venerdì 1 maggio 2020

Franz Kafka: Il processo - 5


L'aguzzino

Una delle sere seguenti nel transitare lungo il corridoio tra il suo ufficio e la scala principale - in questo caso K. era quasi l'ultimo ad andare a casa, solo nel reparto spedizioni lavoravano ancora due uscieri nel ristretto campo di luce di una lampada a incandescenza – lui udì, dietro un uscio dietro il quale aveva sempre supposto esservi solo un ripostiglio, senza mai averlo visto di persona, emettere sospiri. Si fermò stupito e restò in ascolto ancora per stabilire se si era sbagliato – si fece per un po' silenzio, ma poi vi furono ancora sospiri. Dapprima voleva andare a chiamare un usciere, forse poteva servire un testimone, poi però lo prese una curiosità così indomabile che in effetti spalancò l'uscio. Si trattava, come aveva supposto correttamente, di un ripostiglio. Oltre la soglia c'erano sul pavimento vecchi inservibili materiali a stampa, bottiglie d'inchiostro vuote. Però nella stanza si trovavano 3 uomini rannicchiati in quello spazio basso. Dava loro luce una candela fissata su una scansia. “Cosa fate qui?” chiese precipitoso K. per via dell'eccitazione, ma non a voce alta. Quello che chiaramente dominava gli altri, e aveva attirato lo sguardo su di sé, dava nell'occhio per il genere di scuro abito di pelle che lasciava nudi il collo fino al petto e le braccia tutte. Non rispose. Invece gli altri due gridarono. “Signore! Dobbiamo venir staffilati perché tu ti sei lamentato di noi con il giudice istruttore.” E solo ora K. riconobbe che si trattava in realtà dei vigilanti, di Franz e Willem, e che il terzo teneva in mano uno staffile per colpirli. “Ora”, disse K. guardandoli fisso, “io non mi sono lamentato, ho detto soltanto cos'è successo nel mio appartamento. E innegabilmente non vi siete comportati come si deve.” “Signore”, disse Willem mentre Franz cercava palesemente di mettersi dietro di lui al sicuro dal terzo uomo, “se sapeste come siamo mal pagati dareste un giudizio migliore su di noi. Ho una famiglia da nutrire e Franz qui vorrebbe sposarsi, si tenta di arrotondare come viene, con il solo lavoro non ci si riesce, anche se con il più affaticante, la vostra bella biancheria mi ha attirato , naturalmente ai vigilanti è proibito agire così, fu scorretto, ma è tradizione che la biancheria appartenga ai vigilanti, è stato sempre così, credetemi; è certo anche comprensibile, difatti che mai significano simili cose per chi è tanto sfortunato da venir arrestato. Se poi però egli ne parla apertamente, in quel caso deve seguire la punizione. “Ciò che dite non lo so, non ho assolutamente fatto richiesta che veniste puniti, per me questo è un principio.” “Franz”, si volse Willem all'altro vigilante, “non te lo dicevo che il signore non ha chiesto la nostra punizione? E ora lo senti? Nemmeno l'ha saputo che noi dobbiamo esser puniti” “Non ti far commuovere da questi discorsi”, disse il terzo a K., “la punizione è tanto giusta quanto immancabile.” “Non stare a sentirlo”, disse Willem interrompendosi solo per portare lesto la mano alla bocca, su cui aveva ricevuto un colpo di staffile, “noi veniamo puniti solo perché ci hai denunciato. Altrimenti non ci sarebbe successo nulla anche se si fosse venuti a conoscenza di ciò che abbiamo fatto. Si può chiamare giustizia questo? Noi due, ma io in particolare, per lungo tempo ci siamo ben segnalati come vigilanti – anche tu devi riconoscere che noi dal punto di vista dell'autorità abbiamo vigilato bene – avevamo prospettive di avanzamento e saremmo certo diventati presto aguzzini come questo qui, che appunto ebbe la fortuna di non essere denunciato, difatti accuse del genere capitano davvero assai di rado. E ora, signore, tutto è perduto, la nostra carriera è finita, dovremo lavorare ancora da subordinati peggio di quanto non avvenga nel servizio di vigilanza e per di più ora ci tocca questa pena corporale spaventosamente dolorosa.” “Ma lo staffile fa così male?” chiese K. scrutando lo staffile che l'aguzzino gli brandiva davanti. “Dovremo addirittura denudarci”, disse Willem. “Ah”, disse K. guardando meglio l'aguzzino, abbronzato come un marinaio e con una faccia brutalmente sana. “Non è possibile risparmiare la pena corporale ai due?” gli chiese K. “No”, disse l'aguzzino scuotendo il capo con un sorriso. “Spogliatevi”, ordinò ai vigilanti. E a K.: “non devi credere a tutto quel che dicono. Sono già un po' fuori di sé per timore dello staffile. Per esempio, quel che ha raccontato questo qui” - indicò Willem - “sulle sue possibilità di carriera, è assolutamente ridicolo. Vedi quanto è grasso – il primo colpo di staffile andrà soprattutto smarrito nel grasso. Lo sai perché è diventato tanto grasso? Ha l'abitudine di mangiar la colazione a tutti gli arrestati. Non ha mangiato anche la tua? Lo dicevo, io. Ma un uomo con una pancia simile non può mai e in nessun caso diventare aguzzino, è totalmente escluso.” “Ce ne sono di aguzzini grassi”, osservò Willem sciogliendosi la cintura dei calzoni. “No!” disse l'aguzzino e lo colpì sul collo in tal modo che quello trasalì, “Tu non dovresti stare a sentire, ma invece dovresti levarti da qui.” “Ti pagherei bene, se li lasci andare”, disse K. e senza guardare di nuovo l'aguzzino – certe faccende si regolano al meglio se le due parti non si guardano – estrasse il portafogli. “Poi denunci anche me”, disse l'aguzzino, “ e mi tocca lo staffile. No no!” “Ma sii ragionevole”, disse K., “se avessi voluto che questi 2 venissero puniti, ora mica intenderei riscattarli. Potrei semplicemente chiudere quest'uscio, non vedere né sentire più altro e andarmene a casa. Ma non lo faccio, anzi m'interessa sul serio che loro siano liberati; se avessi supposto che dovessero o anche solo potessero venir puniti non avrei mai fatto i loro nomi. Non li ritengo affatto colpevoli, colpevole è l'organizzazione, colpevoli sono gli alti funzionari.” “Ecco, sì”, esclamarono i vigilanti e si presero subito un colpo sulle spalle che già erano spogliate. “Se tu qui sotto lo staffile avessi un alto giudice”, disse K. abbassando, mentre parlava, lo strumento che già stava di nuovo levandosi, “davvero non ti impedirei di cominciare a colpire, al contrario ti darei più soldi per corroborarti ai fini della giusta causa.” “Quel che dici suona certo plausibile”, disse l'aguzzino, “ma io non mi faccio corrompere. Sono addetto alle pene corporali e dunque staffilo.” Il vigilante Franz che, forse aspettandosi un buon esito dell'intervento di K., fin lì si era alquanto contenuto, andò verso l'uscio con solo i calzoni addosso, si attaccò inginocchiandosi a un braccio di K. e sussurrò: “se non riesci a ottenere pietà per entrambi cerca almeno di liberare me. Willem è più anziano di me, sotto questo aspetto meno sensibile, già in un caso alcuni anni fa ha avuto una forma lieve di pena corporale, io invece non sono ancora disonorato e alla mia condotta sono stato portato unicamente da Willem che nel bene e nel male è mio maestro. Giù, davanti alla banca, la mia povera sposa mi attende all'uscita, io mi vergogno tremendamente.” Si asciugò con la giacca di K. il viso inondato di lacrime. “Non aspetto più”, disse l'aguzzino, afferrò con tutte e due le mani lo staffile e colpì Franz, mentre Willem era rannicchiato in un cantuccio e guardava di nascosto senza osare un movimento del capo. Quando si levò l'urlo cacciato da Franz, pieno e costante, non sembrò originato da un uomo, ma da uno strumento sottoposto a tormento, tutto il corridoio ne risuonò, l'intero edifico dové udirlo; “non urlare”, gridò K., non riuscendo a trattenersi e, mentre guardava teso nella direzione da cui dovevano venire gli uscieri, colpì Franz non forte, ma abbastanza forte perché quello inconsultamente cadesse giù e convulso andasse a tastoni sul pavimento; ma non evitò i colpi, lo staffile lo colse anche a terra, mentre lui le si rotolava sotto, la punta dello staffile si agitava regolare su e giù. E già da lontano comparve un usciere, poco dietro un secondo. K. aveva in fretta chiuso l'uscio con un colpo, era andato a una vicina finestra interna e l'aveva aperta. L'urlio era cessato del tutto. Per non far avvicinare gli uscieri K. gridò: “sono io.” “Buona sera signor procuratore”, gridarono di rimando. “E' successo qualcosa?” “No no”, rispose K., “a urlare è solo un cane in cortile.” Poiché gli uscieri non si muovevano, aggiunse: “Loro possono restare al loro lavoro.” Per non doversi abbassare a conversare con gli uscieri si affacciò alla finestra. Quando dopo un certo tempo guardò di nuovo nel corridoio essi erano già via. K. però restò presso la finestra, non osava andare nel ripostiglio, né voleva andare a casa. Il cortile verso cui lui guardava era quadrato e piccolo, tutt'intorno c'erano ininterrottamente uffici, tutte le finestre erano adesso scure, solo quelle più in alto catturavano un riflesso della luna. K. cercò sforzandosi di penetrare con lo sguardo nel buio di un canto del cortile nel quale erano accostati l'uno all'altro dei carretti a mano. Gli doleva di non essere riuscito a impedire la pena corporale, ma non era colpa sua se non aveva avuto successo, se Franz non avesse urlato – certo doveva esser stata una cosa dolorosa, ma in un dato momento ci si deve dominare – se non avesse urlato, K. molto probabilmente, almeno, avrebbe trovato ancora modo di persuadere l'aguzzino. Se tutto l'insieme degli impiegati di più basso grado era gentaglia, perché proprio l'aguzzino, che aveva l'ufficio più inumano, avrebbe dovuto costituire l'eccezione? K. aveva ben visto come, alla vista delle banconote, gli occhi erano brillati all'aguzzino, costui aveva staffilato con serietà solo per alzare ancora un po' il prezzo della corruzione. E K. non avrebbe fatto l'avaro, davvero gl'importava di liberare i vigilanti; se già aveva iniziato a combattere la corruzione di questa compagine giudiziaria era evidente che lui entrasse in azione anche da questo lato. Però nel momento in cui Franz aveva iniziato a urlare naturalmente tutto era finito. K. non poteva permettere che gli uscieri e fors'anche tutta la gente possibile venisse a sorprenderlo nel ripostiglio in trattative con quella combriccola. Tale sacrificio davvero nessuno poteva volerlo da K. Se lui ne avesse avuto l'intenzione sarebbe stato quasi più semplice che si fosse spogliato e offerto come sostituto dei vigilanti all'aguzzino. D'altronde certo egli non avrebbe accettato tale sostituzione dato che in quel modo senza alcun suo vantaggio avrebbe gravemente violato il suo dovere e probabilmente lo avrebbe doppiamente violato, difatti K. certamente, fintanto che era in arresto, doveva essere per ogni impiegato del tribunale intoccabile. D'altra parte qui potevano anche vigere speciali disposizioni. In ogni caso K. non aveva potuto fare null'altro che chiudere l'uscio di colpo, ciò nonostante con tale gesto per lui non tutti i pericoli erano eliminati in assoluto. Che anche lui alla fine avesse colpito Franz era deplorevole e giustificabile solo per il suo stato di tensione.
Udì in lontananza i passi degli uscieri; per non dar loro nell'occhio chiuse la finestra e si diresse verso la scala principale. Alla porta del ripostiglio si fermò un poco e stette in ascolto. Totale silenzio. Quell'uomo poteva aver staffilato a morte i vigilanti, già totalmente in suo potere. K. aveva già proteso una mano verso la maniglia, poi però la ritirò. Non poteva più aiutare nessuno e gli uscieri stavano per arrivare; si ripromise tuttavia di parlare ancora di quella cosa e di punire a dovere, per quanto potesse, i veri colpevoli, gli alti funzionari, dei quali nessuno ancora aveva osato segnalarsi a lui. Nello scendere la scala esterna della banca osservò meticoloso tutti i passanti, ma lì intorno non c'era alcuna ragazza in attesa di qualcuno. Il rimarcare da parte di Franz che sua moglie lo aspettava si dimostrò essere una bugia del resto perdonabile che aveva avuto solo lo scopo di suscitare una compassione più grande.
Neppure nei giorni successivi i vigilanti gli uscirono di mente; sul lavoro fu distratto e per riuscire a farlo bene dové restare in ufficio ogni giorno più a lungo del giorno prima. Nel passare davanti al ripostiglio per uscire e andare a casa, come fosse un'abitudine, lo apriva. Di ciò che vedeva, a parte l'attesa oscurità, non sapeva capacitarsi. Tutto era immutato ogni sera rispetto alla sera prima, quando aveva aperto l'uscio. Materiali di stampa e bottiglie d'inchiostro subito al di là della soglia, l'aguzzino con lo staffile, i vigilanti ancora svestiti, la candela sulla mensola, i vigilanti che iniziavano a lamentarsi e gridavano “Signore!” Subito K. chiudeva con un colpo l'uscio e lo colpiva con i pugni, come se in quel modo fosse chiuso meglio. Quasi piangente correva dagli uscieri, tranquilli al lavoro con la macchina per le copie <ciclostile? -n.d.t.>, che stupiti si fermavano. “Ma svuotatelo una buona volta il ripostiglio”, gridava lui. “Si affonda nel sudicio.” Quelli erano disposti a farlo il giorno dopo, K. annuiva, subito a quell'ora tarda della sera lui non poteva più costringerli a lavorare come in effetti aveva in mente. Si metteva per un po' seduto allo scopo di tenerli d'occhio, metteva in disordine alcune delle copie credendo di dar l'impressione di verificarle e poi se ne andava, intuendo che gli uscieri non avrebbero osato andarsene a casa, stanchi e distratti, contemporaneamente a lui.

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