venerdì 8 maggio 2020

Franz Kafka: Il processo - 6


Lo zio

Leni

Un pomeriggio – K. aveva molto da fare con la chiusura dei conti – tra due uscieri che recavano documenti si palesò nella stanza lo zio di K., Karl, un piccolo proprietario terriero di provincia. K. vedendolo si spaventò meno di quanto si fosse spaventato precedentemente figurandosene la venuta. Lo zio doveva venire, già da un mese circa K. lo sapeva bene. Già allora se l'era immaginato, un po' curvo, nella mano sinistra il panama ammaccato, che già da lontano gli tendeva la destra e gliela porgeva frettoloso e sbadato al di sopra della scrivania rovesciando ogni cosa al suo passaggio. Lo zio si trovava sempre in stato di fretta, era perseguitato dalle preoccupazioni, durante la sua permanenza di solo un giorno nella capitale doveva poter concludere tutto quello che si era proposto, né poteva lasciarsi sfuggire per di più alcuna occasionale conversazione, o alcun affare o alcun piacere. A tal fine K., allo zio obbligato in modo particolare perché già tutore, doveva essergli d'aiuto massimo possibile e inoltre ospitarlo per la notte. “Il fantasma che vien dalla campagna”, usava chiamarlo.
Subito dopo i saluti – di mettersi in poltrona, cui K. l'invitò, lui non aveva mica tempo – chiese di fare un discorsetto a 4 occhi. “E' necessario”, disse deglutendo a fatica, “necessario alla mia tranquillità.” K. mandò subito gli uscieri fuori dalla stanza con l'ordine di non far entrare nessuno. “Che cosa sento, Joseph?” esclamò lo zio quando furono soli, si sedé sul tavolo piazzandosi sbadato su diverse carte, per accomodarsi. K. tacque, sapeva che cosa era in arrivo, tuttavia, improvvisamente rilassato dal suo faticoso lavoro, si abbandonò prima a un piacevole languore, guardò oltre la finestra i lati della strada di fronte dei quali dal suo posto era visibile solo un piccolo frammento triangolare, un pezzo di muro vuoto tra due vetrine di uffici. “Tu stai a guardare fuori dalla finestra”, gridò lo zio sollevando le braccia, “per l'amor di Dio Joseph, rispondimi. E' vero, può mai esser vero?” “Caro zio”, disse K. uscendo dalla sua distrazione, “non so proprio che cosa vuoi da me.” “Joseph”, disse lo zio, ammonendolo, “a quanto ne so tu hai sempre detto la verità. Devo prendere le tue parole come un brutto segno?” “Ma io lo indovino, quel che vuoi”, disse K. docile, “hai probabilmente sentito parlare del mio processo.” “E' così”, rispose lo zio, annuendo lento, “ho sentito parlare del tuo processo.” “ Ma da chi?”, chiese K. “Mi ha scritto Erna”, disse lo zio, “non ha alcun contatto con te, purtroppo tu non t'interessi molto di lei, nonostante questo lo ha saputo. Ho ricevuto la lettera oggi e naturalmente sono venuto subito. Per nessun altra ragione, però mi sembra una ragione sufficiente. Posso leggerti il passo che ti riguarda.” Estrasse la lettera dal portafogli. “Ecco qui. Scrive: 'Joseph è tanto che non lo vedo, una settimana fa sono stata alla banca, ma Joseph aveva tanto da fare che io non venni fatta passare; ho atteso quasi per un'ora, poi però ho dovuto andare a casa perché avevo lezione di pianoforte. Ci avrei parlato volentieri, forse la prossima volta se ne troverà l'occasione. Per il mio onomastico mi ha mandato una grossa scatola di cioccolato, fu una cosa molto carina e premurosa. Ho dimenticato di scrivervelo, allora, solo ora che me lo chiedete me ne ricordo. Dovete sapere che il cioccolato sparisce, voglio dire, nella pensione sparisce subito non appena si viene a conoscenza che si è avuto in regalo il cioccolato, anche stavolta è già finito. Ma per quanto riguarda Joseph volevo dirvi ancora qualcosa: come detto in banca non fui fatta entrare da lui, perché aveva da fare con un signore. Dopo che avevo aspettato per un po' tranquilla, chiesi a un usciere se il colloquio sarebbe durato ancora molto. Quello disse che ce n'era la possibilità dato che probabilmente si trattava del processo intentato al signor procuratore. Di che processo si tratta mai, chiesi io, non è che lui si sbagliava, però lui disse che non si sbagliava, era un processo, anzi un processo difficile, però non ne sapeva di più. Anche a lui sarebbe piaciuto dare una mano al signor procuratore perché è un signore molto buono e giusto, ma non lo sapeva come fare e si augurava solo che se ne occupassero dei signori influenti. Di certo sarà così e andrà a finir bene, per il momento però era molto difficile, come si poteva dedurre dai chiribizzi del signor procuratore. Non è che io dessi molta importanza a questo discorso, cercai di tranquillizzare quel sempliciotto, gli proibii di parlarne davanti ad altri e ritenni il tutto un pettegolezzo. Nonostante questo sarebbe bene se tu, babbo carissimo, volessi alla tua prossima visita indagare, a te sarà facile informarti meglio e, se davvero dovesse essere necessario, intervenire per mezzo delle tue conoscenze tanto influenti. Se però non fosse necessario, come è la cosa più probabile, sarebbe almeno l'occasione per abbracciare tua figlia, che ne sarebbe contenta.' Brava ragazza”, disse lo zio quand'ebbe finito di leggere, e si strofinò via qualche lacrima dagli occhi. K. annuì, a seguito delle svariate noie degli ultimi tempi si era del tutto dimenticato di Erna, perfino del compleanno di lei si era scordato, e quella storia del cioccolato era stata chiaramente pensata allo scopo di proteggerlo sia dallo zio che dalla zia. Era assai toccante e certo non ripagabile a sufficienza con i biglietti del teatro che da ora in poi voleva mandarle con regolarità, però non si sentiva a posto per far visita alla pensione e intrattenersi con una piccola ginnasiale di 17 anni. “Che cosa dici ora?” chiese lo zio che si era dimenticato ogni fretta ed emozione e sembrava che gliela rileggesse ancora la lettera. “Sì, zio”, disse K., “è vero.” “Vero?” gridò lo zio. “Vero cosa? Ma come fa a esser vero? Che processo è? Mica un processo penale?” “Un processo penale”, rispose K. “E tu te ne stai tranquillo qui quando hai sul collo un processo penale?” gridò lo zio, che continuava ad alzare la voce. “Quanto più calmo sono tanto meglio è per l'esito”, disse K. con stanchezza. “Non ho punta paura.” “Questo non mi tranquillizza”, esclamò lo zio, “Joseph, caro Joseph, pensa a te, ai tuoi parenti, al nostro buon nome. Finora eri il nostro orgoglio, non puoi diventare la nostra vergogna. La tua condotta”, e guardò K. di sbieco, “non mi piace, non fa così chi è innocente e che ancora sia in gamba. Dimmi solo, e alla svelta, di cosa si tratta, ché io possa darti una mano. Naturalmente si tratta della banca, no?” “No”, disse K. e si alzò, “però tu parli a voce troppo alta, l'usciere probabilmente sta alla porta ad ascoltare. Per me è non va bene. Meglio che usciamo. Poi risponderò a tutte le domande meglio che posso. So molto bene di dover rendere conto alla famiglia.” “Giusto”, sbraitò lo zio, “giustissimo, basta che ti sbrighi, Joseph, sbrigati.” “Devo solo dare ancora qualche disposizione”, disse K. e chiamò per telefono il suo assistente, che dopo poco entrò. Agitato com'era lo zio gli fece segno che K. l'aveva fatto chiamare, per quanto ciò fosse ovvio. K., che si trovava davanti alla scrivania, con l'aiuto di svariate carte spiegò a bassa voce a quel giovane, in ascolto freddo ma attento, che cosa in sua assenza doveva esser ancora fatto oggi. Lo zio dava noia lì, con gli occhi di fuori si mordeva nervosamente le labbra, ma l'aria stessa che aveva era di per sé disturbante. Poi si mise a percorrere la stanza da ogni parte, si fermò qua e là, davanti alla finestra o davanti a un quadro, insieme uscendosene senza sosta in esclamazioni varie, tipo “non riesco assolutamente a capire”, o “dimmi solo cosa succederà”. Il giovane fingeva di non farci caso, ascoltò fino in fondo le disposizioni di K., prese appunti e se ne andò dopo essersi inchinato sia a K sia allo zio, che però gli voltava le spalle, guardava fuori dalla finestra e protendeva le mani spiegazzandone le tende. S'era appena chiusa la porta che lo zio proruppe: “finalmente quel bischerello se n'è andato, e ora possiamo andarcene anche noi. Era ora!” Purtroppo non ci fu modo, nell'atrio disseminato di uscieri e funzionari e col vice direttore che passava di lì, di far smettere lo zio di far domande sul processo. “Dunque allora, Joseph”, iniziò lo zio mentre questi rispondeva con leggeri cenni di saluto agli inchini degli astanti, “dimmi subito chiaro di che razza di processo si tratta.” K. fece alcune osservazioni insignificanti, rise anche un poco e solo sulle scale spiegò allo zio che non intendeva parlar chiaro in pubblico. “Giusto”, disse lo zio, “ma ora parla.” A testa china, fumando un sigaro a tirate brevi e affrettate, stette a sentire. “Prima cosa, zio”, disse K., “non si tratta affatto di un processo che si svolge nel solito tribunale.” “Male”, disse lo zio. “Perché?” disse K. guardandolo. “Penso che sia un male”, ripeté lo zio. Si trovavano sulla scalinata esterna che scendeva in strada; dato che il portiere pareva in ascolto, K. trascinò giù lo zio; il vivace traffico della strada li assorbì. Lo zio, che s'era attaccato a K., smise di insistere con le domande sul processo, addirittura fecero un pezzo di strada in silenzio. “Ma com'è andata?” chiese alla fine lo zio fermandosi tanto di botto che la gente che gli camminava alle spalle si scostò spaventata. “Queste cose mica succedono improvvise, si preparano a lungo, prima, devono essercene stati segni, perché non mi hai scritto? Lo sai che per te faccio di tutto, in certo modo sono ancora tuo tutore e finora ne ero fiero. Naturale che ti aiuterò ancora, solo che col processo già in corso è molto difficile. La meglio sarebbe comunque se ti prendessi un breve permesso e venissi da noi in campagna. Sei anche un po' dimagrito, ora che ci faccio caso. In campagna ti rinforzerai, ti farà bene, ti aspettano certo delle fatiche. E poi in certo qual modo sarai sottratto al tribunale. Qui loro hanno tutte le possibili leve di potere adoperabili, di necessità e in automatico, contro di te; là in campagna invece dovrebbero delegare a delle autorità, o cercar di agire su di te solo per lettera, col telegrafo, col telefono. Cose che naturalmente ne attenuano l'effettività, non è che ciò ti liberi, certo, ma ti fa riprendere fiato. ”Potrebbero proibirmi di partire”, disse K., un po' preso dal ragionamento espresso dallo zio. “Credo che non lo faranno”, disse pensieroso lo zio, “non è così grave la perdita di potere che patiscono con la tua partenza.” “Pensavo”, disse K. prendendo sotto braccio lo zio per impedirgli di fermarsi, “che tu avresti attribuito all'intera cosa meno importanza di quanto faccio io, e ora anche tu la prendi così a cuore.” “Joseph”, esclamò lo zio con l'intenzione di svincolarsi da lui per potersi fermare, ma senza riuscirci, “sei cambiato, avevi sempre un comprendonio tanto netto e proprio ora quello ti manca? Ma il processo lo vuoi perdere? Lo sai cosa vuol dire? Vuol dire che sarai semplicemente cancellato. E che tutto il parentado sarà spazzato via con te o almeno degradato totalmente. Joseph, riprenditi. La tua indifferenza mi fa perdere la testa. A guardarti quasi verrebbe voglia di credere al proverbio che dice: 'subire un processo vuole già dire averlo perso'.” “Caro zio”, disse K., “Agitarsi non serve né da parte tua né, se fosse, da parte mia. Agitandosi i processi non si vincono, e tu approva un po' anche le mie conoscenze pratiche, così io come rispetto, sempre e anche ora, le tue, anche quando mi sorprendono. Poiché dici che anche la famiglia sarebbe coinvolta a causa del processo – cosa che per parte mia non riesco assolutamente a capire, ma ciò è secondario – desidero seguirti in tutto. Solo il soggiorno in campagna io non lo considero come intendi te vantaggioso, difatti costituirebbe fuga e consapevolezza colpevole. Oltre a ciò io qui sono certo perseguitato, tuttavia posso seguire anche la causa.” “Giusto”, disse lo zio, quasi che finalmente essi avessero più confidenza reciproca, “ti feci la proposta perché, se resti qui, vedevo la causa messa a repentaglio dalla tua indifferenza e ritenevo meglio per te darmi da fare al posto tuo. Ma se intendi seguire la causa in prima persona con la massima energia naturalmente è molto meglio.” “In questo senso saremmo d'accordo”, disse K. “E ce l'hai una proposta su cosa io debba fare per prima cosa?” “Devo rifletterci ancora, è naturale”, disse lo zio, “considera che sono quasi 20 anni che sto in campagna quasi ininterrottamente, ragione per cui il fiuto per queste piste s'è indebolito. E anche svariati importanti collegamenti con personalità che forse, nel caso presente, sanno orientarsi meglio, si sono allentati. In campagna sono un po' isolato, di certo lo sai. Lo si constata effettivamente solo in queste occasioni. La tua causa in parte mi giunse anche inaspettata, per quanto dalla lettera di Erna, strano a dirsi, già indovinai qualcosa del genere e oggi quasi distintamente lo seppi, vedendoti. Questo però non conta, ora la cosa più importante è non perdere assolutamente tempo.” Già mentre parlava aveva, stando in punta di piedi, chiamato con un gesto un'automobile e ora tirava dietro di sé nell'auto K. mentre comunicava un indirizzo al conducente. “Ora andiamo dall'avvocato Huld”, disse, “fu mio compagno di scuola. Il nome lo conosci certo anche tu; no? Strano. Ha un notevole nome come patrocinatore e come avvocato dei poveri. Tuttavia io ne ho gran fiducia specialmente come uomo.” “Tutto quel che hai intenzione di fare mi va bene”, disse K, ciò nonostante il modo affrettato e la premura con cui lo zio si occupava della causa lo mettevano a disagio. Non era molto consolante ricorrere come imputato a un avvocato dei poveri. “Non sapevo”, disse, “che in una faccenda simile si potesse consultare anche un avvocato.” “Ma certo”, disse lo zio, “è evidente. Perché no? E ora raccontami quel che è successo finora perché io sia ben informato della causa.” K. iniziò subito a riferire senza tacere nulla, la sua completa sincerità era l'unica protesta permessa contro il punto di vista dello zio che il processo fosse una gran vergogna. Fece solo una volta e di sfuggita il nome della signorina Buerstner, tuttavia questo non nocque alla sincerità, difatti la signorina non era collegata affatto al processo. Nel riferire guardò dal finestrino e notò che lui e lo zio si avvicinavano proprio al sobborgo dove si trovavano gli uffici di cancelleria del tribunale, ne fece partecipe lo zio che però non trovò particolarmente strana quella coincidenza. La vettura si fermò davanti a un edificio scuro. Lo zio suonò a pianterreno alla prima porta; mentre aspettavano, sorridendo digrignò i suoi dentoni e mormorò: “le 8, ora insolita per una visita della clientela. Huld però con me non se la prende.” Allo spioncino della porta apparvero due grandi occhi neri, guardarono per un po' i due ospiti e sparirono; ma la porta non si aprì. Sia lo zio sia K. si confermarono a vicenda di aver effettivamente visto i due occhi. “Una cameriera nuova intimorita da estranei”, disse lo zio bussando di nuovo. Riapparvero gli occhi, ora li si poteva prendere quasi per tristi, forse però si trattava di un'illusione suscitata dalla fiamma a gas che al di sopra delle teste ardeva fischiando forte, facendo però scarsa luce. “Aprite”, gridò lo zio picchiando col pugno contro la porta, “siamo amici del signor avvocato.” “Il signor avvocato è ammalato”, mormorò qualcuno dietro di loro. Su una porta dall'altra parte del breve corridoio c'era, a comunicare ciò a voce bassissima, un signore in vestaglia. Lo zio, già infuriato per via della lunga attesa, si volse di colpo e a voce alta chiese: “Ammalato? Dite che è ammalato?” e andò verso quel signore quasi minaccioso, come se fosse lui la malattia. “Ecco, hanno aperto”, disse quel signore, indicò la porta dell'avvocato, si ricompose nella sua vestaglia e sparì. In effetti la porta era stata aperta, una ragazzina – K. ne riconobbe gli occhi scuri un po' prominenti – con addosso un lungo grembiale bianco stava nell'anticamera e teneva in mano una candela. “La prossima volta aprite più in fretta”, disse lo zio invece di salutare, intanto che la ragazza faceva un piccolo inchino. “Vieni, Joseph”, disse poi a K., che si spostava con lentezza davanti alla ragazza. “Il signor avvocato è ammalato”, disse lei, dato che lo zio senza fermarsi si dirigeva verso un uscio. K. la rimirava ancora mentre era voltata per richiudere la porta dell'appartamento; aveva un viso rotondo da bambola, non solo le guance pallide e il mento contribuivano a quella rotondità, ma anche le sopracciglia e i lati della fronte. “Joseph”, gridò ancora lo zio, che alla ragazza chiese: “si tratta di mal di cuore?” “Credo di sì”, disse lei; aveva approfittato della pausa, la candela in mano, per precederli e per aprire l'uscio della camera. In un canto non ancora rischiarato dalla luce della candela si levò dal letto un volto dalla lunga barba. “Leni, ma chi è?” chiese l'avvocato, che abbagliato dalla candela non riconobbe gli ospiti. “Sono Albert, il tuo vecchio amico”, disse lo zio. “Oh, Albert”, disse l'avvocato lasciandosi ricadere sui cuscini, come se per quella visita non servisse alcuna simulazione. “E' davvero tanto grave?” chiese lo zio sedendosi sul bordo del letto. “Io non credo. E' un accesso del tuo mal di cuore, e passerà come i precedenti.” “E' possibile”, mormorò l'avvocato, “stavolta però è peggio di quanto sia mai stato. Respiro a fatica, non dormo e deperisco ogni giorno. ”Be'”, disse lo zio calzandosi con una manona il panama su un ginocchio. “Queste son cattive notizie. Ma hai chi ti cura bene? E poi, è così triste qui, così scuro. E' già passato molto tempo da quando sono stato qui l'ultima volta, allora mi parve più gradevole. Anche la tua signorinetta non pare molto gioconda, o finge.” La ragazza era ancora presso l'uscio con la candela, a quanto si capiva dai suoi occhi incerti guardava più K. che lo zio, anche ora che questi parlava di lei. K. si appoggiò a una sedia che aveva spostato vicino lei. “Quando si è malati come lo sono io”, disse l'avvocato, “si deve aver quiete. Per me non è triste, qui.” Dopo una breve pausa riprese: “e Leni mi cura bene, è brava.” Lo zio non poté farsene persuaso, era visibilmente prevenuto contro la badante e anche se ora non obbiettò nulla al malato seguitava a guardarla severo allorché lei andò dov'era il letto, mise sul tavolino da notte la candela, si chinò sul malato e nel sistemare i cuscini gli sussurrò qualcosa. Lo zio dimenticò quasi il riguardo per il malato, si alzò, andò avanti e indietro alle spalle della badante, K. non si sarebbe stupito se l'avesse afferrata per il vestito da dietro e l'avesse tirata via dal letto. Da parte sua K. restò a guardare tutto con calma, perfino lo stato di malattia dell'avvocato non era per lui del tutto sgradito, allo zelo che lo zio aveva mostrato per la causa lui non era riuscito a opporsi, la diversione che tale zelo ora subiva senza che lui ne avesse colpa lui la accoglieva volentieri. In quella lo zio, forse solo con l'intenzione di ferire la badante, disse: “per favore signorina, ci lasci per un po' da soli, ho da parlare con il mio amico di una faccenda personale.” La badante, che stava ancora assai china sul malato e spianava il lenzuolo dalla parte della parete, volse solo il capo e con molta calma disse qualcosa che introdusse un considerevole discrimine nelle parole dello zio, che irate si fermarono, per poi di nuovo traboccare: “Il signore, lo vedete, è talmente malato, non può parlare di alcuna faccenda.” Aveva probabilmente ripetuto le stesse parole dello zio solo per pigrizia, eppur tuttavia ciò poteva, anche da una persona non coinvolta, venir colto come derisorio, invece naturalmente lo zio saltò su come se lei lo avesse infilzato. “Maledetta te”, disse strozzato dall'agitazione e ancora in modo piuttosto indistinto; K. nonostante che si aspettasse qualcosa del genere si spaventò e scattò sullo zio con la precisa intenzione di chiudergli la bocca con le mani. Fortunatamente tuttavia dietro la ragazza il malato si levò, lo zio fece un viso torvo, come se deglutisse qualcosa di disgustoso e poi più calmo disse: “ancora naturalmente non abbiamo perduto la capacità d'intendere; se ciò che chiedo non fosse possibile non lo chiederei. Ora per favore andate.” La badante si drizzò davanti al letto tutta girata verso lo zio e, come K. credé di notare, sfiorò con una mano una mano dell'avvocato. “Puoi parlare di tutto, in presenza di Leni”, disse il malato, senza dubbio in tono di pressante preghiera. “Non riguarda me”, disse lo zio, “non è un mio segreto.” E si voltò come meditasse di non iniziare più nessuna discussione, ma come ci fosse ancora un po' di tempo per pensarci. “Chi riguarda allora?” chiese l'avvocato con una voce che si spegneva, e si rimise giù. “Mio nipote”, disse lo zio, “l'ho portato con me.” E lo presentò: “Joseph K., procuratore.” “Oh”, disse il malato molto vivace tendendo la mano a K., “perdonatemi non vi ho proprio visto.” “Va', Leni”, disse poi alla badante, che non gli si oppose affatto, e le dette la mano come fosse in questione un lungo congedo. “Dunque non sei venuto”, disse alla fine allo zio che, riconciliato, si era rifatto vicino, “per venire a trovare un malato, ma invece vieni per motivi d'ufficio.” Era come se l'immagine della visita al malato fin qui lo avesse paralizzato, tanto lui appariva ora rinfrancato, si appoggiò a un gomito, cosa che doveva costargli una discreta fatica e che continuava a rizzargli in mezzo alla barba una ciocca sporgente. “Sembri già molto più sano”, disse lo zio, “da quando quella strega se ne è andata.” S'interruppe e mormorò: “scommetto che sta ad ascoltare”, e balzò verso l'uscio. Dietro l'uscio però non c'era nessuno, lo zio tornò indietro, non deluso, difatti che quella non stesse a sentire non gli sembrava che una malvagità anche peggiore, ma davvero amareggiato. “La giudichi male”, disse l'avvocato, senza prendere oltre le difese della badante; forse voleva esprimere con ciò che lei non ne aveva bisogno, di essere difesa. Tuttavia continuò in tono più premuroso: “per ciò che riguarda la questione del tuo signor nipote, certo sarei felice di valutarla se le mie forze potessero bastare a questo compito estremamente delicato; temo davvero che non basteranno, comunque non voglio lasciare nulla d'intentato; se non ce la faccio si potrebbe certamente chiamare anche qualcun altro. Per esser sinceri, la causa m'interessa troppo perché io possa avere il coraggio di rinunciare a prendervi qualche parte. Se il mio cuore non la sopporta almeno vi troverà una degna occasione per mancare del tutto.” K. ritenne di non capire una sola parola di tutto questo discorso, guardò in direzione dello zio per trovarvi una spiegazione, ma quello stava seduto con in mano la candela stante sul tavolino da notte, da cui era appena rotolata sul tappeto una boccetta di medicinale, annuiva a tutto ciò che diceva l'avvocato, d'accordo con tutto, e di tanto in tanto guardava verso K. invitandolo a convenirne ugualmente. Forse lo zio aveva già in precedenza riferito all'avvocato del processo, ma ciò era impossibile, tutto quel che era successo lo contraddiceva. “Non capisco”, disse perciò. “Ma forse vi ho compreso male?” chiese l'avvocato stupito e imbarazzato come K. “Forse fui precipitoso. Ma di che cosa volevate parlarmi? Pensavo che si trattasse del vostro processo.” “Naturalmente”, disse lo zio, che poi chiese a K. : “Ma che cosa vuoi?” “Ma sì, però come mai sapete qualcosa di me e del mio processo?” chiese K. “Ah, ecco”, disse l'avvocato sorridendo, “sono un avvocato, ho relazioni nell'ambiente del tribunale, si parla di svariati processi, di quelli più degni di nota, specie quando la cosa riguarda il nipote di un amico ce ne ricordiamo. Non c'è nulla di strano.” “Ma che cosa vuoi?” chiese ancora lo zio, “sei talmente inquieto.” “Voi avete relazioni in questi ambienti del tribunale? Chiese K. “Sì”, disse l'avvocato. “Fai domande infantili”, disse lo zio. “Con chi mai devo aver relazioni, se non con la gente del mio campo?” aggiunse l'avvocato. Suonava talmente irrefutabile che K. non rispose proprio. “Voi operate però presso il tribunale che si trova nel palazzo di giustizia, non in quello che si trova nelle soffitte”, avrebbe voluto dire, ma non riuscì a spingersi a dirlo veramente. “Dovete considerare”, proseguì l'avvocato nel tono di spiegar qualcosa di ovvio, superfluo e incidentale, “dovete considerare che da tali relazioni traggo grandi vantaggi per la mia clientela e da ogni tipo di punti di vista, non ne parliamo. Naturalmente a causa della mia malattia ora sono un po' impedito, ma ciò nonostante ricevo visite da buoni amici del tribunale e vengo a conoscenza di alcune cose. Forse più di molti che in perfetta salute vi trascorrono l'intera giornata. Ecco per esempio che proprio ora ho una cara visita.“ E indicò un angolo buio della stanza. “Ma dove?” chiese K., quasi villano per la sorpresa iniziale. Guardò incerto; la luce della candela, modesta, non giungeva di gran lunga fino alla parete opposta. E davvero qualcosa lì nell'angolo iniziò a muoversi. Alla luce della candela che ora lo zio teneva in alto si vide seduto là presso un tavolinetto un signore piuttosto anziano. Davvero non aveva neanche respirato, per cui fino a quel momento era rimasto impercepibile. Ora si alzò cerimonioso, chiaramente scontento del fatto che ci si fosse accorti di lui. Quasi voleva, con quelle mani mosse come alucce, ricusare ogni presentazione e ogni saluto, come se non volesse in alcun caso disturbare gli altri con la sua presenza, come se pregasse sollecito di essere rimesso nel buio e che la sua presenza fosse dimenticata. Non ne aveva più il diritto, però. “Voi, mi spiego, ci avete preso di sorpresa”, disse l'avvocato a mo' di chiarimento e insieme, incoraggiante, fece un cenno a quel signore, che si avvicinasse, cosa che quello fece lento, guardandosi attorno esitante, eppure con una certa dignità, “il signor cancelliere capo – ah sì, perdonate, non ho fatto le presentazioni – qui, il signor Albert K., e qui suo nipote, il procuratore Joseph K., questi è il signor cancelliere capo – il signor cancelliere capo dunque fu così gentile da farmi visita. Solo l'iniziato, che sa quanto il signor cancelliere capo sia carico di lavoro, può apprezzare il valore di una visita come questa. Dato che lui nonostante i suoi impegni venne, noi ci intrattenevamo piacevolmente nei limiti della mia debolezza, né avevamo certo proibito a Leni di ammettere visitatori, difatti in programma non ce n'erano; ritenevamo di restare da soli, e poi, Albert, eccoti coi tuoi colpi alla porta; così il signor cancelliere capo arretrò nell'angolo insieme alla sua sedia e al tavolo; ora però è manifesto che eventualmente, voglio dire, se lo desideriamo, noi abbiamo da discutere una faccenda di comune interesse, per cui possiamo benissimo riaccostarci. Signor cancelliere capo”, disse l'avvocato accennando con il capo un inchino e sorridendo ossequioso, e gl'indicò una sedia a braccioli presso il letto. “Purtroppo posso restare solo pochi minuti”, disse gentile il cancelliere capo, si accomodò sulla sedia e guardò l'orologio, “il lavoro mi chiama, comunque non voglio mancare l'occasione di far la conoscenza di un amico del mio amico.” Accennò un lieve inchino in direzione dello zio che sembrò molto soddisfatto della nuova conoscenza, ma, a causa della sua natura, fu incapace di esprimersi in modo sommesso; accompagnò le parole del cancelliere capo ridendo imbarazzato, ma con forza. Figura orribile! K. poteva osservare con calma tutto, infatti nessuno s'interessava a lui; una volta chiamato di nuovo in causa, il cancelliere capo si appropriò, come sembrava sua abitudine, della conversazione; l'avvocato, la cui precedente debolezza doveva esser servita solo a scacciare la nuova visita, ascoltava attento, mano all'orecchio; lo zio, in qualità di reggi candela – se la teneva in equilibrio su una coscia più volte guardato con preoccupazione dall'avvocato – fu presto privo d'imbarazzo e solo incantato, tanto dal discorrere del cancelliere capo quanto da come questi, ondiforme, gestiva accompagnando le proprie parole. K. che si appoggiava a un montante del letto, venne totalmente trascurato, forse addirittura in modo intenzionale, dal cancelliere capo, e servi a quell'anziano signore solo come ascoltatore. Del resto sapeva appena su che cosa vertesse il discorso; ora pensava alla badante, al malo modo in cui lo zio l'aveva trattata, ora all'ipotesi di averlo già visto, il cancelliere capo, magari addirittura nell'assemblea, al momento della sua prima assise istruttoria. Forse s'ingannava, però il cancelliere capo non avrebbe stonato tra i partecipanti all'assemblea in prima fila, principalmente tra quei signori anziani con le barbe rade.
In quella un rumore dall'anticamera, come di porcellana che stesse frantumandosi, fece tendere le orecchie a tutti. “Voglio andare a controllare che cosa è successo”, disse K. e uscì lentamente come se desse ancora agli altri l'opportunità di trattenerlo. K. era appena entrato nell'anticamera e stava orientandosi nel buio allorché sulla mano con cui ancora si appoggiava alla porta si posò una mano piccola, molto più piccola della sua, e chiuse piano la porta. Era la badante, che era stata lì in attesa. “Non è successo niente”, mormorò, “ho solo gettato contro il muro un piatto per tirarvi fuori.” Confuso, K. disse: “anch'io ho pensato a voi.” “Tanto meglio”, disse la badante. “Venite.” Dopo pochi passi arrivarono a un uscio a vetri opachi che lei gli aprì davanti. “Entrate pure”, disse. Si trattava senz'altro dello studio dell'avvocato; a quanto si poteva vedere alla luce della luna, che ora illuminava bene solo un quadratino del pavimento in corrispondenza con ognuna delle due grandi finestre, era arredato con vecchi e brutti mobili. “Qui”, disse la badante indicando una cassapanca scura con la spalliera di legno intagliato. Dopo che si fu seduto K. si guardò attorno nella stanza, era grande e alta, i clienti dell'avvocato dei poveri vi si dovevano trovare smarriti. K. quasi li vide i passetti con cui i visitatori avanzavano verso l'enorme scrivania. Poi però se ne scordò ed ebbe occhi solo per la badante, che gli sedeva vicinissima quasi spingendolo contro il bracciolo. “Pensavo”, disse lei, “che sareste venuto da me senza che dovessi chiamarvi. Una cosa strana. Prima mi guardaste, quando siete entrato, senza smettere, e poi mi fate aspettare.” “Comunque chiamatemi Leni”, proseguì svelta e diretta come se non dovesse venir sprecato alcun momento di questa spiegazione. “Volentieri”, disse K. “Quanto però alla stranezza è facile spiegarla. Prima cosa dovetti ascoltare le chiacchiere di quell'anziano signore, né potevo venir via senza motivo, seconda cosa non sono sfacciato, ma piuttosto timido e inoltre voi, Leni, non sembrate davvero un tipo da conquistare in un balzo.” “Non è questo”, disse Leni, mise un braccio sulla spalliera e guardò K., “io non vi piacqui, invece, e probabilmente non vi piaccio neanche ora.” “Piacere mica sarebbe molto”, disse K. evasivo. “Oh!” disse lei sorridendo - l'osservazione di K. e quest'ultima breve esclamazione le guadagnò una certa superiorità. Perciò K. tacque un momento. Poiché aveva già fatto l'abitudine al buio della stanza riuscì a distinguere diversi dettagli del mobilio. In particolare lo colpì un grande quadro appeso alla destra della porta, e si piegò in avanti per vederlo meglio. Rappresentava un uomo in toga da giudice; sedeva su un alto soglio la cui doratura faceva molto contrasto con il quadro. La cosa insolita era che questo giudice non sedeva sereno e con dignità, ma premeva il braccio sinistro sul bracciolo e la spalliera mentre aveva il destro completamente libero e solo con la mano stringeva il bracciolo, quasi volesse tra un momento saltar su con una mossa violenta e forse indignata per dire qualcosa di decisivo o addirittura pronunciare il verdetto. L'imputato era pensabile proprio ai piedi della scala i cui gradini più alti soltanto, coperti da un tappeto giallo, erano visibili nel quadro. “Ecco il mio giudice, forse”, disse K. indicando il quadro. “Io lo conosco”, disse Leni guardando anche lei il quadro, “viene spesso qui. Il quadro appartiene al tempo della sua giovinezza, ma lui non può essere mai stato somigliante al quadro, difatti è all'incirca piccolissimo. Nonostante questo si è fatto estendere tanto in altezza perché è pazzamente vanitoso, come qui lo sono tutti. Anch'io però sono vanitosa, e molto scontenta del fatto che non vi piaccio proprio.” A ciò K. rispose solo afferrando Leni e attirandola a sé, e lei gli appoggiò in silenzio la testa alla spalla. In merito al personaggio del quadro lui però disse: “che tipo di grado ha?” “E' giudice istruttore”, disse lei, prese la mano con cui K. la teneva stretta e giocò con le dita. “Di nuovo giudice istruttore soltanto”, disse K. deluso, “gli alti funzionari stanno nascosti. Eppure lui siede su un soglio.” “E' tutta finzione”, disse Leni, il volto abbassato sulla mano di K., “in realtà lui sta su una sedia da cucina su cui è ripiegata una vecchia coperta da cavalli. Ma voi dovete pensare in continuazione al vostro processo?”, aggiunse lenta. “No, niente affatto”, disse K., “probabilmente ci penso troppo poco.” “Non è questo l'errore che fate”, disse Leni, “siete troppo intransigente, questo ho sentito dire.” “Chi l'ha detto?” chiese K., sentiva il corpo di lei sul petto e le guardava la chioma folta e scura, quasi tornita. “Troppo rivelerei, se lo dicessi”, rispose Leni. “Vi prego di non chiedere nomi, ma eliminate il vostro errore, non siate più così intransigente, a questo tribunale mica ci si può opporre, si deve confessare. Solo in quel caso c'è la possibilità di sfuggire, solo in quel caso. Eppure senza aiuto esterno non è possibile, ma non dovete affannarvi a causa di tale aiuto, che io stessa voglio prestarvi.” “Ci capite parecchio di questo tribunale e delle imposture che qui sono necessarie”, disse K. sollevandola, poiché lei gli si premeva in grembo con troppa forza. “Così va bene”, disse lei rimettendoglisi in grembo mentre si lisciava l'abito e si metteva in ordine la camicetta. Poi con entrambe le mani gli si attaccò al collo si tirò indietro e lo guardò a lungo. “E se non confesso, non potete aiutarmi?” chiese K. a mo' di tentativo. Mi procuro aiutanti donne, pensò quasi meravigliato, prima la signorina Buerstner, poi la moglie dell'usciere del tribunale, e ora questa piccola badante che sembra avere un'inclinazione misteriosa per me. Come fosse il suo unico posto adatto, mi siede in grembo! “No”, rispose Leni scuotendo lenta il capo, “in quel caso non posso aiutarvi. Ma non lo volete proprio il mio aiuto, non ve ne importa nulla, siete ostinato e non vi fate convincere.” “Avete un'amante?” chiese dopo poco. “No”, disse K. “Questa è buona!” disse lei. “Veramente sì”, disse K., “pensate, ho negato di averla e invece ne porto con me la fotografia.” Su richiesta di lei le mostrò una fotografia di Elsa, che Leni, accovacciata in grembo a lui, studiò. Era un'istantanea, Elsa era ritratta dopo che ballando aveva fatto un volteggio di quelli che eseguiva volentieri nella vineria, l'abito le stava ancora ripiegato attorno, a ruota, aveva le mani sui fianchi e ridendo, il collo eretto, guardava di lato; per chi fosse il suo riso dal ritratto non si poteva riconoscere. “Ha il busto ben strizzato”, disse Leni indicando il posto dove secondo lei ciò si vedeva. “Non mi piace, è sgraziata e rozza. Però forse con voi è tenera e gentile, si potrebbe concludere dal ritratto. Le ragazze così robuste spesso non sanno essere che tenere e gentili. Ma saprebbe sacrificarsi per voi?” “No”, disse K., “non è né tenera e gentile né saprebbe sacrificarsi per me. Né io finora le ho chiesto l'una o l'altra cosa. Anzi ancora non avevo nemmeno guardato il ritratto così attentamente come avete fatto voi.” “Non è che ve ne importi molto di lei”, disse Leni, “non è affatto la vostra amante.” “Eppure lo è”, disse K. ”Non ritiro quel che ho detto.” “Può essere la vostra amante, ora”, disse Leni, “ma non ne sentireste molto la mancanza se la perdeste, o se al suo posto metteste qualcun altra, per esempio me.” “Certo”, disse sorridendo K., “ciò sarebbe concepibile, ma lei ha un gran vantaggio rispetto a voi, non sa nulla del mio processo e anche se ne sapesse qualcosa non ci penserebbe. Non cercherebbe di persuadermi alla compiacenza.” “Non è affatto un vantaggio”, disse Leni. “Se non ha nessun altro vantaggio, io non mi scoraggio. Ha qualche difetto fisico?” “Un difetto fisico?” chiese K. “Sì”, disse Leni, “mi spiego, io ne ho uno, piccolo, guardate.” Allargò il medio e l'anulare della mano destra, tra i quali la pelle che li collega arrivava quasi fino all'articolazione superiore del dito minore. K. nel buio non vide bene quel che lei intendeva indicare per cui lei porse la mano in modo che lui toccasse. “Che scherzo di natura”, disse K., e, come se avesse esaminato tutta la mano, aggiunse: “che bell'unghia!” Con un certo orgoglio Leni stette a guardare come K. stupito continuava ad allargare e stringere le sue due dita, finché non le baciò fuggevolmente e le lasciò. “Oh!” esclamò subito, “mi avete baciata!” Lesta, la bocca aperta, gli si arrampicò in grembo con le ginocchia, K. la guardò quasi sgomento, ora che gli era tanto vicina gli veniva da lei un eccitante odore aspro, come di pepe, lei attirò a sé la testa di lui, vi si chinò sopra e gli morse il collo, lo baciò, gli morse anche i capelli. “Mi avete messa al suo posto”, diceva a tratti, “vedete che però mi avete messa al suo posto!” In quella le ginocchia le scivolarono, con un urletto cadde quasi sul tappeto, K. la afferrò per trattenerla e venne tirato giù. “Ora mi appartieni”, disse lei.
Eccoti la chiave di casa, vieni quando vuoi”, furono le sue ultime parole, e anche un bacio alle spalle, perduto, lo colse, mentre se ne andava. Quando uscì dal portone pioveva leggermente, volle camminare nel mezzo della strada per poter vedere ancora, forse, Leni alla finestra, in quella da un'automobile che aspettava davanti alla casa e che K. nella sua distrazione non aveva proprio notato scese lo zio, lo afferrò per le braccia e lo sbatté contro il portone della casa, quasi volesse inchiodarcelo. “Ragazzo”, esclamò, “come hai potuto farlo? Hai spaventosamente danneggiato la tua causa, che era sulla strada buona. Ti nascondi con quella piccola sudiciona, per di più, com'è chiaro, amante dell'avvocato, e te ne resti via per delle ore. Non tenti neppure una scusa, non dissimuli nulla, no, sei sincero, corri da lei e ci resti. E intanto noi lì seduti assieme, lo zio che si arrabatta per te, l'avvocato che dev'essere convinto, soprattutto il cancelliere capo, questo gran signore che la tua causa senz'altro allo stato l'ha in mano. Intendiamo deliberare come poterti aiutare, io devo trattare cautamente con l'avvocato, lui a sua volta con il cancelliere capo, e tu avresti ogni ragione per sostenermi, almeno. E invece te ne stai altrove. Alla fine non si può nascondere, il fatto, si tratta di uomini acuti, beneducati, non ne parlano, sono indulgenti con me, alla fine però non possono più dominarsi e poiché non possono parlarne, del fatto, ammutoliscono. Siamo stati per dei minuti lì seduti in silenzio a sentire se tu finalmente venivi. Tutto invano. Alla fine il cancelliere capo, che è rimasto molto più a lungo di quanto inizialmente volesse, si alza, si congeda, si duole con me, evidentemente senza potermi aiutare, sta ad aspettare ancora, con incredibile gentilezza, un poco sulla porta, poi se ne va. Naturalmente ne fui felice, già mi mancava il respiro. Sull'avvocato malato tutto ha avuto effetti di maggior forza, non riusciva nemmeno a parlare, quel buon uomo, quando mi sono congedato da lui. E' probabile che tu abbia contribuito al suo crollo completo e che così tu acceleri la morte dell'unico uomo che avevi a tua disposizione. E me, tuo zio, mi lasci ore sotto la pioggia ad aspettare, senti qui, sono fradicio.”


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