Lo zio
Leni
Un
pomeriggio – K. aveva molto da fare con la chiusura dei conti –
tra due uscieri che recavano documenti si palesò nella stanza lo zio
di K., Karl, un piccolo proprietario terriero di provincia. K.
vedendolo si spaventò meno di quanto si fosse spaventato
precedentemente figurandosene la venuta. Lo zio doveva venire, già
da un mese circa K. lo sapeva bene. Già allora se l'era immaginato,
un po' curvo, nella mano sinistra il panama ammaccato, che già da
lontano gli tendeva la destra e gliela porgeva frettoloso e sbadato
al di sopra della scrivania rovesciando ogni cosa al suo passaggio.
Lo zio si trovava sempre in stato di fretta, era perseguitato dalle
preoccupazioni, durante la sua permanenza di solo un giorno nella
capitale doveva poter concludere tutto quello che si era proposto, né
poteva lasciarsi sfuggire per di più alcuna occasionale
conversazione, o alcun affare o alcun piacere. A tal fine K., allo
zio obbligato in modo particolare perché già tutore, doveva
essergli d'aiuto massimo possibile e inoltre ospitarlo per la notte.
“Il fantasma che vien dalla campagna”, usava chiamarlo.
Subito
dopo i saluti – di mettersi in poltrona, cui K. l'invitò, lui non
aveva mica tempo – chiese di fare un discorsetto a 4 occhi. “E'
necessario”, disse deglutendo a fatica, “necessario alla mia
tranquillità.” K. mandò subito gli uscieri fuori dalla stanza con
l'ordine di non far entrare nessuno. “Che cosa sento, Joseph?”
esclamò lo zio quando furono soli, si sedé sul tavolo piazzandosi
sbadato su diverse carte, per accomodarsi. K. tacque, sapeva che cosa
era in arrivo, tuttavia, improvvisamente rilassato dal suo faticoso
lavoro, si abbandonò prima a un piacevole languore, guardò oltre la
finestra i lati della strada di fronte dei quali dal suo posto era
visibile solo un piccolo frammento triangolare, un pezzo di muro
vuoto tra due vetrine di uffici. “Tu stai a guardare fuori dalla
finestra”, gridò lo zio sollevando le braccia, “per l'amor di
Dio Joseph, rispondimi. E' vero, può mai esser vero?” “Caro
zio”, disse K. uscendo dalla sua distrazione, “non so proprio che
cosa vuoi da me.” “Joseph”, disse lo zio, ammonendolo, “a
quanto ne so tu hai sempre detto la verità. Devo prendere le tue
parole come un brutto segno?” “Ma io lo indovino, quel che vuoi”,
disse K. docile, “hai probabilmente sentito parlare del mio
processo.” “E' così”, rispose lo zio, annuendo lento, “ho
sentito parlare del tuo processo.” “ Ma da chi?”, chiese K. “Mi
ha scritto Erna”, disse lo zio, “non ha alcun contatto con te,
purtroppo tu non t'interessi molto di lei, nonostante questo lo ha
saputo. Ho ricevuto la lettera oggi e naturalmente sono venuto
subito. Per nessun altra ragione, però mi sembra una ragione
sufficiente. Posso leggerti il passo che ti riguarda.” Estrasse la
lettera dal portafogli. “Ecco qui. Scrive: 'Joseph è tanto che non
lo vedo, una settimana fa sono stata alla banca, ma Joseph aveva
tanto da fare che io non venni fatta passare; ho atteso quasi per
un'ora, poi però ho dovuto andare a casa perché avevo lezione di
pianoforte. Ci avrei parlato volentieri, forse la prossima volta se
ne troverà l'occasione. Per il mio onomastico mi ha mandato una
grossa scatola di cioccolato, fu una cosa molto carina e premurosa.
Ho dimenticato di scrivervelo, allora, solo ora che me lo chiedete me
ne ricordo. Dovete sapere che il cioccolato sparisce, voglio dire,
nella pensione sparisce subito non appena si viene a conoscenza che
si è avuto in regalo il cioccolato, anche stavolta è già finito.
Ma per quanto riguarda Joseph volevo dirvi ancora qualcosa: come
detto in banca non fui fatta entrare da lui, perché aveva da fare
con un signore. Dopo che avevo aspettato per un po' tranquilla,
chiesi a un usciere se il colloquio sarebbe durato ancora molto.
Quello disse che ce n'era la possibilità dato che probabilmente si
trattava del processo intentato al signor procuratore. Di che
processo si tratta mai, chiesi io, non è che lui si sbagliava, però
lui disse che non si sbagliava, era un processo, anzi un processo
difficile, però non ne sapeva di più. Anche a lui sarebbe piaciuto
dare una mano al signor procuratore perché è un signore molto buono
e giusto, ma non lo sapeva come fare e si augurava solo che se ne
occupassero dei signori influenti. Di certo sarà così e andrà a
finir bene, per il momento però era molto difficile, come si poteva
dedurre dai chiribizzi del signor procuratore. Non è che io dessi
molta importanza a questo discorso, cercai di tranquillizzare quel
sempliciotto, gli proibii di parlarne davanti ad altri e ritenni il
tutto un pettegolezzo. Nonostante questo sarebbe bene se tu, babbo
carissimo, volessi alla tua prossima visita indagare, a te sarà
facile informarti meglio e, se davvero dovesse essere necessario,
intervenire per mezzo delle tue conoscenze tanto influenti. Se però
non fosse necessario, come è la cosa più probabile, sarebbe almeno
l'occasione per abbracciare tua figlia, che ne sarebbe contenta.'
Brava ragazza”, disse lo zio quand'ebbe finito di leggere, e si
strofinò via qualche lacrima dagli occhi. K. annuì, a seguito delle
svariate noie degli ultimi tempi si era del tutto dimenticato di
Erna, perfino del compleanno di lei si era scordato, e quella storia
del cioccolato era stata chiaramente pensata allo scopo di
proteggerlo sia dallo zio che dalla zia. Era assai toccante e certo
non ripagabile a sufficienza con i biglietti del teatro che da ora in
poi voleva mandarle con regolarità, però non si sentiva a posto per
far visita alla pensione e intrattenersi con una piccola ginnasiale
di 17 anni. “Che cosa dici ora?” chiese lo zio che si era
dimenticato ogni fretta ed emozione e sembrava che gliela rileggesse
ancora la lettera. “Sì, zio”, disse K., “è vero.” “Vero?”
gridò lo zio. “Vero cosa? Ma come fa a esser vero? Che processo è?
Mica un processo penale?” “Un processo penale”, rispose K. “E
tu te ne stai tranquillo qui quando hai sul collo un processo
penale?” gridò lo zio, che continuava ad alzare la voce. “Quanto
più calmo sono tanto meglio è per l'esito”, disse K. con
stanchezza. “Non ho punta paura.” “Questo non mi
tranquillizza”, esclamò lo zio, “Joseph, caro Joseph, pensa a
te, ai tuoi parenti, al nostro buon nome. Finora eri il nostro
orgoglio, non puoi diventare la nostra vergogna. La tua condotta”,
e guardò K. di sbieco, “non mi piace, non fa così chi è
innocente e che ancora sia in gamba. Dimmi solo, e alla svelta, di
cosa si tratta, ché io possa darti una mano. Naturalmente si tratta
della banca, no?” “No”, disse K. e si alzò, “però tu parli
a voce troppo alta, l'usciere probabilmente sta alla porta ad
ascoltare. Per me è non va bene. Meglio che usciamo. Poi risponderò
a tutte le domande meglio che posso. So molto bene di dover rendere
conto alla famiglia.” “Giusto”, sbraitò lo zio, “giustissimo,
basta che ti sbrighi, Joseph, sbrigati.” “Devo solo dare ancora
qualche disposizione”, disse K. e chiamò per telefono il suo
assistente, che dopo poco entrò. Agitato com'era lo zio gli fece
segno che K. l'aveva fatto chiamare, per quanto ciò fosse ovvio. K.,
che si trovava davanti alla scrivania, con l'aiuto di svariate carte
spiegò a bassa voce a quel giovane, in ascolto freddo ma attento,
che cosa in sua assenza doveva esser ancora fatto oggi. Lo zio dava
noia lì, con gli occhi di fuori si mordeva nervosamente le labbra,
ma l'aria stessa che aveva era di per sé disturbante. Poi si mise a
percorrere la stanza da ogni parte, si fermò qua e là, davanti alla
finestra o davanti a un quadro, insieme uscendosene senza sosta in
esclamazioni varie, tipo “non riesco assolutamente a capire”, o
“dimmi solo cosa succederà”. Il giovane fingeva di non farci
caso, ascoltò fino in fondo le disposizioni di K., prese appunti e
se ne andò dopo essersi inchinato sia a K sia allo zio, che però
gli voltava le spalle, guardava fuori dalla finestra e protendeva le
mani spiegazzandone le tende. S'era appena chiusa la porta che lo zio
proruppe: “finalmente quel bischerello se n'è andato, e ora
possiamo andarcene anche noi. Era ora!” Purtroppo non ci fu modo,
nell'atrio disseminato di uscieri e funzionari e col vice direttore
che passava di lì, di far smettere lo zio di far domande sul
processo. “Dunque allora, Joseph”, iniziò lo zio mentre questi
rispondeva con leggeri cenni di saluto agli inchini degli astanti,
“dimmi subito chiaro di che razza di processo si tratta.” K. fece
alcune osservazioni insignificanti, rise anche un poco e solo sulle
scale spiegò allo zio che non intendeva parlar chiaro in pubblico.
“Giusto”, disse lo zio, “ma ora parla.” A testa china,
fumando un sigaro a tirate brevi e affrettate, stette a sentire.
“Prima cosa, zio”, disse K., “non si tratta affatto di un
processo che si svolge nel solito tribunale.” “Male”, disse lo
zio. “Perché?” disse K. guardandolo. “Penso che sia un male”,
ripeté lo zio. Si trovavano sulla scalinata esterna che scendeva in
strada; dato che il portiere pareva in ascolto, K. trascinò giù lo
zio; il vivace traffico della strada li assorbì. Lo zio, che s'era
attaccato a K., smise di insistere con le domande sul processo,
addirittura fecero un pezzo di strada in silenzio. “Ma com'è
andata?” chiese alla fine lo zio fermandosi tanto di botto che la
gente che gli camminava alle spalle si scostò spaventata. “Queste
cose mica succedono improvvise, si preparano a lungo, prima, devono
essercene stati segni, perché non mi hai scritto? Lo sai che per te
faccio di tutto, in certo modo sono ancora tuo tutore e finora ne ero
fiero. Naturale che ti aiuterò ancora, solo che col processo già
in corso è molto difficile. La meglio sarebbe comunque se ti
prendessi un breve permesso e venissi da noi in campagna. Sei anche
un po' dimagrito, ora che ci faccio caso. In campagna ti rinforzerai,
ti farà bene, ti aspettano certo delle fatiche. E poi in certo qual
modo sarai sottratto al tribunale. Qui loro hanno tutte le possibili
leve di potere adoperabili, di necessità e in automatico, contro di
te; là in campagna invece dovrebbero delegare a delle autorità, o
cercar di agire su di te solo per lettera, col telegrafo, col
telefono. Cose che naturalmente ne attenuano l'effettività, non è
che ciò ti liberi, certo, ma ti fa riprendere fiato. ”Potrebbero
proibirmi di partire”, disse K., un po' preso dal ragionamento
espresso dallo zio. “Credo che non lo faranno”, disse pensieroso
lo zio, “non è così grave la perdita di potere che patiscono con
la tua partenza.” “Pensavo”, disse K. prendendo sotto braccio
lo zio per impedirgli di fermarsi, “che tu avresti attribuito
all'intera cosa meno importanza di quanto faccio io, e ora anche tu
la prendi così a cuore.” “Joseph”, esclamò lo zio con
l'intenzione di svincolarsi da lui per potersi fermare, ma senza
riuscirci, “sei cambiato, avevi sempre un comprendonio tanto netto
e proprio ora quello ti manca? Ma il processo lo vuoi perdere? Lo sai
cosa vuol dire? Vuol dire che sarai semplicemente cancellato. E che
tutto il parentado sarà spazzato via con te o almeno degradato
totalmente. Joseph, riprenditi. La tua indifferenza mi fa perdere la
testa. A guardarti quasi verrebbe voglia di credere al proverbio che
dice: 'subire un processo vuole già dire averlo perso'.” “Caro
zio”, disse K., “Agitarsi non serve né da parte tua né, se
fosse, da parte mia. Agitandosi i processi non si vincono, e tu
approva un po' anche le mie conoscenze pratiche, così io come
rispetto, sempre e anche ora, le tue, anche quando mi sorprendono.
Poiché dici che anche la famiglia sarebbe coinvolta a causa del
processo – cosa che per parte mia non riesco assolutamente a
capire, ma ciò è secondario – desidero seguirti in tutto. Solo il
soggiorno in campagna io non lo considero come intendi te
vantaggioso, difatti costituirebbe fuga e consapevolezza colpevole.
Oltre a ciò io qui sono certo perseguitato, tuttavia posso seguire
anche la causa.” “Giusto”, disse lo zio, quasi che finalmente
essi avessero più confidenza reciproca, “ti feci la proposta
perché, se resti qui, vedevo la causa messa a repentaglio dalla tua
indifferenza e ritenevo meglio per te darmi da fare al posto tuo. Ma
se intendi seguire la causa in prima persona con la massima energia
naturalmente è molto meglio.” “In questo senso saremmo
d'accordo”, disse K. “E ce l'hai una proposta su cosa io debba
fare per prima cosa?” “Devo rifletterci ancora, è naturale”,
disse lo zio, “considera che sono quasi 20 anni che sto in campagna
quasi ininterrottamente, ragione per cui il fiuto per queste piste
s'è indebolito. E anche svariati importanti collegamenti con
personalità che forse, nel caso presente, sanno orientarsi meglio,
si sono allentati. In campagna sono un po' isolato, di certo lo sai.
Lo si constata effettivamente solo in queste occasioni. La tua causa
in parte mi giunse anche inaspettata, per quanto dalla lettera di
Erna, strano a dirsi, già indovinai qualcosa del genere e oggi quasi
distintamente lo seppi, vedendoti. Questo però non conta, ora la
cosa più importante è non perdere assolutamente tempo.” Già
mentre parlava aveva, stando in punta di piedi, chiamato con un gesto
un'automobile e ora tirava dietro di sé nell'auto K. mentre
comunicava un indirizzo al conducente. “Ora andiamo dall'avvocato
Huld”, disse, “fu mio compagno di scuola. Il nome lo conosci
certo anche tu; no? Strano. Ha un notevole nome come patrocinatore e
come avvocato dei poveri. Tuttavia io ne ho gran fiducia specialmente
come uomo.” “Tutto quel che hai intenzione di fare mi va bene”,
disse K, ciò nonostante il modo affrettato e la premura con cui lo
zio si occupava della causa lo mettevano a disagio. Non era molto
consolante ricorrere come imputato a un avvocato dei poveri. “Non
sapevo”, disse, “che in una faccenda simile si potesse consultare
anche un avvocato.” “Ma certo”, disse lo zio, “è evidente.
Perché no? E ora raccontami quel che è successo finora perché io
sia ben informato della causa.” K. iniziò subito a riferire senza
tacere nulla, la sua completa sincerità era l'unica protesta
permessa contro il punto di vista dello zio che il processo fosse una
gran vergogna. Fece solo una volta e di sfuggita il nome della
signorina Buerstner, tuttavia questo non nocque alla sincerità,
difatti la signorina non era collegata affatto al processo. Nel
riferire guardò dal finestrino e notò che lui e lo zio si
avvicinavano proprio al sobborgo dove si trovavano gli uffici di
cancelleria del tribunale, ne fece partecipe lo zio che però non
trovò particolarmente strana quella coincidenza. La vettura si fermò
davanti a un edificio scuro. Lo zio suonò a pianterreno alla prima
porta; mentre aspettavano, sorridendo digrignò i suoi dentoni e
mormorò: “le 8, ora insolita per una visita della clientela. Huld
però con me non se la prende.” Allo spioncino della porta
apparvero due grandi occhi neri, guardarono per un po' i due ospiti e
sparirono; ma la porta non si aprì. Sia lo zio sia K. si
confermarono a vicenda di aver effettivamente visto i due occhi. “Una
cameriera nuova intimorita da estranei”, disse lo zio bussando di
nuovo. Riapparvero gli occhi, ora li si poteva prendere quasi per
tristi, forse però si trattava di un'illusione suscitata dalla
fiamma a gas che al di sopra delle teste ardeva fischiando forte,
facendo però scarsa luce. “Aprite”, gridò lo zio picchiando col
pugno contro la porta, “siamo amici del signor avvocato.” “Il
signor avvocato è ammalato”, mormorò qualcuno dietro di loro. Su
una porta dall'altra parte del breve corridoio c'era, a comunicare
ciò a voce bassissima, un signore in vestaglia. Lo zio, già
infuriato per via della lunga attesa, si volse di colpo e a voce alta
chiese: “Ammalato? Dite che è ammalato?” e andò verso quel
signore quasi minaccioso, come se fosse lui la malattia. “Ecco,
hanno aperto”, disse quel signore, indicò la porta dell'avvocato,
si ricompose nella sua vestaglia e sparì. In effetti la porta era
stata aperta, una ragazzina – K. ne riconobbe gli occhi scuri un
po' prominenti – con addosso un lungo grembiale bianco stava
nell'anticamera e teneva in mano una candela. “La prossima volta
aprite più in fretta”, disse lo zio invece di salutare, intanto
che la ragazza faceva un piccolo inchino. “Vieni, Joseph”, disse
poi a K., che si spostava con lentezza davanti alla ragazza. “Il
signor avvocato è ammalato”, disse lei, dato che lo zio senza
fermarsi si dirigeva verso un uscio. K. la rimirava ancora mentre era
voltata per richiudere la porta dell'appartamento; aveva un viso
rotondo da bambola, non solo le guance pallide e il mento
contribuivano a quella rotondità, ma anche le sopracciglia e i lati
della fronte. “Joseph”, gridò ancora lo zio, che alla ragazza
chiese: “si tratta di mal di cuore?” “Credo di sì”, disse
lei; aveva approfittato della pausa, la candela in mano, per
precederli e per aprire l'uscio della camera. In un canto non ancora
rischiarato dalla luce della candela si levò dal letto un volto
dalla lunga barba. “Leni, ma chi è?” chiese l'avvocato, che
abbagliato dalla candela non riconobbe gli ospiti. “Sono Albert, il
tuo vecchio amico”, disse lo zio. “Oh, Albert”, disse
l'avvocato lasciandosi ricadere sui cuscini, come se per quella
visita non servisse alcuna simulazione. “E' davvero tanto grave?”
chiese lo zio sedendosi sul bordo del letto. “Io non credo. E' un
accesso del tuo mal di cuore, e passerà come i precedenti.” “E'
possibile”, mormorò l'avvocato, “stavolta però è peggio di
quanto sia mai stato. Respiro a fatica, non dormo e deperisco ogni
giorno. ”Be'”, disse lo zio calzandosi con una manona il panama
su un ginocchio. “Queste son cattive notizie. Ma hai chi ti cura
bene? E poi, è così triste qui, così scuro. E' già passato molto
tempo da quando sono stato qui l'ultima volta, allora mi parve più
gradevole. Anche la tua signorinetta non pare molto gioconda, o
finge.” La ragazza era ancora presso l'uscio con la candela, a
quanto si capiva dai suoi occhi incerti guardava più K. che lo zio,
anche ora che questi parlava di lei. K. si appoggiò a una sedia che
aveva spostato vicino lei. “Quando si è malati come lo sono io”,
disse l'avvocato, “si deve aver quiete. Per me non è triste, qui.”
Dopo una breve pausa riprese: “e Leni mi cura bene, è brava.” Lo
zio non poté farsene persuaso, era visibilmente prevenuto contro la
badante e anche se ora non obbiettò nulla al malato seguitava a
guardarla severo allorché lei andò dov'era il letto, mise sul
tavolino da notte la candela, si chinò sul malato e nel sistemare i
cuscini gli sussurrò qualcosa. Lo zio dimenticò quasi il riguardo
per il malato, si alzò, andò avanti e indietro alle spalle della
badante, K. non si sarebbe stupito se l'avesse afferrata per il
vestito da dietro e l'avesse tirata via dal letto. Da parte sua K.
restò a guardare tutto con calma, perfino lo stato di malattia
dell'avvocato non era per lui del tutto sgradito, allo zelo che lo
zio aveva mostrato per la causa lui non era riuscito a opporsi, la
diversione che tale zelo ora subiva senza che lui ne avesse colpa lui
la accoglieva volentieri. In quella lo zio, forse solo con
l'intenzione di ferire la badante, disse: “per favore signorina, ci
lasci per un po' da soli, ho da parlare con il mio amico di una
faccenda personale.” La badante, che stava ancora assai china sul
malato e spianava il lenzuolo dalla parte della parete, volse solo il
capo e con molta calma disse qualcosa che introdusse un considerevole
discrimine nelle parole dello zio, che irate si fermarono, per poi di
nuovo traboccare: “Il signore, lo vedete, è talmente malato, non
può parlare di alcuna faccenda.” Aveva probabilmente ripetuto le
stesse parole dello zio solo per pigrizia, eppur tuttavia ciò
poteva, anche da una persona non coinvolta, venir colto come
derisorio, invece naturalmente lo zio saltò su come se lei lo avesse
infilzato. “Maledetta te”, disse strozzato dall'agitazione e
ancora in modo piuttosto indistinto; K. nonostante che si aspettasse
qualcosa del genere si spaventò e scattò sullo zio con la precisa
intenzione di chiudergli la bocca con le mani. Fortunatamente
tuttavia dietro la ragazza il malato si levò, lo zio fece un viso
torvo, come se deglutisse qualcosa di disgustoso e poi più calmo
disse: “ancora naturalmente non abbiamo perduto la capacità
d'intendere; se ciò che chiedo non fosse possibile non lo chiederei.
Ora per favore andate.” La badante si drizzò davanti al letto
tutta girata verso lo zio e, come K. credé di notare, sfiorò con
una mano una mano dell'avvocato. “Puoi parlare di tutto, in
presenza di Leni”, disse il malato, senza dubbio in tono di
pressante preghiera. “Non riguarda me”, disse lo zio, “non è
un mio segreto.” E si voltò come meditasse di non iniziare più
nessuna discussione, ma come ci fosse ancora un po' di tempo per
pensarci. “Chi riguarda allora?” chiese l'avvocato con una voce
che si spegneva, e si rimise giù. “Mio nipote”, disse lo zio,
“l'ho portato con me.” E lo presentò: “Joseph K.,
procuratore.” “Oh”, disse il malato molto vivace tendendo la
mano a K., “perdonatemi non vi ho proprio visto.” “Va', Leni”,
disse poi alla badante, che non gli si oppose affatto, e le dette la
mano come fosse in questione un lungo congedo. “Dunque non sei
venuto”, disse alla fine allo zio che, riconciliato, si era rifatto
vicino, “per venire a trovare un malato, ma invece vieni per motivi
d'ufficio.” Era come se l'immagine della visita al malato fin qui
lo avesse paralizzato, tanto lui appariva ora rinfrancato, si
appoggiò a un gomito, cosa che doveva costargli una discreta fatica
e che continuava a rizzargli in mezzo alla barba una ciocca
sporgente. “Sembri già molto più sano”, disse lo zio, “da
quando quella strega se ne è andata.” S'interruppe e mormorò:
“scommetto che sta ad ascoltare”, e balzò verso l'uscio. Dietro
l'uscio però non c'era nessuno, lo zio tornò indietro, non deluso,
difatti che quella non stesse a sentire non gli sembrava che una
malvagità anche peggiore, ma davvero amareggiato. “La giudichi
male”, disse l'avvocato, senza prendere oltre le difese della
badante; forse voleva esprimere con ciò che lei non ne aveva
bisogno, di essere difesa. Tuttavia continuò in tono più premuroso:
“per ciò che riguarda la questione del tuo signor nipote, certo
sarei felice di valutarla se le mie forze potessero bastare a questo
compito estremamente delicato; temo davvero che non basteranno,
comunque non voglio lasciare nulla d'intentato; se non ce la faccio
si potrebbe certamente chiamare anche qualcun altro. Per esser
sinceri, la causa m'interessa troppo perché io possa avere il
coraggio di rinunciare a prendervi qualche parte. Se il mio cuore non
la sopporta almeno vi troverà una degna occasione per mancare del
tutto.” K. ritenne di non capire una sola parola di tutto questo
discorso, guardò in direzione dello zio per trovarvi una
spiegazione, ma quello stava seduto con in mano la candela stante sul
tavolino da notte, da cui era appena rotolata sul tappeto una
boccetta di medicinale, annuiva a tutto ciò che diceva l'avvocato,
d'accordo con tutto, e di tanto in tanto guardava verso K.
invitandolo a convenirne ugualmente. Forse lo zio aveva già in
precedenza riferito all'avvocato del processo, ma ciò era
impossibile, tutto quel che era successo lo contraddiceva. “Non
capisco”, disse perciò. “Ma forse vi ho compreso male?” chiese
l'avvocato stupito e imbarazzato come K. “Forse fui precipitoso. Ma
di che cosa volevate parlarmi? Pensavo che si trattasse del vostro
processo.” “Naturalmente”, disse lo zio, che poi chiese a K. :
“Ma che cosa vuoi?” “Ma sì, però come mai sapete qualcosa di
me e del mio processo?” chiese K. “Ah, ecco”, disse l'avvocato
sorridendo, “sono un avvocato, ho relazioni nell'ambiente del
tribunale, si parla di svariati processi, di quelli più degni di
nota, specie quando la cosa riguarda il nipote di un amico ce ne
ricordiamo. Non c'è nulla di strano.” “Ma che cosa vuoi?”
chiese ancora lo zio, “sei talmente inquieto.” “Voi avete
relazioni in questi ambienti del tribunale? Chiese K. “Sì”,
disse l'avvocato. “Fai domande infantili”, disse lo zio. “Con
chi mai devo aver relazioni, se non con la gente del mio campo?”
aggiunse l'avvocato. Suonava talmente irrefutabile che K. non rispose
proprio. “Voi operate però presso il tribunale che si trova nel
palazzo di giustizia, non in quello che si trova nelle soffitte”,
avrebbe voluto dire, ma non riuscì a spingersi a dirlo veramente.
“Dovete considerare”, proseguì l'avvocato nel tono di spiegar
qualcosa di ovvio, superfluo e incidentale, “dovete considerare che
da tali relazioni traggo grandi vantaggi per la mia clientela e da
ogni tipo di punti di vista, non ne parliamo. Naturalmente a causa
della mia malattia ora sono un po' impedito, ma ciò nonostante
ricevo visite da buoni amici del tribunale e vengo a conoscenza di
alcune cose. Forse più di molti che in perfetta salute vi
trascorrono l'intera giornata. Ecco per esempio che proprio ora ho
una cara visita.“ E indicò un angolo buio della stanza. “Ma
dove?” chiese K., quasi villano per la sorpresa iniziale. Guardò
incerto; la luce della candela, modesta, non giungeva di gran lunga
fino alla parete opposta. E davvero qualcosa lì nell'angolo iniziò
a muoversi. Alla luce della candela che ora lo zio teneva in alto si
vide seduto là presso un tavolinetto un signore piuttosto anziano.
Davvero non aveva neanche respirato, per cui fino a quel momento era
rimasto impercepibile. Ora si alzò cerimonioso, chiaramente
scontento del fatto che ci si fosse accorti di lui. Quasi voleva, con
quelle mani mosse come alucce, ricusare ogni presentazione e ogni
saluto, come se non volesse in alcun caso disturbare gli altri con la
sua presenza, come se pregasse sollecito di essere rimesso nel buio e
che la sua presenza fosse dimenticata. Non ne aveva più il diritto,
però. “Voi, mi spiego, ci avete preso di sorpresa”, disse
l'avvocato a mo' di chiarimento e insieme, incoraggiante, fece un
cenno a quel signore, che si avvicinasse, cosa che quello fece lento,
guardandosi attorno esitante, eppure con una certa dignità, “il
signor cancelliere capo – ah sì, perdonate, non ho fatto le
presentazioni – qui, il signor Albert K., e qui suo nipote, il
procuratore Joseph K., questi è il signor cancelliere capo – il
signor cancelliere capo dunque fu così gentile da farmi visita. Solo
l'iniziato, che sa quanto il signor cancelliere capo sia carico di
lavoro, può apprezzare il valore di una visita come questa. Dato che
lui nonostante i suoi impegni venne, noi ci intrattenevamo
piacevolmente nei limiti della mia debolezza, né avevamo certo
proibito a Leni di ammettere visitatori, difatti in programma non ce
n'erano; ritenevamo di restare da soli, e poi, Albert, eccoti coi
tuoi colpi alla porta; così il signor cancelliere capo arretrò
nell'angolo insieme alla sua sedia e al tavolo; ora però è
manifesto che eventualmente, voglio dire, se lo desideriamo, noi
abbiamo da discutere una faccenda di comune interesse, per cui
possiamo benissimo riaccostarci. Signor cancelliere capo”, disse
l'avvocato accennando con il capo un inchino e sorridendo ossequioso,
e gl'indicò una sedia a braccioli presso il letto. “Purtroppo
posso restare solo pochi minuti”, disse gentile il cancelliere
capo, si accomodò sulla sedia e guardò l'orologio, “il lavoro mi
chiama, comunque non voglio mancare l'occasione di far la conoscenza
di un amico del mio amico.” Accennò un lieve inchino in direzione
dello zio che sembrò molto soddisfatto della nuova conoscenza, ma, a
causa della sua natura, fu incapace di esprimersi in modo sommesso;
accompagnò le parole del cancelliere capo ridendo imbarazzato, ma
con forza. Figura orribile! K. poteva osservare con calma tutto,
infatti nessuno s'interessava a lui; una volta chiamato di nuovo in
causa, il cancelliere capo si appropriò, come sembrava sua
abitudine, della conversazione; l'avvocato, la cui precedente
debolezza doveva esser servita solo a scacciare la nuova visita,
ascoltava attento, mano all'orecchio; lo zio, in qualità di reggi
candela – se la teneva in equilibrio su una coscia più volte
guardato con preoccupazione dall'avvocato – fu presto privo
d'imbarazzo e solo incantato, tanto dal discorrere del cancelliere
capo quanto da come questi, ondiforme, gestiva accompagnando le
proprie parole. K. che si appoggiava a un montante del letto, venne
totalmente trascurato, forse addirittura in modo intenzionale, dal
cancelliere capo, e servi a quell'anziano signore solo come
ascoltatore. Del resto sapeva appena su che cosa vertesse il
discorso; ora pensava alla badante, al malo modo in cui lo zio
l'aveva trattata, ora all'ipotesi di averlo già visto, il
cancelliere capo, magari addirittura nell'assemblea, al momento della
sua prima assise istruttoria. Forse s'ingannava, però il cancelliere
capo non avrebbe stonato tra i partecipanti all'assemblea in prima
fila, principalmente tra quei signori anziani con le barbe rade.
In
quella un rumore dall'anticamera, come di porcellana che stesse
frantumandosi, fece tendere le orecchie a tutti. “Voglio andare a
controllare che cosa è successo”, disse K. e uscì lentamente come
se desse ancora agli altri l'opportunità di trattenerlo. K. era
appena entrato nell'anticamera e stava orientandosi nel buio allorché
sulla mano con cui ancora si appoggiava alla porta si posò una mano
piccola, molto più piccola della sua, e chiuse piano la porta. Era
la badante, che era stata lì in attesa. “Non è successo niente”,
mormorò, “ho solo gettato contro il muro un piatto per tirarvi
fuori.” Confuso, K. disse: “anch'io ho pensato a voi.” “Tanto
meglio”, disse la badante. “Venite.” Dopo pochi passi
arrivarono a un uscio a vetri opachi che lei gli aprì davanti.
“Entrate pure”, disse. Si trattava senz'altro dello studio
dell'avvocato; a quanto si poteva vedere alla luce della luna, che
ora illuminava bene solo un quadratino del pavimento in
corrispondenza con ognuna delle due grandi finestre, era arredato con
vecchi e brutti mobili. “Qui”, disse la badante indicando una
cassapanca scura con la spalliera di legno intagliato. Dopo che si fu
seduto K. si guardò attorno nella stanza, era grande e alta, i
clienti dell'avvocato dei poveri vi si dovevano trovare smarriti. K.
quasi li vide i passetti con cui i visitatori avanzavano verso
l'enorme scrivania. Poi però se ne scordò ed ebbe occhi solo per la
badante, che gli sedeva vicinissima quasi spingendolo contro il
bracciolo. “Pensavo”, disse lei, “che sareste venuto da me
senza che dovessi chiamarvi. Una cosa strana. Prima mi guardaste,
quando siete entrato, senza smettere, e poi mi fate aspettare.”
“Comunque chiamatemi Leni”, proseguì svelta e diretta come se
non dovesse venir sprecato alcun momento di questa spiegazione.
“Volentieri”, disse K. “Quanto però alla stranezza è facile
spiegarla. Prima cosa dovetti ascoltare le chiacchiere di
quell'anziano signore, né potevo venir via senza motivo, seconda
cosa non sono sfacciato, ma piuttosto timido e inoltre voi, Leni, non
sembrate davvero un tipo da conquistare in un balzo.” “Non è
questo”, disse Leni, mise un braccio sulla spalliera e guardò K.,
“io non vi piacqui, invece, e probabilmente non vi piaccio neanche
ora.” “Piacere mica sarebbe molto”, disse K. evasivo. “Oh!”
disse lei sorridendo - l'osservazione di K. e quest'ultima breve
esclamazione le guadagnò una certa superiorità. Perciò K. tacque
un momento. Poiché aveva già fatto l'abitudine al buio della stanza
riuscì a distinguere diversi dettagli del mobilio. In particolare lo
colpì un grande quadro appeso alla destra della porta, e si piegò
in avanti per vederlo meglio. Rappresentava un uomo in toga da
giudice; sedeva su un alto soglio la cui doratura faceva molto
contrasto con il quadro. La cosa insolita era che questo giudice non
sedeva sereno e con dignità, ma premeva il braccio sinistro sul
bracciolo e la spalliera mentre aveva il destro completamente libero
e solo con la mano stringeva il bracciolo, quasi volesse tra un
momento saltar su con una mossa violenta e forse indignata per dire
qualcosa di decisivo o addirittura pronunciare il verdetto.
L'imputato era pensabile proprio ai piedi della scala i cui gradini
più alti soltanto, coperti da un tappeto giallo, erano visibili nel
quadro. “Ecco il mio giudice, forse”, disse K. indicando il
quadro. “Io lo conosco”, disse Leni guardando anche lei il
quadro, “viene spesso qui. Il quadro appartiene al tempo della sua
giovinezza, ma lui non può essere mai stato somigliante al quadro,
difatti è all'incirca piccolissimo. Nonostante questo si è fatto
estendere tanto in altezza perché è pazzamente vanitoso, come qui
lo sono tutti. Anch'io però sono vanitosa, e molto scontenta del
fatto che non vi piaccio proprio.” A ciò K. rispose solo
afferrando Leni e attirandola a sé, e lei gli appoggiò in silenzio
la testa alla spalla. In merito al personaggio del quadro lui però
disse: “che tipo di grado ha?” “E' giudice istruttore”, disse
lei, prese la mano con cui K. la teneva stretta e giocò con le dita.
“Di nuovo giudice istruttore soltanto”, disse K. deluso, “gli
alti funzionari stanno nascosti. Eppure lui siede su un soglio.”
“E' tutta finzione”, disse Leni, il volto abbassato sulla mano di
K., “in realtà lui sta su una sedia da cucina su cui è ripiegata
una vecchia coperta da cavalli. Ma voi dovete pensare in
continuazione al vostro processo?”, aggiunse lenta. “No, niente
affatto”, disse K., “probabilmente ci penso troppo poco.” “Non
è questo l'errore che fate”, disse Leni, “siete troppo
intransigente, questo ho sentito dire.” “Chi l'ha detto?”
chiese K., sentiva il corpo di lei sul petto e le guardava la chioma
folta e scura, quasi tornita. “Troppo rivelerei, se lo dicessi”,
rispose Leni. “Vi prego di non chiedere nomi, ma eliminate il
vostro errore, non siate più così intransigente, a questo tribunale
mica ci si può opporre, si deve confessare. Solo in quel caso c'è
la possibilità di sfuggire, solo in quel caso. Eppure senza aiuto
esterno non è possibile, ma non dovete affannarvi a causa di tale
aiuto, che io stessa voglio prestarvi.” “Ci capite parecchio di
questo tribunale e delle imposture che qui sono necessarie”, disse
K. sollevandola, poiché lei gli si premeva in grembo con troppa
forza. “Così va bene”, disse lei rimettendoglisi in grembo
mentre si lisciava l'abito e si metteva in ordine la camicetta. Poi
con entrambe le mani gli si attaccò al collo si tirò indietro e lo
guardò a lungo. “E se non confesso, non potete aiutarmi?” chiese
K. a mo' di tentativo. Mi procuro aiutanti donne, pensò quasi
meravigliato, prima la signorina Buerstner, poi la moglie
dell'usciere del tribunale, e ora questa piccola badante che sembra
avere un'inclinazione misteriosa per me. Come fosse il suo unico
posto adatto, mi siede in grembo! “No”, rispose Leni scuotendo
lenta il capo, “in quel caso non posso aiutarvi. Ma non lo volete
proprio il mio aiuto, non ve ne importa nulla, siete ostinato e non
vi fate convincere.” “Avete un'amante?” chiese dopo poco. “No”,
disse K. “Questa è buona!” disse lei. “Veramente sì”, disse
K., “pensate, ho negato di averla e invece ne porto con me la
fotografia.” Su richiesta di lei le mostrò una fotografia di Elsa,
che Leni, accovacciata in grembo a lui, studiò. Era un'istantanea,
Elsa era ritratta dopo che ballando aveva fatto un volteggio di
quelli che eseguiva volentieri nella vineria, l'abito le stava ancora
ripiegato attorno, a ruota, aveva le mani sui fianchi e ridendo, il
collo eretto, guardava di lato; per chi fosse il suo riso dal
ritratto non si poteva riconoscere. “Ha il busto ben strizzato”,
disse Leni indicando il posto dove secondo lei ciò si vedeva. “Non
mi piace, è sgraziata e rozza. Però forse con voi è tenera e
gentile, si potrebbe concludere dal ritratto. Le ragazze così
robuste spesso non sanno essere che tenere e gentili. Ma saprebbe
sacrificarsi per voi?” “No”, disse K., “non è né tenera e
gentile né saprebbe sacrificarsi per me. Né io finora le ho chiesto
l'una o l'altra cosa. Anzi ancora non avevo nemmeno guardato il
ritratto così attentamente come avete fatto voi.” “Non è che ve
ne importi molto di lei”, disse Leni, “non è affatto la vostra
amante.” “Eppure lo è”, disse K. ”Non ritiro quel che ho
detto.” “Può essere la vostra amante, ora”, disse Leni, “ma
non ne sentireste molto la mancanza se la perdeste, o se al suo posto
metteste qualcun altra, per esempio me.” “Certo”, disse
sorridendo K., “ciò sarebbe concepibile, ma lei ha un gran
vantaggio rispetto a voi, non sa nulla del mio processo e anche se ne
sapesse qualcosa non ci penserebbe. Non cercherebbe di persuadermi
alla compiacenza.” “Non è affatto un vantaggio”, disse Leni.
“Se non ha nessun altro vantaggio, io non mi scoraggio. Ha qualche
difetto fisico?” “Un difetto fisico?” chiese K. “Sì”,
disse Leni, “mi spiego, io ne ho uno, piccolo, guardate.” Allargò
il medio e l'anulare della mano destra, tra i quali la pelle che li
collega arrivava quasi fino all'articolazione superiore del dito
minore. K. nel buio non vide bene quel che lei intendeva indicare per
cui lei porse la mano in modo che lui toccasse. “Che scherzo di
natura”, disse K., e, come se avesse esaminato tutta la mano,
aggiunse: “che bell'unghia!” Con un certo orgoglio Leni stette a
guardare come K. stupito continuava ad allargare e stringere le sue
due dita, finché non le baciò fuggevolmente e le lasciò. “Oh!”
esclamò subito, “mi avete baciata!” Lesta, la bocca aperta, gli
si arrampicò in grembo con le ginocchia, K. la guardò quasi
sgomento, ora che gli era tanto vicina gli veniva da lei un eccitante
odore aspro, come di pepe, lei attirò a sé la testa di lui, vi si
chinò sopra e gli morse il collo, lo baciò, gli morse anche i
capelli. “Mi avete messa al suo posto”, diceva a tratti, “vedete
che però mi avete messa al suo posto!” In quella le ginocchia le
scivolarono, con un urletto cadde quasi sul tappeto, K. la afferrò
per trattenerla e venne tirato giù. “Ora mi appartieni”, disse
lei.
“Eccoti
la chiave di casa, vieni quando vuoi”, furono le sue ultime parole,
e anche un bacio alle spalle, perduto, lo colse, mentre se ne andava.
Quando uscì dal portone pioveva leggermente, volle camminare nel
mezzo della strada per poter vedere ancora, forse, Leni alla
finestra, in quella da un'automobile che aspettava davanti alla casa
e che K. nella sua distrazione non aveva proprio notato scese lo zio,
lo afferrò per le braccia e lo sbatté contro il portone della casa,
quasi volesse inchiodarcelo. “Ragazzo”, esclamò, “come hai
potuto farlo? Hai spaventosamente danneggiato la tua causa, che era
sulla strada buona. Ti nascondi con quella piccola sudiciona, per di
più, com'è chiaro, amante dell'avvocato, e te ne resti via per
delle ore. Non tenti neppure una scusa, non dissimuli nulla, no, sei
sincero, corri da lei e ci resti. E intanto noi lì seduti assieme,
lo zio che si arrabatta per te, l'avvocato che dev'essere convinto,
soprattutto il cancelliere capo, questo gran signore che la tua causa
senz'altro allo stato l'ha in mano. Intendiamo deliberare come
poterti aiutare, io devo trattare cautamente con l'avvocato, lui a
sua volta con il cancelliere capo, e tu avresti ogni ragione per
sostenermi, almeno. E invece te ne stai altrove. Alla fine non si può
nascondere, il fatto, si tratta di uomini acuti, beneducati, non ne
parlano, sono indulgenti con me, alla fine però non possono più
dominarsi e poiché non possono parlarne, del fatto, ammutoliscono.
Siamo stati per dei minuti lì seduti in silenzio a sentire se tu
finalmente venivi. Tutto invano. Alla fine il cancelliere capo, che è
rimasto molto più a lungo di quanto inizialmente volesse, si alza,
si congeda, si duole con me, evidentemente senza potermi aiutare, sta
ad aspettare ancora, con incredibile gentilezza, un poco sulla porta,
poi se ne va. Naturalmente ne fui felice, già mi mancava il respiro.
Sull'avvocato malato tutto ha avuto effetti di maggior forza, non
riusciva nemmeno a parlare, quel buon uomo, quando mi sono congedato
da lui. E' probabile che tu abbia contribuito al suo crollo completo
e che così tu acceleri la morte dell'unico uomo che avevi a tua
disposizione. E me, tuo zio, mi lasci ore sotto la pioggia ad
aspettare, senti qui, sono fradicio.”
Nessun commento:
Posta un commento