venerdì 27 marzo 2020

Franz Kafka: Carriera in magistratura e caccia ai tangheri


(…) il giudice distrettuale ne ha abbastanza di organizzare le cacce ai tangheri - per altro sarebbe il suo primo compito. Tuttavia è sciocco prendersela con lui. Il sotto procuratore di Stato non se la prende con lui, ma con la stupidaggine commessa da chi ha piazzato un uomo del genere nel posto di giudice distrettuale. Così è la stupidità a esercitare la giustizia.

E' solo a causa delle sue scarse relazioni personali che il sotto procuratore di Stato ha un rango così modesto, e ciò è assai spiacevole; ma contro i tangheri e chi non li persegue non basterebbe neppure avere il rango di procuratore capo. Se non addirittura un rango anche più alto per poter così denunciare in modo efficace tutte le sciocchezze che capita di vedere. Se avesse un tal rango il nostro sotto procuratore di Stato non si abbasserebbe certo a denunciare quel giudice istruttore che non ne può più di dar la caccia ai tangheri; data l'importanza del suo ruolo non dovrebbe neppure prenderlo in considerazione quel giudice. Dappertutto lui stabilirebbe un ordine così meraviglioso che quel giudice non riuscirebbe a resistere, gli inizierebbero a tremare le ginocchia, e pure senza esser toccato, e alla fine dovrebbe dileguarsi. 

Forse sarebbe tempo di portare il caso sollevato dal sotto procuratore di Stato - contro il giudice che non ne può più di perseguire i tangheri -anche fuori dai chiusi tribunali disciplinari, nella dimensione pubblica di un'aula di tribunale vera. Allora il sotto procuratore di Stato non vi sarebbe più coinvolto come semplice accusatore del giudice, ma in forza del suo maggior potere sarebbe libero e potrebbe a quel punto esser lui il giudice, immagina il nostro.

Egli s'immagina che un'alta personalità durante il dibattimento gli mormori all'orecchio: “Ora avrai riparazione.” 
Eccoci al dibattimento. I giudici disciplinari querelati naturalmente mentono, mentono a denti stretti, mentono come solo i giudici possono mentire quando sono querelati. Tuttavia ogni cosa è preparata in modo che i fatti si scrollino di dosso ogni menzogna e si manifestino ai presenti, liberi e conformi alla verità. C'è molto pubblico ai tre lati dell'aula, solo il banco del giudice è vuoto, non si è trovato mica nessun giudice, i giudici si accalcano in un angusto spazio dove di solito sta l'accusato, e cercano di discolparsi davanti a un banco vuoto. Solo il pubblico accusatore, il già sotto procuratore di Stato, naturalmente è presente e si trova al suo abituale posto. E' molto più tranquillo del solito, si limita ad annuire ora in una direzione, ora in un'altra, e tutto va come un orologio svizzero. Solo ora, dopo che il caso è stato liberato da memorandum, testimonianze, protocolli, delibere, verdetti, se ne riconosce subito la sbalorditiva semplicità! 

                                                ***

La pratica risale a quindici anni prima. Il sotto procuratore di Stato si trovava ai tempi nella capitale, era riconosciuto come giurista valente, molto benvoluto dai suoi superiori aveva perfino la speranza di diventare presto e prima di molti concorrenti decimo procuratore di Stato. Il secondo procuratore di Stato gli dimostrava una particolare simpatia e da lui si faceva sostituire in occasioni non del tutto prive di rilievo. 
Per esempio in occasione di un processo per lesa maestà. Un impiegato di commercio, uomo non incolto, politicamente molto attivo, in una mescita, semi ubriaco, con il bicchiere in mano si era prodotto in un'offesa nei confronti di Sua Maestà. Un avventore vicino di tavolo, probabilmente ancor più bevuto, lo aveva denunciato magari pensando nel suo stato confusionale di far chissà che; subito si corse a chiamare un poliziotto e, sghignazzando beati, si fece ritorno insieme a lui per consegnargli l'uomo. Più tardi certo costui si attenne pochissimo a quel che aveva detto, però l'offesa a Sua Maestà doveva essere stata molto evidente, infatti nessun testimone poté del tutto negarla. Il suo tenore tuttavia non si poté stabilirlo in modo certo, la sua maggior giustificazione stava nel fatto che l'accusato indicando con il bicchiere di vino un ritratto del Sovrano appeso alla parete aveva detto: “Oh farabutto, costassù!” 

La gravità dell'offesa fu mitigata sia dallo stato in quel momento di parziale irresponsabilità dell'accusato, sia dal fatto che egli esprimesse l'offesa nel contesto di una canzone (“Finché il lume resta acceso”) e avesse con ciò reso meno netta l'esclamazione stessa. Circa il nesso tra l'esclamazione e la canzone quasi ogni testimone ebbe una diversa opinione e il denunciante arrivò ad affermare che a cantare fosse un altro, non l'accusato. Aggravante in particolar modo fu per l'accusato la sua attività politica, che fece apparire in ogni caso assai credibile che lui fosse capace di dire quel che aveva detto anche in piena sobrietà e totale convinzione. 

Il sotto procuratore di Stato si ricorda molto bene – tanto spesso ha riflettuto su tali cose – che quasi entusiasta iniziò a occuparsi di quella denuncia, non solo perché era cosa onorevole dirigere un processo per lesa maestà, ma anche perché lui sinceramente detestava l'accusato e quanto era accaduto. Eccolo lì, un arrampicatore politico cui l'onesto impiego di impiegato commerciale non bastava, forse perché non poteva fornirgli i mezzi per gozzovigliare, un uomo dall'enorme mascella mossa da una forte muscolatura anch'essa enorme, ecco il tanghero, amici lettori, un predicatore del popolo che berciò anche contro il giudice istruttore, in questo caso purtroppo persona debole di nervi per sua natura. L'istruttoria, cui più volte il sotto procuratore aveva assistito a causa del suo interesse per la cosa, fu un alterco ininterrotto. Una volta era il giudice a saltar su, l'altra l'interrogato, l'uno tuonando contro l'altro. Ciò naturalmente agì in modo sfavorevole sul risultato dell'istruttoria, e quando al sotto procuratore di Stato toccò fondarvi l'imputazione egli dové applicare molta fatica e acume per renderla sufficientemente solida. S'impegnò per delle nottate, ma con gioia. 

Erano belle notti di primavera, l'edificio al cui pianterreno il sotto procuratore di Stato abitava aveva sul davanti un giardinetto di modeste dimensioni in cui lui, stanco del lavoro ovvero bisognoso di dar quiete e raccoglimento al cumulo dei suoi pensieri, scavalcata la finestra passeggiava oppure con gli occhi chiusi si appoggiava alla cancellata. Senza risparmiarsi rielaborò più volte l'intera imputazione, numerose sue parti dieci, dodici volte. Oltre a questo si accumulava in quasi impenetrabile profusione il materiale preparato per l'udienza. “Dio mi conceda di riuscire a dominare e a utilizzare tutto questo”, ecco durante quelle nottate la sua preghiera costante. Con l'imputazione stessa egli ritenne il suo lavoro terminato solo in minima parte, per cui considerò l'elogio con cui il secondo procuratore di Stato dopo accurato esame gli restituì il testo dell'imputazione non tanto come un premio quanto come un incoraggiamento; eppure tale elogio era grande e inoltre veniva da un uomo severo e di poche parole. Come spesso il sotto procuratore di Stato ripeté nelle sue successive istanze per avere una promozione, senza per altro riuscire con ciò a toccare la memoria del secondo procuratore di Stato, l'elogio era: “Il testo, mio caro collega, non contiene solo l'imputazione, esso contiene con ogni umana probabilità anche la vostra nomina a decimo procuratore di Stato.” Tacendo il sotto procuratore di Stato con la dovuta modestia, il secondo procuratore di Stato aggiunse: “Credetemi”. 

Il sotto procuratore di Stato si recò all'udienza ben tranquillo. Nessuno in aula conosceva come lui tutte le particolarità e le interconnessioni della materia processuale. Il difensore era un innocuo ometto ben noto al sotto procuratore di Stato, berciava, ma con scarso acume. Quel giorno certo egli non fu neanche molto combattivo, patrocinava perché obbligato, perché era in questione un membro della sua parte politica, perché forse ci sarebbe stata occasione per degli sproloqui da politicante, perché un poco la stampa politica ci faceva attenzione al caso, tuttavia non aveva speranze, il difensore, di salvare il suo cliente. 

Ancora se lo ricorda, il sotto procuratore di Stato, il modo come stette a guardare quel difensore fin dall'inizio del dibattimento, reprimendo a fatica la propria derisione; incapace di dominarsi come in genere questo difensore era, tanghero anche lui, amici lettori, buttava sul suo tavolo tutto quanto in modo confuso, strappava via pagine di quel che aveva scritto, pagine che subito, come da un soffio di vento, venivano ricoperte da altri fogli e crepitavano sotto il tavolo tra i suoi pieduzzi, mentre di continuo lui senza accorgersene si passava una mano sulla pelata con mossa ansiosa, quasi vi cercasse qualche piaga. 

Sembrava al sotto procuratore di Stato un avversario indegno. Ma proprio all'inizio del dibattimento l'avvocato saltò su e con voce insopportabilmente stridula propose che il dibattimento potesse aver luogo in seduta pubblica, e il sotto procuratore di Stato si alzò dal suo posto smarrito, quasi. Ma come? Tutto era tanto chiaro, approfondito, e tutte quelle persone lì attorno si immischiavano in una faccenda che apparteneva a lui solo, una faccenda che in se stessa lui avrebbe potuto condurre a termine, in conformità con il carattere che essa aveva, senza giudice, senza difensore e senza imputato. Tuttavia lui aderì alla proposta del difensore, e la sua condotta fu tanto inattesa quanto quella del difensore ovvia. 
Tuttavia la spiegò la sua condotta e durante la sua spiegazione nell'aula v'era un tale silenzio che lui, se tanti occhi da tutti i lati non gli fossero stati rivolti quasi che volessero attirarlo a sé, avrebbe potuto credere di star parlando in un'aula vuota, con se stesso. Si accorse subito di essere convincente. I giudici allungavano il collo e si guardavano tra loro stupiti, il difensore stava rigido sulla sedia, quasi che il sotto procuratore di Stato giusto in quel momento stesse sorgendo dal suolo come un'apparizione; l'accusato stringeva le sue gigantesche mascelle da tanghero nato, per la tensione, nella ressa degli ascoltatori ci si teneva stretti per la mano. 
Capivano i più che qui uno, il sotto procuratore di Stato, sottraeva loro l'intera faccenda, faccenda con cui essi sotto questo o quell'aspetto, magari debole, erano in rapporto, e la faceva di nuovo sua, irreversibilmente. 
Tutti avevano creduto di assistere a un processino per lesa maestà, e ora udivano che il sotto procuratore di Stato già all'inizio del suo discorso sfiorava l'offesa al Sovrano con poche parole, quasi fosse qualcosa di secondario.

E intanto gli ussari cavalcavano nel buio stretto vicolo

<non terminato>

(traduzione libera)

venerdì 20 marzo 2020

Franz Kafka: Tra i miei compagni di scuola non ero il più goffo


Tra i miei compagni di scuola io ero goffo, ma non il più goffo. Eppure questo giudizio estremo è rimasto per alcuni dei miei insegnanti valido ed è stato propinato a me e ai miei genitori; chissà cosa credevano di fare.
Che tuttavia io fossi goffo lo pensavano tutti e facilmente ne davano le prove a un estraneo che invece non si era fatto una cattiva impressione di me, e lo diceva.
Di ciò fui costretto ad arrabbiarmi sovente e anche a piangere. Questi erano gli unici momenti in cui mi sentivo insicuro nelle situazioni serie del presente, e disperato rispetto a quelle future; però insicuro in teoria, disperato in teoria, infatti in una cosa da fare immediatamente ero sicuro e privo di dubbi quasi come un attore che si precipita fuori dalle quinte di slancio, resta lontano per un attimo dal centro del palcoscenico - io le mani le porterei alla fronte - e l'emozione immancabile s'è fatta così grande in lui che non può nasconderla, hai voglia a morderti le labbra, a sbarrare gli occhi. L'insicurezza presente, quasi passata, fa salire l'emozione che sta sbocciando e l'emozione rinforza l'insicurezza. Immancabile si forma una nuova insicurezza che abbraccia sia l'emozione che l'insicurezza iniziale, e ti stringe.
Per questo mi accadeva di aver la nomea di persona spinosa con gli estranei. Ero già inquieto se mi guardavano di profilo il naso come da una casetta si scruta il mare con il telescopio o magari la montagna e l'aria tersa. E allora si dava la stura a risibili affermazioni, a menzogne statistiche, a errori geografici, a erronee dottrine tanto viete quanto insensate, a validi punti di vista politici, rispettabili opinioni su eventi attuali, a idee lodevoli che quasi subito sorprendevano sia chi le esprimeva sia i presenti, e di tutto quanto era prova il mio sguardo, il modo come toccavo uno spigolo del tavolo, o come saltavo su dalla sedia. Subito dopo smettevano di guardarmi fisso, loro, gli si spostava da sé il busto, in avanti o all'indietro. Alcuni addirittura trascuravano di avere addosso un abito, per appoggiarsi solo sulla punta dei piedi piegavano le gambe ad angolo acuto o si mettevano a sgualcire tutta quanta la giacca stringendosela addosso; altri no, molti con le dita si attaccavano agli occhiali, al ventaglio, a un lapis, a un occhialetto, a una sigaretta; e ai più, per quanto avessero la pelle bella dura, il viso si infiammava. Lo sguardo loro poi scivolava via da me come cala giù un braccio prima alzato.
Cacciato nel mio stato naturale, potevo aspettare, o stare a sentire, oppure andarmene e mettermi a letto, dove mi trovavo sempre bene dato che la timidezza m'intontiva. Era come una lunga pausa durante un ballo, quando solo pochi si decidono ad andarsene, e i più stanno qua e là in attesa seduti o in piedi mentre i musicisti, cui nessuno pensa, da qualche parte si ristorano in vista della ripresa delle danze. Però non era riposante la pausa e molti non se ne accorgevano, infatti nella sala qualcuno seguitava a ballare.
Comunque continuavo a provare timore, timore di uno a cui avevo teso la mano con freddezza - ne ignoravo il cognome - forse uno dei suoi amici aveva detto qual era il prenome - gli ero stato seduto davanti  per ore tutto tranquillo, solo un po' snervato, come capita ai giovani se un adulto volge ogni tanto lo sguardo su loro.
Ammettiamolo, qualche volta i miei occhi avevano incontrato i suoi, e siccome non ci avevo nulla da fare per il fatto che che nessuno mi considerava avevo tentato di tenere più a lungo il mio sguardo nei suoi occhi azzurri e buoni, per quanto così in pratica ci si escludesse dal resto dei presenti. E se non avevo avuto successo, almeno avevo tentato. Va bene, non mi riusciva, mi mostravo incapace fin dall'inizio e dopo non riuscivo neanche per un momento a nascondere la mia incapacità, e anche i miei piedi, come i pattini di un incapace, se ne volevano andare uno in una direzione, l'altro in un'altra, bastava scappare dal ghiaccio. Un altro al posto mio

<lacuna nel testo>

ero intelligente però non stavo né davanti né alla pari, né dietro ad altri cento, per cui non era facile né immediato vedermi, ero nel branco, per cui solo da un posto assai alto mi si poteva notare, e anche in quel caso mi si vedeva, ma scomparivo. Ecco il giudizio su di me di mio padre, un uomo, specie nell'ambiente politico della mia patria, particolarmente stimato e di successo. Per caso l'ho sentito che avevo forse diciassette anni, da una porta aperta di una stanza vicina alla camera di mio padre, mentre leggevo un libro sugli indiani. Parole che allora mi colpirono, me le fissai, ma non mi fecero nessun effetto. Come accade nella maggioranza dei casi, i giudizi che si danno in genere sui giovani non hanno su di loro alcun effetto. Essi infatti o sono ancora del tutto imbozzolati in se stessi o in se stessi invece vengono rigettati senza tregua, e sentono l'essere loro forte e squillante come una marcia militare. Il giudizio che si propina in genere ha per loro ignote premesse e sconosciute mete, inaccessibili; come se uno  passeggiasse sull'isola del laghetto nel parco: non ci sono barche né ponti: la musica uno la sente, ma lui gli altri non lo sentono.
Non è con questo che intendo però aver colto la logica dei giovani

<non terminato>

(traduzione libera)