giovedì 15 dicembre 2016

Naturtheater von Oklahoma

Ho a disposizione due traduzioni di America, o meglio de Lo scomparso, una Mondadori, degli anni sessanta, l'altra Newton Compton, forse degli anni ottanta: entrambe danno all'ultimo capitolo il titolo "Il teatro naturale di Oklahoma", una formula che mi è cara da decenni. Però Naturtheater significa "teatro all'aperto". 
Capita qui qualcosa che famosissimamente troviamo nella espressione "Grande fratello", in 1984 di Orwell. Big Brother significa "fratello maggiore".
Gli esempi di traduzioni frettolose e però fortunate non mancano.

venerdì 11 novembre 2016

Cunnilinctus

Costretto a finire nelle grinfie di Delamarche, sempre meglio della polizia, Karl Rossmann sale nell'appartamentino che Delamarche scrocca insieme a Robinson a una certa Brunelda; è stanco morto, si butta su un cumulo di tende in un angolo della stanza sovraffollata (è Kafka, il sovraffollamento soffocante è un suo arnese estetico, narrativo, critico, comico), si addormenta. A un tratto lo sveglia un urlo della grassa e belloccia Brunelda, la quale, assisa su un divano, sta (probabilmente) ricevendo  o ha ricevuto una leccata di successo da Delamarche, inginocchiato. Orbene, questo è il secondo accenno al sesso orale, infatti ricordiamoci dell'ottimo brano (v. capitolo primo, America) che descrive la passione della serva di casa per il quindicenne Karl, in Europa. Un giorno lei, la Brummer, lo trascina nella sua stanza e, tra l'altro, glielo propone, il cunnilinctus, al nostro innocentino. Che ripensandoci è ancora in preda allo schifo. "Sei ancora un ragazzino", gli dice Robinson, dopo che entrambi sono stati sbattuti fuori dalla stanza sovraffollata, sul balcone, e ci hanno dormito, bene o male.

martedì 8 novembre 2016

Collodi e Kafka

Delamarche e Robinson hanno la funzione di salvare Rossmann, Karl, il protagonista di America, dal perbenismo, dalla banalità, dall'ordine. Come il gatto e la volpe, o Lucignolo, hanno la funzione di aiutare Pinocchio a restare quello che è. Non importa leggere la descrizione della fuga di Karl, inseguito dal poliziotto, nel capitolo settimo, per avere questa impressione, che America appartenga allo stesso continente di Pinocchio.

mercoledì 2 novembre 2016

L'avvenenza di Karl Rossmann

Finisce con il farsi buttar fuori dal lavoro, Karl, la sua parte di bravissimo ragazzo ben educato non ce la fa contro la parte vagabonda e filibustiera (Robinson e Delamarche), prima dell'espulsione il ragazzo è processato; comunque qui mi concentro su un dettaglio. Per chi non l'avesse capito, si tratta di America, romanzo incompiuto di Kafka. Orbene, il capo della portineria dell'albergo a me pare dedicare attenzioni poco professionali, ancorché autoritariamente espresse, a Karl, la sua smania di tenerlo stretto e di frugargli le tasche fa pensare a mire omosessuali espresse in modo "derivativo". Di fatto, quando Karl non ne può più e schizza via dalle grinfie del portiere capo, leggiamo che il ragazzo passa attraverso l'aria viziata (schwuele) che pesa dentro la portineria - vi stanno al lavoro poco meno di una decina di persone. Solo che quest'aria potrebbe essere invece viziosa (schwule). Del resto, che Karl sia un bel ragazzetto lo si era già capito fin dal primo capitolo, quando vi si narra lo smarrimento che per lui prova la donna di servizio di famiglia, la Brummer. Piace a femmine e maschi.

giovedì 27 ottobre 2016

Confessione di un traduttore dilettante

Ho iniziato a lavorare con la lingua tedesca circa otto anni fa limitatamente al tradurre, certo ho fatto progressi nel senso che adesso sono meno vincolato ai dizionari, sei, comunque non ho alcuna pratica, non parlo né capisco e sempre, quando capita che veda parole tedesche scritte, ho difficoltà. Non so scrivere se non commettendo caterve di errori. Ciò nonostante ho tradotto quasi tutti i testi brevi di Kafka e mi trovo oltre la metà del romanzo noto con il titolo America. Ho tradotto del resto diversi testi di Schnitzler, un testo di Von Kleist, uno di Thomas Mann, e un romanzo di Duerrenmatt. Ho tradotto anche due raccolte di racconti brevi di Thomas Bernhard. Non sono un principiante, ma un cosiddetto dilettante, sordo, muto e analfabeta. L'italiano delle mie traduzioni da Kafka (a parte l'eventualità di qualche cantonata) è abbastanza contorto, senz'altro non è arioso, è ampolloso, ma penso che togliendo questi difetti in modo radicale io farei assurdamente prevalere la mia mente e i miei gusti, ragione per cui tradirei il testo kafkiano. Un fenomeno meno interessante (perché personale) rispetto a quello che ho appena segnalato riguarda il mio modo di scrivere in italiano: a me sembra che nel mio italiano talvolta si nasconda il tedesco di Kafka, se non il tedesco in genere, che offre delle possibilità, a chi lo pratica come traduttore, di imprigionare, ma in modo divertente, le parole italiane al loro significato letterale, se non etimologico. Si gioca, anche, di più con le parole.
Tornando a Kafka, le mie traduzioni spesso mi danno l'impressione di un linguaggio non sufficientemente letterario, ma invece austero, ufficiale, se non proprio burocratico. Ripeto: ampolloso

venerdì 30 settembre 2016

La via verso Ramsete

Butterford, dove sono diretti i due farabuttelli incontrati per caso nel secondo capitolo di America da Karl, è un luogo immaginario, potrebbe essere l'anagramma di Butterdorf, villaggio del o di burro, e richiamare del resto il Butterbaum, albero del burro o di burro, del primo capitolo, un altro passeggero della nave che ha portato Karl in America - "in Egitto". Ciò potrebbe dar luce alla "via verso Ramses" che dà il titolo al quarto capitolo. Ramses non esiste, significa Ramsete, nome di diversi faraoni. Tramite un certo Zimmermann, che ha scritto (2004) un libro di "lettura avanzata" su America, ho trovato che una certa E.Beck, autrice di un libro (1972) su Kafka e il teatro yiddish, sostiene che K nel 1911 vide un'opera teatrale del genere, in cui un personaggio paragonava l'America all'Egitto, da cui più o meno miticamente gli ebrei fuggirono. Ora, il "continente sconosciuto" di cui si parla nel primo capitolo, potrebbe essere questo faraonico Egitto - l'America. C'è un però: Karl non è un ebreo.

mercoledì 28 settembre 2016

Kafka e i due elettricisti in convento - cerimoniosità

Il diverbio (capitolo 4 di America) tra Karl e i suoi due compagni da poco incontrati, Robinson e Delamarche, vivacissimo in sé, è reso dalla penna di Kafka alquanto cerimonioso, trattandosi di tre ragazzi, due dei quali pratici della strada e delle sue delicatezze. 
Mi ha fatto tornare in mente una barzelletta: due operai elettricisti all'opera in un convento di suore sono richiamati dal padrone. "La madre superiora s'è lamentata di voi, dice che avete bestemmiato e detto una marea di parolacce!" dice il padrone. "Noi? Ma no, è successo che Gigi mentre saldava, e io ero sotto di lui, m'ha fatto colare nel collo un po' di piombo fuso, allora io gli ho detto: ma Gigi, perdindirindina, dovresti fare un po' più di attenzione quando adoperi il saldatore!" risponde uno degli operai.

Forse però è la lingua tedesca di Kafka, a non funzionare, oppure lo stile cerimonioso gli serve, a K, per raggelare le scene?

In effetti nel testo si accenna alla cerimoniosità "europea" di Karl, nel capitolo intitolato "Il caso Robinson". Il protagonista è rimproverato dal portiere dell'albergo perché in qualche caso si sarebbe dimenticato, incontrandolo, di salutarlo. E Karl si difende, tra l'altro, dicendo che sta imparando in America uno stile meno cerimonioso di quello suo abituale.

venerdì 23 settembre 2016

Kafka e la giungla d'asfalto

Traducendo Der Verschollene, che significa "lo scomparso", conosciuto come America (bel titolo scelto dal non esecutore testamentario di Kafka, Max Brod), già tradotto negli anni sessanta per Mondadori, non so se anche dopo da altri, trovo descrizioni di cose americane, come il traffico stradale, viste con gli occhi d'un europeo, che è il protagonista del romanzo, ed è anche Kafka, mai stato in America. Che ignora o rifiuta il lessico settoriale, usa perifrasi. Prende cantonate, come quando attribuisce alla Statua della libertà una spada, al posto della fiaccola, o fa dar di mancia a un cameriere uno scellino. Accade un poco come quando si legge una traduzione d'un romanzo americano fatta quando la cultura materiale americana (jeans, juke box, jeep, hamburger) era qui del tutto ignota ai traduttori. Penso a Giungla d'asfalto.
Le perifrasi americane di Kafka aiutano a capire la distanza tra Europa e Nord America, cent'anni fa più grande di quanto lo è ora.

sabato 17 settembre 2016

Uno scellino di mancia

Nel terzo capitolo di America il protagonista, Karl Rossmann, dà "uno scellino" di mancia al servitore che lo ha accompagnato lungo i corridoi nella casa buia dove si svolge di fatto l'azione dell'uscita di Karl dalla soffocante protezione dello zio. Siamo nei dintorni di New York, Karl si trova negli Stati uniti da un bel po', ragione per cui lo scellino dato al servitore come mancia è un lapsus dell'autore. Una svista, un errore, come la spada affibbiata alla Statua della Libertà al posto della fiaccola, nel primo capitolo. Come Karl si diverte a suonare vecchi canti malinconici militari della sua terra natia, così Kafka gli mette in mano uno scellino per la mancia, al posto di un "dime", di un soldino da dieci centesimi.

domenica 21 agosto 2016

Il "cremlino" di Kafka

Il famoso romanzo di Kafka noto come Il castello s'intitola in tedesco Das Schloss. Orbene, la traduzione impostasi è inevitabile, ma pigra, infatti propriamente è in questione non un castello, ma una sorta di cittadella o al limite una fortezza. Traggo questa conclusione dalla memoria del testo e da una recente "scoperta" relativa al famoso Cremlino. Tale termine significa in russo appunto cittadella o fortezza, ed il Cremlino a tutti noto non è altro che la più famosa di queste fortezze o cittadelle russe. Scoperta che mi ha aperto gli occhi circa Das Schloss

martedì 16 agosto 2016

La colonia penale kafkiana

Traducendo "Nella colonia penale", il famoso racconto di Kafka, che non leggevo da decenni e di cui com'è naturale ricordavo solo la macchina che serve per incidere sulla schiena dei condannati la sentenza, oggetto narrativo di grande interesse tecnico o fantatecnico, ho messo a fuoco che la vicenda si svolge in zona tropicale, in un'isola, e che il Paese da cui la colonia penale dipende è caratterizzato dalla poligamia maschile, infatti si insiste in più luoghi sulle Damen che circondano il comandante della colonia, in un caso chiamandole Frauen. Mogli. Il cerchio si stringe con l'accenno alla ciotola di riso che il condannato alla tortura di cui sopra (mortale) ha a disposizione. Direi che la colonia penale fa parte della Cina kafkiana

Uno studioso degli usi e costumi del vasto mondo (etnologo, antropologo culturale, direi) si reca in visita in una colonia penale dove gli si mostra una complessa macchina, o apparato, che semplicemente punisce (nel caso in esame si tratta di un attendente che si è ribellato al suo superiore) il reo, ignaro della condanna e del tutto passivo rispetto all'accusa (das ist Kafka!) torturandolo con la incisione tramite aghi sulla sua schiena della sentenza. Tutto macchinico, elettricamente mosso e avveniristico - si pensa alle oggi antiche "schede perforate". La tortura, che permette al condannato di arrivare nel corso di dodici ora di incisione a conoscere la sentenza in modo sensoriale, nella carne, termina con la morte. L'ufficiale che illustra (Erklaerung) allo studioso l'apparato, ne è un fanatico, in ciò assolutamente minoritario, infatti la nuova dirigenza della colonia penale è contraria al metodo e lo boicotta. Anche lo studioso è un oppositore della tortura, ma è quasi soggiogato dalla eloquenza appassionata e folle dell'ufficiale conservatore, e lo lascia parlare. Quando il conservatore si accorge che dallo studioso non otterrà appoggi a favore dell'apparato e si rende conto di essersi fatto delle illusioni assurde su di lui, libera il condannato, si denuda e mette se stesso alla tortura; la macchina inizia a operare, ma si rompe, va in pezzi, e l'ufficiale muore trafitto dagli aghi che servono alla incisione sul corpo della sentenza. Essa dice: "Sii giusto!" Sei Recht!
Lo studioso, insieme al condannato scampato e al soldato di guardia, una coppia che da ultimo diviene buffa ricordandoci gli aiutanti dell'agrimensore in Das Schloss (Il castello), lascia il luogo dell'apparato e fa ritorno nella colonia: prende la prima nave e se ne va. 
Tristi tragicomici tropici! Ottimo racconto.

(Ora, non so se esistano o siano esistite pratiche "penali" e di tortura analoghe a quella immaginata da Kafka; non posso però evitare di attribuirne la genesi alla mente di Kafka
Altro: salta agli occhi la finezza "empatica" della rappresentazione del protagonista del racconto, l'ufficiale fedele alla pratica creata dal defunto comandante della colonia penale, ormai un "esule in patria", direi, uno straniero tra i suoi. Un sopravvissuto!
La posizione della pietra tombale del comandante inventore della macchina da tortura, infine, nascosta sotto un tavolo della lurida casa del té, è una meravigliosa beffa kafkiana che ha dell'onirico.) 

(Marzo 2020) La traduzione è postata nella mia sezione del sito Scribd - con il titolo "Nella colonia penale").

sabato 13 agosto 2016

Hungernkuenstler

Non digiunatore, ma virtuoso del digiuno ho tradotto Hungernkuenstler, per rendere giustizia all'originale tedesco ed alla maestria del protagonista. Faccio notare che le scene relative ai rapporti tra il protagonista in gabbia e i suoi guardiani ricordano quelle tra la scimmia in gabbia e i suoi occasionali compagni umani in "Relazione per un'accademia"

venerdì 5 agosto 2016

F.Kafka: Un virtuoso del digiuno

Negli ultini decenni l'interesse per i virtuosi del digiuno è assai scemato. Mentre prima valeva la pena organizzare simili dimostrazioni in proprio, oggi è del tutto impossibile. Erano altri tempi. Allora l'intera città si occupava del virtuoso; quotidianamente insieme alla durata del digiuno saliva la partecipazione; ognuno almeno una volta al giorno voleva vedere il virtuoso; aumentando i giorni di digiuno c'erano abbonati i quali sedevano tutto il dì davanti alla piccola gabbia; anche di notte avevano luogo visite allo scopo di accrescere l'effetto con la luce delle fiaccole; quando il tempo era buono la gabbia era trasportata all'aperto ed in questo caso specialmente ai bambini veniva mostrato il virtuoso; mentre per gli adulti era spesso soltanto un divertimento cui essi prendevano parte perché era di moda, i bambini stavano a guardare a bocca aperta, tenendosi, a scanso di rischi, reciprocamente per mano, stupefatti da come lui, pallido, una maglia nera adosso, le costole sporgenti, sedeva sulla paglia sparsa perfino disdegnando una sedia, da come annuendo a un tratto gentilmente rispondeva alle domande con un sorriso forzato, da come tendeva tra le sbarre della gabbia il braccio per far sentire la sua magrezza e poi però riaffondava completamente in se stesso senza curarsi di nessuno, neppure del rintocco dell'orologio, unico arredo della gabbia, per lui così importante, e invece continuava a guardare davanti a sé con gli occhi quasi chiusi, di tanto in tanto centellinando un sorsino d'acqua da un piccolo bicchiere per inumidirsi le labbra.
A parte i mutevoli spettatori c'erano anche guardiani fissi scelti nel pubblico, notevolmente di solito macellai i quali, sempre tre per volta, avevano l'incarico di osservare notte e giorno il virtuoso acciocché questi, in un qualche modo più o meno segreto, non si nutrisse. Solo una formalità a scopo di tranquillizare la massa, infatti gli iniziati sapevano bene che mai il virtuoso durante il digiuno per nessuna circostanza, neppur con la forza, avrebbe mangiato neppure la minima cosa; lo proibiva l'onor dell'arte sua. S'intende che non tutti i guardiani potevano capire ciò, talvolta c'erano gruppi di guardia notturni i quali esercitavano la sorveglianza in modo assai lasso, deliberatamente si sedevano insieme in un angolo lontano e lì s'immergevano nel gioco delle carte con l' intenzione manifesta di concedere al virtuoso un rinfreschino che secondo loro egli poteva tirar fuori da una qualche riserva segreta. Niente era più molesto per il virtuoso di siffatti guardiani; lo rattristavano; gli rendevano il digiuno orribile; talvolta vinceva la sua debolezza e cantava durante questo tempo di guardia, finché semplicemente non ne poteva più, per mostrare a quella gente quanto ingiustamente lo sospettassero. Però serviva a poco; essi finivano per stupirsi soltanto della sua disinvoltura nel mangiare mentre cantava. Molto di più gli piacevano i guardiani che si mettevano vicino alle sbarre, non si accontentavano dell'illuminazione notturna della sala, ma lo illuminavano con le torce elettriche che l'impresario <in italiano nel testo - n.d.t.> metteva loro a disposizione. La luce abbagliante non lo disurbava affatto, tanto a dormire, in linea di massima, non riusciva, e un poco poteva sempre assopirsi con qualsiasi illuminazione e ad ogni ora, anche con la sala strapiena e chiassosa. Assai volentieri era disposto a trascorrere completamente senza sonno la notte con guardiani del genere; disposto a scherzarci, a raccontar loro storie della sua vita nomade e ad ascoltare poi le loro, tutto all'unico scopo di tenerli desti per poter continuare a mostrar loro che lui nella gabbia non aveva nulla di commestibile e che digiunava come nessun di loro avrebbe potuto. Il massimo per lui tuttavia era quando poi arrivava la mattina e veniva portata loro, a spese sue, una sontuosa colazione su cui si gettavano con l'appetito di uomini sani dopo una faticosa notte di veglia. Certo, non mancava gente che in questa colazione voleva vedere una disdicevole subornazione dei guardiani, ma ciò oltrepassava i limiti, e quando si domandava ai guardiani se volevano, diciamo per la causa, sobbarcarsi la veglia notturna senza colazione, loro storcevano la bocca, però restavano a causa delle insinuazioni di quella gente.
Questo certo faceva parte però delle insinuazioni assolutamente inseparabili dal digiuno. Nessuno in fin dei conti era in grado di passare tutti i giorni e le notti presso il virtuoso ininterrottamente come guardiano, nessuno dunque poteva di suo propriamente sapere, senza fallo, se davvero si era digiunato ininterrottamente; soltanto il virtuoso stesso poteva saperlo, soltanto lui poteva allo stesso tempo essere il digiunatore e l'osservatore pienamente soddisfatto del suo digiuno. Sempre, invece, era insoddisfatto per un altro ulteriore motivo; forse non aveva affatto ottenuto dal digiuno quel dimagrimento tale che parecchi, non tollerandone la vista, dovessero star lontano dagli spettacoli in segno di compianto, piuttosto era dimagrito soltanto a causa dell'insoddisfazione di sé. Solo lui, in altre parole, sapeva, e nessun altro iniziato lo sapeva, com'era facile il digiuno. La cosa più facile al mondo. Neanche lo nascondeva, questo, ma non gli si credeva, nel caso più favorevole lo si considerava modesto, ma specilmente voglioso di pubblicità o perfino un imbroglione cui il digiuno era in fondo facile perché sapeva renderselo facile e che aveva anche la sfrontatezza di ammetterlo. Tutto questo lui doveva accettarlo, ci si era anche abituato con gli anni, ma interiormente questa insoddisfazione continuava a rodergli, e ancora mai dopo alcun periodo di digiuno - si doveva riconoscerglielo - aveva lasciato di sua volontà la gabbia. Come limite massimo del digiuno l'impresario aveva posto quello di quaranta giorni, oltre non lasciava digiunare nessuno, neanche nelle metropoli, e certamente per buone ragioni. Secondo l'esperienza tramite la pubblicità gradualmente crescente si poteva circa per quaranta giorni stuzzicare sempre di più l'interesse di una città, dopo però il pubblico mancava, era osservabile un essenziale calo di affluenza; sussitevano naturalmente a questo riguardo piccole differenze tra le città e le province, ma come regola valeva che il limite massimo era quaranta giorni. Così al quarantesimo giorno la porta inghirlandata di fiori della gabbia veniva aperta, una entusiastica partecipazione di spettatori riempiva l'anfiteatro, una banda militare suonava, due medici entravano nella gabbia per prendere le necessarie misurazioni al virtuoso, con un megafono i risultati venivano annunciati alla sala, ed infine ecco due giovani signore contente del fatto che proprio loro fossero state sorteggiate, che intendevano far scendere un paio di gradini fuori dalla gabbia al virtuoso fino ad un tavolino su cui era servito un pasto da ammalati accuratamente scelto. A questo punto il virtuoso si opponeva sempre. Certo, appoggiava ancora volontariamente le sue braccia ossute sulle mani soccorrevoli protese dalle signore, chine su di lui, ma non voleva stare in piedi. Perché smettere proprio ora dopo quaranta giorni? Avrebbe resistito ancora a lungo, illimitatamente; perché smettere proprio ora che lui si trovava, anzi, non era ancora nel meglio del digiuno? Perché si voleva derubarlo della gloria di digiunare più a lungo, di diventare non solo il più grande virtuoso del digiuno di tutti i tempi, il che lui, anzi, probabilmente già era, ma anche di superare se stesso fino all'inesplicabile, dal momento che lui non sentiva alcun limite alla sua capacità digiunatoria. Perché questa folla che pretendeva di ammirarlo così tanto aveva così poca pazienza? Se lui resisteva ancora a digiunare più a lungo, perché essa non voleva resistere? Inoltre era stanco, si trovava bene sulla paglia, ora doveva tirarsi su, e non per poco, andar a mangiare, cosa che già a figurarsela gli provocava nausee la cui espressione tratteneva a fatica per riguardo alle signore. E dal basso guardava negli occhi le signore, apparentemente tanto gentili, in realtà così crudeli e faceva segno di no con la testa appesantita sul debole collo. Però poi succedeva quel che succedeva sempre. Veniva l'impresario, senza parole - la musica rendeva impossibile parlare - sollevava le braccia sul virtuoso quasi che invitasse il cielo ad osservare una buona volta l'opera sua lì sulla paglia, questo miserevole martire, il che il virtuoso era di certo, ma in tutt'altro senso; afferrava per la sottile vita il virtuoso, facendo ciò con esagerata cautela lui voleva render credibile che lui lì avesse a che fare come con una cosa fragile; e lo consegnava - non senza dargli segrete scosse in modo che il virtuoso con le gambe ed il busto incontrollatamente oscillasse qua e là - alle signore nel frattempo impallidite come due morte. Ora il virtuoso sopportava tutto; la testa appoggiata al petto, era come fosse rotolata in basso e si reggesse per miracolo; la pancia svuotata; le gambe si stringevano l'una con l'altra all'altezza delle ginocchia per istinto di conservazione, ma raspavano il suolo, come se non si trattasse di cosa reale si preoccupavano di trovare quello vero; e tutto il peso, invero modesto, del corpo si appoggiava su una delle signore, la quale in cerca d'aiuto, con il respiro accelerato - non si era figurata così questo ufficio d'onore - tendeva al massimo il collo almeno per difendere il viso dal contatto con il virtuoso, poi però, dato che ciò non le riusciva e la sua più fortunata compagna non la soccorreva, si accontentava di liberarsi, tremando, della mano del virtuoso, questo pacchetto di ossa, tra le risate entusiastiche della sala rompeva in lacrime, e doveva esser rilevata da un inserviente da tempo predisposto. Poi veniva il mangiare, un poco del quale l'impresario somministrava al virtuoso, durante una sonnolenza simile allo svenimento, in mezzo a gioiosi applausi, che doveva sviare l'attenzione dallo stato del virtuoso; poi al pubblico si rivolgeva un brindisi presumibilmente sussurrato dal virtuoso all'impresario; l'orchestra ratificava il tutto con gran squilli, e si andava via, nessuno aveva ragione di essere scontento del virtuoso, nessuno, solo lui, sempre solo lui.
Così visse molti anni, con piccole pause di riposo periodiche, apparentemente fulgido, onorato dal mondo, malgrado tutto, però, in genere di un cattivo umore che diveniva sempre peggiore per il fatto che nessuno intendeva prenderlo sul serio. In che modo lo si doveva poi consolare? Cosa gli restava da desiderare? E se capitava una buona volta chi bonariamente lo compativa e intendeva spiegargli che la sua afflizione proveniva dal digiuno, poteva succedere, specie durante l'aumentare del tempo digiunato, che il virtuoso rispondesse con un esplosione di rabbia e iniziasse, come una belva, a scuotere le sbarre. Comunque l'impresario per stati simili aveva un rimedio punitivo che il virtuoso accoglieva volentieri. Lo giustificava di fronte al pubblico riunito, ammetteva che solo l'irritabilità suscitata dal digiuno poteva scusare il comportamento del virtuoso, essendo tale irritabilità, per le persone sazie, senz'altro incomprensibile; veniva poi, in rapporto a ciò, a parlare anche dell'altrettanto spiegabile affermazione del virtuoso che lui avrebbe potuto digiunare anche molto più a lungo di quanto faceva; lodava lo sforzo, la buona volontà, la grande abnegazione che certo in tale affermazione erano contenuti; cercava poi di confutare, però, l'affermazione abbastanza semplicemente tramite l'esibizione di fotografie che allo stesso tempo venivano smerciate, infatti in esse si vedeva il virtuoso pervenuto ad un quarantesimo giorno di digiuno, allettato, quasi spento a causa della debolezza. Ben note, queste foto, al virtuoso, certo, ma sempre di nuovo lo stravolgimento della verità, che lo snervava, era troppo per lui. Ciò che era conseguenza del prematuro termine del digiuno, qui si mostrava come se fosse la causa! Combattere contro tale dissennatezza, contro questo mondo d'insensatezza, era impossibile. Ancor sempre in buona fede aveva riascoltato, impaziente alle sbarre, l'impresario, all'apparizione delle fotografie però ogni volta le aveva abbandonate, sospirando si era afflosciato nella paglia, ed il pubblico tranquillizzato poteva di nuovo avvicinarsi per guardarlo.
Se alcuni anni più tardi i testimoni ripensavano a simili scene, spesso le trovavano addirittura incomprensibili. Infatti nel frattempo era subentrato quel sopra menzionato capovolgimento; era successo quasi d'improvviso; poteva avere motivi profondi, ma a chi importava di scovarli? Comunque il raffinato virtuoso si vide un giorno abbandonato dalla folla desiderosa di divertimento, la quale fluì verso altre attrazioni. L'impresario si sguinzagliò con lui in mezza Europa per vedere se non si ritrovava ancora qua e là il vecchio interesse; tutto finito; come in un accordo segreto dappertutto si era formata una vera e propria ripugnanza nei confronti della vista dei digiuni. Naturalmente ciò in realtà non era potuto avvenire d'improvviso, ed ora ci si rammentava ricostruttivamente di molti indizi a suo tempo, nell'ubriacatura del successo, non abbastanza osservati , non abbastanza repressi, tuttavia ora farci qualcosa di oppositivo era troppo tardi. Certo era sicuro che una buona volta anche per il digiuno il tempo sarebbe ritornato, ma per i vivi ciò non era di conforto. Che cosa doveva fare ora il virtuoso? Colui per il quale in migliaia avevano giubilato non poteva esibirsi in baracconi di modeste fiere annuali, e per trovare un altro impiego il virtuoso non soltanto era troppo anziano, ma soprattutto troppo fanaticamente devoto. Così licenziò l'impresario, il compagno d'una carriera senza pari, e si fece ingaggiare da un grande circo; per proteggere la sua sensibilità non guardò nemmeno le condizioni contrattuali.
Un grande circo con la sua quantità enorme di persone, animali ed attrezzature sempre reciprocamente articolati può necessitare di tutti in ogni momento, anche d'un virtuoso del digiuno di pretese, è naturale, adeguatamente modeste, e, a parte ciò, certo in questo caso particolare non tanto era ingaggiato il virtuoso stesso, quanto il suo vecchio famoso nome, ma non si poteva neppur dire, data la particolarità di quest'arte col passare degli anni tramontata, che un virtuoso d'altri tempi non più all'altezza della sua capacità volesse rifugiarsi in una tranquilla posizione circense, al contrario, il virtuoso assicurò che lui, ciò che assolutamente era degno di esser creduto, digiunava bene proprio come prima, anzi riteneva perfino che, se lo si lasciava fare, e questo gli si promise senz'altro, avrebbe per la prima volta, proprio ora, fatto fondatamente stupire il mondo: un'affermazione, data la mentalità dell'epoca dallo zelante virtuoso facilmente dimenticata, che davvero suscitò soltanto un sorriso.
In fondo tuttavia neanche il virtuoso perdeva di vista la realtà delle cose, ed accettò come ovvio che non lo si mettesse con la sua gabbia in pista come all'incirca un'attrazione principale, ma invece lo si collocasse fuori in un posto, abbastanza ben accessibile del resto, in prossimità degli stallaggi. Grandi variopinte insegne incorniciavano la gabbia e indicavano ciò che lì c'era da vedere. Quando il pubblico negl'intervalli dello spettacolo si spingeva verso le gabbie per guardare gli animali era quasi inevitabile che transitasse davanti al virtuoso ed un poco vi si fermasse, forse ci si sarebbe trattenuti più a lungo davanti a lui se coloro che stavano dietro nello stretto ambulacro, i quali non capivano questa sosta sulla via delle agognate gabbie, non avessero reso impossibile una più lunga tranquilla osservazione. Anche questo era il motivo per cui il virtuoso, di fronte a questi momenti di visita che lui naturalmente desiderava come meta vitale, non mancava però di rabbrividire. All'inizio aveva faticato nell'attesa delle pause dello spettacolo; in estasi aveva guardato verso la folla che si avvicinava scomposta finché presto si era convinto con coraggio - anche il più caparbio, quasi consapevole, autoinganno non resse alle prove - che si trattava per lo più di gente intenzionata, sempre, senza eccezione, chiaramente a visitare le gabbie. E questa vista a distanza rimase ancor sempre la più bella. Infatti quando essi erano arrivati fino a lui, subito gli infuriavano attorno grida e insulti degl'ininterrottamente formantisi nuovi partiti, del partito - presto più indigesto per il virtuoso - che lo voleva vedere con comodità, non per apprezzamento, all'incirca, ma per capriccio e puntiglio, e del partito che bramava soprattutto le gabbie. Davanti c'era l'assembramento grande, dietro i ritardatari che veramente, pur non impediti più dal restare quanto volessero, si affrettavano a grandi passi per arrivare in tempo agli animali, quasi senza guardare di lato. E non capitava affatto di frequente la fortuna che un padre di famiglia coi suoi bambini indicasse il virtuoso, che spiegasse in modo dettagliato di che cosa si trattava lì, che raccontasse degli anni passati, dove il virtuoso, per simili ma incomparabilmente maggiori esibizioni, era stato, e che poi i bambini, a causa della insoddisfacente loro preparazione scolastica e di vita, restassero certo sempre senza capire - cos'era per loro il digiuno? - e che però con la luce dei loro occhi scrutatori manifestassero qualcosa dei nuovi tempi più favorevoli in arrivo. Forse, così si diceva il virtuoso poi talvolta, tutto sarebbe cambiato un po' in meglio se la sua ubicazione non fosse stata tanto vicina alle gabbie. La scelta alla gente risultava così troppo facile, per non dire che molto lo ferivano e lo tormentavano senza tregua le esalazioni delle gabbie, l'irrequietezza degli animali durante la notte, il trasporto che davanti a lui veniva effettuato dei pezzi di carne cruda per le belve, lo strepito del loro mangiare. Tuttavia non osava fare le sue rimostranze presso la direzione; per lo meno doveva, anzi, agli animali la folla dei visitatori, tra i quali poteva trovarsene qua e là uno destinato a lui, e chi lo sapeva dove lo si sarebbe ficcato se lui avesse voluto ricordare che esisteva, senza contare il fatto che lui, strettamente parlando, era solo un intralcio sulla via verso le gabbie.
Davvero un intralcio modesto, un intralcio sempre più modesto. Ci si era assuefatti allo straordinario per aver voglia di rivendicare, oggi, attenzione per un virtuoso del digiuno, e con tale assuefazione il verdetto sul virtuoso del digiuno era pronunciato. Aveva così la possibilità di digiunare bene quanto gli riusciva, e lo faceva, ma niente poteva più salvarlo dal fatto che lo si passasse sotto silenzio. Provaci, a spiegare a qualcuno l'arte del digiuno! A chi non ci ha sensibilità, non gli si può render comprensibile. Le belle insegne divennero luride ed illeggibili, le si strapparono via, a nessuno venne in mente di sostituirle; la tabella con il numero dei giorni di digiuno effettuati che nei primi tempi accuratamente ogni giorno era stato rinnovato, già da lungo tempo restava sempre la stessa, infatti dopo le prime settimane il personale s'era stufato anche di questo modesto lavoro; e dunque il virtuoso seguitava a digiunare, certamente, come in passato aveva sognato di fare, una buona volta, e gli riusciva senza sforzo proprio come allora aveva predetto, ma nessuno contava i giorni, nessuno, nemmeno lui stesso lo sapeva quanto grande era la sua prestazione, e quando una volta un perdigiorno si fermò, si burlò dell'alto numero e parlò d'imbroglio, e ciò in tal senso fu la più sciocca delle menzogne che l'insensibilità e la malvagità potessore escogitare, infatti il virtuoso non imbrogliava, operava in modo onorevole, ma era il mondo in compenso ad imbrogliarlo.

Eppure passarono ancora molti giorni, e anche ciò ebbe una fine. Una volta ad un sorvegliante dette nell'occhio la gabbia e lui chiese agli inservienti perché si lasciasse inutilizzata questa bella gabbia con dentro la paglia putrefatta; nessuno lo sapeva, finché uno si rammentò, con l'aiuto della tabella numerata, del virtuoso. Si frugò la paglia con dei bastoni e ci si trovò il virtuoso. "E tu seguiti a digiunare?", domandò il sorvegliante, " ma quando la finirai?" "Perdonatemi tutti", sussurrò il virtuoso; soltanto il sorvegliante che teneva l'orecchio alle sbarre, lo intese. "Certo", disse il sorvegliante appoggiandosi alla fronte un dito per far capire al personale la condizione del virtuoso, "ti perdoniamo". "Incessantemente desideravo che ammiraste il mio digiuno", disse il virtuoso." Certo che lo ammiriamo", disse il sorvegliante per compiacerlo."Ma non dovete ammirarlo", disse il virtuoso. "Va bene, e noi allora non lo ammiriamo", disse il sorvegliante, "perché poi non dobbiamo?" "Perché io sono costretto a digiunare, non posso farne a meno", disse il virtuoso. "Ma guarda un po'", disse il sorvegliante, "perché non puoi farne a meno?" "Perché io", disse il virtuoso, sollevò la testolina un poco e parlò proprio nell'orecchio del sorvegliante, con le labbra raccolte a guisa di bacio, perché niente andasse perduto, "perché io non riuscii a trovare cibo che mi piacesse. Se l'avessi trovato, credimi, non avrei mai dato nell'occhio ed avrei mangiato perfettamente come te e tutti." Queste furono le ultime parole, ma nei suoi occhi spenti c'era ancora la ferma ancorché non più fiera convinzione di continuare il digiuno.

"Va bene, ma ora mettiamo in ordine!", disse il sorvegliante, e si chiuse lì con il virtuoso e con la paglia insieme. Alla gabbia invece si assegnò una giovane pantera. Era anche nel senso più banale un ristoro vedere aggirarsi questo selvaggio animale nella gabbia così a lungo desolata. Ad esso non mancava niente. Il nutrimento, che gli piaceva, i guardiani glielo recavano senza starci troppo a pensare; neppure pareva accorgersi della mancanza di libertà; questo nobile corpo strettamente dotato del necessario per sbranare pareva portar con sè anche la libertà; essa appariva nascosta da qualche parte nella dentatura; e la gioia di vivere usciva con tanto più potente fervore dalla gola, che non era facile per gli osservatori resisterle. Tuttavia essi si dominavano, si stringevano attorno alla gabbia e non volevano staccarsene.

venerdì 29 luglio 2016

La Cina di Kafka

Si rifletta sulla Cina di Kafka, la quale appare in diversi suoi testi, eccellentemente in "Una vecchia pagina". Si tratta di un luogo immaginario, come del resto l'America (v. "America" o meglio "Lo scomparso", tra i romanzi di K il più bello), che permette all'autore di esercitare e precisare la sua concezione filosofico-politica, ed il suo corrosivo strumento di analisi; impossibile però non essere tentati di paragonare l'impero cinese kafkiano con l'impero di cui lui, K, ebbe diretta contezza, quello austro-ungarico.

F.Kafka: La costruzione della muraglia cinese

La muraglia cinese è stata terminata nel suo cantiere più settentrionale. La costruzione fu condotta da sudest e da sudovest, e qui ebbe luogo l'unificazione. A questo sistema di frazionamento ci si attenne in piccolo anche nell'ambito dei due grandi eserciti di operai, l''esercito dell'est e quello dell'ovest. Avvenne così, vennero formati gruppi di circa venti operai i quali avevano da erigere una frazione di muraglia della lunghezza di circa cinquecento metri, incontro a loro un gruppo adiacente edificava poi una muraglia della stessa lunghezza. Dopo però che l'unificazione era effettuata, la costruzione, al termine di questi circa mille metri, non veniva proseguita, anzi, i gruppi di lavoro erano inviati in tutt'altre regioni a edificare la muraglia. Naturalmente risultarono in questo modo molte grosse lacune, che soltanto poco a poco, lentamente, vennero colmate, parecchie addirittura soltanto dopo che si era proclamata il completamento della costruzione della muraglia. Anzi, ci devono essere lacune che proprio non sono state chiuse, secondo molti esse sono molto più estese delle frazioni costruite, un'affermazione del resto che appartiene forse solo alle numerose leggende che sono sorte intorno alla costruzione e che non sono verificabili da parte delle singole persone, almeno, non con i loro occhi e con il loro metro, in conseguenza dell'estensione della costruzione. Ora, si crederebbe a priori che sarebbe stato in ogni senso più vantaggioso costruire in modo continuo o almeno in modo continuo entro le due frazioni principali. La muraglia fu sì pensata, come viene in genere divulgato, ed è noto, con scopo di difesa dai popoli del nord. Come poteva tuttavia difendere, una muraglia discontinua? Di più, una tale muraglia poteva non soltanto non difendere, la stessa costruzione è costantemente in pericolo. Queste frazioni di muraglia abbandonate possono anzi sempre di nuovo esser distrutte con facilità dai nomadi, tanto più che costoro, una volta messi in stato di angoscia dalla costruzione della muraglia, ad una velocità misteriosa, come cavallette, cambiavano d'insediamento, e per questa ragione forse possedevano una visione d'insieme dell'avanzamento della costruzione migliore di quella che avevamo noi stessi costruttori. Ciò nonostante la costruzione non poteva certo esser condotta altrimenti che come è avvenuto. Per comprendere questo si deve considerare quanto segue: la muraglia doveva divenire una difesa per i secoli, la costruzione accuratissima, l'impiego della sapienza costruttiva di ogni popolo e tempo conosciuti, il durevole senso della personale responsabilità dei costruttori erano perciò presupposti non aggirabili dell'opera. Per i lavori minori potevano dunque certamente venir impiegati ignari operai giornalieri del popolo, uomini, donne, ragazzini, chi si offriva per una buona paga, ma già per istruire quattro operai giornalieri era necessario un uomo più intelligente, istruito nel ramo edilizio, un uomo in grado di comprendere con tutto il cuore ciò che qui era in questione. E tanto più era elevato il grado d'istruzione quanto più grandi le esigenze, naturalmente. Uomini del genere erano effettivamente a disposizione, anche se non erano quella massa di cui questa costruzione avrebbe avuto la necessità, comunque erano un gran numero. Non si era iniziata l'opera in modo sconsiderato. Cinquanta anni prima dell'inizio della costruzione nell'intera Cina, che doveva essere circondata dalla muraglia, si erano dati lumi in merito alla più indispensabile scienza edilizia, con speciale riferimento al mestiere di costruire muri, ed a tutto il resto che fosse connesso a tal mestiere si era fatta solo menzione. Mi ricordo ancora benissimo come noi bambini, appena in grado di stare in piedi, ci trovavamo nel giardinetto del nostro maestro e dovevamo costruire una sorta di muro di ciottoli, e come il maestro si tirava su il soprabito e gli correva addosso naturalmente buttandolo all'aria, ed a causa della sua fragilità ci rimproverava talmente che noi strillando correvamo dai nostri genitori da ogni parte. Un evento minimo, ma indicativo dello spirito del tempo. Ebbi la fortuna che quando a venti anni avevo fatto l'ultimo esame della scuola inferiore cominciava appunto la costruzione della muraglia. Dico fortuna, infatti molti che avevano conseguito prima il massimo grado dell'istruzione loro accessibile, a nulla seppero per anni dare il via con il loro sapere, con in testa i più grandiosi piani edilizi si trascinarono inutilmente in giro e si persero nella massa. Invece quelli che, anche con il rango più basso, pervennero alla costruzione infine come capomastri, ne erano effettivamente degni, si trattava di uomini che molto avevano meditato sulla costruzione né cessavano di meditarci sopra, uomini che con la prima pietra fatta da loro piantare nel terreno si sentivano per così dire crescere insieme alla costruzione. Naturalmente uomini del genere erano spinti oltre che dalla brama di effettuare il lavoro più accurato, anche dall'impazienza di vedere la costruzione ergersi finalmente nella sua completezza. Il giornaliero, spinto dal solo salario, non conosceva tale impazienza, anche i capi di grado superiore, anzi, anche i capi intermedi, vedevano abbastanza della vasta crescita della costruzione per tenersi con ciò poderosamente su di morale, invece per gli inferiori, uomini che intellettualmente si trovavano parecchio al di sopra del loro modesto impiego, si doveva provvedere altrimenti. Per esempio, non si poteva lasciarli in una regione montagnosa disabitata, lungi centinaia di miglia dal loro luogo natale, per mesi o perfino per anni, a piazzare una pietra della muraglia dopo l'altra; l'essere senza speranza di un tale lavoro, assiduo, ma anche non recante alla meta nel corso d'una lunga vita umana, li avrebbe resi disperati e soprattutto inutili in rapporto all'opera. Perciò si scelse il sistema del frazionamento della costruzione, cinquecento metri di muraglia potevano essere ultimati all'incirca in cinque anni, poi i capi, certo, di regola erano mortalmente esauriti, avevano perduto ogni fiducia in sé, nella costruzione, nel mondo, tuttavia venivano inviati lontano, mentre ancora erano nel pieno dell'euforia dell'assodato compimento di cento metri di muraglia, vedevano ergersi qua e là nel corso del viaggio parti di muraglia pronte, pervenivano agli accampamenti dei più alti capi che facevano loro dono di medaglie, udivano l'esultare dei nuovi eserciti operai sgorganti dalle profondità della regione, vedevano abbattere foreste destinate a realizzare impalcature per la muraglia, vedevano trasformare a colpi di piccone montagne in pietre per la muraglia, udivano nei luoghi sacri canti dei religiosi invocare il completamento della muraglia, tutto questo placava la loro impazienza, la quieta vita del luogo natale, dove essi passavano qualche tempo, li rendeva forti, la considerazione di cui godevano tutti coloro che partecipavano alla costruzione, l'umiltà devota con cui venivano ascoltati i loro resoconti, la fede che il semplice tranquillo cittadino riponeva nel venturo completamento della muraglia, tutto questo tendeva le corde dell'anima, essi come eternamente speranzosi bambini prendevano congedo dal luogo natale, di nuovo il diletto di lavorare nell'opera del popolo diveniva invincibile, essi ripartivano da casa prima del necessario, mezzo villaggio li accompagnava per lunghi tratti, in ogni via saluti, bandierine, stendardi, mai avevano visto com'era grande e ricca e bella e degna d'amore la loro terra, ogni suo abitante era un fratello per il quale si costruiva una muraglia difensiva e che di questo ringraziava con tutto ciò che lui era ed aveva, unità! Unità! Petto a petto, una ridda di popolo, sangue non più rinchiuso nella grettezza della circolazione corporea, ma invece dolce rombante attraverso l'infinita Cina, eppur capace di far ritorno.
Con questo dunque il sistema della costruzione in parti diviene comprensibile, tuttavia esso ebbe un ben altro motivo. Non è affatto singolare che io mi soffermi tanto a lungo su tale questione, si tratta di una questione essenziale in merito alla costruzione della muraglia, per quanto appaia in un primo momento irrilevante. Se voglio fornire il perimetro delle idee e le esperienze di quei tempi e renderli comprensibili, non posso che approfondire proprio tale questione.
Intanto bisogna però dirsi che allora sono state compiute imprese che stanno di poco dietro la costruzione della torre di Babele, quanto al compiacere Dio certamente, almeno secondo umana valutazione, rappresentanti proprio il contrario di quella costruzione. Lo ricordo poiché all'inizio della costruzione un erudito ha scritto un libro nel quale assai correttamente costruiva questo confronto. Vi tentava la dimostrazione del fatto che la costruzione della torre di Babele in nessun modo ha fallito la meta per le cause generalmente considerate, o che, almeno, tra queste cause conosciute non si trovano le principali. Le sue dimostrazioni consistevano non solo in scritti e relazioni, ma invece egli pretendeva di aver eseguito indagini sul posto e tramite queste di aver trovato che la costruzione doveva naufragare, e naufragò, per la debolezza della fondazione. Sotto questo aspetto il nostro tempo fu certamente molto superiore ad ogni tempo passato, quasi ogni contemporaneo era istruito e specializzato nell'edilizia e ferrato nella questione del gettare fondazioni. Ma non a questo mirava affatto l'erudito, piuttosto affermava che solo la grande muraglia per la prima volta della storia umana provvederà una fondazione sicura per una nuova torre di Babele. Dunque prima la muraglia e poi la torre. Il libro allora fu in mano a tutti, ma io confesso che ancora oggi non afferro bene come l'autore s'immaginava la costruzione di questa torre. La muraglia, che non era affatto un cerchio, ma invece formava una sorta di quartiere - o un semicerchio, doveva avere il ruolo della fondazione di una torre? Ciò poteva essere però pensato solo da un punto di vista spirituale. Tuttavia a che scopo poi la muraglia, che pure era qualcosa di reale, risultato della fatica e della vita di centinaia di migliaia? E a che scopo nell'opera erano indicati i progetti della torre, certo progetti oscuri, e fatte proposte fin nel dettaglio come se la forza del popolo si dovesse conformare alla nuova creazione? C'era molta confusione di teste, allora - questo libro è solo un esempio - forse proprio perché così in tanti quanto era possibile si tentava di convergere su una meta. L'essere umano, fondamentalmente sconsiderato, volatile come il pulviscolo, non tollera affatto di essere imprigionato, s'imprigiona da sé, comincerà presto follemente a scuotere i vincoli e la schiavitù della muraglia, ed anche a disperdersi in tutte le regioni del cielo.
E' possibile che anche queste riflessioni addirittura contrarie alla costruzione della muraglia non siano rimaste prive di considerazione da parte della direzione nello stabilire la costruzione in parti. Noi - qui io parlo certo a nome di molti - abbiamo in verità, intanto che compitavamo le disposizioni dell'alta dirigenza, subito impariamo a conoscere noi stessi ed abbiamo trovato che, senza la dirigenza, né la nostra erudizione scolastica né la nostra intelligenza umana sarebbero bastate anche soltanto per il modesto impiego che noi entro il grande insieme avevamo. Nella stanza della dirigenza - dove fosse e chi vi sedeva nessuno cui ho domandato lo sa o lo seppe - in questa stanza roteavano da una parte certamente tutti i pensieri e desideri umani e dall'altra ogni meta umana ed ogni suo raggiungimento, attraverso la finestra però, sulle mani della dirigenza intente al disegno dei progetti, cadeva il riverbero dei mondi divini. E perciò all'osservatore onesto non vuol tornare che la dirigenza, anche se l'avesse seriamente voluto, non avrebbe potute superare quelle difficoltà che si opponevano ad una costruzione continua della muraglia. Ne consegue dunque solo che la dirigenza progettò la costruzione parziale. Ma essa era soltanto un pretesto, e inadeguato. Ne consegue che la dirigenza voleva qualcosa di inadeguato. Conseguenza bizzarra, certo. Eppure dotata di giustificazione, da un altro lato. Oggi se ne può forse parlare senza pericolo. Ai tempi era una massima segreta di molti e perfino dei migliori: Cerca con tutte le tue forze di comprendere le disposizioni della dirigenza, ma solo fino a un limite stabilito, poi smetti di pensarci. Massima molto ragionevole, che del resto trovava un'amplificazione in un paragone più tardi spesso ripetuto: Smetti di pensarci ancora, non perché potrebbe danneggiarti, non è neppure del tutto certo che ti danneggerà. In genere qui non si può parlare né di danni né di non danni. Ti succederà come al fiume in primavera. Sale, aumenta di portata, più forte alimenta la regione lungo le sue sponde, conserva la sua natura più oltre fin dentro il mare, e benvenuto diviene come il mare. Ripensa alle disposizioni della dirigenza fino a questo punto. Poi però il fiume supera la sua sponda, perde forma e connotati, rallenta la sua corsa, prova senza volere a formar entro la regione un piccolo mare, danneggia i terreni e tuttavia non riesce a durare in questo allargamento, ma rifluisce entro le sue sponde, anzi s'inaridisce addirittura, miseramente, nelle stagioni calde dell'anno che seguono. Non ripensare alle disposizioni della dirigenza fino a questo punto.
Ora, questo paragone può essere stato eccezionalmente appropriato durante la costruzione della muraglia, eppure agli effetti della mia trattazione attuale ha un valore a dir poco limitato. La mia indagine è unicamente storica, dalle nuvole temporalesche da tempo trascorse via più nessun lampo fende l'aria, ed io sono in grado per questo di andare in cerca d'una spiegazione della costruzione della muraglia che vada oltre ciò di cui ci si accontentò ai tempi. I limiti che mi pone la mia capacità intellettuale sono certo abbastanza stretti, ma il campo che qui sarebbe da percorrere è di quelli illimitati.
La grande muraglia, contro chi doveva difendere? Contro i popoli del nord. Io sono originario della Cina sudorientale. Nessun popolo del nord là può minacciarci. Leggiamo di loro nei libri degli anziani, le spietatezze cui loro in conformità alla loro natura aspirano ci fanno sospirare nella tranquillità del nostro portico, nelle raffigurazioni fedeli alla verità dell'artista noi vediamo questi volti della maledizione, le fauci spalancate, le mascelle guarnite di denti appuntiti, gli occhi sbarrati che già sembrano vagheggiare la preda che la bocca schiaccerà e lacererà. Se i bambini fanno i cattivi mostriamo loro queste figure e subito ci volano al colla piangenti. Ma di questi settentrionali non sappiamo di più, non li abbiamo visti, e, se restiamo nel nostro villaggio, mai li vedremo anche se ci corrono addosso sui loro cavalli selvaggi.; troppo grande è il paese e non glielo permette, essi si ostineranno a vuoto.
Perché dunque, dal momento che è così, lasciamo il luogo natale, il fiume e i ponti, la madre e il padre, la sposa piangente, i bambini bisognosi di insegnamento e, invece di dirigerci alla scuola, prendiamo per la lontana città ed i nostri pensieri si trovano ancora oltre, presso la muraglia, nel nord, perché? Domandalo alla dirigenza. Ci conosce. Essa sa i colossali affanni da noi ruminati, conosce il nostro misero
mestiere, ci vede tutti seduti insieme nei bassi tuguri, e le garba la preghiera che il padre di famiglia dice a sera nella cerchia dei suoi, o le dispiace. E se posso permettermi un simile pensiero sulla dirigenza, devo dire che secondo la mia opinione la dirigenza c'era già prima, non si formò come all'incirca alti mandarini suscitati per mezzo di un bel sogno mattutino, che in gran fretta convocano una seduta, in gran fretta la chiudono e già a sera fanno saltar fuori dal letto la popolazione per rendere esecutive le decisioni, fosse anche solo per allestire una luminaria in onore di un dio che ieri si è mostrato benevolo ai signori, per bastonarli domani in un angolo buio non appena i lampioni siano spenti. No, la dirigenza c'era già da tempo immemorabile e così la deliberazione di costruire la muraglia.
Io mi sono occupato in modo esclusivo di storia popolare comparativa già in parte durante la costruzione della muraglia e da allora fino ad oggi - vi sono certe questioni al nervo delle quali per così dire ci si avvicina soltanto con tal mezzo - ed ho per tale ragione trovato che noi cinesi siamo dotati di certe istituzioni popolari e statali di trasparenza straordinaria, invece altre sono straordinariamente opachi. Indagare i motivi in particolare di quest'ultimo fenomeno mi ha sempre affascinato, ancora mi affascina, e tale questione riguarda assolutamente anche la costruzione della muraglia. Ora, il governo imperiale fa senz'altro parte delle nostre istituzioni più opache. Naturalmente a Pechino esiste nell'ambiente di corte, se è per questo, una certa trasparenza, benché anch'essa sia più apparente che effettiva; anche gli insegnanti di diritto pubblico e di storia nelle scuole superiori asseriscono di essere correttamente istruiti su queste cose e di poter riproporre agli studenti tale conoscenza; e più si scende nelle scuole inferiori più vanno sfumando logicamente i dubbi in fatto di sapere specifico, e la cultura di superficie sminuzzò da secoli assiomi elevati come montagne in poca roba piantata in terra che certo non ha perduto nulla in fatto di verità eterna, tuttavia nel fumo e nella nebbia rimane eternamente ignota.
Proprio in merito al governo imperiale tuttavia, secondo la mia opinione, si dovrebbe per prima cosa porre domande al popolo, dato che il governo imperiale lì ha i suoi puntelli ultimi. Qui sono in grado, a dire il vero, di parlare ancora solo del mio luogo natale. A parte le divinità campestri cui sono dedicate tutto l'anno in modo vario e bello funzioni religiose, tutti i nostri pensieri erano per l'imperatore. Ma non per l'imperatore in carica, o meglio sarebbe valso anche per lui, se lo avessimo conosciuto o ne avessimo saputo qualcosa di preciso. Ci sforzavamo senza dubbio - unica curiosità che ci pervadeva - anche di apprendere un qualcosa dell'indole. Tuttavia - suona così strano - era a mala pena possibile apprendere qualcosa, non dal pellegrino che pure percorre molto terreno, non nei villaggi vicini, non in quelli distanti, non dalle imbarcazioni che pure transitano non solo sul nostro fiumicello ma anche i fiumi sacri. Si udiva in effetti molto, ma non si riusciva a ricavare niente dai molti. Tanto grande è il nostro paese, non c'è favola che ne raggiunga la grandezza, il cielo a mala pena lo abbraccia. E Pechino è solo un punto, e la cittadella imperiale è solo un puntolino. L'imperatore come tale certo è grande, d'altra parte, da qualsiasi sezione di mondo lo si guardi. L'imperatore vivente tuttavia è una persona come noi, si adagia cioè come noi sul suo divano, certo riccamente fatto, eppure, in definitiva, stretto e corto. Come noi talvolta si stira e quando è molto stanco sbadiglia con la sua bocchina delicata. Dovremmo fare da qui mille miglia verso sud, anche se confiniamo quasi con le montagne del Tibet? A parte ciò, tuttavia, nel caso che ciascuna notizia venisse, ed arrivasse fino a noi, ma troppo in ritardo, sarebbe divenuta ampiamente vecchia. Intorno all'imperatore si pigia la massa dei cortigiani, brillante eppure oscura, il contrappeso del governo imperiale, sempre s'ingegna di rovesciare con frecce avvelenate l'imperatore dal piatto della bilancia. Il governo imperiale è immortale, ma il singolo imperatore deperisce e cade, perfino intere dinastie finiscono per cadere e cessano di respirare in un solo rantolo. Il popolo mai verrà a conoscenza di queste battaglie dolorose, esse, come fossero ultimi arrivati ed estranei alla città, si trovano in fondo a stradette laterali affollate a pascersi tranquillamente delle provviste portate con sé, mentre molto avanti, nel centro della piazza del mercato, l'esecuzione dei loro signori procede.
C'è una leggenda che esprime bene questa relazione. A te l’imperatore, proprio a te, un privato, misero suddito, ombra minuscola sfuggita nella lontananza più remota al sole imperiale, a te, dicono, ha appena inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha sussurrato di far inginocchiare il messaggero vicino al letto e gli ha parlato in un’orecchio; gli premeva tanto il messaggio, che se lo è fatto ripetere di
nuovo. Con cenni del capo ha approvato la conformità del detto. E davanti a tutti quanti i testimoni della sua morte – abbattute tutte le pareti che erano d’ostacolo, stava la cerchia dei grandi dell’impero sulle alte armoniose scalinate - egli ha dato il via al messaggio. Il messo parte subito per il suo viaggio, forte, instancabile, si fa largo nella folla ora con un braccio, ora con l’altro, trova resistenza, mostra il petto con su il simbolo del sole, procede con gran facilità, come nessun altro farebbe, tuttavia la folla, i cui alloggiamenti non accennano a terminare, è così grande. Il messaggero si aprirà svelto la strada, volando, e presto udrai il colpo magnifico dei suoi pugni sulla tua porta. No, invece lui incontra difficoltà stancanti, attraversa le stanze del palazzo interno sempre più a fatica, non le oltrepassa mai, e se gli riuscisse non avrebbe ottenuto niente, dovrebbe lottare per scendere le scalinate, e se gli riuscisse non basterebbe, ci sarebbero i cortili, il secondo palazzo che circonda il primo, e ancora scalinate e cortili, e ancora un palazzo, e così via per un migliaio di anni. Infine il messaggero cadrebbe proprio davanti alla porta esterna, ma la cosa non potrebbe mai, mai succedere; prima, davanti a lui, si allargherebbe la città, che è il centro del mondo, fino ai suoi dispersi suburbi, dove nessuno può farcela, men che meno con il messaggio di un morto. Eppure tu siedi alla finestra e lo sogni, quando viene la sera (questa leggenda è altrove pubblicata come testo autonomo - n.d.t.).
Esattamente così, così senza speranza e pieno di speranza, il nostro popolo vede l'imperatore. Ignora quale imperatore governi e ci sono dubbi anche in merito al nome della dinastia. Nella scuola molto viene insegnato di ciò, in ordine cronologico, ma la generale incertezza sotto questo aspetto è così grande che anche il migliore scolaro ci cade dentro. Nei nostri villaggi imperatori da lungo tempo defunti sono messi sul trono e quello che ancor vive soltanto nelle cantate ha da poco emanato notizia di una proclamazione su cui, davanti all'altare, il sacerdote fece affidamento. Si combattono giusto ora battaglie delle nostre storie più antiche, e con il volto infiammato dalla passione il vicino ti precipita in casa con la novità. Le imperiali signore, troppo nutrite sui loro cuscini di seta, allontanate dalle nobili costumanze da astuti cortigiani, crescenti quanto all'avidità di dominio, furiosamente cupide, allargatesi nella voluttà, è sempre una novità che commettano il loro delitti un'altra volta; più tempo è trascorso, più orridi risaltano tutti i colori, e con alte grida
di dolore capita che il villaggio venga a sapere che una imperatrice secoli prima bevve a lunghe sorsate il sangue di suo marito.
Così dunque il popolo procede con gli appartenenti al passato, ma mescola tra i defunti coloro che appartengono al presente. Una volta, una volta in una generazione, un funzionario imperiale in viaggio nella provincia per caso viene nel nostro villaggio, in nome di chi governa pone chissà quali questioni, esamina i registri fiscali, assiste all'insegnamento scolastico, interpella il sacerdote in merito al nostro modo di agire e poi riassume tutto, prima di salire nella sua portantina, in lunghe esortazioni alla comunità convenuta, quindi su ogni volto scorre un sorriso, l'uno guarda l'altro furtivamente, ci si abbassa verso i bambini per non farsi osservare dal funzionario. Come fa a parlare, si pensa, di un morto come di uno che vive, questo imperatore è pur morto già da tanto, la dinastia è spenta, il signor funzionario si prende gioco di noi, ma noi facciamo finta di non accorgercene, per non oltraggiarlo. Seriamente risponderemo però solo ai nostri signori di oggi, ogni altra cosa sarebbe colpevole. E dentro la frettolosa portantina del funzionario sale un qualcuno che è arbitrariamente scappato fuori, a calcare il terreno in qualità di signore del villaggio, dall'urna di una già polverizzata eccellenza.
Qualora si avesse intenzione di concludere da tali apparenze che noi in fondo non abbiamo proprio nessun imperatore, non si sarebbe molto lontani dalla verità. Devo sempre ridirlo: non c'è forse alcun popolo più leale all'imperatore del nostro, nel sud, ma la lealtà non è troppo vantaggiosa per l'imperatore. Certo, sulla colonnetta che si trova alla porta del villaggio c'è il drago sacro che omaggiante soffia da tempo immemorabile l'ardente fiato esattamente in direzione di Pechino, ma la stessa Pechino è più estranea alla gente del villaggio della vita ultraterrena. Davvero ci sarebbe un villaggio dove le case sono fitte e nascondono i campi, più esteso di quanto dalla nostra collina lo sguardo possa arrivare, e dove tra queste case di giorno e di notte le persone passano le ore appiccicate una all'altra? Più facile che immaginarsi una città del genere è credere che Pechino ed il suo imperatore siano una cosa sola, all'incirca una nuvola, quietamente sotto il sole trasformantesi nel corso dei tempi.
Da tali opinioni deriva per così dire una vivere libero, privo di autocontrollo. Assolutamente non scostumato, io quasi mai mi sono imbattuto durante i miei
viaggi in un'integrità morale come quella del mio luogo natale. Eppur tuttavia si tratta di un vivere che non si trova sottoposto a leggi in atto, e che obbedisce soltanto all'ordine ed all'ammonizione, venuti dai tempi antichi giù giù fino a noi.
Mi guardo bene dalle generalizzazioni e non sostengo che in tutti e diecimila villaggi della nostra provincia le cose stiano così o, anzi, in tutte le cinquecento province della Cina. Tuttavia sulla base forse dei molti scritti che ho letto su questo argomento, così come sulla base delle mie proprie osservazioni, posso ben dire - specialmente l'umanità intenta alla costruzione della muraglia dette occasione alla persona sensibile di viaggiare attraverso i sentimenti di quasi tutte le province - sulla base di tutto questo, forse, posso dire che la concezione dominante riguardo all'imperatore continua ad indicare sempre e principalmente un certa caratteristica simile alla concezione vigente nel mio luogo natale. Ora, non ho davvero l'intenzione di far valere questa concezione come una virtù, al contrario. Certo in generale essa è causata dal governo, che, nel reame più antico della terra, fino ad oggi non fu capace, oppure compagine dopo compagine trascurò, di portare l'istituzione del governo imperiale a una trasparenza tale che operasse fino al più remoto confine del reame. D'altra parte anche su questo punto si trova una debolezza immaginativa, o di fede, nel popolo, il quale non ce la fa a trascinar via il governo imperiale dallo stato semi onirico pechinese al suo seno di suddito, colmo di vitalità e di attualità, che niente vuole di più che sentire una volta questo contatto ed in esso struggersi.
Questa concezione dunque non è davvero virtuosa. Tanto più sorprendente è che proprio questa debolezza sembra essere uno dei più importanti mezzi di unitarietà del nostro popolo, anzi, se è lecito spingersi tanto oltre nell'espressione, addirittura sembra essere il terreno su cui viviamo. Motivare qui in modo dettagliato un biasimo non significa scuotere la nostra coscienza, ma, quel che è molto peggio, significa scuotere le nostre gambe. E perciò non intendo andare oltre per ora nell'indagine di questa questione.
Dunque in questo mondo venne fuori la notizia della costruzione della muraglia. Anch'essa tardò circa trenta anni dopo la sua promulgazione. Era una serata estiva. Io, decenne, mi trovavo con mio padre sulla riva del fiume. In conformità con il significato di quest'ora spesso commentata, mi ricordo delle circostanze minime.
Mi teneva per la mano, gli piacque fare questo fino a quando non fu vecchio, l'altra mano occupata con la sua lunga sottilissima pipa quasi fosse un flauto. La sua notevole barba rada e dura sporgeva in aria, infatti nell'usar la pipa lui guardava al di sopra del fiume verso l'alto. Tanto più in basso scese il suo codino, oggetto della primaria paura del bambino, appena appena facendo rumore sulla seta intessuta d'oro dell'abito del giorno festivo. In quella una barca si fermò davanti a noi, il barcaiolo fece cenno a mio padre se poteva scendere il pendio, anche lui gli sarebbe salito incontro. A metà s'incontrarono, il barcaiolo sussurrò qualcosa all'orecchio di mio padre; accostandoglisi lo abbracciò. Non capii le parole, vidi solo come mio padre non parve credere alla notizia, il barcaiolo tentò di confermarne la veridicità, mio padre ancora non riusciva a crederci, il barcaiolo con la passionalità del popolo dei barcaioli per provare la verità quasi si stracciò l'abito, mio padre si fece silenzioso ed il barcaiolo brontolando saltò nella braca e se ne andò via. Cogitabondo si voltò verso di me, mio padre, svuotò la pipa e la riempì, mi accarezzò una guancia e trasse la mia testa a sé. Cosa che mi piacque moltissimo, mi rese felicissimo, e così andammo a casa. Dove già fumava la pappa di riso sulla tavola, c'erano riuniti alcuni ospiti, appunto si versava il vino nelle coppe. Senza badarci mio padre iniziò già sulla soglia a raccontare quel che aveva sentito. Delle parole naturalmente non ho alcun esatto ricordo, il senso però dello straordinario della circostanza, da cui anche un bambino veniva soggiogato, mi arrivò così in profondità che oso però restituirne una sorta di testo verbale. Lo faccio forse perché fu per la concezione popolare molto significativo. Mio padre disse dunque all'incirca: (il testo non continua - n.d.t.).




mercoledì 20 luglio 2016

Il tempo dei sogni.

Nel post precedente a questo si offre a chi legge una nuova traduzione di "Un medico condotto". Il testo adotta l'imperfetto al posto del passato remoto per questa ragione: il racconto è così onirico che sembra un peccato togliergli questa sostanza appiattendolo su tempi duri, tipo il passato remoto. Non a caso il tempo usato si chiama imperfetto, "imperfetto" come il racconto dei sogni e come le affabulazioni dei bambini che giocano. Sì, è vero, altre volte non si è fatto...
A proposito del titolo, medico condotto è meno bello di medico di campagna, però il testo indica con precisione che il protagonista dipende dall'amministrazione del circondario.

F.Kafka: Un medico condotto

Ero in grande imbarazzo: m'incombeva un viaggio urgente; un malato grave aveva bisogno di me in un villaggio distante dieci miglia; poderose raffiche di neve colmavano il vasto spazio tra me e lui; avevo un calesse leggero, a ruote grandi, adattissimo alle nostre strade di campagna; infagottato nella pelliccia, in mano la borsa degli strumenti, mi trovavo pronto al viaggio già in cortile; mancava però il cavallo, il cavallo. Il mio cavallo nel corso dell'ultima notte era crepato a causa delle fatiche eccessive dovute a questo gelido inverno; ora la mia serva correva in giro nel villaggio per farsi imprestare un cavallo; tuttavia non aveva speranza, io lo sapevo, e sempre più stracarico di neve restavo lì senza scopo. Eccola al portone, da sola, agitava la lanterna; è naturale, chi mai presta il suo cavallo per un simile tragitto? Percorrevo ancora una volta il cortile; non vedevo alcuna possibilità; storditamente, angosciato, davo un calcio all'uscio malmesso del porcile già da anni inutile. Si apriva e seguitava a girare sui cardini. Ne veniva fuori calore e odore come di cavalli. Una fioca lanterna da stalla dondolava là dentro da un gancio. Un uomo rannicchiato nella bassa baracca mostrava il viso schietto dagli occhi azzurri ."Devo attaccare?", domandava, strisciando fuori a quattro zampe. Io non riuscivo a dir nulla e mi limitavo a piegarmi per vedere cos'altro c'era nella stalla. La serva era con me. "Non si sa che cosa cavolo si ha in casa propria", diceva, ed entrambi ridevamo. "Olà fratello, olà sorella", gridava lo stalliere, e due cavalli, bestie poderose dai vasti fianchi, uno dopo l'altro, sol con la forza dei volgimenti dei loro tronchi, piegando, come fossero cammelli, le zampe e le teste ben formate, strettamente sul corpo, si spingevano fuori dal vano dell'uscio riempiendolo completamente. Stavano subito ritti, però, alti di zampe, con i corpi fumanti fitto vapore. "Aiutalo", dicevo, e la volenterosa ragazza si affrettava a porgere al servo i finimenti del calesse. E però, non appena gli si era appressata, lui l'abbracciava e con il suo viso urtava il viso di lei. Urla e si rifugia presso di me; sulla guancia le sono impresse due file rosse di denti. "Oh bestia", grido con rabbia, "vuoi la frusta?", ma rifletto, si tratta di uno straniero, non so da dove viene, mi viene in aiuto di suo mentre tutti gli altri rifiutano. Come se fosse a conoscenza dei miei pensieri, lui non si offende della mia minaccia, ma si limita, ancora occupato con i cavalli, a girarsi verso di me. "Sali", dice poi e, in realtà, è tutto a posto. Con un tiro così bello, considero, ancora non ho mai viaggiato, e felice monto."Guiderò io però", dico,"tu non conosci la strada". "Certo", dice lui,"io non ci penso proprio a spostarmi, resto con Rosa." "No", grida Rosa, e corre in casa con il giusto presentimento della ineluttabilità della sua sorte; odo risuonare la catena dell'uscio che lei chiude; odo scattare il lucchetto; vedo come, oltre a questo, lei correndo a precipizio nell'atrio e per le stanze spegne ogni luce allo scopo di rendersi inrovabile. "Tu mi accompagni", dico al servo, "o rinuncio al viaggio, per quanto sia urgente. Proprio non ci penso, a lasciarti la ragazza in pagamento per il viaggio." "Muoversi!", dice lui; batte le mani; il calesse viene trascinato via come un pezzo di legno nella corrente; sento ancora come la porta di casa mia si spaccava e si scheggiava sotto l'assalto del servo, poi gli occhi e le orecchie mi son colmati da un sibilo che penetra in ugual misura in tutti i miei sensi. Tuttavia anche questo solo un attimo, infatti, quasi che il portone della fattoria del mio malato si aprisse immediatamente davanti al mio, sono già lì; i cavalli stanno buoni; la nevicata è finita; tutt'intorno luce lunare; i genitori del malato s'affrettano fuori di casa; dietro a loro la sorella; quasi mi si solleva dal calesse; nella confusione dei loro discorsi non capisco nulla; nella camera del malato l'aria è appena respirabile; la stufa, trascuratissima, fa fumo; aprirò la finestra; ma per prima cosa voglio vedere il malato. Smagrito, senza febbre, né freddo né caldo, occhi vuoti, senza camicia, si solleva il ragazzo sotto il piumino, mi si attacca al collo, mi sussurra all'orecchio: "Dottore, lasciami morire." Mi guardo intorno; nessuno ha udito; i genitori se ne stanno mutamente piegati in avanti e aspettano il mio verdetto; la sorella ha portato una sedia per la mia borsa. La apro e cerco tra i miei strumenti; il ragazzo continua a cercarmi a tastoni sporgendosi dal letto verso di me per ricordarmi la sua preghiera; afferro una pinzetta, la provo alla luce della candela e la rimetto a posto."Ma certo", penso blasfemo, "in casi simili gli Dei ti aiutano, ti mandano il cavallo che manca, nella fretta ne aggiungono anche un secondo, ti regalano per di più lo stalliere..." Ed ora mi torna in mente Rosa; cosa faccio, come la libero, come gliela levo a questo stalliere, lontano dieci miglia da lei, attaccati al mio calesse dei cavalli incontrollabili? Questi cavalli in qualche modo hanno sciolto il laccio; non so come, hanno con un urto aperto la finestra da fuori; ciascuno infila il capo in una finestra, senza far caso al grido spaventato della famiglia, essi scrutano il malato. "Io torno subito indietro", penso, quasi che i cavalli mi esortassero a muovermi, tuttavia lascio che la sorella, che mi crede stordito dal calore, mi tolga la pelliccia. Mi viene preparato un bicchiere di rum, il vecchio mi dà colpetti sulle spalle, questa confidenza è giustificata dall'offerta del suo tesoro. Scuoto la testa; nella ristretta mentalità del vecchiosarebbe perché mi dà noia allo stomaco; solo per questo rifiuto di bere. La madre si trova in piedi accanto al letto e mi chiama lì; io eseguo e, mentre un cavallo nitrisce forte in direzione del soffitto della stanza, appoggio la testa sul petto del malato, che trema sotto la mia barba umida. Trova conferma quel che so: il ragazzo è sano, leggermente anemico, rimpinzato di caffè dalla madre apprensiva, ma sano e, cosa ottimale, da tirar fuori dal letto a calci. Non sono mica un riformatore del mondo, lo lascio a letto. Ho la nomina distrettuale e faccio il mio dovere al limite, fin dove quasi si esagera. Mal pagato, ma generoso e pronto ad aiutare i poveri. Ho da preoccuparmi anche di Rosa, dopodiché magari il ragazzo ha ragione e anch'io voglio morire. Cosa ci faccio in questo inverno senza fine? Il mio cavallo è crepato e non c'è nessuno nel villaggio che mi presti il suo. E' da un porcile che devo ricavare il mio tiro; senza il caso di questi cavalli, mi toccava di viaggiare con le scrofe. Davvero. E con il capo accenno alla famiglia. Non ne sanno nulla e se lo sapessero non ci crederebbero. Scrivere la ricetta è facile, d'altronde è difficile intendersi con la gente. Orbene, la mia visita sarebbe finita, mi si è incomodato un'altra volta a vuoto, ci sono abituato, con l'aiuto del mio campanello notturno tutto il distretto mi tormenta, ma che stavolta dovessi offrire anche Rosa, questa bella ragazza che da anni viveva a casa mia e da me appena guardata - è un sacrificio troppo grande, ed io devo in qualche modo per ripiego escogitare acute spiegazioni nella mia testa allo scopo di non scagliarmi su questa famiglia che neppure con la miglior volontà può ridarmi Rosa indietro. Quando però chiudo la borsa e accenno alla mia pelliccia, la famiglia insorge, il padre fiuta il bicchiere di rum che ha in mano, la madre, probabilmente delusa da me - oh, ma cosa si aspetta il popolo? - piena di lacrime si morde le labbra, e la sorella agita un fazzoletto parecchio insanguinato, allora sono in qualche modo disposto eventualmente ad ammettere che il ragazzo, ebbene sì, forse è malato. Mi avvicino, mi sorride come se gli portassi qualcosa tipo la zuppa energetica - ahi, ora nitriscono entrambi i cavalli; il chiasso, in alto loco prescritto, può ben facilitare la visita - ed ora trovo che sì, il ragazzo è malato. A sinistra, nella regione del fianco, c'è aperta una ferita larga come una mano, in molte sfumature di rosa, scura in profondità, chiara ai bordi, morbida granulosa, sangue irregolarmente aggrumato, aperta come una miniera a cielo aperto. Così a distanza. Da vicino è anche peggio. Chi riesce a vederla senza emettere un lieve sibilo? Vermi della robustezza e lunghezza del mio dito mignolo, rosei ed inoltre spruzzati di sangue, si contorcono alla luce, stretti dentro la piaga, con testoline bianche e molti peduncoli. Povero ragazzo, per te non c'è niente da fare. Ti ho trovato una grossa piaga; stando a questo fiore che hai nel fianco, per te è finita. La famiglia è contenta, mi vede attivo; la sorella lo dice alla madre, la madre al padre, il padre a certi ospiti che in punta di piedi, bilanciandosi con le braccia distese in fuori entrano attraversando il chiar di luna dell'uscio aperto. "Mi salverai?", sussurra singhiozzando il ragazzo, che di vivere davvero s'illude, con quella sua piaga. E' fatta così la gente della mia regione. Pretendono sempre l'impossibile dal medico. Hanno smarrito la vecchia fede; il parroco sta a casa sua a consumare i paramenti da messa uno dopo l'altro; invece il medico deve sbrigare tutto con la sua debole mano chirurgica. Allora, come vi garba: non mi sono offerto io; impiegatemi per santi scopi, lo consento; che cosa voglio di meglio, vecchio medico condotto derubato della mia serva! Ed eccoli, la famiglia e i più anziani del villaggio, mi spogliano; un coro di scolari con il maestro in testa davanti alla casa canta una semplice estrema melodia sul testo:

"Spogliatelo, che poi curerà,
E se non cura, allora uccidetelo!
E' solo un dottore, solo un dottor."
Poi eccomi spogliato, e, a testa china, contemplo, le dita nella barba, tranquillamente la gente. Sono assolutamente calmo e resto di gran lunga superiore a tutti, però non mi serve a nulla, ecco che mi prendono per la testa e per i piedi e mi portano nel letto. Mi mettono contro il muro, dalla parte della piaga. Poi escono tutti dalla stanza; la porta viene chiusa; cessa il canto; la luna si rannuvola; le coltri mi avvolgono calde; in ombra s'agitano le teste dei cavalli nel vano della finestra. "Lo sai", mi sento dire all'orecchio, "la mia fiducia in te è assai scarsa. Non vieni con i tuoi piedi, anzi, sei capitato qui non so come. Invece di giovarmi, tu mi restringi lo spazio del letto di morte. Ti cavo gli occhi, lo preferisco." "Giusto", dico, "è un'infamia. D'altra parte sono medico. Che devo fare? Credimi, neanche per me è facile." "Mi devo accontentare di questa giustificazione? Ah, certo ci son costretto. Sempre sono costretto ad accontentarmi. Son venuto al mondo con una bella piaga; era tutta la mia dotazione." "Giovane amico", dico,"il tuo errore è la non lungimiranza. Io, che già sono stato in ogni genere di stanza di malato, da ogni parte, ti dico: la tua piaga non è così grave. Ferita inferta con due colpi di ascia ad angolo acuto. Molti nella foresta offrono il loro fianco all'ascia, e la odono appena, ancor meno odono che essa si avvicina a loro." "E' davvero così oppure m'inganni nel mio stato febbrile?" "E' davvero così, approfitta della parola d'onore d'un funzionario medico." Ne approfittava e si calmava. Tuttavia ora era il momento di pensare alla mia liberazione. I cavalli si trovavano fedelmente ancora ai loro posti. Abito, pelliccia e borsa venivano velocemente afferrati tutti insieme; non volevo perder tempo a rivestirmi; se si affrettavano i cavalli come all'andata sarei balzato per così dire da questo letto nel mio. Rispettosamente un cavallo si ritirava dalla finestra; gettavo nel calesse il bagaglio; la pelliccia volava troppo oltre, giusto con una manica restava attaccata a un appiglio. Non c'è male. Mi lanciavo sul cavallo. Fissando alla rinfusa i finimenti, un cavallo mal accoppiato all'altro, il calesse scarrocciando, da ultimo la pelliccia nella neve."Muoversi!", dicevo, ma a vuoto; come dei vecchietti ci si muoveva nel deserto di neve; lungamente dietro di noi risuonava il nuovo ma fallace canto dei bambini:


"Rallegratevi, voi pazienti,
Il medico sta nel letto con voi!"


Mai tornato a casa in questo modo; perduta è la mia florida attività professionale; un successore mi derubava, ma senza profitto, infatti non poteva rimpiazzarmi; in casa mia imperversa disgustosamente lo stalliere; Rosa ne è la vittima; non voglio pensarci. Nudo, esposto al gelo di quest'epoca disgraziata, calesse di questo mondo, cavalli d'un altro mondo, vecchio mi trascino in giro. La mia pelliccia pende dal retro del calesse, ma a raggiungerla non ce la faccio, e nessuno nella vivace marmaglia dei pazienti muove un dito. Imbrogliato! Imbrogliato! Una volta che hai dato spago al suono fesso del campanello notturno - non c'è più niente da fare.