venerdì 24 aprile 2020

Franz Kafka: Il processo - 4


Nell'aula delle assise
Lo studente
Gli uffici

K. attese durante la settimana seguente giorno dopo giorno una nuova comunicazione, non poteva credere che si fosse presa alla lettera la sua rinuncia all'interrogatorio, e, siccome l'attesa comunicazione ancora il sabato sera in realtà mancava, suppose di esser citato implicitamente nello stesso edificio e alla stessa ora. Per cui vi si recò di nuovo, di domenica, stavolta andò diretto per scale e corridoi, v'era gente che, ricordandosi di lui, lo salutò dalla porta, ma lui non doveva più far più domande a nessuno e presto arrivò alla porta giusta. Bussò, gli fu subito aperto e senza badare alla donna che aveva conosciuto, ferma sulla porta, intendeva andar subito nella stanza accanto. “Oggi non c'è assise”, disse lei. “Perché non dovrebbe esserci?” chiese lui, non disposto a crederle. La donna però lo convinse aprendo la porta della stanza accanto. Davvero era vuota e nel suo vuoto appariva ancora più misera che non la domenica prima. Sul tavolo che non diversamente si trovava sopra il podio c'erano alcuni libri. “Li posso guardare?” chiese K. non per particolare curiosità, ma per non esser venuto lì del tutto inutilmente. “No”, disse la donna richiudendo la porta, “non è permesso. Appartengono al giudice istruttore.” “Ah ecco”, disse K. annuendo, “sono libri certo di legge e fa parte dello stile di questa istituzione giudiziaria che si venga giudicati non solo da innocenti, ma anche da ignari.” “Sarà così”, disse la donna, che non l'aveva capito bene. “Allora me ne vado”, disse K. “Devo dire qualcosa al giudice istruttore?” chiese la donna. “Lo conoscete?” chiese K. “Naturale”, disse la donna, “mio marito è al servizio del tribunale.” Solo ora K. notò che la stanza in cui l'altra volta c'era solo un mastello per lavare ora costituiva un locale d'abitazione completamente arredato. La donna notò il suo stupore e disse: “Sì, noi abitiamo qui gratis, ma nei giorni di assise siamo obbligati a vuotare la stanza. Il posto di mio marito ha parecchi svantaggi.” “Non sono stupito tanto per la stanza”, disse K. guardando male la donna, “ma invece dal fatto che siete sposata.” “Vi riferite forse al fatto successo durante la scorsa assise, quando io disturbai il vostro discorso?” chiese la donna. “Certo”, disse K., “oggi non conta più e quasi è cosa dimenticata, ma sul momento mi ha reso addirittura furibondo. E ora voi, a dire di essere una donna sposata.” “Non fu a vostro svantaggio che il vostro discorso venisse troncato. In seguito lo si è giudicato assai negativamente.” “Può darsi”, disse K. divertito, “ma ciò non vi giustifica.” “Sono giustificata da tutti quelli che mi conoscono”, disse la donna, “quello che mi ha abbracciato mi sta dietro da parecchio tempo. In generale posso non essere attraente, ma per lui lo sono. Non c'è riparo a questa cosa, anche mio marito ci si è rassegnato; se vuole mantenere il posto lo deve tollerare, difatti quell'uomo è studente e arriverà prevedibilmente ad avere un potere più grande. Mi sta sempre dietro, se ne è andato proprio prima che veniste voi.” “A ogni altro va bene”, disse K., “ciò non mi sorprende.” “Avete intenzione d'introdurre qui delle riforme?” disse la donna, lenta e indagatrice, quasi che dicesse qualcosa di pericoloso tanto per lei quanto per K. “L'ho concluso dal vostro discorso, che a me personalmente è piaciuto molto. Del resto ne ho sentito solo una parte, l'inizio l'ho mancato e durante la conclusione giacevo con lo studente sul pavimento.” “Certo qui è un tale schifo”, disse dopo una pausa, e prese la mano a K. “Credete che vi riuscirà di migliorare le cose?” K. sorrise e ruotò un poco la sua mano nella mano soffice di lei. “In effetti”, disse, “non sono qui per migliorare le cose, per esprimersi come voi fate, e se lo diceste per esempio al giudice istruttore sareste derisa, oppure verreste punita. Di fatto non mi sarei certo immischiato di mia volontà in queste cose, né la possibile riforma di questa istituzione giudiziaria avrebbe mai turbato il mio sonno. Tuttavia dal momento che venni per così dire arrestato – insomma, sono in arresto – sono stato costretto a ingerirmi qui, senza dubbio di mia volontà. Se tuttavia intanto posso esservi utile in qualche modo, naturalmente lo farò molto volentieri. Non solo per amor del prossimo, diciamo così, ma soprattutto perché anche voi potete aiutare me.” “Ma come potrei?” chiese la donna. “Per esempio facendomi vedere i libri là sul tavolo.” “Ma certo”, esclamò la donna e lo tirò dietro di sé verso il tavolo. Erano vecchi libri sciupati, la copertina di uno era nella costola quasi rotta e i suoi pezzi erano sfibrati. “Com'è sudicio tutto, qui”, disse K. scuotendo il capo, e la donna strofinò via con il suo grembiule almeno la polvere superficiale prima che K. potesse prenderli. K. spalancò il libro che stava sopra e apparve una figura indecente. Un uomo e una donna sedevano nudi su un canapè, l'intento segreto dell'incisione era facile da intendere, ma la sua goffaggine era così grande che in definitiva erano visibili solo un uomo e una donna che in modo troppo corporeo dominavano la figura, sedevano troppo eretti e a causa della falsa prospettiva solo a fatica erano voltati l'uno all'altra. K. non voltò le pagine del libro oltre, invece aprì il secondo libro alla pagina del titolo, si trattava di un romanzo il cui titolo era: “Le tribolazioni che Grete ebbe da patire da parte di suo marito.” “Ecco i libri di legge che qui si studiano”, disse K. “Da persone così devo essere giudicato.” “Io vi aiuterò”, disse la donna. “Volete?” “Ma potreste farlo senza mettervi in pericolo? Dicevate prima che vostro marito è molto dipendente dai superiori.” “Voglio aiutarvi lo stesso”, disse la donna. “Venite, dobbiamo parlarne. Non parlate più di quel che io rischio, temo il rischio solo nei casi in cui voglio temerlo. Venite.” Gli indicò il podio e lo pregò di sedersi con lei sul gradino. “Avete dei begli occhi scuri”, disse dopo che si erano seduti guardando da sotto K. nel viso, “lo dicono anche a me che avrei dei begli occhi, ma i vostri sono molto più belli. Mi piacquero subito del resto, l'altra volta, quando entraste qui, all'inizio. Furono anche la ragione per cui poi più tardi venni all'assemblea, cosa che altrimenti mai avrei fatto e che in certo modo mi è proibita.” “Ecco, dunque”, pensò K., “mi si offre, è corrotta come tutti qua attorno, è stufa degli impiegati al tribunale, il che è certo comprensibile, per cui accoglie con favore un qualunque estraneo con un complimento per i suoi occhi.” E se ne stette zitto come se avesse espresso i suoi pensieri a voce così spiegando la propria condotta alla donna. “Non credo che voi potreste aiutarmi”, disse, “per aiutarmi davvero si dovrebbero avere rapporti con funzionari di alto grado. Voi tuttavia certamente conoscete gli impiegati di basso grado che fitti si aggirano qui. Costoro certo vi conoscono assai bene e da loro potreste ottenere parecchio, non ne dubito, ma il massimo che si potrebbe ottenere da loro sarebbe del tutto insignificante ai fini dell'esito definitivo del processo. Con ciò tuttavia vi sareste giocata pure alcuni amici. Questo non lo voglio. Continuate ad avere le relazioni solite con questa gente, mi spiego, mi sembra che ciò vi sia indispensabile. Non lo dico senza rammarico, difatti, per rispondere in qualche modo al vostro complimento, anche voi mi piacete, specie se come ora mi guardate con tanta tristezza, per quanto del resto non ne abbiate alcun motivo. Voi fate parte di questa compagine che io devo combattere, ma vi ci trovate molto bene, amate perfino lo studente, e se non lo amate, ugualmente lo preferite almeno a vostro marito. Fu facile riconoscerlo dalle vostre parole. “No”, esclamò lei, rimase seduta e prese la mano a K. che non la tirò via abbastanza svelto. “Non potete andarvene ora, non potete andarvene giudicandomi in modo sbagliato. Davvero siete capace di andarvene ora? Sono davvero così spregevole che voi neppure volete farmi il piacere di restar qui un altro momentino?” “Voi mi capite male”, disse K. sedendosi, “se davvero vi importa che resti qui, ci resto volentieri, il tempo non mi manca certo, sono venuto qui aspettandomi che oggi ci fosse un dibattimento. Con quel che vi dicevo prima desideravo solo pregarvi di non intraprendere nulla per me nel processo che mi riguarda. Tuttavia neppure di ciò dovete rammaricarvi, pensate invece che a me non importa nulla dell'esito del processo, e che su una condanna ci farò una risata. Ammesso che, in linea generale, si venga a una vera chiusura del processo, cosa di cui dubito molto. Credo anzi che il procedimento, a causa di infingardaggine o di smemoratezza, o forse addirittura a causa di paura da parte dell'insieme dei funzionari, sia già sospeso o che sarà sospeso quanto prima. Per altro è possibile anche che il processo venga apparentemente portato avanti nella speranza di un qualche maggior grado di corruzione, cosa del tutto inutile, come oggi posso già dire, difatti io non corrompo nessuno. Sarebbe tuttavia un favore che voi potreste farmi, se comunicaste al giudice istruttore o a qualcun altro che divulga volentieri notizie importanti, che io mai, e con nessun trucco di quelli di cui questi signori dispongono riccamente, sarò indotto alla corruzione. Sarebbe del tutto vano, questo potete dirglielo in modo chiaro. D'altra parte si sarà già visto, forse, e se anche non fosse così non me ne importerebbe molto, che era una cosa notoria. Con ciò verrebbe solo risparmiata fatica a quei signori, e a me alcune seccature che tuttavia volentieri mi assumo se so che ognuna è allo stesso tempo una bastonata per gli altri. E intendo curarmene, che lo divenga. Lo conoscete proprio il giudice istruttore?” “Naturalmente”, disse la donna, “ci pensai subito allorché vi offrii aiuto. Non sapevo che è solo un funzionario di basso grado, ma se lo dite voi, sarà probabilmente vero. Ciò nonostante credo che ciò che lui relaziona in alto abbia pur sempre qualche influenza. E di rapporti ne scrive così tanti. Voi dite che gli impiegati sono degli infingardi, certo non tutti, in particolare questo giudice istruttore non lo è, scrive moltissimo. Domenica scorsa per esempio l'assise durò fino a sera. Tutti se ne andarono, invece il giudice istruttore rimase nell'aula, dovetti portargli una lampada, ne avevo solo una piccola, da cucina, ma gli bastò e iniziò subito a scrivere. Intanto era arrivato anche mio marito che quella domenica per l'appunto era libero, andammo a prendere i mobili, ripristinammo l'arredamento della stanza, poi vennero anche i vicini, si passò il tempo al lume di candela; per farla breve: ci dimenticammo del giudice istruttore e andammo a dormire. Di colpo durante la notte, doveva già essere tardi, mi svegliai, accanto al letto c'era il giudice istruttore che faceva schermo alla lampada con una mano per non far cadere la luce su mio marito, cautela inutile, mio marito ha un sonno tale che la luce non lo avrebbe svegliato. Ero talmente spaventata che quasi avrei urlato, ma il giudice istruttore fu molto gentile, mi esortò alla cautela, mi sussurrò che aveva scritto fino a quel momento, che mi riportava la lampada e che mai avrebbe dimenticato lo spettacolo che gli avevo dato, trovandomi lui addormentata. Con tutto questo intendevo solo dirvi che in effetti il giudice istruttore scrive molti rapporti, in particolare su di voi: infatti la vostra audizione era certo uno degli oggetti principali dell'assise di domenica. I lunghi rapporti del giudice istruttore possono però non essere del tutto insignificanti. Inoltre potete anche vedere, per il caso vostro, che il giudice istruttore mi fa la corte e che proprio ora che siamo all'inizio, deve avermi notato dopotutto solo ora, posso avere su di lui una grande influenza. Che gl'importi molto di me ne ho adesso un'altra prova ancora. Ieri mi ha mandato in regalo tramite lo studente, di cui ha molta fiducia e che è suo collaboratore, delle calze di seta, all'apparenza perché sgomberi la stanza dell'assise, ma si tratta solo di un pretesto, difatti tale lavoro è mio dovere e mio marito è pagato per questo. Sono belle calze, guardate” - allungò le gambe, si tirò la veste su fino alle ginocchia e anche lei guardò le calze - “sono belle calze, ma in effetti troppo raffinate e non adatte a me.”
D'improvviso si interruppe, mise una mano su una mano di K., come volesse tranquillizzarlo, e mormorò: “Zitto, Bertold ci vede!” K. alzò lentamente lo sguardo. Sulla porta dell'aula di assise c'era un giovane, era piccolo, aveva le gambe non del tutto dritte e tentava di darsi un tono continuando a far vagare le dita nella sua corta e rada barba rossiccia. K. lo guardò incuriosito, si trattava davvero del primo studente della sconosciuta scienza giuridica che lui diciamo di persona incontrasse, un uomo che probabilmente sarebbe un giorno arrivato ad avere un posto da alto funzionario. Al contrario lo studente pareva non interessarsi affatto a K., fece un cenno alla donna con un dito, per un momento distolto dalla barba, e andò alla finestra, la donna si chinò verso K. e mormorò: “Non prendetevela con me, ve ne prego davvero, non pensate male di me, ora devo andare da lui, da quest'uomo ripugnante, basta che ne vediate le gambe storte. Torno subito, però, e poi vengo con voi, se mi portate con voi vengo dove volete, potete fare con me quel che volete, sarò felice se sto via di qui per il massimo possibile di tempo, meglio ancora se per sempre.” Accarezzò ancora una mano a K., saltò su e corse verso la finestra. Senza volere K. cercò di afferrarle una mano, a vuoto. Quella donna lo attraeva davvero, nonostante ogni riflessione lui non trovò alcun solido motivo per cui non dover cedere all'attrazione. Respinse senza fatica la fuggevole obbiezione che lei lo intrappolasse per conto del tribunale. In qual modo lei poteva intrappolarlo? Non continuava a restare, lui, tanto libero da riuscire subito a farla fuori, tutta quella corte di giustizia, almeno per quanto lo riguardava? Poteva non avere questo minimo di fiducia in se stesso? L'offerta di aiuto da parte di lei suonava sincera e forse non era vana. Forse non c'era una vendetta migliore sul giudice istruttore e sul suo codazzo che sottrarre loro questa donna e prendersela. Avrebbe potuto darsi il caso, una volta, che il giudice istruttore, fatto il faticoso lavoro di scrivere bugie su K., a notte fonda trovasse il letto della donna vuoto. Vuoto perché lei sarebbe stata di K., dato che quella donna lì, alla finestra, quel corpo voluttuosamente agile e caldo vestito di scura stoffa pesante, grezza, apparteneva senza dubbio solo a K.
Eliminate in tal modo le obbiezioni contro la donna, quel colloquio a voci basse alla finestra gli venne a noia, picchiò con le nocche sul podio, poi anche con un pugno. Lo studente guardò brevemente verso K. da sopra una spalla della donna, ma non si lasciò disturbare, anzi, le si spinse addosso di più e la cinse. Lei chinò ancor di più il capo come se stesse ad ascoltarlo attenta, lui la baciò rumoroso, lei abbassandosi, sul collo, senza smettere di parlarle. K. in ciò vide confermata la tirannia che lo studente, stando alle lagnanze di lei, esercitava sulla donna, si alzò e si mosse in giro per la stanza. Pensò sbirciando lo studente a come poter cacciarlo via nel più breve tempo possibile e quindi non salutò come cosa positiva che lo studente, chiaramente disturbato dal fatto che K. si aggirava nella stanza, osservasse: “se non avete pazienza potete andarvene. Avreste potuto andarvene anche prima, nessuno avrebbe sentito la vostra mancanza. Anzi, avreste addirittura dovuto andarvene già al mio arrivo, e alla svelta.” Magari in queste parole si sfogava tutta l'ira possibile, comunque in esse c'era anche l'alterigia del futuro funzionario tribunalizio che parlava a un imputato antipatico. K. gli si fermò molto vicino e sorridendo disse: “è vero, sono impaziente, ma quest'impazienza verrà eliminata nel modo più semplice dal fatto che voi ci lasciate. Siete forse venuto per studiare – ho sentito dire che siete studente - allora intendo farvi posto volentieri e me ne vado con lei. Del resto dovrete studiare ancora molto, prima di diventare giudice. Non conosco certo ancora molto bene la vostra qualità giuridica, ma ho idea che dovrà passare parecchio tempo perché non sia fatta solo di parole grossolane che certo già sapete dire in modo sfrontato.” “Non lo si sarebbe dovuto far girare così in libertà”, disse lo studente come se volesse dare alla donna una spiegazione di quel che K. aveva detto di offensivo, “fu uno sbaglio. L'ho detto al giudice istruttore. Lo si doveva almeno trattenere nella sua stanza, tra un interrogatorio e l'altro. Il giudice istruttore a volte è incomprensibile.” “Discorsi vani”, disse K. tendendo una mano alla donna. “Venite.” “Ah, è così” disse lo studente, “no no, voi non ve la prendete”, e con una forza che non gli si sarebbe attribuita prese su con un braccio la donna e a schiena curva, sogguardandola amoroso, si affrettò verso la porta. Indiscutibilmente lo studente fu preso, nel far ciò, da una certa paura di K., ciò nonostante osò provocarlo ancora strofinando e premendo con la mano che aveva libera il braccio della donna. K. si affrettò a seguirlo pronto ad acchiapparlo e nel caso a prenderlo per il collo, lei però disse: “Non serve a nulla, è il giudice istruttore che mi manda a chiamare, non posso venire con voi, questo sgorbietto”, disse facendo passare una mano sulla faccia dello studente, “questo sgorbietto non mi molla.” “E voi non volete esser liberata”, urlò K. piazzando addosso allo studente una mano, mano che quello azzannò. “No”, disse la donna respingendo con entrambe le mani K., “no, non è il caso, ma che vi viene in mente? Sarebbe la mia rovina. Lasciatelo fare, ve ne prego, lasciatelo fare. Sta solo eseguendo l'ordine del giudice istruttore, e mi porta da lui.” “E allora che vada, e voi non vi voglio più vedere”, disse K. infuriato per la delusione, e colpì lo studente sulla schiena, quello incespicò un attimo e poi subito balzò su ancor meglio con quel suo carico, per il piacere di non esser caduto. K. li seguì lentamente, capiva che si trattava della prima indubbia sconfitta che lui patisse da quella gente. Non c'era naturalmente alcun motivo di affliggersene, perché era lui a cercare la battaglia. Restando a casa a fare la sua solita vita, lui sarebbe stato in mille modi superiore a ognuna di quelle persone e avrebbe potuto levarsela di torno con un calcio. Si immaginò la comicissima scena che per esempio ci sarebbe stata se quel patetico studente, quel ragazzino borioso, quello sgorbio con la barbetta si fosse inginocchiato davanti al letto di Elsa e l'avesse pregata a mani giunte di fargli la grazia. Gli piacque tanto l'immagine, che decise, se l'occasione se ne fosse presentata, di portarlo da Elsa, una volta.
Per curiosità K. si affrettò verso la porta, voleva vedere dove sarebbe stata portata la donna, lo studente mica l'avrebbe portata in braccio per le strade. Si rivelò che il tragitto era molto più breve. Subito davanti alla porta dell'appartamento portava probabilmente alla soffitta una stretta scala di legno che faceva una curva, per cui non se ne vedeva il termine. Lo studente portò lentamente la donna su per quella scala, tra i gemiti, difatti la corsa lo aveva fiaccato. Lei salutò con una mano K., in basso, cercò facendo svariate volte spallucce di segnalare la sua incolpevolezza del rapimento, tuttavia in quelle mosse non v'era molto rammarico. K. la guardò inespressivo come un'estranea, non voleva mostrare che era deluso, né che avrebbe potuto vincere con facilità la delusione.
Quei due erano già scomparsi, ma K. restò sulla porta. Fu costretto ad ammettere che non solo la donna lo aveva imbrogliato ma, dicendo che veniva portata dal giudice istruttore, gli aveva anche mentito. Il giudice istruttore mica sarebbe stato ad aspettare in soffitta. La scala di legno non spiegava nulla finché non si guardava con attenzione. In quella K. notò un cartellino vicino all'ingresso della scala, ci andò e lesse, scritto in modo incerto e infantile, “Accesso agli Uffici del Tribunale”. E dunque lì, nelle soffitte di quella casa d'affitto, c'erano gli uffici del tribunale? Non c'era un'organizzazione capace di dedicarvi molta attenzione ed era tranquillizzante per un imputato figurarsi la pochezza dei mezzi economici a disposizione di questo tribunale, se esso collocava i suoi uffici lì dove gli inquilini, già di per sé appartenenti ai più poveri, depositavano la loro minutaglia superflua. Del resto non era escluso che di denaro se ne avesse abbastanza e che invece gli impiegati lo utilizzassero per sé prima che venisse impiegato per il tribunale. Ciò, stando alle esperienze fin lì avute da K., era addirittura assai probabile, un simile degrado per un imputato era certo umiliante, sì, tuttavia in fondo più tranquillizzante di quanto non fosse la miseria del tribunale. Ora K. capì anche che per il primo interrogatorio ci si fosse vergognati di citare l'imputato nella soffitta e si fosse preferito disturbarlo nella sua abitazione. E in qual posizione si trovava tuttavia K. nei confronti del giudice, che sedeva nella soffitta mentre lui nella banca aveva una grande stanza con un'anticamera e poteva guardar giù attraverso una enorme vetrata l'animata piazza cittadina? Certo, lui non disponeva di nessuna entrata secondaria da corruzione e peculato, né poteva farsi portare da un usciere alcuna donna in braccio nell'ufficio. A ciò però K. intendeva rinunciare, almeno in questa vita.
K. stava ancora davanti al cartellino quando un uomo salì la scala, guardò attraverso la porta aperta nella stanza da cui si poteva vedere anche il locale delle assise e alla fine chiese a K. se non avesse visto da poco una donna. “Siete l'usciere del tribunale, no?” “Sì”, disse quell'uomo, “ah sì, voi siete l'imputato K., ora vi riconosco, siate il benvenuto.” E porse la mano a K., che non se lo aspettava proprio. “Oggi però non è annunciata alcuna assise”, disse poi l'usciere, e K. tacque. “Lo so”, disse poi osservando l'abito civile dell'usciere che come unico segno di riconoscimento ufficiale accanto ad alcuni normali bottoni esibiva due bottoni dorati che sembravano essere stati staccati da un vecchio cappotto da ufficiale. “Ho parlato da poco con vostra moglie. Non è più qui. Lo studente l'ha portata dal giudice istruttore.” “Vedete”, disse l'usciere, “me la portano sempre via. Oggi è domenica, inoltre, e io sono libero, tuttavia solo per allontanarmi di qui mi si invia a portare una notifica, del resto inutile. Di fatto non mi si manda lontano, per cui ho la speranza, se faccio molto in fretta, di far ritorno, forse, in modo tempestivo. Dunque corro quanto posso, urlo all'ufficio cui sono stato mandato la mia comunicazione dalla soglia della porta, così senza fiato che mi capiranno a mala pena, corro di nuovo indietro, ma lo studente è stato più veloce di me, avendo lui del resto da fare un tragitto più breve, deve scendere solo la scala della soffitta. Se non fossi tanto in subordine, già da tempo lo avrei spiaccicato sul muro lo studente. Qui, presso il cartellino. E' il mio sogno, sempre. Un po' qui, sul pavimento, schiacciato, a braccia stese, le dita divaricate, quelle gambe storte attorcigliate, e attorno schizzi di sangue. Finora però è solo un sogno. “Non c'è un altro modo?” chiese K. sorridendo. “Non ne saprei un altro”, disse l'usciere. “E ora sarà anche peggio, fin qui se l'è presa solo per sé, ora la porta, del resto me lo aspettavo da tempo, anche dal giudice istruttore.” “Ma vostra moglie non ne ha proprio colpa?” chiese K., che dovette costringersi a fare questa domanda tanto sentiva anche lui la gelosia. “Ma certo”, disse l'usciere, “ne ha addirittura la colpa maggiore. Gli si è attaccata, anzi. Quanto a lui, corre dietro a ogni femmina. Solo in quest'edificio e stato buttato fuori già da cinque appartamenti in cui s'è intrufolato. Certo mia moglie è la donna più bella di tutta la casa e proprio da ciò non riesco a proteggermi.” “Se è così non c'è nulla da fare”, disse K. “Perché no?”, chiese l'usciere. “Lo studente, che è un codardo, si dovrebbe bastonare bene bene, la volta che vuole toccare mia moglie, in modo che non osi più farlo. Io però non posso e altri non mi fanno il piacere perché temono il potere che ci ha. Solo un uomo come voi potrebbe farlo.” “Ma perché io?” chiese K. stupito. “Siete ben l'imputato” disse l'usciere. “Sì”, disse K., “ma appunto per questo dovrei aver più paura che lui, quand'anche non abbia forse influenza sull'esito del processo, ne abbia sull'inchiesta preliminare.” “Sì, certo”, disse l'usciere come se il punto di vista di K. fosse precisamente uguale a quello suo. “Da noi però di solito non si fanno processi senza speranza.” “Non sono della vostra opinione”, disse K., “tuttavia ciò non m'impedirà di occuparmi all'occasione dello studente.” “Ve ne sarei molto grato”, disse l'usciere in modo un po' formale, in effetti non pareva credere all'esaudimento dei suoi desideri massimi. “Forse”, proseguì K., “si prodigherebbero anche altri dei vostri e forse tutti nello stesso modo.” “Sì sì”, disse l'usciere come se si trattasse di qualcosa di ovvio. Poi guardò K. in modo confidenziale, ciò che fin lì ancora non aveva fatto nonostante tutta la sua gentilezza, e proseguì: “ci si ribella sempre, come no?” Ma il discorso parve essergli diventato un po' scomodo, difatti s'interruppe e disse: “Ora ho da presentarmi nell'ufficio. Volete venire?” “Non ho niente da farci”, disse K. “Potreste vederla. Nessuno s'interesserà a voi.” “Ma è da vedere?” chiese K. esitante, però ne aveva una gran voglia. “Sapete”, disse l'usciere, “pensavo che vi avrebbe interessato.” “Va bene”, disse K. alla fine, “vengo con voi”, e salì la scala più in fretta dell'usciere.
Nell'entrare sarebbe caduto, difatti dietro la porta c'era un altro gradino. “Non è che si abbia molto riguardo per il pubblico”, disse. “Non se ne ha in generale”, disse l'usciere, “basta che vediate qui la stanza d'attesa.” Si trattava di un lungo andito dal quale porte rozzamente lavorate davano sui singoli reparti della soffitta. Nonostante che non vi fosse un accesso diretto di luce, non faceva completamente scuro, difatti parecchi reparti erano chiusi verso l'andito non da pareti piene, ma da semplici grate di legno – che altresì arrivavano fino al soffitto - attraverso le quali un po' di luce penetrava e si poteva anche vedere che alcuni impiegati erano al tavolo a scrivere o se ne stavano proprio alla grata a guardare dai fori coloro che si trovavano nell'andito. Probabilmente per il fatto che era domenica nell'andito c'era solo poca gente. Faceva un'impressione misera. A distanza quasi regolare l'uno dall'altro costoro sedevano su due lunghe panche di legno accostate ai due lati dell'andito. Erano vestiti in modo dimesso, per quanto in maggioranza, stando all'espressione facciale, alla postura, alla foggia della barba, appartenessero alle classi superiori. Mancando attaccapanni avevano messo i cappelli, probabilmente seguendo l'uno l'esempio dell'altro, sotto la panca. Quando quelli vicino alla porta scorsero K. e l'usciere si levarono per salutare; vedendo ciò, gli altri ritennero di dover salutare, per cui tutti si levarono progressivamente al passaggio dei due. Nessuno di loro si teneva proprio diritto, la schiena era piegata, le ginocchia pure, sembravano mendicanti in strada. K. aspettò l'usciere che camminava un po' dietro di lui e disse: “come devono essere afflitti!” “Sì”, disse l'usciere, “sono tutti imputati quelli che vedete qui, imputati.” “Davvero?” disse K. “Ma allora sono miei colleghi.” Si volse a quello più vicino, un uomo alto, magro, già con i capelli quasi grigi. “Che cosa state aspettando qui?”, chiese cortese. L'inattesa domanda tuttavia mise in confusione quell'uomo, cosa che apparve più penosa perché si trattava chiaramente di un uomo di mondo altrimenti capace di dominarsi il quale alla superiorità che su molti si era guadagnata non rinunciava facilmente. Stavolta però non seppe rispondere a una domanda tanto facile, guardò gli altri come se fossero tenuti a dargli un aiuto, come se nessuno potesse ottenere da lui una risposta mancandole tale aiuto. Allora si fece avanti l'usciere e per tranquillizzare e incoraggiare quell'uomo disse: “Questo signore chiede soltanto che cosa aspettate. Rispondete dunque.” La voce dell'usciere a lui forse nota ebbe un effetto migliore: “Aspetto -”, iniziò a dire, e si fermò. Chiaramente aveva scelto quest'inizio per rispondere come si deve alla domanda, ma ora non trovava come continuare. Alcuni di quelli che erano in attesa si erano avvicinati e stavano attorno al gruppo, ma l'usciere disse loro: “Via, via, liberate il passaggio.” Si ritirarono un po', ma non tornarono seduti. Intanto quell'uomo si era ripreso e rispose perfino con un sorrisetto: “Un mese fa ho fatto richiesta di escussione delle prove in merito al mio caso e attendo l'esito della mia richiesta.” “Sembrate davvero molto in pena”, disse K. “Certo”, disse quell'uomo, “si tratta del mio caso.” “Non tutti la pensano come voi”, disse K., “anch'io per esempio sono imputato, ma, quant'è vero che voglio andare in paradiso, non ho ancora fatto richiesta di escussione delle prove né intrapreso qualcosa del genere. Ma voi lo ritenete necessario?” “Non lo so bene”, disse quell'uomo di nuovo preso da completa incertezza; credeva chiaramente che K. si burlasse di lui, perciò avrebbe forse, per timore di far qualche nuovo errore, più volentieri di tutto ripetuto pari pari la risposta di prima, ma davanti all'occhiata impaziente di K. si limitò a dire: “per quel che mi riguarda ho fatto richiesta di escussione delle prove.” “Non ci credete, che io sia imputato?” chiese K. “Per carità, certo che ci credo”, disse quell'uomo spostandosi un po' di lato, ma nella sua risposta non c'era convinzione, c'era solo angoscia. “Non mi credete dunque?” chiese K. e, senza rendersi conto di provocare all'ossequio quell'uomo dal carattere ossequioso, lo prese per un braccio come se volesse costringerlo a credergli. Non voleva però fargli del male, lo aveva preso con delicatezza, ciò nonostante quell'uomo urlò come se K. l'avesse stretto non con due dita, ma con una pinza arroventata. Quell'urlo ridicolo disgustò K. definitivamente; non solo non ci si credeva, che lui fosse imputato, ma forse lo si prendeva per un giudice. E per congedarsi lo strinse davvero con più forza, lo ributtò indietro e andò oltre. “La maggior parte degli imputati sono talmente sensibili”, disse l'usciere. Dietro loro due quasi tutti coloro che erano in attesa fecero mucchio attorno a quell'uomo, che già aveva smesso di urlare, e sembrò che chiedessero informazioni adeguate sull'incidente. Ora venne incontro a K. una guardia, principalmente riconoscibile da una sciabola il cui fodero, almeno stando al colore, era fatto d'alluminio. K. se ne stupì e arrivò a toccarlo con una mano. La guardia, venuta a causa delle urla, chiese cos'era successo. L'usciere cercò di tranquillizzarla con qualche parola, ma la guardia spiegò che doveva verificare lui stesso, fece il saluto e andò oltre a passi lesti, ma molto brevi, forse soffriva di artrite.
K. non s'interessò a lungo a lui né alla compagnia seduta nell'andito, specie quando circa alla metà del medesimo vide la possibilità di infilarsi a destra in un'apertura priva di uscio. S'informò con l'usciere se quella era la via giusta, l'usciere annuì e di fatto K. ci s'infilò. Era fastidioso per lui dover precedere sempre di due o tre passi l'usciere, almeno in quel posto poteva sembrare come se lui venisse fatto precedere in qualità di imputato. Aspettò più di una volta dunque l'usciere, ma questi restava comunque indietro. Da ultimo per por fine al suo disagio K. disse: “Ora che ho visto com'è qui, voglio andarmene subito.” “Non avete ancora visto tutto”, disse l'usciere in tutta innocenza. “Non voglio vedere tutto”, disse K. che del resto si sentiva stanco davvero, “voglio andare, come si arriva all'uscita?” “Per caso vi siete perso, prima?” chiese stupito l'usciere, “andate fino all'angolo e poi a destra percorre l'andito fino alla porta.” “Venite con me”, disse K. “Indicatemi la strada, da solo la perdo, ve ne sono così tante.” “E' l'unica”, disse l'usciere, ora con aria di rimprovero, “non posso tornare indietro con voi, devo ancora presentare la notifica e ho già perso molto tempo per causa vostra.” “Venite con me”, disse di nuovo K., stavolta più aspro, quasi avesse colto finalmente l'usciere a dire una bugia. “Però non gridate in questo modo”, mormorò l'usciere, “qui ci sono dappertutto uffici. Se non volete andarvene da solo, allora venite insieme a me ancora per un pezzettino oppure aspettate qui che presenti la mia notifica, poi tornerò con voi volentieri.” “No no”, disse K., “non aspetterò, e voi dovete venire subito con me.” Ancora non si era guardato attorno, dove si trovava, solo quando una delle numerose porte che c'erano intorno si aprì lui guardò. Una ragazza che era stata richiamata dalle parole dette a voce alta di K. si fece avanti e chiese: “che cosa desidera il signore?” Dietro a lei si vedeva a distanza avvicinarsi anche un uomo, nella semioscurità. K. guardò l'usciere. Questi aveva detto che nessuno si sarebbe occupato di K., eppure eccone già due, mancava poco e gli impiegati tutti lo avrebbero notato, avrebbero voluto avere una spiegazione della sua presenza. L'unica spiegazione comprensibile e ammissibile era che lui era imputato e voleva sapere la data del prossimo interrogatorio, ma proprio quella spiegazione lui non voleva darla, in particolare perché non corrispondente nemmeno alla verità, difatti lui era lì solo per curiosità oppure, ma ciò non avrebbe spiegato alcunché, perché desiderava appurare il fatto che l'interno di quella istituzione giudiziaria era tanto ripugnante quanto l'esterno. Pareva che tale supposizione fosse giusta, ma lui non desiderava intrudersi di più, si accontentava di quel che aveva già visto, non era nella condizione di incontrare un funzionario di grado più alto che poteva saltar fuori da dietro ogni porta, voleva andarsene, o con l'usciere o da solo, se necessario.
Tuttavia il suo starsene senza parole dové sembrare strano, in realtà la ragazza e l'usciere lo guardavano come se tra un momento stesse per capitargli una gran trasformazione che loro non intendevano perdersi. Sulla porta stava quell'uomo che prima K. aveva notato in lontananza, si appoggiava alla trave superiore della bassa porta e scrutava un po' in punta di piedi, come fosse uno spettatore impaziente. La ragazza tuttavia capì che la condotta di K. era motivata da un leggero malessere, prese una sedia e chiese: “non volete sedervi?” K. si sedé subito e appoggiò, per tenersi meglio, i gomiti ai braccioli. “Avete un po' di capogiro, vero?” gli chiese. Lui ne aveva ora il viso davanti, vicino, un viso dall'espressione austera, quello che parecchie donne hanno proprio nella loro miglior giovinezza. “Non datevene pensiero”, disse lei, “non è cosa fuori del comune, qui, a quasi tutti succede quando vengono per la prima volta. E' la vostra prima volta qui? Ma sì, non è nulla di straordinario. Il sole brucia nel sottotetto e il legno che scotta rende l'aria talmente pesante e afosa. Il posto quindi non è molto adatto ad allocarvi degli uffici, d'altra parte offre grandi vantaggi. Quanto all'aria però, essa è nei giorni di grande affluenza delle parti <in causa – n.d.t.>, cioè quasi ogni giorno, appena respirabile. Se poi considerate che qui si stende ad asciugare una quantità di biancheria – agli inquilini non lo si può vietare – non vi meraviglierete più di aver avuto un piccolo malessere. Alla fine però ci si fa l'abitudine ottimamente, all'aria. La seconda o la terza volta che venite la sentirete appena l'oppressione. Vi sentite già meglio?” K. non rispose, era troppo penoso per lui essere consegnato, per la sua improvvisa debolezza, a quella gente lì, inoltre non stava meglio, ora che aveva saputo il motivo del suo malessere, ma anche un po' peggio. La ragazza se ne accorse subito, per procurare un po' di fresco a K. prese un bastone con un gancio che spinse sulla parete aprendo un abbaino proprio sopra a K., verso l'aria aperta. Ne venne giù tanta fuliggine però, che la ragazza fu costretta a richiuderlo subito e a pulire con un fazzoletto le mani a K., difatti lui era troppo stanco per farlo da sé. Sarebbe volentieri restato lì a sedere tranquillo fino a riprender forza bastevole ad andar via, ma ciò sarebbe successo tanto prima quanto meno ci si fosse occupati di lui. Per di più la ragazza disse, ora: “non potete restare qui, qui disturbiamo il passaggio” - K. chiese con lo sguardo qual mai passaggio lui disturbasse - “vi porterò, se volete, in infermeria.” “Aiutatemi, per favore”, disse lei a quell'uomo che stava sulla porta, che subito si avvicinò. K. però non voleva andare nell'infermeria, intendeva anzi evitare proprio di venir guidato oltre, più avanti andava e peggio la cosa diventava. “Sono già in grado di andarmene”, disse dunque e si alzò incerto, aveva già preso il vizio a star seduto comodo. Poi però non riuscì a tenersi eretto. “Non va mica”, disse scuotendo il capo, e si rimise seduto con un sospiro. Si ricordò dell'usciere che, nonostante tutto, avrebbe potuto con facilità portarlo fuori, ma questi sembrava non esser più lì da un bel po'; K. guardò tra la ragazza e quell'uomo che gli stavano davanti, ma di trovare l'usciere non gli riuscì.
Credo”, disse l'uomo, per altro vestito in modo elegante, specie per come colpiva la sua marsina grigia terminante in due lunghe code, “che il malessere del signore derivi da quest'aria, sarà perciò ottima cosa, e per lui la migliore, se non lo portiamo subito nell'infermeria, ma invece per prima cosa fuori dagli uffici.” “Ecco, sì”, esclamò K. quasi infilandosi, per la gran gioia, nelle parole di quell'uomo, “starò meglio subito, non sono nemmeno così debole, mi basta solo essere un po' sostenuto sotto le ascelle, non sarò loro di gran peso, non è nemmeno un percorso lungo, basta che mi portino fino alla porta, poi mi siedo un poco sui gradini e mi riprendo subito, voglio dire, non soffro mica di questi accessi, anch'io ne sono stupito. Sono anch'io un funzionario abituato all'aria degli uffici, ma qui è troppo, lo dicono loro stessi. Vogliano gentilmente portarmi un poco, mi spiego, ho il capogiro e alzarmi da solo non mi riesce.” E sollevò le spalle per meglio permettere ai due di prenderlo per le braccia.
Ma quell'uomo non ottemperò alla richiesta, mantenne tranquillo le mani nelle tasche dei calzoni e fece una gran risata. “Vedete”, disse alla ragazza, “che ci ho azzeccato. Non solo il signore non sta bene ora, non sta bene in generale.” La ragazza sorrise anche lei, ma con la punta delle dita diede un colpetto sul braccio di lui, quasi che si fosse permesso una battuta eccessivamente pesante. “Ma che cosa pensate?” disse l'uomo continuando a ridere, “certo che voglio portar fuori il signore.” “Va bene allora”, disse la ragazza intanto che chinava per un attimo la leggiadra testa. “Non date troppo peso alla risata”, disse la ragazza a K. che di nuovo intristito guardava davanti a sé e non sembrava necessitare di alcuna spiegazione, “questo signore - posso presentarvi?” (il signore lo concesse facendo con la mano un movimento) “- questo signore dunque è l'informatore. Dà alle parti in attesa tutte le informazioni di cui esse abbisognano, e, dal momento che la nostra istituzione giudiziaria non è molto nota tra la popolazione, si fa richiesta di molte informazioni. Egli ha una risposta a ogni domanda, potete, nel caso che lo desideriate, metterlo alla prova. Non è però la sua unica qualità, la sua seconda è l'eleganza dell'abito. Noi, intendo l'insieme dei funzionari, pensammo che colui che informa, che ha di continuo a che fare per primo con le parti, a motivo del decoro della prima impressione, dovesse esser vestito con eleganza. Noi altri, come voi potete vedere nel mio caso, purtroppo siamo vestiti molto male e non alla moda; non ha neppure molto senso cambiar qualcosa del vestiario, dato che noi siamo quasi sempre negli uffici, anzi ci dormiamo pure. Tuttavia, come detto, per l'informatore considerammo necessario un buon vestiario. Ma poiché non era possibile ottenerlo dalla nostra amministrazione, che è da questo punto di vista un po' particolare, ci mettemmo insieme – contribuirono anche le parti – e gli comprammo questo bell'abito e anche altri. Ora sarebbe tutto a posto per fare una buona impressione, ma lui con le sue risate guasta ciò che abbiamo fatto, e spaventa la gente.” “E' così”, disse canzonatorio quel signore, “ma non capisco, signorina, perché riferite al signore tutti i fatti nostri, o meglio glieli imponete, difatti lui non ne vuol proprio sapere. Basta che vediate come se ne sta lì, chiaramente occupato dagli affari suoi.” K. non aveva nemmeno voglia di replicare, l'intenzione della ragazza magari era buona, forse era diretta a distrarlo o a dargli la possibilità di riprendersi, ma il modo era sbagliato. “Dovevo spiegargli la vostra risata”, disse la ragazza.” “Ma era un modo offensivo.” “A lui toccherebbe perdonare offese anche peggiori, credo, se alla fine lo porto fuori.” K. non disse nulla, neppure guardava, tollerò che i 2 dibattessero su di lui come su una cosa, addirittura lo preferiva. Ma di colpo sentì una mano dell'informatore su un braccio e una mano della ragazza sull'altro. “Su, dunque, debole uomo”, disse l'informatore. “Vi ringrazio molto”, disse K. felicemente sorpreso, si sollevò pian piano e portò lui stesso quelle mani estranee dove di più gli servivano. “Pare”, disse piano la ragazza all'orecchio di K., intanto che essi si avvicinavano all'andito , “quasi che a me importi in modo molto particolare mettere in buona luce l'informatore, ma io desidero dire il vero, lo si creda. Non è mica crudele, di cuore. Non è tenuto a portare fuori di qui parti che hanno malori, eppure lo fa, come vedete. Forse nessuno di noi è crudele, di cuore, ci piacerebbe essere d'aiuto a tutti, ma come funzionari giudiziari facilmente ci tocca di apparire come se fossimo crudeli e non volessimo aiutare nessuno. Tendo a rammaricarmi di questo.” “Non volete sedervi un po' qui?” chiese l'informatore, si trovavano già nell'andito esattamente davanti all'imputato cui si era rivolto prima K., che quasi si vergognò; prima gli era stato così ben dritto davanti e ora dovevano sostenerlo in due, l'informatore gli teneva il cappello in equilibrio sulle dita, lui era spettinato, i capelli gli penzolavano sulla fronte sudata. Tuttavia quell'imputato non parve farci proprio caso, ossequioso stava in piedi al cospetto dell'informatore, il cui sguardo gli passava sulla testa, né fece alcunché, se non giustificare la sua presenza. “So”, disse, “che oggi non posso conoscere l'esito della mia istanza. Però sono venuto lo stesso, pensavo di poter attendere qui, è domenica, ho tempo e non reco disturbo, qui.” “Non dovete giustificarvi così”, disse l'informatore, “la vostra premura è anzi lodevole, certamente occupate il posto senza necessità, ma ciò nonostante non voglio, nella misura in cui ciò non mi incomoda, impedirvi affatto di seguire accuratamente l'andamento della vostra pratica. Quando s'è vista gente che trascura vergognosamente il suo dovere, s'impara ad avere pazienza con la gente come voi. Sedetevi.” “Come sa parlare con le parti”, mormorò la ragazza. K. annuì, ma subito sussultò quando l'informatore ripeté la domanda: “Non volete mettervi a sedere qui?” “No”, disse K., “non voglio riposarmi.” L'aveva detto con la massima decisione possibile, in realtà però gli avrebbe fatto molto bene mettersi a sedere; era come se avesse il mal di mare. Gli pareva di essere su una nave che si trovasse tra ardui marosi. Sembrava quasi che l'acqua si abbattesse sulle pareti di legno, quasi che dal fondo dell'andito venisse uno scroscio come di acqua a cavalloni, quasi che l'andito rollasse, quasi che le parti in attesa sui due lati venissero sprofondate e sollevate. Tanto più incomprensibile era la calma della ragazza e dell'uomo, che lo guidavano. Era in mano loro, se lo lasciavano per forza cadeva giù come una tavola di legno. Stringeva gli occhi, guardava qua e là; sentiva di procedere a passi simmetrici, ma senza prendervi parte, difatti veniva portato quasi, un passo dopo l'altro. Infine si accorse che gli parlavano, ma non li capiva, udiva solo il frastuono che tutto colmava e attraverso cui pareva risuonare sempre più alta la nota come di una sirena. “A voce più alta”, mormorò a testa china vergognandosi, difatti sapeva che avevano parlato a voce abbastanza alta, per quanto a lui incomprensibile. In quella finalmente, quasi che la parete che aveva davanti si fosse squarciata, gli arrivò addosso un soffio d'aria fresca, e vicino a sé udì queste parole: “prima vuole andar via, poi gli si può dire 100 volte che l'uscita è qui, e lui non si muove.” K. si accorse di essere davanti alla porta di uscita che la ragazza aveva aperto. Fu come se tutte le forze gli fossero tornate in una volta affinché lui si guadagnasse un assaggio di libertà, subito scese un gradino della scala e da lì si congedò dai suoi accompagnatori, che s'inchinarono. “Molte grazie”, rispose all'inchino, ripetutamente strinse loro le mani e smise solo quando ritenne di vedere che essi, abituati all'aria dell'ufficio, sopportavano male l'aria relativamente fresca che veniva dalla scale. Riuscirono a mala pena a rispondere e la ragazza sarebbe forse caduta, se K. con la massima sveltezza non avesse chiuso la porta. K. stette ancora un momento lì, si aiutò con uno specchietto a sistemarsi i capelli, prese il cappello, che si trovava sul pianerottolo successivo – era stato certo l'informatore a buttarcelo – e scese giù con tale freschezza e a balzi tanto lunghi che ne trasse quasi paura, da tale cambiamento. Sorprese del genere mai ancora gliene aveva propinate il suo stato di salute, di solito valido. Che il suo corpo volesse far diciamo una rivoluzione e propinargli un nuovo processo, dal momento che lui sopportava il vecchio processo tanto agevolmente?
Non respinse del tutto il pensiero di andare quanto prima da un medico, ciò nonostante voleva impiegare le prossime domeniche – questo era in grado di consigliarselo da solo – meglio di questa.




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