mezzi
economici a disposizione di questo tribunale, se esso collocava i
suoi uffici lì dove gli inquilini, già di per sé appartenenti ai
più poveri, depositavano la loro minutaglia superflua. Del resto non
era escluso che di denaro se ne avesse abbastanza e che invece gli
impiegati lo utilizzassero per sé prima che venisse impiegato per il
tribunale. Ciò, stando alle esperienze fin lì avute da K., era
addirittura assai probabile, un simile degrado per un imputato era
certo umiliante, sì, tuttavia in fondo più tranquillizzante di
quanto non fosse la miseria del tribunale. Ora K. capì anche che per
il primo interrogatorio ci si fosse vergognati di citare l'imputato
nella soffitta e si fosse preferito disturbarlo nella sua abitazione.
E in qual posizione si trovava tuttavia K. nei confronti del giudice,
che sedeva nella soffitta mentre lui nella banca aveva una grande
stanza con un'anticamera e poteva guardar giù attraverso una enorme
vetrata l'animata piazza cittadina? Certo, lui non disponeva di
nessuna entrata secondaria da corruzione e peculato, né poteva farsi
portare da un usciere alcuna donna in braccio nell'ufficio. A ciò
però K. intendeva rinunciare, almeno in questa vita.
K.
stava ancora davanti al cartellino quando un uomo salì la scala,
guardò attraverso la porta aperta nella stanza da cui si poteva
vedere anche il locale delle assise e alla fine chiese a K. se non
avesse visto da poco una donna. “Siete l'usciere del tribunale,
no?” “Sì”, disse quell'uomo, “ah sì, voi siete l'imputato
K., ora vi riconosco, siate il benvenuto.” E porse la mano a K.,
che non se lo aspettava proprio. “Oggi però non è annunciata
alcuna assise”, disse poi l'usciere, e K. tacque. “Lo so”,
disse poi osservando l'abito civile dell'usciere che come unico segno
di riconoscimento ufficiale accanto ad alcuni normali bottoni esibiva
due bottoni dorati che sembravano essere stati staccati da un vecchio
cappotto da ufficiale. “Ho parlato da poco con vostra moglie. Non è
più qui. Lo studente l'ha portata dal giudice istruttore.”
“Vedete”, disse l'usciere, “me la portano sempre via. Oggi è
domenica, inoltre, e io sono libero, tuttavia solo per allontanarmi
di qui mi si invia a portare una notifica, del resto inutile. Di
fatto non mi si manda lontano, per cui ho la speranza, se faccio
molto in fretta, di far ritorno, forse, in modo tempestivo. Dunque
corro quanto posso, urlo all'ufficio cui sono stato mandato la mia
comunicazione dalla soglia della porta, così senza fiato che mi
capiranno a mala pena, corro di nuovo indietro, ma lo studente è
stato più veloce di me, avendo lui del resto da fare un tragitto più
breve, deve scendere solo la scala della soffitta. Se non fossi tanto
in subordine, già da tempo lo avrei spiaccicato sul muro lo
studente. Qui, presso il cartellino. E' il mio sogno, sempre. Un po'
qui, sul pavimento, schiacciato, a braccia stese, le dita divaricate,
quelle gambe storte attorcigliate, e attorno schizzi di sangue.
Finora però è solo un sogno. “Non c'è un altro modo?” chiese
K. sorridendo. “Non ne saprei un altro”, disse l'usciere. “E
ora sarà anche peggio, fin qui se l'è presa solo per sé, ora la
porta, del resto me lo aspettavo da tempo, anche dal giudice
istruttore.” “Ma vostra moglie non ne ha proprio colpa?” chiese
K., che dovette costringersi a fare questa domanda tanto sentiva
anche lui la gelosia. “Ma certo”, disse l'usciere, “ne ha
addirittura la colpa maggiore. Gli si è attaccata, anzi. Quanto a
lui, corre dietro a ogni femmina. Solo in quest'edificio e stato
buttato fuori già da cinque appartamenti in cui s'è intrufolato.
Certo mia moglie è la donna più bella di tutta la casa e proprio da
ciò non riesco a proteggermi.” “Se è così non c'è nulla da
fare”, disse K. “Perché no?”, chiese l'usciere. “Lo
studente, che è un codardo, si dovrebbe bastonare bene bene, la
volta che vuole toccare mia moglie, in modo che non osi più farlo.
Io però non posso e altri non mi fanno il piacere perché temono il
potere che ci ha. Solo un uomo come voi potrebbe farlo.” “Ma
perché io?” chiese K. stupito. “Siete ben l'imputato” disse
l'usciere. “Sì”, disse K., “ma appunto per questo dovrei aver
più paura che lui, quand'anche non abbia forse influenza sull'esito
del processo, ne abbia sull'inchiesta preliminare.” “Sì, certo”,
disse l'usciere come se il punto di vista di K. fosse precisamente
uguale a quello suo. “Da noi però di solito non si fanno processi
senza speranza.” “Non sono della vostra opinione”, disse K.,
“tuttavia ciò non m'impedirà di occuparmi all'occasione dello
studente.” “Ve ne sarei molto grato”, disse l'usciere in modo
un po' formale, in effetti non pareva credere all'esaudimento dei
suoi desideri massimi. “Forse”, proseguì K., “si
prodigherebbero anche altri dei vostri e forse tutti nello stesso
modo.” “Sì sì”, disse l'usciere come se si trattasse di
qualcosa di ovvio. Poi guardò K. in modo confidenziale, ciò che fin
lì ancora non aveva fatto nonostante tutta la sua gentilezza, e
proseguì: “ci si ribella sempre, come no?” Ma il discorso parve
essergli diventato un po' scomodo, difatti s'interruppe e disse: “Ora
ho da presentarmi nell'ufficio. Volete venire?” “Non ho niente da
farci”, disse K. “Potreste vederla. Nessuno s'interesserà a
voi.” “Ma è da vedere?” chiese K. esitante, però ne aveva una
gran voglia. “Sapete”, disse l'usciere, “pensavo che vi avrebbe
interessato.” “Va bene”, disse K. alla fine, “vengo con voi”,
e salì la scala più in fretta dell'usciere.
Nell'entrare
sarebbe caduto, difatti dietro la porta c'era un altro gradino. “Non
è che si abbia molto riguardo per il pubblico”, disse. “Non se
ne ha in generale”, disse l'usciere, “basta che vediate qui la
stanza d'attesa.” Si trattava di un lungo andito dal quale porte
rozzamente lavorate davano sui singoli reparti della soffitta.
Nonostante che non vi fosse un accesso diretto di luce, non faceva
completamente scuro, difatti parecchi reparti erano chiusi verso
l'andito non da pareti piene, ma da semplici grate di legno – che
altresì arrivavano fino al soffitto - attraverso le quali un po' di
luce penetrava e si poteva anche vedere che alcuni impiegati erano al
tavolo a scrivere o se ne stavano proprio alla grata a guardare dai
fori coloro che si trovavano nell'andito. Probabilmente per il fatto
che era domenica nell'andito c'era solo poca gente. Faceva
un'impressione misera. A distanza quasi regolare l'uno dall'altro
costoro sedevano su due lunghe panche di legno accostate ai due lati
dell'andito. Erano vestiti in modo dimesso, per quanto in
maggioranza, stando all'espressione facciale, alla postura, alla
foggia della barba, appartenessero alle classi superiori. Mancando
attaccapanni avevano messo i cappelli, probabilmente seguendo l'uno
l'esempio dell'altro, sotto la panca. Quando quelli vicino alla porta
scorsero K. e l'usciere si levarono per salutare; vedendo ciò, gli
altri ritennero di dover salutare, per cui tutti si levarono
progressivamente al passaggio dei due. Nessuno di loro si teneva
proprio diritto, la schiena era piegata, le ginocchia pure,
sembravano mendicanti in strada. K. aspettò l'usciere che camminava
un po' dietro di lui e disse: “come devono essere afflitti!”
“Sì”, disse l'usciere, “sono tutti imputati quelli che vedete
qui, imputati.” “Davvero?” disse K. “Ma allora sono miei
colleghi.” Si volse a quello più vicino, un uomo alto, magro, già
con i capelli quasi grigi. “Che cosa state aspettando qui?”,
chiese cortese. L'inattesa domanda tuttavia mise in confusione
quell'uomo, cosa che apparve più penosa perché si trattava
chiaramente di un uomo di mondo altrimenti capace di dominarsi il
quale alla superiorità che su molti si era guadagnata non rinunciava
facilmente. Stavolta però non seppe rispondere a una domanda tanto
facile, guardò gli altri come se fossero tenuti a dargli un aiuto,
come se nessuno potesse ottenere da lui una risposta mancandole tale
aiuto. Allora si fece avanti l'usciere e per tranquillizzare e
incoraggiare quell'uomo disse: “Questo signore chiede soltanto che
cosa aspettate. Rispondete dunque.” La voce dell'usciere a lui
forse nota ebbe un effetto migliore: “Aspetto -”, iniziò a dire,
e si fermò. Chiaramente aveva scelto quest'inizio per rispondere
come si deve alla domanda, ma ora non trovava come continuare. Alcuni
di quelli che erano in attesa si erano avvicinati e stavano attorno
al gruppo, ma l'usciere disse loro: “Via, via, liberate il
passaggio.” Si ritirarono un po', ma non tornarono seduti. Intanto
quell'uomo si era ripreso e rispose perfino con un sorrisetto: “Un
mese fa ho fatto richiesta di escussione delle prove in merito al mio
caso e attendo l'esito della mia richiesta.” “Sembrate davvero
molto in pena”, disse K. “Certo”, disse quell'uomo, “si
tratta del mio caso.” “Non tutti la pensano come voi”, disse
K., “anch'io per esempio sono imputato, ma, quant'è vero che
voglio andare in paradiso, non ho ancora fatto richiesta di
escussione delle prove né intrapreso qualcosa del genere. Ma voi lo
ritenete necessario?” “Non lo so bene”, disse quell'uomo di
nuovo preso da completa incertezza; credeva chiaramente che K. si
burlasse di lui, perciò avrebbe forse, per timore di far qualche
nuovo errore, più volentieri di tutto ripetuto pari pari la risposta
di prima, ma davanti all'occhiata impaziente di K. si limitò a dire:
“per quel che mi riguarda ho fatto richiesta di escussione delle
prove.” “Non ci credete, che io sia imputato?” chiese K. “Per
carità, certo che ci credo”, disse quell'uomo spostandosi un po'
di lato, ma nella sua risposta non c'era convinzione, c'era solo
angoscia. “Non mi credete dunque?” chiese K. e, senza rendersi
conto di provocare all'ossequio quell'uomo dal carattere ossequioso,
lo prese per un braccio come se volesse costringerlo a credergli. Non
voleva però fargli del male, lo aveva preso con delicatezza, ciò
nonostante quell'uomo urlò come se K. l'avesse stretto non con due
dita, ma con una pinza arroventata. Quell'urlo ridicolo disgustò K.
definitivamente; non solo non ci si credeva, che lui fosse imputato,
ma forse lo si prendeva per un giudice. E per congedarsi lo strinse
davvero con più forza, lo ributtò indietro e andò oltre. “La
maggior parte degli imputati sono talmente sensibili”, disse
l'usciere. Dietro loro due quasi tutti coloro che erano in attesa
fecero mucchio attorno a quell'uomo, che già aveva smesso di urlare,
e sembrò che chiedessero informazioni adeguate sull'incidente. Ora
venne incontro a K. una guardia, principalmente riconoscibile da una
sciabola il cui fodero, almeno stando al colore, era fatto
d'alluminio. K. se ne stupì e arrivò a toccarlo con una mano. La
guardia, venuta a causa delle urla, chiese cos'era successo.
L'usciere cercò di tranquillizzarla con qualche parola, ma la
guardia spiegò che doveva verificare lui stesso, fece il saluto e
andò oltre a passi lesti, ma molto brevi, forse soffriva di artrite.
K.
non s'interessò a lungo a lui né alla compagnia seduta nell'andito,
specie quando circa alla metà del medesimo vide la possibilità di
infilarsi a destra in un'apertura priva di uscio. S'informò con
l'usciere se quella era la via giusta, l'usciere annuì e di fatto K.
ci s'infilò. Era fastidioso per lui dover precedere sempre di due o
tre passi l'usciere, almeno in quel posto poteva sembrare come se lui
venisse fatto precedere in qualità di imputato. Aspettò più di una
volta dunque l'usciere, ma questi restava comunque indietro. Da
ultimo per por fine al suo disagio K. disse: “Ora che ho visto
com'è qui, voglio andarmene subito.” “Non avete ancora visto
tutto”, disse l'usciere in tutta innocenza. “Non voglio vedere
tutto”, disse K. che del resto si sentiva stanco davvero, “voglio
andare, come si arriva all'uscita?” “Per caso vi siete perso,
prima?” chiese stupito l'usciere, “andate fino all'angolo e poi a
destra percorre l'andito fino alla porta.” “Venite con me”,
disse K. “Indicatemi la strada, da solo la perdo, ve ne sono così
tante.” “E' l'unica”, disse l'usciere, ora con aria di
rimprovero, “non posso tornare indietro con voi, devo ancora
presentare la notifica e ho già perso molto tempo per causa vostra.”
“Venite con me”, disse di nuovo K., stavolta più aspro, quasi
avesse colto finalmente l'usciere a dire una bugia. “Però non
gridate in questo modo”, mormorò l'usciere, “qui ci sono
dappertutto uffici. Se non volete andarvene da solo, allora venite
insieme a me ancora per un pezzettino oppure aspettate qui che
presenti la mia notifica, poi tornerò con voi volentieri.” “No
no”, disse K., “non aspetterò, e voi dovete venire subito con
me.” Ancora non si era guardato attorno, dove si trovava, solo
quando una delle numerose porte che c'erano intorno si aprì lui
guardò. Una ragazza che era stata richiamata dalle parole dette a
voce alta di K. si fece avanti e chiese: “che cosa desidera il
signore?” Dietro a lei si vedeva a distanza avvicinarsi anche un
uomo, nella semioscurità. K. guardò l'usciere. Questi aveva detto
che nessuno si sarebbe occupato di K., eppure eccone già due,
mancava poco e gli impiegati tutti lo avrebbero notato, avrebbero
voluto avere una spiegazione della sua presenza. L'unica spiegazione
comprensibile e ammissibile era che lui era imputato e voleva sapere
la data del prossimo interrogatorio, ma proprio quella spiegazione
lui non voleva darla, in particolare perché non corrispondente
nemmeno alla verità, difatti lui era lì solo per curiosità oppure,
ma ciò non avrebbe spiegato alcunché, perché desiderava appurare
il fatto che l'interno di quella istituzione giudiziaria era tanto
ripugnante quanto l'esterno. Pareva che tale supposizione fosse
giusta, ma lui non desiderava intrudersi di più, si accontentava di
quel che aveva già visto, non era nella condizione di incontrare un
funzionario di grado più alto che poteva saltar fuori da dietro ogni
porta, voleva andarsene, o con l'usciere o da solo, se necessario.
Tuttavia
il suo starsene senza parole dové sembrare strano, in realtà la
ragazza e l'usciere lo guardavano come se tra un momento stesse per
capitargli una gran trasformazione che loro non intendevano perdersi.
Sulla porta stava quell'uomo che prima K. aveva notato in lontananza,
si appoggiava alla trave superiore della bassa porta e scrutava un
po' in punta di piedi, come fosse uno spettatore impaziente. La
ragazza tuttavia capì che la condotta di K. era motivata da un
leggero malessere, prese una sedia e chiese: “non volete sedervi?”
K. si sedé subito e appoggiò, per tenersi meglio, i gomiti ai
braccioli. “Avete un po' di capogiro, vero?” gli chiese. Lui ne
aveva ora il viso davanti, vicino, un viso dall'espressione austera,
quello che parecchie donne hanno proprio nella loro miglior
giovinezza. “Non datevene pensiero”, disse lei, “non è cosa
fuori del comune, qui, a quasi tutti succede quando vengono per la
prima volta. E' la vostra prima volta qui? Ma sì, non è nulla di
straordinario. Il sole brucia nel sottotetto e il legno che scotta
rende l'aria talmente pesante e afosa. Il posto quindi non è molto
adatto ad allocarvi degli uffici, d'altra parte offre grandi
vantaggi. Quanto all'aria però, essa è nei giorni di grande
affluenza delle parti <in causa – n.d.t.>, cioè quasi
ogni giorno, appena respirabile. Se poi considerate che qui si stende
ad asciugare una quantità di biancheria – agli inquilini non lo si
può vietare – non vi meraviglierete più di aver avuto un piccolo
malessere. Alla fine però ci si fa l'abitudine ottimamente,
all'aria. La seconda o la terza volta che venite la sentirete appena
l'oppressione. Vi sentite già meglio?” K. non rispose, era troppo
penoso per lui essere consegnato, per la sua improvvisa debolezza, a
quella gente lì, inoltre non stava meglio, ora che aveva saputo il
motivo del suo malessere, ma anche un po' peggio. La ragazza se ne
accorse subito, per procurare un po' di fresco a K. prese un bastone
con un gancio che spinse sulla parete aprendo un abbaino proprio
sopra a K., verso l'aria aperta. Ne venne giù tanta fuliggine però,
che la ragazza fu costretta a richiuderlo subito e a pulire con un
fazzoletto le mani a K., difatti lui era troppo stanco per farlo da
sé. Sarebbe volentieri restato lì a sedere tranquillo fino a
riprender forza bastevole ad andar via, ma ciò sarebbe successo
tanto prima quanto meno ci si fosse occupati di lui. Per di più la
ragazza disse, ora: “non potete restare qui, qui disturbiamo il
passaggio” - K. chiese con lo sguardo qual mai passaggio lui
disturbasse - “vi porterò, se volete, in infermeria.”
“Aiutatemi, per favore”, disse lei a quell'uomo che stava sulla
porta, che subito si avvicinò. K. però non voleva andare
nell'infermeria, intendeva anzi evitare proprio di venir guidato
oltre, più avanti andava e peggio la cosa diventava. “Sono già in
grado di andarmene”, disse dunque e si alzò incerto, aveva già
preso il vizio a star seduto comodo. Poi però non riuscì a tenersi
eretto. “Non va mica”, disse scuotendo il capo, e si rimise
seduto con un sospiro. Si ricordò dell'usciere che, nonostante
tutto, avrebbe potuto con facilità portarlo fuori, ma questi
sembrava non esser più lì da un bel po'; K. guardò tra la ragazza
e quell'uomo che gli stavano davanti, ma di trovare l'usciere non gli
riuscì.
“Credo”,
disse l'uomo, per altro vestito in modo elegante, specie per come
colpiva la sua marsina grigia terminante in due lunghe code, “che
il malessere del signore derivi da quest'aria, sarà perciò ottima
cosa, e per lui la migliore, se non lo portiamo subito
nell'infermeria, ma invece per prima cosa fuori dagli uffici.”
“Ecco, sì”, esclamò K. quasi infilandosi, per la gran gioia,
nelle parole di quell'uomo, “starò meglio subito, non sono nemmeno
così debole, mi basta solo essere un po' sostenuto sotto le ascelle,
non sarò loro di gran peso, non è nemmeno un percorso lungo, basta
che mi portino fino alla porta, poi mi siedo un poco sui gradini e mi
riprendo subito, voglio dire, non soffro mica di questi accessi,
anch'io ne sono stupito. Sono anch'io un funzionario abituato
all'aria degli uffici, ma qui è troppo, lo dicono loro stessi.
Vogliano gentilmente portarmi un poco, mi spiego, ho il capogiro e
alzarmi da solo non mi riesce.” E sollevò le spalle per meglio
permettere ai due di prenderlo per le braccia.
Ma
quell'uomo non ottemperò alla richiesta, mantenne tranquillo le mani
nelle tasche dei calzoni e fece una gran risata. “Vedete”, disse
alla ragazza, “che ci ho azzeccato. Non solo il signore non sta
bene ora, non sta bene in generale.” La ragazza sorrise anche lei,
ma con la punta delle dita diede un colpetto sul braccio di lui,
quasi che si fosse permesso una battuta eccessivamente pesante. “Ma
che cosa pensate?” disse l'uomo continuando a ridere, “certo che
voglio portar fuori il signore.” “Va bene allora”, disse la
ragazza intanto che chinava per un attimo la leggiadra testa. “Non
date troppo peso alla risata”, disse la ragazza a K. che di nuovo
intristito guardava davanti a sé e non sembrava necessitare di
alcuna spiegazione, “questo signore - posso presentarvi?” (il
signore lo concesse facendo con la mano un movimento) “- questo
signore dunque è l'informatore. Dà alle parti in attesa tutte le
informazioni di cui esse abbisognano, e, dal momento che la nostra
istituzione giudiziaria non è molto nota tra la popolazione, si fa
richiesta di molte informazioni. Egli ha una risposta a ogni domanda,
potete, nel caso che lo desideriate, metterlo alla prova. Non è però
la sua unica qualità, la sua seconda è l'eleganza dell'abito. Noi,
intendo l'insieme dei funzionari, pensammo che colui che informa, che
ha di continuo a che fare per primo con le parti, a motivo del decoro
della prima impressione, dovesse esser vestito con eleganza. Noi
altri, come voi potete vedere nel mio caso, purtroppo siamo vestiti
molto male e non alla moda; non ha neppure molto senso cambiar
qualcosa del vestiario, dato che noi siamo quasi sempre negli uffici,
anzi ci dormiamo pure. Tuttavia, come detto, per l'informatore
considerammo necessario un buon vestiario. Ma poiché non era
possibile ottenerlo dalla nostra amministrazione, che è da questo
punto di vista un po' particolare, ci mettemmo insieme –
contribuirono anche le parti – e gli comprammo questo bell'abito e
anche altri. Ora sarebbe tutto a posto per fare una buona
impressione, ma lui con le sue risate guasta ciò che abbiamo fatto,
e spaventa la gente.” “E' così”, disse canzonatorio quel
signore, “ma non capisco, signorina, perché riferite al signore
tutti i fatti nostri, o meglio glieli imponete, difatti lui non ne
vuol proprio sapere. Basta che vediate come se ne sta lì,
chiaramente occupato dagli affari suoi.” K. non aveva nemmeno
voglia di replicare, l'intenzione della ragazza magari era buona,
forse era diretta a distrarlo o a dargli la possibilità di
riprendersi, ma il modo era sbagliato. “Dovevo spiegargli la vostra
risata”, disse la ragazza.” “Ma era un modo offensivo.” “A
lui toccherebbe perdonare offese anche peggiori, credo, se alla fine
lo porto fuori.” K. non disse nulla, neppure guardava, tollerò che
i 2 dibattessero su di lui come su una cosa, addirittura lo
preferiva. Ma di colpo sentì una mano dell'informatore su un braccio
e una mano della ragazza sull'altro. “Su, dunque, debole uomo”,
disse l'informatore. “Vi ringrazio molto”, disse K. felicemente
sorpreso, si sollevò pian piano e portò lui stesso quelle mani
estranee dove di più gli servivano. “Pare”, disse piano la
ragazza all'orecchio di K., intanto che essi si avvicinavano
all'andito , “quasi che a me importi in modo molto particolare
mettere in buona luce l'informatore, ma io desidero dire il vero, lo
si creda. Non è mica crudele, di cuore. Non è tenuto a portare
fuori di qui parti che hanno malori, eppure lo fa, come vedete. Forse
nessuno di noi è crudele, di cuore, ci piacerebbe essere d'aiuto a
tutti, ma come funzionari giudiziari facilmente ci tocca di apparire
come se fossimo crudeli e non volessimo aiutare nessuno. Tendo a
rammaricarmi di questo.” “Non volete sedervi un po' qui?”
chiese l'informatore, si trovavano già nell'andito esattamente
davanti all'imputato cui si era rivolto prima K., che quasi si
vergognò; prima gli era stato così ben dritto davanti e ora
dovevano sostenerlo in due, l'informatore gli teneva il cappello in
equilibrio sulle dita, lui era spettinato, i capelli gli penzolavano
sulla fronte sudata. Tuttavia quell'imputato non parve farci proprio
caso, ossequioso stava in piedi al cospetto dell'informatore, il cui
sguardo gli passava sulla testa, né fece alcunché, se non
giustificare la sua presenza. “So”, disse, “che oggi non posso
conoscere l'esito della mia istanza. Però sono venuto lo stesso,
pensavo di poter attendere qui, è domenica, ho tempo e non reco
disturbo, qui.” “Non dovete giustificarvi così”, disse
l'informatore, “la vostra premura è anzi lodevole, certamente
occupate il posto senza necessità, ma ciò nonostante non voglio,
nella misura in cui ciò non mi incomoda, impedirvi affatto di
seguire accuratamente l'andamento della vostra pratica. Quando s'è
vista gente che trascura vergognosamente il suo dovere, s'impara ad
avere pazienza con la gente come voi. Sedetevi.” “Come sa parlare
con le parti”, mormorò la ragazza. K. annuì, ma subito sussultò
quando l'informatore ripeté la domanda: “Non volete mettervi a
sedere qui?” “No”, disse K., “non voglio riposarmi.”
L'aveva detto con la massima decisione possibile, in realtà però
gli avrebbe fatto molto bene mettersi a sedere; era come se avesse il
mal di mare. Gli pareva di essere su una nave che si trovasse tra
ardui marosi. Sembrava quasi che l'acqua si abbattesse sulle pareti
di legno, quasi che dal fondo dell'andito venisse uno scroscio come
di acqua a cavalloni, quasi che l'andito rollasse, quasi che le parti
in attesa sui due lati venissero sprofondate e sollevate. Tanto più
incomprensibile era la calma della ragazza e dell'uomo, che lo
guidavano. Era in mano loro, se lo lasciavano per forza cadeva giù
come una tavola di legno. Stringeva gli occhi, guardava qua e là;
sentiva di procedere a passi simmetrici, ma senza prendervi parte,
difatti veniva portato quasi, un passo dopo l'altro. Infine si
accorse che gli parlavano, ma non li capiva, udiva solo il frastuono
che tutto colmava e attraverso cui pareva risuonare sempre più alta
la nota come di una sirena. “A voce più alta”, mormorò a testa
china vergognandosi, difatti sapeva che avevano parlato a voce
abbastanza alta, per quanto a lui incomprensibile. In quella
finalmente, quasi che la parete che aveva davanti si fosse
squarciata, gli arrivò addosso un soffio d'aria fresca, e vicino a
sé udì queste parole: “prima vuole andar via, poi gli si può
dire 100 volte che l'uscita è qui, e lui non si muove.” K. si
accorse di essere davanti alla porta di uscita che la ragazza aveva
aperto. Fu come se tutte le forze gli fossero tornate in una volta
affinché lui si guadagnasse un assaggio di libertà, subito scese un
gradino della scala e da lì si congedò dai suoi accompagnatori, che
s'inchinarono. “Molte grazie”, rispose all'inchino, ripetutamente
strinse loro le mani e smise solo quando ritenne di vedere che essi,
abituati all'aria dell'ufficio, sopportavano male l'aria
relativamente fresca che veniva dalla scale. Riuscirono a mala pena a
rispondere e la ragazza sarebbe forse caduta, se K. con la massima
sveltezza non avesse chiuso la porta. K. stette ancora un momento lì,
si aiutò con uno specchietto a sistemarsi i capelli, prese il
cappello, che si trovava sul pianerottolo successivo – era stato
certo l'informatore a buttarcelo – e scese giù con tale freschezza
e a balzi tanto lunghi che ne trasse quasi paura, da tale
cambiamento. Sorprese del genere mai ancora gliene aveva propinate il
suo stato di salute, di solito valido. Che il suo corpo volesse far
diciamo una rivoluzione e propinargli un nuovo processo, dal momento
che lui sopportava il vecchio processo tanto agevolmente?
Non
respinse del tutto il pensiero di andare quanto prima da un medico,
ciò nonostante voleva impiegare le prossime domeniche – questo era
in grado di consigliarselo da solo – meglio di questa.
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