mercoledì 20 luglio 2016

F.Kafka: Un medico condotto

Ero in grande imbarazzo: m'incombeva un viaggio urgente; un malato grave aveva bisogno di me in un villaggio distante dieci miglia; poderose raffiche di neve colmavano il vasto spazio tra me e lui; avevo un calesse leggero, a ruote grandi, adattissimo alle nostre strade di campagna; infagottato nella pelliccia, in mano la borsa degli strumenti, mi trovavo pronto al viaggio già in cortile; mancava però il cavallo, il cavallo. Il mio cavallo nel corso dell'ultima notte era crepato a causa delle fatiche eccessive dovute a questo gelido inverno; ora la mia serva correva in giro nel villaggio per farsi imprestare un cavallo; tuttavia non aveva speranza, io lo sapevo, e sempre più stracarico di neve restavo lì senza scopo. Eccola al portone, da sola, agitava la lanterna; è naturale, chi mai presta il suo cavallo per un simile tragitto? Percorrevo ancora una volta il cortile; non vedevo alcuna possibilità; storditamente, angosciato, davo un calcio all'uscio malmesso del porcile già da anni inutile. Si apriva e seguitava a girare sui cardini. Ne veniva fuori calore e odore come di cavalli. Una fioca lanterna da stalla dondolava là dentro da un gancio. Un uomo rannicchiato nella bassa baracca mostrava il viso schietto dagli occhi azzurri ."Devo attaccare?", domandava, strisciando fuori a quattro zampe. Io non riuscivo a dir nulla e mi limitavo a piegarmi per vedere cos'altro c'era nella stalla. La serva era con me. "Non si sa che cosa cavolo si ha in casa propria", diceva, ed entrambi ridevamo. "Olà fratello, olà sorella", gridava lo stalliere, e due cavalli, bestie poderose dai vasti fianchi, uno dopo l'altro, sol con la forza dei volgimenti dei loro tronchi, piegando, come fossero cammelli, le zampe e le teste ben formate, strettamente sul corpo, si spingevano fuori dal vano dell'uscio riempiendolo completamente. Stavano subito ritti, però, alti di zampe, con i corpi fumanti fitto vapore. "Aiutalo", dicevo, e la volenterosa ragazza si affrettava a porgere al servo i finimenti del calesse. E però, non appena gli si era appressata, lui l'abbracciava e con il suo viso urtava il viso di lei. Urla e si rifugia presso di me; sulla guancia le sono impresse due file rosse di denti. "Oh bestia", grido con rabbia, "vuoi la frusta?", ma rifletto, si tratta di uno straniero, non so da dove viene, mi viene in aiuto di suo mentre tutti gli altri rifiutano. Come se fosse a conoscenza dei miei pensieri, lui non si offende della mia minaccia, ma si limita, ancora occupato con i cavalli, a girarsi verso di me. "Sali", dice poi e, in realtà, è tutto a posto. Con un tiro così bello, considero, ancora non ho mai viaggiato, e felice monto."Guiderò io però", dico,"tu non conosci la strada". "Certo", dice lui,"io non ci penso proprio a spostarmi, resto con Rosa." "No", grida Rosa, e corre in casa con il giusto presentimento della ineluttabilità della sua sorte; odo risuonare la catena dell'uscio che lei chiude; odo scattare il lucchetto; vedo come, oltre a questo, lei correndo a precipizio nell'atrio e per le stanze spegne ogni luce allo scopo di rendersi inrovabile. "Tu mi accompagni", dico al servo, "o rinuncio al viaggio, per quanto sia urgente. Proprio non ci penso, a lasciarti la ragazza in pagamento per il viaggio." "Muoversi!", dice lui; batte le mani; il calesse viene trascinato via come un pezzo di legno nella corrente; sento ancora come la porta di casa mia si spaccava e si scheggiava sotto l'assalto del servo, poi gli occhi e le orecchie mi son colmati da un sibilo che penetra in ugual misura in tutti i miei sensi. Tuttavia anche questo solo un attimo, infatti, quasi che il portone della fattoria del mio malato si aprisse immediatamente davanti al mio, sono già lì; i cavalli stanno buoni; la nevicata è finita; tutt'intorno luce lunare; i genitori del malato s'affrettano fuori di casa; dietro a loro la sorella; quasi mi si solleva dal calesse; nella confusione dei loro discorsi non capisco nulla; nella camera del malato l'aria è appena respirabile; la stufa, trascuratissima, fa fumo; aprirò la finestra; ma per prima cosa voglio vedere il malato. Smagrito, senza febbre, né freddo né caldo, occhi vuoti, senza camicia, si solleva il ragazzo sotto il piumino, mi si attacca al collo, mi sussurra all'orecchio: "Dottore, lasciami morire." Mi guardo intorno; nessuno ha udito; i genitori se ne stanno mutamente piegati in avanti e aspettano il mio verdetto; la sorella ha portato una sedia per la mia borsa. La apro e cerco tra i miei strumenti; il ragazzo continua a cercarmi a tastoni sporgendosi dal letto verso di me per ricordarmi la sua preghiera; afferro una pinzetta, la provo alla luce della candela e la rimetto a posto."Ma certo", penso blasfemo, "in casi simili gli Dei ti aiutano, ti mandano il cavallo che manca, nella fretta ne aggiungono anche un secondo, ti regalano per di più lo stalliere..." Ed ora mi torna in mente Rosa; cosa faccio, come la libero, come gliela levo a questo stalliere, lontano dieci miglia da lei, attaccati al mio calesse dei cavalli incontrollabili? Questi cavalli in qualche modo hanno sciolto il laccio; non so come, hanno con un urto aperto la finestra da fuori; ciascuno infila il capo in una finestra, senza far caso al grido spaventato della famiglia, essi scrutano il malato. "Io torno subito indietro", penso, quasi che i cavalli mi esortassero a muovermi, tuttavia lascio che la sorella, che mi crede stordito dal calore, mi tolga la pelliccia. Mi viene preparato un bicchiere di rum, il vecchio mi dà colpetti sulle spalle, questa confidenza è giustificata dall'offerta del suo tesoro. Scuoto la testa; nella ristretta mentalità del vecchiosarebbe perché mi dà noia allo stomaco; solo per questo rifiuto di bere. La madre si trova in piedi accanto al letto e mi chiama lì; io eseguo e, mentre un cavallo nitrisce forte in direzione del soffitto della stanza, appoggio la testa sul petto del malato, che trema sotto la mia barba umida. Trova conferma quel che so: il ragazzo è sano, leggermente anemico, rimpinzato di caffè dalla madre apprensiva, ma sano e, cosa ottimale, da tirar fuori dal letto a calci. Non sono mica un riformatore del mondo, lo lascio a letto. Ho la nomina distrettuale e faccio il mio dovere al limite, fin dove quasi si esagera. Mal pagato, ma generoso e pronto ad aiutare i poveri. Ho da preoccuparmi anche di Rosa, dopodiché magari il ragazzo ha ragione e anch'io voglio morire. Cosa ci faccio in questo inverno senza fine? Il mio cavallo è crepato e non c'è nessuno nel villaggio che mi presti il suo. E' da un porcile che devo ricavare il mio tiro; senza il caso di questi cavalli, mi toccava di viaggiare con le scrofe. Davvero. E con il capo accenno alla famiglia. Non ne sanno nulla e se lo sapessero non ci crederebbero. Scrivere la ricetta è facile, d'altronde è difficile intendersi con la gente. Orbene, la mia visita sarebbe finita, mi si è incomodato un'altra volta a vuoto, ci sono abituato, con l'aiuto del mio campanello notturno tutto il distretto mi tormenta, ma che stavolta dovessi offrire anche Rosa, questa bella ragazza che da anni viveva a casa mia e da me appena guardata - è un sacrificio troppo grande, ed io devo in qualche modo per ripiego escogitare acute spiegazioni nella mia testa allo scopo di non scagliarmi su questa famiglia che neppure con la miglior volontà può ridarmi Rosa indietro. Quando però chiudo la borsa e accenno alla mia pelliccia, la famiglia insorge, il padre fiuta il bicchiere di rum che ha in mano, la madre, probabilmente delusa da me - oh, ma cosa si aspetta il popolo? - piena di lacrime si morde le labbra, e la sorella agita un fazzoletto parecchio insanguinato, allora sono in qualche modo disposto eventualmente ad ammettere che il ragazzo, ebbene sì, forse è malato. Mi avvicino, mi sorride come se gli portassi qualcosa tipo la zuppa energetica - ahi, ora nitriscono entrambi i cavalli; il chiasso, in alto loco prescritto, può ben facilitare la visita - ed ora trovo che sì, il ragazzo è malato. A sinistra, nella regione del fianco, c'è aperta una ferita larga come una mano, in molte sfumature di rosa, scura in profondità, chiara ai bordi, morbida granulosa, sangue irregolarmente aggrumato, aperta come una miniera a cielo aperto. Così a distanza. Da vicino è anche peggio. Chi riesce a vederla senza emettere un lieve sibilo? Vermi della robustezza e lunghezza del mio dito mignolo, rosei ed inoltre spruzzati di sangue, si contorcono alla luce, stretti dentro la piaga, con testoline bianche e molti peduncoli. Povero ragazzo, per te non c'è niente da fare. Ti ho trovato una grossa piaga; stando a questo fiore che hai nel fianco, per te è finita. La famiglia è contenta, mi vede attivo; la sorella lo dice alla madre, la madre al padre, il padre a certi ospiti che in punta di piedi, bilanciandosi con le braccia distese in fuori entrano attraversando il chiar di luna dell'uscio aperto. "Mi salverai?", sussurra singhiozzando il ragazzo, che di vivere davvero s'illude, con quella sua piaga. E' fatta così la gente della mia regione. Pretendono sempre l'impossibile dal medico. Hanno smarrito la vecchia fede; il parroco sta a casa sua a consumare i paramenti da messa uno dopo l'altro; invece il medico deve sbrigare tutto con la sua debole mano chirurgica. Allora, come vi garba: non mi sono offerto io; impiegatemi per santi scopi, lo consento; che cosa voglio di meglio, vecchio medico condotto derubato della mia serva! Ed eccoli, la famiglia e i più anziani del villaggio, mi spogliano; un coro di scolari con il maestro in testa davanti alla casa canta una semplice estrema melodia sul testo:

"Spogliatelo, che poi curerà,
E se non cura, allora uccidetelo!
E' solo un dottore, solo un dottor."
Poi eccomi spogliato, e, a testa china, contemplo, le dita nella barba, tranquillamente la gente. Sono assolutamente calmo e resto di gran lunga superiore a tutti, però non mi serve a nulla, ecco che mi prendono per la testa e per i piedi e mi portano nel letto. Mi mettono contro il muro, dalla parte della piaga. Poi escono tutti dalla stanza; la porta viene chiusa; cessa il canto; la luna si rannuvola; le coltri mi avvolgono calde; in ombra s'agitano le teste dei cavalli nel vano della finestra. "Lo sai", mi sento dire all'orecchio, "la mia fiducia in te è assai scarsa. Non vieni con i tuoi piedi, anzi, sei capitato qui non so come. Invece di giovarmi, tu mi restringi lo spazio del letto di morte. Ti cavo gli occhi, lo preferisco." "Giusto", dico, "è un'infamia. D'altra parte sono medico. Che devo fare? Credimi, neanche per me è facile." "Mi devo accontentare di questa giustificazione? Ah, certo ci son costretto. Sempre sono costretto ad accontentarmi. Son venuto al mondo con una bella piaga; era tutta la mia dotazione." "Giovane amico", dico,"il tuo errore è la non lungimiranza. Io, che già sono stato in ogni genere di stanza di malato, da ogni parte, ti dico: la tua piaga non è così grave. Ferita inferta con due colpi di ascia ad angolo acuto. Molti nella foresta offrono il loro fianco all'ascia, e la odono appena, ancor meno odono che essa si avvicina a loro." "E' davvero così oppure m'inganni nel mio stato febbrile?" "E' davvero così, approfitta della parola d'onore d'un funzionario medico." Ne approfittava e si calmava. Tuttavia ora era il momento di pensare alla mia liberazione. I cavalli si trovavano fedelmente ancora ai loro posti. Abito, pelliccia e borsa venivano velocemente afferrati tutti insieme; non volevo perder tempo a rivestirmi; se si affrettavano i cavalli come all'andata sarei balzato per così dire da questo letto nel mio. Rispettosamente un cavallo si ritirava dalla finestra; gettavo nel calesse il bagaglio; la pelliccia volava troppo oltre, giusto con una manica restava attaccata a un appiglio. Non c'è male. Mi lanciavo sul cavallo. Fissando alla rinfusa i finimenti, un cavallo mal accoppiato all'altro, il calesse scarrocciando, da ultimo la pelliccia nella neve."Muoversi!", dicevo, ma a vuoto; come dei vecchietti ci si muoveva nel deserto di neve; lungamente dietro di noi risuonava il nuovo ma fallace canto dei bambini:


"Rallegratevi, voi pazienti,
Il medico sta nel letto con voi!"


Mai tornato a casa in questo modo; perduta è la mia florida attività professionale; un successore mi derubava, ma senza profitto, infatti non poteva rimpiazzarmi; in casa mia imperversa disgustosamente lo stalliere; Rosa ne è la vittima; non voglio pensarci. Nudo, esposto al gelo di quest'epoca disgraziata, calesse di questo mondo, cavalli d'un altro mondo, vecchio mi trascino in giro. La mia pelliccia pende dal retro del calesse, ma a raggiungerla non ce la faccio, e nessuno nella vivace marmaglia dei pazienti muove un dito. Imbrogliato! Imbrogliato! Una volta che hai dato spago al suono fesso del campanello notturno - non c'è più niente da fare.

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