venerdì 26 giugno 2020

Il processo di traduzione

Ho postato poco fa l'ultimo brano della mia traduzione da Der Process (o Der Prozess); consta di 10 capitoli che tuttavia non hanno la denominazione di capitoli. La mia traduzione è molto legata al testo. Per una traduzione un poco più libera e scorrevole raccomando la seconda versione della presente, postata su Scribd. Le due traduzioni che io conosco sono quella di Alberto Spaini (Frassinelli 1962), e quella di Primo Levi (Einaudi 1983).

Come altre volte ho scritto, la lingua kafkiana è ampollosa e a tratti aulico-burocratica. Non è tutta colpa del tedesco!
La tentazione di sciogliere la traduzione è forte, ma il timore di un travisamento è più forte.

Franz Kafka: Il processo - 10


Fine

Alla vigilia del suo 31° compleanno – erano circa le 9 di sera, l'ora del silenzio nelle strade – due signori vennero nell'abitazione di K. In finanziera, pallidi e grassi, portavano cappelli a cilindro apparentemente inamovibili. Dopo brevi formalità sulla porta dell'abitazione, per entrare, le stesse formalità si ripeterono, accresciute, davanti all'uscio di K. Senza che gli fosse stata notificata la visita, K stava, anche lui vestito di nero, seduto in prossimità dell'uscio e lento s'infilava dei guanti nuovi che, stretti, gli si tendevano sulle dita; pareva attendere ospiti. Subito si alzò e guardò incuriosito quei signori. “Dunque mi sono destinati loro?” - chiese. Essi annuirono, uno dei due con il cilindro in mano indicò l'altro. K comprese che diversa era la visita da lui attesa. Andò alla finestra e guardò ancora una volta la strada buia. Anche tutte le finestre sull'altro lato della via, quasi, erano ancora buie, e in molte le tende erano abbassate. Dietro una finestra condominiale illuminata giocavano insieme, dietro una grata, due bambini piccoli e, ancora incapaci di muoversi da dov'erano, si cercavano l'un l'altro con le manine. “Mi si mandano vecchi attori di secondo piano”, si disse K girandosi per convincersene. “Si cerca di farla finita con me a buon prezzo.” Si volse d'improvviso a loro e chiese: “In qual teatro recitano loro?” “Teatro?” - chiese l'uno all'altro, contraendo gli angoli della bocca, a scopo di averne dei lumi. L'altro si espresse a segni come un muto che lotti con un organismo ribelle. “Non sono preparati a ricevere domande”, si disse K e andò a prendere il cappello.
Già per le scale quei signori vollero agganciarlo sottobraccio K, ma questi disse: “solo in strada, non sono malato.” Tuttavia subito davanti al portone lo agganciarono in un modo come ancora K mai aveva camminato sottobraccio a qualcuno. Piazzarono le spalle strettamente dietro quelle di lui, non piegarono le braccia, ma le adoperarono per cingere quelle di K nella loro intera lunghezza, gli afferrarono le mani con una presa precisamente studiata, irresistibile. K camminò stretto, inteccherito tra loro, ora tutti e tre formavano una tale continuità che, se si fosse abbattuto uno di loro, sarebbero stati abbattuti tutti. Era una continuità come la può formare quasi solo l'assenza di vita.
Transitando sotto le lanterne K tentò più volte, per quanto potesse esser difficile farlo in tale stretta reciprocità, di vedere i suoi accompagnatori più chiaramente di quanto fosse stato possibile nella penombra della sua stanza. Forse si tratta di tenori, pensò alla vista dei loro pesanti doppi menti. Fu nauseato dalla nettezza delle loro facce. Si vedeva davvero ancora la mano nettatrice che era passata sugli angoli dei loro occhi, che aveva rasato lo spazio tra nasi e labbra superiori, che aveva appianato le rughe dei loro menti.
Notato questo, K si fermò, per cui si fermarono anche gli altri; erano al margine di un luogo aperto, deserto, abbellito da edifici. “Perché hanno mandato proprio loro?” - gridò K più che chiederlo. Quei signori non sapevano chiaramente dare risposta alcuna, si posero in attesa tenendo le loro braccia libere nella posizione che assumono gli infermieri quando il malato vuol muoversi. “Non cammino più”, disse K, a mo' di prova. I due non ebbero bisogno di rispondere, bastò che non allentassero la presa e cercarono di levar via K da dov'era, ma lui si oppose. “Io non avrò più bisogno di molta forza, l'adopero tutta subito”, pensò. Gli vennero in mente le mosche, che con le zampette staccate dalla fraschetta spalmata di colla muoiono. “I signori avranno un bel daffare.”
In quella davanti a loro sbucò su una scaletta, da una stradina in basso, la signorina Buerstner. Non v'era totale certezza che fosse lei, la somiglianza era certo grande. Tuttavia a K non importava affatto che fosse proprio la signorina Buerstner, lui era consapevole della vanità della propria opposizione. Non era affatto eroico opporsi, mettere in difficoltà quei signori, cercare ora di gustare nella resistenza l'ultimo lampo di vita. Si mise in movimento e qualcosa della gioia che ciò dava a quei signori passò a lui. Ora tolleravano che lui decidesse la direzione del cammino, e lui decise di seguire la via presa davanti a loro dalla signorina, non perché volesse raggiungerla, diciamo, non perché volesse vederla il più possibile a lungo, ma solo per non dimenticare l'ammonimento che lei significava per lui. “L'unica cosa che ora posso fare”, si disse mentre la simmetria dei suoi passi e di quelli degli altri tre corroborava i suoi pensieri, “l'unica cosa che ora posso fare è mantenere una serena intelligenza analitica, fino alla fine. Volli sempre esagerare nella vita, per altro con scopi non troppo accettabili. Non era giusto, e ora devo mostrare che neppure il processo, lungo un anno, riuscì a istruirmi? Devo andarmene come un uomo tardo di comprendonio? Mi si deve poter ripetere che è dall'inizio del processo che voglio portarlo a termine e che, ora che finisce, voglio ricominciarlo? Non voglio che si dica ciò. Sono grato che mi abbiano assegnato per questo cammino questi signori semi muti e incapaci di comprensione e che mi abbiano lasciato la possibilità di dirmi da solo quel che serve.”
La signorina era svoltata intanto in una viuzza laterale, ma K già poteva fare a meno di lei, abbandonandosi ai suoi accompagnatori. Tutti e tre ora in piena concordia passarono su un ponte nel bagliore della luna, ogni piccolo movimento che K faceva quei signori lo permettevano con prontezza, quando lui si volse un poco sul parapetto anche loro si girarono da quella parte, come un sol uomo. L'acqua tremava e luccicava sotto la luce della luna dividendosi attorno a un'isoletta stracolma del fogliame di alberi e cespugli. Sotto, ora invisibili, v'erano vialetti con panchine su cui K in estate spesso si era steso, allungato. “Mica volevo fermarmi”, disse ai suoi accompagnatori, vergognandosi della loro disponibilità. Uno dei due parve, dietro le spalle di K, rimproverare un poco l'altro a causa della fermata, frutto di equivoco, poi proseguirono. Attraversarono alcune viuzze in salita dove camminavano o sostavano poliziotti, ora distanti, ora vicinissimi. Uno con il pizzo ispido, la mano sull'elsa della sciabola, si avvicinò intenzionalmente a quel non del tutto insospettabile terzetto. Quei signori si fermarono, il poliziotto pareva già aprir bocca, allora K con forza tirò in avanti i suoi accompagnatori. Più volte si girò cauto per vedere se il poliziotto li seguiva o no; quando tra loro e il poliziotto ci fu tuttavia un angolo, K iniziò a correre e quei signori furono costretti a correre anche loro, nonostante che respirassero molto male.
Così, velocemente uscirono dalla città, che da quella parte quasi senza transizione confinava con i campi. Un ponticello di pietra, abbandonato e malinconico, si trovava nelle vicinanze di un edificio del tutto cittadino. Qui sostarono quei signori, sia che quel posto fosse la loro meta fin dall'inizio, sia che fossero troppo sfiatati per continuare la corsa. Subito lasciarono libero K, che, muto, era in attesa, si levarono i cappelli a cilindro e, mentre si guardavano attorno nella cava di pietre, con i fazzoletti si asciugarono la fronte sudata. Dappertutto la luna, placida e naturale, faceva quella luce cui nessuna è uguale.
Dopo uno scambio di alcune forme di cortesia riguardo a chi dovesse eseguire l'imminente compito – quei signori pareva che avessero ricevuto l'incarico entrambi – uno andò da K e gli tolse la giacca, il gilè e infine la camicia. Senza volere K rabbrividì, per cui quel signore gli dette, per tranquillizzarlo, un colpetto sulle spalle. Poi con cura mise insieme le robe come se fossero, per quanto non nell'immediato, ancora utilizzabili. Per non esporre K, immobile, all'aria notturna, comunque fredda, quello stesso lo prese sotto braccio e ci camminò insieme un poco, qua e là, mentre l'altro signore perlustrava la cava alla ricerca di un posto adeguato. Quando lo ebbe trovato fece un cenno e l'altro vi accompagnò K. Sul posto, prossimo alla parete della cava, v'era una pietra staccata. I due piazzarono K in terra e lo appoggiarono alla pietra, su cui adagiarono la sua testa. Nonostante ogni loro sforzo, nonostante tutta la cooperazione che K dimostrava loro, il suo contegno molto sottomesso restò inattendibile. Uno dei due pregò l'altro di lasciare un momento che lui sistemasse K da solo, ma anche così la cosa non andò meglio. Infine lo sistemarono in una posizione che non era nemmeno la migliore tra quelle fin lì trovata. Allora uno dei due signori si aprì la finanziera e trasse, dal fodero che stava appeso a una cintura tesa sul gilè, un coltello da macellaio, lungo, stretto e affilato su entrambi i lati, lo alzò e ne esaminò l'affilatura alla luce. Ricominciarono le stomachevoli forme di cortesia, l'uno porgeva al di sopra di K il coltello all'altro, che a sua volta glielo riporgeva. Ben sapeva ora, K, che sarebbe stato suo dovere afferrare lui il coltello che gli passava sopra da una mano all'altra, e infilzarsi. Tuttavia non lo fece, invece girò il collo ancor libero e guardò in giro. Non seppe privare del tutto le autorità del loro lavoro, di quest'ultima pecca portò la responsabilità chi gli aveva negato quel rimasuglio di forza necessaria. I suoi sguardi caddero sull'ultimo piano dell'edificio confinante con la cava. Le imposte d'una finestra, là, si scambiavano come una luce sfolgorante reciproca, un uomo, debole, minuto, lontano lassù, si sporse parecchio in avanti e stese ancor di più le braccia. Chi era? Un amico? Un brav'uomo? Uno che simpatizzava? Uno che intendeva esser d'aiuto? Era una persona isolata? Lo erano tutti? C'era ancora possibilità d'aiuto? C'erano obbiezioni di cui ci si era dimenticati? Certo ve n'erano. La logica è sì salda, ma a un uomo che vuol vivere, essa non si oppone. Dov'era il giudice che lui non aveva mai visto? Dov'era l'alta corte cui lui mai era arrivato? Alzò le mani e divaricò le dita.
Le mani di uno dei due signori furono sulla gola di K, l'altro gli piantò il coltello nel cuore e ce lo rigirò dentro due volte. Mentre gli occhi gli si spegnevano K vide ancora come prossimi al suo volto quei due, guancia a guancia, controllavano la corretta esecuzione del verdetto. “Come un cane!”, lui disse, come se la vergogna dovesse sopravvivergli.

Franz Kafka: Il processo - 9


Nel duomo

K fu incaricato di mostrare alcuni monumenti a un corrispondente d'affari italiano molto importante per la banca, il quale soggiornava per la prima volta in città. Era un incarico che in altri tempi lui avrebbe ritenuto assai degno, ma, proprio ora che con molti sforzi riusciva a conservare la sua reputazione in banca, vi si sottomise controvoglia. Ogni ora che lui sottraeva all'ufficio gli procurava ansia; certo non riusciva più, di gran lunga, a sfruttare l'orario di lavoro come prima, trascorreva parecchie ore unicamente mostrandosi massimamente bisognoso di lavorare davvero, ma se non si trovava in ufficio maggiori diventavano le sue preoccupazioni. Credeva poi di vedere che il vice direttore, il quale del resto era stato sempre all'erta, di tanto in tanto veniva nel suo ufficio, si sedeva alla sua scrivania, rovistava tra le sue carte, riceveva clienti con i quali da anni K era quasi in amicizia e glieli portava via, anzi forse scopriva perfino errori dai quali K si vedeva sempre minacciato durante il lavoro da ogni parte, e non riusciva più a evitare. Se lui veniva perciò incaricato in modo ancora così lusinghiero sia di procedere a un affare sia di un piccolo viaggio – simili incarichi si erano accumulati ultimamente del tutto a caso – era ovvio in ogni caso supporre che lo si allontanasse per un po' dall'ufficio e si volesse verificare il suo lavoro, o almeno che lo si ritenesse facilmente sostituibile in ufficio. La maggior parte di questi incarichi lui avrebbe potuto senza difficoltà scansarli, ma non osava, infatti, se il suo timore era anche minimamente fondato, evitare l'incarico significava ammettere la sua paura. Per cui li assumeva con apparente tranquillità e arrivò a nascondere perfino, dovendo fare un faticoso viaggio di 2 giorni, un brutto raffreddore, solo per non esporsi al pericolo, se lui si fosse richiamato alla già dominante stagione autunnale, piovosa, di venir trattenuto dal viaggio. Quando con un mal di testa tremendo tornò da questo viaggio seppe che per il giorno dopo era destinato ad accompagnare il corrispondente d'affari italiano. Era assai sedotto dalla prospettiva di rifiutarsi, almeno stavolta, prima di tutto ciò che gli era stato destinato proprio non aveva connessione immediata con gli affari; il compimento di questo dovere di tipo mondano nei confronti del corrispondente d'affari in sé era senza dubbio abbastanza importante, non solo per K, che pure lo sapeva di poter restare a galla solo con dei successi professionali e, qualora ciò non gli fosse riuscito, sapeva che era del tutto inutile che lui magari a sorpresa incantasse quest'italiano; non voleva nemmeno per un giorno venir spostato dall'ambito lavorativo, infatti il timore di non venir più richiamato era troppo grande, era un timore che lui riconosceva molto bene come esagerato, ma che però lo opprimeva. In questo caso certamente era quasi impossibile escogitare un'obbiezione accettabile, la conoscenza della lingua italiana da parte di K non era certo molto grande, ma pur sempre sufficiente; decisivo era però che K da anni possedesse delle conoscenze in storia dell'arte, cosa che in banca era diventato esageratamente nota dal momento che K per un periodo, del resto per motivi di lavoro, era stato membro della Associazione per la Conservazione dei Monumenti Cittadini. Ora, l'italiano, come si era saputo da voci, aveva la passione per l'arte, e la scelta di K a suo accompagnatore fu per ciò scontata.
Era una mattina molto piovosa e burrascosa quando K, irritatissimo a causa della giornata che aveva davanti, fu in ufficio già attorno alle sette per ultimare almeno un po' di lavoro prima che la visita lo sottraesse a tutto. Era molto stanco, difatti aveva trascorso metà della nottata a studiare una grammatica italiana per prepararsi un po'; la finestra presso cui ultimamente troppo spesso sedeva lo attirava più della scrivania, ma resisté e si mise al lavoro. Purtroppo entrò l'usciere e annunciò che il signor direttore lo aveva mandato a controllare se il signor procuratore era già in sede; se era presente allora volesse essere così gentile di recarsi nella sala di ricevimento, il signore dall'Italia era già là. “Vengo subito”, disse K, ficcò in tasca un dizionarietto, prese sotto braccio un album di Cose Cittadine Notevoli da Vedere che aveva preparato per lo straniero e, attraversando l'ufficio del vice direttore, andò in direzione. Era fortunato a esser venuto in ufficio tanto presto e a poter essere a disposizione subito, ciò che nessuno seriamente si era aspettato. L'ufficio del vice direttore era com'è naturale ancora vuoto come in piena notte, probabilmente l'usciere aveva dovuto chiamare anche lui nella sala di ricevimento, ma a vuoto. Quando K entrò nella sala di ricevimento i due signori si alzarono dalle loro profonde poltrone. Il direttore sorrise gentile, chiaro che era molto soddisfatto della venuta di K, si dedicò subito alle presentazioni, l'italiano scosse vigorosamente la mano a K e nominò ridendo un certo personaggio mattiniero, K non capì bene chi, si trattava inoltre di una parola particolare il cui significato K indovinò solo dopo un certo tempo. Rispose con alcune frasi forbite che l'italiano di nuovo accolse ridendo mentre più volte nervoso si passava una mano sul pizzo grigio azzurro. Il pizzo era certamente profumato, quasi si era tentati di avvicinarsi e di annusarlo. Quando tutti si furono seduti, iniziando un discorsetto preliminare, K si accorse con gran disagio di capire l'italiano solo in modo frammentario. Quando parlava lentamente lui capiva quasi tutto, erano però solo rare eccezioni, per lo più gli zampillavano davvero le parole dalla bocca e scuoteva la testa, come godendone. Quel che diceva s'imbrogliava regolarmente in un dialetto che per K non aveva più nulla della lingua italiana, e che il direttore però non solo capiva, ma anche parlava, ciò che K d'altra parte avrebbe potuto prevedere, infatti l'italiano era originario del sud Italia, dove anche il direttore era stato qualche anno. Comunque K riconobbe che la possibilità d'intendersi con l'italiano era in gran parte esclusa, difatti anche il francese che quello parlava era difficile da capire, inoltre la barba gli nascondeva i movimenti delle labbra, la cui vista forse sarebbe servita a capire. K iniziò a prevedere molte noie, intanto rinunciò a voler capire l'italiano – in presenza del direttore, che lo capiva tanto facilmente, sarebbe stato uno sforzo inutile. Pur sprofondato in poltrona, si muoveva con facilità, l'italiano, continuava a tirarsi la corta e attillata giacchetta e, in un caso, le braccia sollevate, scioltamente muovendo le mani sui polsi, cercò di descrivere qualcosa che K non riuscì a capire - si limitò, piegato in avanti, pur senza togliersi le mani che teneva davanti agli occhi, a osservare l'italiano. Infine prevalse in K, che senza far altro si limitava a seguire meccanicamente l'andamento del discorso, la stanchezza mattutina, e spaventato in un caso si accorse del fatto che, per fortuna a tempo, distrattamente stava per alzarsi, girarsi e andar via. Finalmente l'italiano guardò l'orologio e saltò su. Congedatosi dal direttore, si accostò tanto a K che questi fu costretto a spostare indietro la sua poltrona per potersi muovere. Il direttore, che certo leggeva negli occhi di K l'imbarazzo in cui si trovava nei confronti di quell'italiano, s'infilò in ciò che questi diceva, ma con tanta abilità e grazia che dette l'impressione di aggiungere solo modesti consigli, mentre in realtà rendeva comprensibile in sintesi a K tutto quello che l'italiano diceva, interrompendolo senza tregua. K seppe così che l'italiano aveva per il momento ancora da curarsi di certi affari, che avrebbe avuto solo poco tempo in tutto, che inoltre proprio non intendeva fare in furia il giro di tutte le cose notevoli da vedere, che invece – certo solo se K era d'accordo, a lui stava decidere – aveva deciso di visitare unicamente il duomo, ma per bene. Immensamente lieto di poter fare tale visita in compagnia di un uomo tanto colto e amabile – così fu definito K, impegnato solo a evitare l'eloquio dell'italiano per afferrare alla svelta le parole del direttore – lo pregò, se gli andava bene, di trovarsi entro due ore, circa alle 10, nel duomo. Quanto a lui sperava di poter esserci con certezza, a quell'ora. K rispose a modino, l'italiano strinse la mano prima al direttore, poi a K, poi di nuovo al direttore e andò verso la porta, seguito da entrambi, voltato solo a metà verso di loro, ma senza smettere di parlare. K rimase ancora un poco insieme al direttore che quel giorno pareva davvero star poco bene. Ritenne di doversi scusare con K e disse – stavano in piedi confidenzialmente vicini – che dapprima aveva pensato di andarci lui con l'italiano, ma poi – non spiegò perché – aveva preferito mandarci K. Se all'inizio non lo capiva subito, non doveva farsi confondere, molto presto si arrivava a capire, e poi, nell'ipotesi di capir poco in genere, non era tutto questo male, difatti per l'italiano non era mica tanto importante venir capito. Del resto la conoscenza della lingua italiana di K era sorprendentemente buona e lui si sarebbe adattato magnificamente alla faccenda. Con ciò K fu congedato. Impiegò il tempo che gli rimaneva a trascrivere dal dizionario vocaboli non comuni utili a far la guida nel duomo. Lavoro faticoso assai: gli uscieri portarono la posta, gli impiegati vennero a domandare cose varie e vedendo K impegnato restarono sulla porta senza però andarsene fino a quando lui non dette loro relazione, il vice direttore non mancò di dargli noia, entrò e rientrò, gli prese il dizionario di mano e lo sfogliò senza capirci nulla, chiaro, aprendosi la porta nella penombra dell'anticamera dei clienti fecero capolino inchinandosi incerti, volevano farsi vedere ma non erano sicuri di esser visti – tutto questo si muoveva attorno a K come attorno al proprio centro, mentre lui metteva insieme le parole che gli servivano, le cercava nel dizionario, poi le trascriveva, si esercitava a pronunciarle e infine si sforzava di impararle a memoria. La sua buona memoria di una volta gli pareva di averla completamente perduta, a tratti s'infuriò talmente con l'italiano, causa di quella sua fatica, che seppellì il dizionario sotto le carte con la ferma intenzione di non prepararsi più, poi però capì che non poteva passare di fronte alle opere d'arte nel duomo senza dir nulla e ritirò fuori il dizionario con rabbia accresciuta.
Proprio attorno alle nove e mezzo, quando stava per andare, ci fu una chiamata telefonica, Leni gli augurò il buongiorno e gli chiese come stava, K ringraziò in fretta facendo notare che ora non poteva mettersi a discorrere, perché doveva andare in duomo. “In duomo?” - chiese Leni. K cercò di spiegarglielo in breve, ma aveva appena iniziato a farlo che Leni disse di colpo: “ti stanno addosso.” K non ebbe la pazienza di deplorare il fatto di non esserselo voluto lui né aspettato, si congedò con due parole, ma mentre riattaccava disse un po' a se stesso, un po' alla ragazza lontana, che non lo sentiva più: “sì, mi stanno addosso.”
Però s'era fatto tardi, quasi c'era il rischio di non arrivare puntuale. Andò in automobile, all'ultimo momento s'era ricordato anche dell'album che prima non aveva trovato occasione di proporre e che per questo prese con sé. Se lo tenne sulle ginocchia e ci tamburellò sopra per tutto il tragitto. La pioggia era diminuita, ma faceva freddo, era scuro e umido, in duomo si sarebbe visto poco, però lì a forza di stare sulle mattonelle gelide il raffreddore di K sarebbe peggiorato molto.
La piazza del duomo era completamente vuota, K si rammentò che già da bambino lo aveva sorpreso il fatto che in quella stretta piazza quasi tutte le imposte alle finestre delle case fossero abbassate. Col tempo di oggi era del resto più comprensibile del solito. Anche dentro il duomo pareva vuoto, naturalmente a nessuno veniva in mente di venirci, ora. K percorse entrambe le navate laterali, incontrò solo una vecchia avvolta in un caldo scialle inginocchiata dinnanzi a un'immagine di Maria, e la guardò. Da lontano vide poi sparire in una porta un sagrestano zoppo. K era arrivato puntuale, proprio al suo ingresso erano suonate le 11, ma ancora l'italiano non c'era. K tornò all'ingresso principale, vi restò per un po' indeciso e fece poi un giro attorno al duomo, sotto la pioggia, per vedere se l'italiano non fosse in attesa magari a una delle porte laterali. Non trovò nessuno. Che il direttore avesse capito male l'ora? Come si faceva del resto a capir bene quell'uomo? Fosse come fosse, K doveva aspettarlo almeno ½ ora. Dato che era stanco si volle mettere a sedere, tornò nel duomo, su un gradino trovò una specie di straccio di tappeto, lo tirò con la punta di un piede davanti a un banco vicino, si strinse di più nel cappotto, tirò su il bavero e si mise seduto. Per distrarsi aprì l'album, lo sfogliò un poco, ma fu costretto a smettere presto, difatti era talmente scuro che, quando alzò lo sguardo, nella vicina navata laterale si distingueva appena un dettaglio.
In lontananza scintillava sull'altar maggiore un grande triangolo di luci di candela, K non avrebbe potuto dire con precisione se le avesse già viste prima. Forse erano state accese solo ora. I sagrestani sono sornioni professionali, non li si nota. Nel voltarsi per caso K vide non lontano dietro di sé un lungo e grosso cero fissato su una colonna bruciare anch'esso. Per quanto donasse all'illuminazione delle immagini presenti sull'altare, in maggioranza esse si trovavano nella tenebra degli altari laterali, il cero non bastava affatto, anzi accresceva la tenebra. Da parte dell'italiano era stato tanto ragionevole quanto scortese non esser venuto, non ci sarebbe stato nulla da vedere, accontentandosi della lampadina elettrica tascabile di K per ispezionare, a mo' di doganieri, qualche immagine. Per individuare che cosa ci si potesse aspettare K andò in una piccola cappella laterale, salì pochi gradini fino a un basso parapetto di marmo e chinato sopra illuminò con la lampadina l'immagine sull'altare. Importuno, il lumino votivo vi pendeva davanti. La prima cosa che vide e in parte indovinò K era un grosso cavaliere in corazza rappresentato al margine estremo del quadro. Si appoggiava a una spada che aveva spinto nel suolo ghiacciato davanti a sé – spuntavano solo alcuni fili d'erba qua e là. Pareva osservare attento un evento che gli si svolgeva davanti. Strano che restasse fermo e non si avvicinasse. Forse aveva l'ordine di far la guardia. K, che già da molto non aveva visto alcun quadro, esaminò meglio il cavaliere nonostante che a causa della luce verde della lampadina, che non sopportava, fosse costretto a stringere gli occhi. Quando passò con la luce sul resto del quadro trovò una sepoltura di Cristo di usuale concezione - per altro il quadro era nuovo. Mise in tasca la lampadina e tornò al suo posto.
Probabilmente era già inutile, ora, aspettare l'italiano, fuori però pioveva a dirotto e dato che lì non era così freddo come lui si era aspettato, decise di restare, per il momento. Vicino a lui si trovava il pulpito maggiore sul cui tettuccio tondo erano fissate due croci dorate vuote semi orizzontali, i cui vertici s'incrociavano. La parete esterna del parapetto fino alla colonna portante era formata da un fogliame verde nel quale mettevano le mani angioletti sia vivaci sia placidi. K andò davanti al pulpito e lo esaminò da tutti i lati, la lavorazione della pietra era estremamente accurata, la profonda oscurità tra le foglie e dietro di esse gli parve come fosse intrappolata e trattenuta, mise una mano in uno di quei varchi tra le foglie e saggiò cauto la pietra, fin lì non era affatto stato a conoscenza di quel pulpito. In quella scorse per caso dietro la fila più vicina di banchi un sagrestano che stava lì con addosso un abito nero a pieghe cadenti, nella mano sinistra teneva una scatola di tabacco da fiuto e scrutava K. “Ma cosa vuole?” pensò K. “Mi vede come un tipo sospetto? Vuole una mancia?” Quando però il sagrestano vide che K lo aveva notato, con la destra indicò una direzione vaga, tra due dita ancora tenendo una presa di tabacco. La sua condotta era quasi incomprensibile, K attese ancora un po', ma il sagrestano non smetteva di indicare qualcosa sottolineando il gesto con dei cenni del capo. “Ma cosa vuole?”, chiese a bassa voce K, non osando chiamarlo, in quel luogo; poi però estrasse il borsellino e s'infilò tra i banchi per raggiungerlo. Quello fece subito un movimento di ripulsa con una mano, scosse le spalle e alla zoppa se ne andò. Con un simile frettoloso zoppicare K da bambino aveva cercato di imitare l'andare a cavallo. “Un vecchio puerile”, pensò K, “ha comprendonio bastante a fare il sagrestano, guarda come si ferma se mi fermo io e come sta in agguato a vedere se voglio andar oltre.” Con un risolino K seguì il vecchio attraverso l'intera navata laterale quasi fino all'altezza dell' altar maggiore, senza che quello smettesse di indicare qualcosa, tuttavia a bella posta K non si voltò, il gesto non aveva altra meta che distoglierlo dall'inseguimento. Infine rinunciò, non voleva impaurirlo troppo né intendeva scacciar del tutto quell'apparizione, nel caso che l'italiano dovesse ancora venire.
Entrato nella navata centrale per cercare il posto dove aveva lasciato l'album, notò una colonna quasi al limite dei banchi del coro presso l'altare, che su un fianco aveva un piccolo pulpito di semplicissima pietra, sbiadita e spoglia. Era così piccolo che da lontano pareva una nicchia ancora vuota destinata a includere una statua. Il predicatore certo non poteva retrocedere dal parapetto di un passo completo. Oltre a ciò la curvatura della volta del pulpito, fatta in pietra, iniziava insolitamente in basso e - sì - saliva del tutto disadorna, tuttavia al vertice era talmente acuta che un uomo di taglia normale non poteva starci in piedi, ma era costretto a piegarsi costantemente sul parapetto. L'insieme era destinato come a tormentare il predicatore, era incomprensibile la finalità di quel pulpito dal momento che ce n'era un altro grande e artisticamente ornato a disposizione.
A K certo questo piccolo pulpito non avrebbe dato nell'occhio, se non vi fosse stata messa una lampada, in alto, come si usa disporne subito prima di una predica. Doveva, per dire, averne luogo una ora? Con la chiesa vuota? K guardò la scala che addossata alla colonna portava al pulpito, stretta come se non dovesse servire a delle persone, ma solo come ornamento. Tuttavia sotto il pulpito, e K fece un risolino di stupore, c'era davvero il prete, aveva una mano sulla balaustra, pronto a salire, e guardava verso K. Poi annuì leggermente, per cui K si fece il segno della croce e s'inchinò, come avrebbe già dovuto fare. Il prete si dette un po' di slancio e salì a passi brevi e svelti al pulpito. Davvero doveva iniziare una predica? Forse il sagrestano non era poi tanto insensato e aveva inteso spingere K dal predicatore, cosa certo, stante la vuotezza della chiesa, necessaria. Per altro da qualche parte c'era ancora davanti a un'immagine di Maria una vecchia che anche lei avrebbe dovuto venire. E nel caso che già dovesse esserci una predica, perché non veniva introdotta dall'organo? Invece la sua alta mole taceva brillando debolmente.
K pensò se non dovesse allontanarsi in fretta, ora, se non lo faceva subito non c'era alcuna probabilità che potesse farlo durante la predica, quindi era costretto a restare finché durava, in ufficio perdeva tanto di quel tempo, non era più di gran lunga tenuto ad aspettare l'italiano, guardò l'orologio, erano le 11. Ma davvero poteva esserci una predica? K da solo poteva rappresentare la comunità religiosa? E come, dal momento che era un estraneo che voleva solo visitare la chiesa? In fondo era solo questo. Era una stupidaggine pensare che dovesse aver luogo una predica ora, alle 11, in una giornata lavorativa e con un tempo orribile. Il prete – lo era indubbiamente, era un giovane dal volto scuro e liscio – certamente andava su per spegnere la lampada, accesa per errore.
Non fu così, però, il prete esaminò anzi la lampada e ne aumentò la luce ancora un po', poi si volse lento verso il parapetto e lo afferrò con entrambe le mani sul davanti del bordo spigoloso. Stette così per un po' e, la testa immobile, guardò attorno. K era arretrato di un bel pezzo e con i gomiti si appoggiò al banco più prossimo. Incerto vide da qualche parte, senza ben distinguere dove, il sagrestano che si accovacciava sghembo, tranquillo come dopo aver finito quel che doveva fare. Ma che silenzio, ora, nel duomo! Però K era costretto a turbarlo, non aveva intenzione di restare; se era dovere del prete predicare a una certa ora senza considerare l'uditorio, che lo facesse, ciò sarebbe riuscito anche senza che ci fosse lì K, inoltre la presenza di K non ne avrebbe di certo accresciuto l'effetto. Per cui K si mosse, in punta di piedi annaspò lungo il banco, pervenne nel largo passaggio centrale e lo percorse del tutto indisturbato, peccato che il pavimento di pietra risuonasse anche al passo più leggero e le volte riecheggiassero, debolmente ma senza interruzione, quel regolarissimo procedere. K si sentì un po' smarrito nell'avanzare in solitudine, forse osservato dal prete, tra i banchi vuoti, e la grandezza del duomo gli parve stare al limite di ciò che umanamente era ancora sopportabile. Arrivato al suo posto di prima, cercò davvero al volo, senza fermarsi, l'album che aveva lasciato lì e lo prese con sé. Aveva già quasi lasciato la zona dei banchi e si avvicinava all'area libera tra essi e l'uscita quando udì per la prima volta la voce del prete. Voce poderosa, esercitata. Come si diffuse, nel duomo preparato ad accoglierla! Tuttavia non alla comunità religiosa si rivolgeva il prete, in tutta evidenza e senza scappatoie egli chiamava “Joseph K!”
K s'arrestò e guardò il suolo davanti a sé. Per il momento era ancora libero, poteva ancora procedere e attraversare una delle tre porticine di legno scuro, che non erano lontane. Ciò avrebbe significato che non aveva capito o che, sì, aveva capito, ma non ne voleva sapere. Nel caso che si voltasse era preso, difatti avrebbe confessato di aver capito bene, di essere davvero la persona chiamata e di voler inoltre obbedire. Se il prete avesse chiamato ancora una volta certo K sarebbe andato oltre, ma poiché tutto tacque intanto che K aspettava, voltò un po' la testa, difatti voleva vedere che cosa ora facesse il prete. Stava sul pulpito tranquillo come prima, ma era evidente che aveva notato il movimento della testa fatto da K. Sarebbe stato un gioco infantile a nascondino se ora lui non si fosse girato del tutto. Lo fece e venne chiamato dal prete, col cenno di un dito, ad avvicinarsi. Poiché ora tutto poteva avvenire apertamente, lui si affrettò – tanto per curiosità quanto per abbreviare la cosa – verso il pulpito a passi lunghi e rapidi. Si fermò presso i primi banchi, ma al prete la distanza pareva ancora troppo grande, protese una mano e con l'indice energicamente abbassato indicò un punto vicinissimo al pulpito. K ubbidì, in quel punto doveva piegare la testa parecchio indietro per vedere ancora il prete. “Tu sei Joseph K”, disse questi alzando una mano sul parapetto con un movimento incerto. “Sì”, disse K pensando a quanto apertamente, prima, lui avesse sempre detto il suo nome, mentre da un po' di tempo gli faceva fatica, e ora il suo nome era noto anche a gente che lui incontrava per la prima volta - com'era bello presentarsi da principio e solo dopo venir conosciuto! “Tu sei imputato”, disse il prete assai a bassa voce. “Sì”, disse K, “mi hanno informato di ciò.” “Allora sei la persona che cerco”, disse il prete. “Sono il cappellano del carcere.” “Ah, ecco”, disse K. “Ti ho fatto chiamare qui “, disse il prete, “per parlare con te.” “Non lo sapevo”, disse K. “Sono venuto qui per mostrare il duomo a un italiano.” “Lascia perdere le cose secondarie”, disse il prete. “Cosa tieni in mano? Un libro di preghiere?” “No”, rispose K, “è un album di cose cittadine notevoli da vedere” “Toglitelo di mano”, disse il prete. K lo gettò via con tanta energia che l'album si aprì e scivolò per un pezzo sul pavimento con le pagine spiegazzate. “Lo sai che il tuo processo va male?” “Pare anche a me”, disse K. “Mi sono affaticato in ogni modo, ma finora senza successo. D'altra parte non ho ancora l'istanza pronta.” “Come t'immagini che finisca?” - chiese il prete. “Prima pensavo che dovesse finir bene”, disse K, “ora ne dubito molto anch'io, a volte. Non so come finirà. Tu lo sai?” “No”, disse il prete, “ma temo che finirà male. Ti si ritiene colpevole. Il tuo processo forse non perverrà nemmeno oltre un tribunale di basso grado. Almeno per il momento si ritiene la tua colpa come dimostrata.” “Io però non sono colpevole”, disse K. “Si tratta di un errore. Ma come può, in genere, un uomo essere colpevole? Siamo tutti uomini, qui, uno come l'altro.” “E' giusto”, disse il prete, “ma così parlano di solito i colpevoli.” “Anche tu hai un pregiudizio contro di me?” - chiese K. “Nessun pregiudizio contro di te”, disse il prete. “Ti ringrazio”, disse K. “Ma tutti gli altri che partecipano al procedimento hanno un pregiudizio contro di me. Lo infondono anche in coloro che non ne fanno parte. La mia posizione diventa sempre più difficile.” “Tu fraintendi le cose”, disse il prete. “Il verdetto non arriva in una volta sola, è il procedimento che un po' alla volta si trasforma in verdetto.” “Dunque è così”, disse K e abbassò il capo. “Che cosa vuoi fare prossimamente con la tua causa?” - chiese il prete. “Intendo cercare ancora aiuto”, disse K sollevando il capo per vedere come il prete valutava ciò. “Ci sono ancora certe possibilità che non ho sfruttato.” “Tu cerchi troppi aiuti estranei”, disse con tono di biasimo il prete, “specie tra le donne. Ma non ti accorgi che non è vero aiuto?” “Talvolta, anche spesso, potrei darti ragione”, disse K, “ma non sempre. Le donne hanno un gran potere. Se alcune donne che conosco potessi portarle a lavorare per me tutte insieme, mi imporrei. In particolare presso questo tribunale, che consiste quasi solo di donnaioli. Indica al giudice istruttore una donna da lontano e lui solo per arrivarci in tempo rovescia il tavolo del tribunale e l'imputato.” Il prete abbassò il capo verso il parapetto, solo ora la copertura del pulpito parve opprimerlo. Ma che razza di tempaccio doveva esserci fuori! Non era più una giornata fosca, era già notte fonda. Nessuna delle vetrocromie delle grandi finestre era in grado di interrompere il buio delle pareti anche solo con un bagliore. E proprio ora il sagrestano iniziava a spegnere una dopo l'altra le candele sull' altar maggiore. “Ce l'hai con me?” - chiese K al prete. “Forse non sai di che razza di tribunale sei al servizio.” Non ebbe alcuna risposta.” “Si tratta solo di esperienze mie”, disse K. In alto non vi fu parola. “Non volevo offenderti”, disse K. In quella il prete urlò verso K: “Ma non ce la fai a vedere più in là di due passi?” Urlata rabbiosa, ma insieme come di chi veda qualcuno cadere e senza volere urli perché è spaventato lui stesso.
Tacquero entrambi, ora, a lungo. Certo il prete non poteva vedere bene K nel buio che in basso dominava, mentre K, alla luce della piccola lampada, lo vedeva con chiarezza. Perché non scendeva, il prete? Non aveva tenuto mica una predica, aveva comunicato a K solo delle cose che, se lui ci avesse fatto attenzione per bene, probabilmente gli avrebbero fatto più danno che servirgli. Eppure a K pareva, quella del prete, senza dubbio un'intenzione buona, non era impossibile che il prete si unisse a lui, se scendeva, non era impossibile che lui ne ricevesse un decisivo e accettabile consiglio che, per esempio, indicasse non come si poteva influire sul processo, per dire, ma come sfuggirgli, come eluderlo, come poter vivere al di fuori di esso. Doveva esserci questa possibilità, negli ultimi tempi K ci aveva pensato più volte. Se però il prete conosceva una tale possibilità forse, se glielo si chiedeva, l'avrebbe rivelata nonostante che anche lui facesse parte del tribunale e nonostante che, quando K aveva criticato il tribunale, lui avesse represso la sua natura placida e addirittura si fosse messo a urlargli contro.
Non vuoi scendere?” - disse K. “Mica c'è da fare una predica. Vieni giù da me.” “Ora posso venire”, disse il prete, forse pentito della sua urlata. Mentre toglieva la lampada dal gancio, disse: “dapprima fui costretto a parlarti da lontano. Altrimenti mi lascio influenzare facilmente e dimentico il mio compito.”
K lo attese in fondo alla scala. Il prete gli tese la mano già da un gradino sopra, mentre scendeva. “Hai un po' di tempo per me?” - chiese K. “Quanto te ne serve”, disse il prete porgendo la piccola lampada a K perché la portasse. Anche da vicino non andava perduta una certa solennità del suo essere. “Sei molto gentile con me”, disse K. Camminavano su e giù uno accanto all'altro nella buia navata laterale. “Sei un'eccezione tra tutti quelli che fanno parte del tribunale. Mi fido più di te che di ogni altro di quelli che già conosco. Con te posso parlar chiaro.” “Non ti illudere”, disse il prete. “Ma illudermi a proposito di che?” - chiese K. “Ti fai illusioni sul tribunale”, disse il prete, “negli scritti introduttivi alla Legge è trattata tale illusione: davanti alla Legge sta un guardiano della porta. Da lui arriva un uomo dalla campagna e lo prega di farlo accedere alla Legge. Tuttavia il guardiano dice che subito non può concedergli l'accesso. L'uomo riflette e poi chiede se più tardi potrà accedervi. 'E' possibile', dice il guardiano, 'ma ora no.' Dato che il portone d'accesso alla Legge è libero come sempre e il guardiano si pone a lato, l'uomo si sporge a guardare dentro attraverso il portone. Quando il guardiano se ne accorge, ride e dice: 'se tanto ti attira, prova a entrare, nonostante il mio divieto. Ma attento: io sono potente. E sono solo il guardiano di più basso grado. Di aula in aula ci sono però uscieri uno più potente dell'altro. Già la vista del terzo nemmeno io posso tollerarla.' L'uomo di campagna non si è aspettato simili difficoltà, la Legge dev'essere a tutti e sempre accessibile, lui pensa, ma ora che guarda meglio il guardiano, il suo cappotto di pelliccia, il suo nasone a punta, la lunga e sottile barba nera alla tartara, decide che è meglio aspettare fino a quando non riceverà il permesso di accedere. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo lascia sedere di lato alla porta. Lì siede giorni e anni. Fa svariati tentativi di venir ammesso e stanca il guardiano con le sue preghiere. Il guardiano più volte dà luogo a modeste interrogazioni, gli chiede del suo luogo natio e di molto altro, ma si tratta di domande prive di partecipazione come quelle che fanno i gran signori, e in conclusione continua a ridirgli che ancora non può ammetterlo. L'uomo, che per il suo viaggio si è ben provvisto, adopera tutto, per quanto si tratti anche di valori, allo scopo di conquistare il guardiano. Questi accetta sì tutto, ma insieme dice: 'lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.' Durante quei molti anni l'uomo osserva il guardiano quasi ininterrottamente. Dimentica gli altri uscieri e questo, il primo, gli sembra l'unico ostacolo per accedere alla Legge. Maledice lo sfortunato caso, nei primi anni a voce alta, più tardi, quando invecchia, brontola soltanto, senza guardare il guardiano. Rimbambisce e poiché nello studiare per lunghi anni il guardiano ha acquisito la conoscenza anche delle pulci presenti nel bavero della sua pelliccia, prega anche le pulci di aiutarlo e di far cambiare idea al guardiano. Infine gli s'indebolisce la vista né sa se attorno a lui si fa veramente più buio o se gli occhi lo ingannano. Però è capace di riconoscere ora nel buio un brillio che inestinguibile proviene dalla porta della Legge. Non vive più a lungo, ora. Prima di morire nella sua testa tutte le esperienze di tutto quanto il tempo si riassumono in una domanda che ancora lui non ha posto al guardiano. Gli fa un cenno, dato che non riesce più ad alzarsi con il suo corpo irrigidito. Il guardiano è costretto a chinarsi profondamente, difatti la differenza di taglia tra loro è cambiata molto a sfavore dell'uomo. 'Ma che cosa vuoi ancora sapere?' - chiede il guardiano, 'sei insaziabile.' 'Tutti mirano alla Legge', dice l'uomo, ' ma com'è che in tanti anni nessuno, oltre a me, ha chiesto di essere ammesso?' Il guardiano comprende che l'uomo è già arrivato alla fine e, per riuscire a farsi sentire da quelle orecchie morenti, gli grida: 'qui nessun altro poteva ottenere di essere ammesso, quest'entrata era destinata solo a te. Ora vado a chiuderla.' “
Dunque il guardiano ha ingannato l'uomo”, disse subito K, tutto preso dalla storia. “Non aver troppa fretta”, disse il prete, “non accettare l'opinione di estranei senza metterla alla prova. Ti ho riferito la storia testualmente. Non v'è niente che parli d'inganno.” “Invece è chiaro”, disse K, “e la tua prima lettura era giustissima. Il guardiano ha fatto la comunicazione liberatoria solo allorquando essa non poteva più aiutare l'uomo.” “Non venne interrogato, prima”, disse il prete, “considera che era solo un guardiano e come tale ha fatto il suo dovere.” “Perché dici che ha fatto il suo dovere?” - chiese K, “non l'ha fatto. Il suo dovere forse era respingere tutti gli estranei, ma quell'uomo era destinato all'accesso, lui avrebbe dovuto farlo passare.” “Non sei stato abbastanza attento al testo e cambi la storia”, disse il prete. “La storia contiene in merito all'accesso alla Legge due spiegazioni importanti da parte del guardiano, una all'inizio, una alla fine. Nell'una dice 'che non poteva subito concedergli l'accesso', e nell'altra: 'questo accesso era destinato solo a te.' Se ci fosse tra queste due spiegazioni una contraddizione allora avresti ragione tu e il guardiano avrebbe ingannato l'uomo. Orbene, non c'è però alcuna contraddizione. Al contrario, la prima spiegazione accenna alla seconda, perfino. Il guardiano andò oltre il suo dovere, si potrebbe dire, nel prospettare all'uomo la futura possibilità di essere ammesso. In quel momento sembra essere stato suo dovere solo respingere l'uomo. E in effetti molti esegeti si meravigliano del fatto che il guardiano abbia fatto quell'accenno, difatti egli pare amar la correttezza e veglia severo sul suo ufficio. Per molti anni non lascia il suo posto e chiude il portone solo all'ultimo, è assai consapevole dell'importanza del suo servizio, difatti dice: 'io sono potente', ha rispetto per i superiori, difatti dice 'sono solo l'ultimo degli uscieri'; com'è suo dovere lui non si fa commuovere né esasperare, difatti dell'uomo si dice che 'stanca il guardiano con le sue preghiere'; non è ciarliero, difatti durante molti anni pone solo domande, sta scritto, 'senza partecipazione'; non è corruttibile, difatti in merito a un dono dice di prenderlo 'solo perché' l'uomo 'non creda di aver trascurato qualcosa'; infine anche il suo aspetto esteriore, il nasone a punta e la lunga barba sottile alla tartara, indica un carattere pedante. Può esserci un guardiano più ligio al dovere? Orbene, però in lui sono commisti anche altri tratti caratteriali che, per chi desidera l'ammissione alla Legge, sono assai positivi e rendono pur sempre comprensibile che lui in quell'accenno a una futura possibilità potesse essere andato un po' oltre il suo dovere. Voglio dire che è innegabile che lui sia un po' semplicista e, in rapporto a ciò, un po' presuntuoso. Anche se le sue affermazioni circa il suo potere, circa il potere degli altri guardiani e circa la loro vista perfino a lui intollerabile – dico, anche se tutte queste affermazioni dovessero essere corrette, il modo in cui lui le formula indica però che il suo comprendonio è offuscato dall'ingenuità e dalla superbia. Gli esegeti dicono: comprensione corretta di una cosa e comprensione scorretta della medesima cosa non si escludono a vicenda del tutto. Comunque si deve ammettere però che ogni ingenuità e presunzione, per quanto si mostrino forse al minimo, indeboliscono la sorveglianza dell'accesso, si tratta di lacune nella fermezza del guardiano. Inoltre il guardiano sembra essere per natura gentile, non è assolutamente sempre un uomo d'ufficio. Fin dai primi momenti per scherzo nonostante il vigente divieto di ingresso invita l'uomo, poi non lo manda via, diciamo così, ma gli dà uno sgabello, come sta scritto, e lo fa sedere da una parte davanti alla porta. La pazienza con cui per anni e anni tollera le preghiere dell'uomo, i brevi colloqui, l'accettazione dei doni, l'eleganza con cui ammette che l'uomo lì a due passi deprechi a voce alta l'infelice caso che ha messo sul posto il guardiano – tutto questo lascia concludere che in lui vi siano sentimenti compassionevoli. Non tutti i guardiani avrebbero agito così. E da ultimo basta un cenno perché lui si chini tutto verso l'uomo per dargli l'opportunità della domanda finale. Appena un po' d'impazienza – il guardiano sa che è davvero la fine – si esprime nelle parole 'sei insaziabile'. Diversi esegeti vanno oltre, con tale modalità esplicativa, e opinano che le parole 'sei insaziabile' esprimano una sorta di amichevole stupore del resto non privo di simpatia. Comunque così la figura del guardiano si definisce diversamente da come tu ritieni.” “Tu credi dunque che l'uomo non venne ingannato?” “Non equivocare le mie parole”, disse il prete, “ti segnalo solo le opinioni che ci sono in merito. Non devi badare troppo alle opinioni. Il testo è immutabile e sovente le opinioni sono soltanto un'espressione di disperazione ad esso riferita. In questo caso c'è perfino un'opinione secondo cui proprio il guardiano è la persona ingannata.” “E' un'opinione estensiva”, disse K, “che fondamento ha?” “Il fondamento”, rispose il prete, “sta l'ingenuità del guardiano. Si dice che egli non conosce l'interno della Legge, ma solo il percorso che davanti all'ingresso lui deve sempre ripercorrere. Ciò che egli s'immagina dell'interno viene ritenuto infantile e si suppone che lui stesso tema l'oggetto della paura che vuol incutere all'uomo. Anzi lo teme più dell'uomo, difatti questi non vuole nient'altro che entrare, anche quando è venuto a sapere dei terribili guardiani che ci sono all'interno, al contrario il guardiano non vuole entrare, almeno, nulla se ne sa. Altri dicono, è vero, che in precedenza nell'interno dev'esserci stato, il guardiano, difatti un tempo è stato assunto al servizio della Legge, cosa che può avvenire solo nell'interno. A ciò si può rispondere che lui potrebbe esser stato fatto guardiano tramite una nomina dall'interno, ma all'interno potrebbe non esserci stato, per lo meno non molto all'interno, dato che non riesce a tollerare già la vista del terzo guardiano. A parte ciò, tuttavia, non si dice che in tanti anni egli abbia riferito qualcosa dell'interno, a parte quel che disse circa i guardiani. Potrebbe esser stato proibito farlo, ma neppure della proibizione egli riferisce qualcosa. Da ciò si conclude che lui non sa nulla di come si presenta e di quale sia il significato dell'interno, per questo s'inganna. Tuttavia lui forse s'inganna anche sull'uomo di campagna, difatti gli è subordinato, e non lo sa. Che lui tratti l'uomo come un subordinato si capisce da molte cose, non te ne scordare. Che però di fatto gli sia subordinato deve risultare, secondo tale opinione, altrettanto chiaramente. Prima di tutto il libero cittadino è anteposto al cittadino soggetto a controllo. Orbene, l'uomo è di fatto libero, può andare dove vuole, solo l'accesso alla Legge gli è proibito e inoltre solo da un singolo, dal guardiano. Se si siede di lato al portone sullo sgabello e ci resta per tutta la vita, ciò avviene per sua libera volontà, la storia non riferisce di alcuna costrizione. Al contrario il guardiano è legato dal suo ufficio al suo posto, non ha il permesso di allontanarsi, ma stando all'apparenza non può neanche andare nell'interno, anche volendo. Oltre a ciò lui è sì al servizio della Legge, ma nei limiti di questo ingresso, dunque anche solo per quest'uomo al quale soltanto è destinato quest'ingresso. Anche per questo motivo il guardiano gli è subordinato. E' ipotizzabile che per anni e anni, durante l'età virile, egli abbia prestato un servizio privo di scopo, difatti viene detto che viene un uomo, dunque qualcuno di età virile, che dunque il guardiano dovette attendere a lungo prima che il suo compito si realizzasse, così a lungo quanto all'uomo aggradava, il quale venne tuttavia di sua volontà. Tuttavia anche il termine del servizio viene determinato dal termine della vita dell'uomo, fino al termine il guardiano gli rimane subordinato. E continua a essere sottolineato che di tutto questo il guardiano non sembra sapere nulla. In ciò non viene visto però nulla di scandaloso, difatti stando a quest'opinione il guardiano si ritrova in un più grave inganno, che riguarda il suo servizio. Da ultimo, mi spiego, egli parla dell' entrata e dice 'ora vado e la chiudo', ma all'inizio sta scritto che il portone alla Legge è libero come sempre, ma se è libero come sempre, vale a dire sempre, indipendentemente dalla durata della vita dell'uomo cui è destinato, allora nemmeno il guardiano lo potrà chiudere. Su questo le opinioni si dividono: annunciando che chiuderà il portone il guardiano vuol dare solo una risposta, o vuol rimarcare il suo dovere, oppure all'ultimo momento vuol far pentire l'uomo e rattristarlo? In molti però concordano su fatto che lui il portone non potrà chiuderlo. Addirittura ritengono che alla fine egli sia subordinato all'uomo anche in quel che lui sa, difatti l'uomo vede il brillio che viene fuori dall'ingresso della Legge, mentre il guardiano, come tale, sta con le spalle al portone e in nessun modo mostra di aver notato un cambiamento.” “E' ben fondata quest'opinione”, disse K, che sottovoce aveva ricapitolato per sé , della spiegazione del prete, i singoli punti. “Ben fondata, ora credo che anche il guardiano s'inganni. Con ciò non ho abbandonato la mia opinione di prima, difatti entrambe in parte coincidono. Non è determinante che il guardiano abbia le idee chiare o invece s'inganni. L'uomo viene ingannato, dissi. Se il guardiano ha le idee chiare si potrebbe avere il dubbio se l'uomo venga, o non venga, ingannato; ma se il guardiano s'inganna, allora il suo essere ingannato necessariamente deve trasferirsi sull'uomo. Il guardiano no, non è affatto un impostore, ma allora è così ingenuo che dovrebbe subito essere cacciato dal suo servizio. Puoi però considerare che l'inganno in cui si trova il guardiano non lo danneggia per niente, mentre danneggia l'uomo millanta volte.” “Qui incorri in una opinione contraria”, disse il prete. “Voglio dire, molti dicono che la storia non dà ad alcuno il diritto di giudicare in merito al guardiano. A parte il modo come egli ci appare, è un servitore della Legge, dunque le appartiene, dunque è distolto dal giudizio umano. Si può poi anche non credere che il guardiano sia subordinato all'uomo. Esser legato dal suo servizio, anche solo all'accesso alla Legge, è incomparabilmente di più che non vivere liberi nel mondo. L'uomo alla Legge viene e basta, il guardiano c'è già. Dalla Legge è destinato al servizio, dubitare del suo esserne degno, significa dubitare della Legge.” “Con tale opinione non sono d'accordo”, disse K scuotendo la testa, “difatti se si aderisce a essa, si deve ritenere vero tutto quel che il guardiano dice. Che però ciò non sia possibile, tu stesso lo hai dettagliatamente motivato.” “No”, disse il prete, “non si deve ritenere tutto vero, si deve solo ritenerlo necessario.” “Opinione triste”, disse K. “La menzogna viene trasformata in ordinatrice del mondo.”
K lo disse a mo' di conclusione, ma non era il suo un giudizio definitivo. Era troppo stanco per poter tener d'occhio tutte le conseguenze argomentative della storia, inoltre i ragionamenti a cui essa lo portava erano insoliti, astrazioni più adatte alle discussioni della compagnia dei funzionari del tribunale che a lui. Quella semplice storia era diventata un qualcosa d'informe, lui voleva sbarazzarsene e il prete, ora dimostrando un gran tatto, fu tollerante e tacque all'osservazione di K, nonostante che certo non coincidesse con la sua propria.
Continuarono per un po' a camminare in silenzio, K tenendosi stretto al prete senza sapere, nella tenebra, dove si trovasse. La lampada che aveva in mano s'era da molto spenta. A un tratto proprio davanti a lui luccicò la statua argentea d'un santo solo per il brillare dell'argento, e subito risparì nel buio. Per non abbandonarsi del tutto al prete, K gli chiese: “Non siamo nelle vicinanze dell'ingresso principale?” “No”, disse il prete, “ne siamo lontani. Vuoi già andartene?” Nonostante che in quel momento K non ci pensasse, disse subito: “Certo, devo andare. Sono procuratore in una banca, mi aspettano, sono venuto solo per mostrare a un collega straniero il duomo.” “Be'”, disse il prete porgendogli la mano, “allora va'.” “Ma non riesco da solo a orientarmi nel buio”, disse K. “Tieniti a sinistra alla parete”, disse il prete, “poi seguila senza lasciarla e troverai un'uscita.” S'era allontanato di pochi passi, il prete, e già K lo chiamava a voce altissima: “per favore, aspetta.” “Aspetto”, disse il prete. “Non vuoi ancora qualcosa da me?”, chiese K. “No”, disse il prete. “Fosti così gentile con me, poco fa”, disse K, “mi hai spiegato tutto, ora invece mi abbandoni come se non t'importasse nulla di me.” “Ma devi andare”, disse il prete. “Sì, certo”, disse K, però abbi considerazione.” “Abbine tu, prima, di chi sono io”, disse il prete. “Sei il cappellano del carcere”, disse K e gli si avvicinò, il suo immediato ritorno in banca non era così necessario come l'aveva presentato, poteva ben restare ancora lì. “E faccio parte del tribunale”, disse il prete. “Perché dunque dovrei voler qualcosa da te. Il tribunale da te non vuole nulla. Ti riceve quando vieni, e ti lascia quando vai.”

venerdì 12 giugno 2020

Franz Kafka: Il processo - 8


Block, commerciante
Licenziamento dell'avvocato

Alla fine K aveva deciso di ritirare la procura all'avvocato. Non mancavano certo dubbi circa la giustezza di agire in quel modo, ma prevalse la costrizione della necessità. La decisione lo aveva privato, il giorno in cui si dispose ad andare dall'avvocato, di molta energia lavorativa, lavorò in modo particolarmente lento, dové restare molto a lungo in ufficio ed erano già passate le 10 quando finalmente fu davanti alla porta dell'avvocato. Ancor prima di suonare rifletté se non fosse meglio licenziare l'avvocato per telefono o con una lettera, parlarci di persona sarebbe stato certo molto spiacevole. Nonostante ciò K in definitiva non voleva rinunciare al colloquio, con ogni altra modalità il licenziamento sarebbe stata accolto in silenzio o con poche parole formali, né K avrebbe mai saputo, se non avesse potuto diciamo sondare Leni, come l'avvocato l'avesse presa e qual mai conseguenza per K potesse avere questo licenziamento secondo l'opinione non irrilevante dell'avvocato. Nel caso invece che, seduto davanti a K, l'avvocato fosse rimasto sorpreso dal licenziamento, K avrebbe potuto facilmente apprendere dalla sua faccia e dal suo atteggiamento tutto quel che voleva, anche se l'avvocato non si fosse fatto strappare granché. Addirittura non era escluso che K venisse convinto del fatto che invece era bene lasciare la difesa all'avvocato, e ritirasse il licenziamento.
La prima scampanellata fu come al solito a vuoto. “Leni potrebbe essere più svelta”, pensò K. Era tuttavia già un vantaggio se il resto dei pigionali non s'immischiavano come al solito, che si trattasse dell'uomo in vestaglia o di qualche altro scocciatore. Mentre K premeva per la seconda volta il pulsante guardò dietro di sé l'altra porta, ma stavolta anch'essa restò chiusa. Finalmente apparvero allo spioncino della porta dell'avvocato due occhi, ma non erano quelli di Leni. Qualcuno aprì la porta, ma vi si appoggiò ancora contro, per il momento, e gridò “è lui” in direzione dell'appartamento; solo allora aprì del tutto. K s'era addossato alla porta, difatti già sentiva che dietro di sé alla porta dell'altro appartamento la chiave veniva girata in fretta nella serratura. Per cui quando finalmente gli si aprì davanti la porta lui addirittura si precipitò nell'anticamera riuscendo a vedere che nell'andito divisorio tra le stanze Leni, la destinataria del grido di avviso, scappava in camicia. La guardò per un attimo e poi si voltò verso chi aveva aperto. Era un omino secco con la barba, e reggeva una candela. “Lavorate qui?” chiese K. “No”, rispose quell'uomo, “non sono di casa, l'avvocato è solo mio difensore, mi trovo qui per motivi legali.” “Senza giacca?” chiese K muovendo una mano a indicare l'inadeguato abbigliamento di quell'uomo. “Oh, perdonatemi”, disse quello facendo luce con la candela su di sé, come se vedesse solo ora il proprio stato. “Leni è la vostra amante?” chiese sintetico K. Aveva le gambe un po' divaricate, febbrili le mani con cui teneva il cappello, dietro di sé. Si sentiva molto superiore a quel magrolino già per il fatto di possedere un bel soprabito. “Dio mio”, disse quello alzando le mani davanti alla faccia a mo' di atterrita protezione, “no, no, ma cosa vi viene in mente?” “Sembrate credibile”, disse K sorridendo, “comunque – venite.” Con il cappello gli fece un cenno e lo fece andare avanti. “Ma come vi chiamate?” chiese K mentre procedevano. “Block, sono Block, commerciante”, disse il piccoletto voltandosi verso K mentre si presentava, ma K non gli permise di fermarsi. “E' il vostro vero nome?” chiese K. “Certo”, fu la risposta, “ma perché ne dubitate?” “Pensavo che poteste aver motivo di nasconderlo”, disse K. Si sentiva libero come avviene quando all'estero si parla con gente umile, tutto quel che ci riguarda lo si tiene per sé, si parla degli interessi altrui solo con indifferenza, si dà loro importanza ai nostri occhi, ma si può anche lasciarli perdere, a piacimento. Presso l'uscio dello studio dell'avvocato K si fermò, aprì e gridò al commerciante, che obbediente era andato oltre: “non così in fretta! Fatemi luce.” K pensava che Leni potesse essersi rimpiattata lì, fece in modo che il commerciante cercasse in ogni angolo, ma la stanza era vuota. Dinnanzi al ritratto del giudice K trattenne il commerciante per le bretelle. “Lo conoscete?” chiese indicando il quadro. Il commerciante alzò la candela, guardò ammiccando e disse: “è un giudice.” “Di grado elevato?” chiese K mettendosi di fianco al commerciante per osservare l'impressione che il quadro gli faceva. Questi guardò in su stupito e disse: “si tratta di un alto giudice.” “Non avete mica molto occhio”, disse K, “tra i giudici istruttori di basso grado lui è quello di grado più basso.” “Ora ricordo”, disse il commerciante abbassando la candela, “già l'ho sentito dire.” “E' naturale”, esclamò K, “stavo dimenticandomi che naturalmente dovete già averlo sentito dire.” “E perché poi, perché?” chiese il commerciante, intanto che spronato dalle mani di K si muoveva verso la porta. Oltre la quale, nell'andito, K disse: “ma lo sapete dove s'è nascosta Leni?” “Nascosta?” disse il commerciante, “no, potrebbe essere in cucina a preparare la minestra all'avvocato.” “Perché non lo avete detto prima?” chiese K. “Anzi, stavo per condurvici, ma mi avete richiamato indietro”, rispose il commerciante, come confuso da quegli ordini contraddittorii. “Credete davvero di essere molto furbo”, disse K, “conducetemi dunque!” Nella cucina K non era ancora mai stato, era sorprendentemente grande e riccamente attrezzata. Solo il fornello era grande il triplo dei normali fornelli, per altro non se ne vedevano punto i dettagli, difatti la cucina era illuminata solo da una piccola lampada appesa presso l'entrata. Al fornello c'era Leni in grembiule bianco come sempre, che svuotava delle uova in una pentola posta su un fuoco a spirito. “Buona sera Joseph”, disse, laterale il suo sguardo. “Buona sera”, disse K indicando con una mano una sedia, da una parte, su cui doveva sedersi il commerciante, cosa che questi fece. K invece si avvicinò tutto alla schiena di Leni, le si piegò su una spalla e chiese: “chi è quest'uomo?” Leni con una mano lo strinse mentre con l'altra rigirava la minestra, se lo attirò davanti e disse: “è un uomo da compiangere, un povero commerciante, un certo Block. Ti basta guardarlo.” Entrambi dettero un'occhiata. Il commerciante stava sulla sedia indicatagli da K, aveva la candela di cui la luce, che ora non serviva, era stata spenta con un soffio, e con un dito premeva lo stoppino per impedire che fumasse. “Tu eri in camicia”, disse K voltandole di nuovo la testa verso il fornello. Lei taceva. “E' il tuo amante?” chiese K. Lei stava allungando una mano verso la pentola, invece K gliele prese entrambe, le mani, e disse: “rispondi dunque!” lei disse: “vieni nello studio, ti spiegherò tutto.” “No”, disse K, “voglio che lo spieghi qui.” Gli si attaccò e voleva baciarlo, ma K se ne distolse e disse: “non voglio che tu ora mi baci.” “Joseph”, disse Leni in tono di preghiera eppur tuttavia guardandolo fermamente negli occhi, “non sarai geloso del signor Block?” “Rudi”, disse poi, rivolta al commerciante, “dammi una mano, lo vedi che mi s'incolpa, lascia perdere la candela.” Si sarebbe potuto pensare che lui non ci avesse badato, ma seguiva tutto. “Non saprei perché dovreste essere geloso”, disse, un po' riluttante. “Non lo so, in effetti”, disse K e guardò il commerciante con un risolino. Leni rise forte, approfittò della disattenzione di K per mettersi tra le sue braccia e mormorò: “Ora basta, lo vedi che razza di uomo è. Me lo sono preso un po' a cuore perché è un grosso cliente dell'avvocato, per nessun altra ragione. E tu? Vuoi parlare anche oggi con l'avvocato? Oggi sta molto male, ma se vuoi ti annuncio lo stesso. Tu resti con me stanotte, però, senza alcun dubbio. Non sei stato più da molto tempo qui, anche l'avvocato ha chiesto di te. Non trascurare il processo! Anch'io ho da comunicarti svariate cose che ho saputo. Ora però per prima cosa togliti il cappotto!” Lo aiutò a toglierselo, gli prese il cappello, corse in anticamera per appenderli, poi tornò e controllò la minestra. “Devo annunciarti prima, o prima devo portargli la minestra?” “Annunciami, prima”, disse K. Era irritato, aveva avuto inizialmente intenzione di discutere bene con Leni del suo caso, in particolare dell'intenzione di licenziare l'avvocato, ma la presenza del commerciante gliene aveva tolto la voglia. Ora però considerò la sua cosa troppo importante perché questo commerciante da quattro soldi dovesse intervenirvi in modo magari decisivo, per cui richiamò Leni, che già era nell'andito. “Portagli prima la minestra”, disse, “bisogna che si rimetta in forze per parlare con me, ne avrà bisogno.” “Anche voi siete un cliente dell'avvocato”, disse piano dal suo angolo il commerciante, come volesse fare una verifica. Che però non venne accolta bene. “E cosa ve ne importa?” disse K, e a Leni: “E tu, zitta.” “Allora gli porto prima la minestra”, disse Leni a K e versò la minestra in un piatto. “C'è da temere solo che si addormenti alla svelta, dopo mangiato si addormenta presto.” “Quel che gli dirò lo terrà sveglio”, disse K, aveva perdurante l'intenzione di lasciar intuire che lui progettava di discutere qualcosa d'importante con l'avvocato, voleva che Leni gli chiedesse cos'era e solo dopo intendeva chiederle un consiglio. Lei invece eseguì alla lettera gli ordini, e basta. Passandogli vicino con la scodella intenzionalmente lo urtò con delicatezza e mormorò: “quando avrà mangiato la minestra ti annuncio subito in modo che io possa averti di nuovo prima possibile.” “Vai, vai”, disse K. “Sii più gentile però”, disse lei e si diresse alla porta con la scodella.
K la seguì con lo sguardo; era dunque deciso definitivamente che l'avvocato sarebbe stato lasciato, davvero era meglio che lui prima non ne potesse parlare con Leni, che non aveva abbastanza presente l'insieme della faccenda e certo lo avrebbe sconsigliato; se stavolta gli avesse impedito di licenziare l'avvocato lui sarebbe rimasto inquieto e dubbioso e alla fine, dopo un certo tempo, avrebbe messo in atto la sua risoluzione, difatti essa era troppo stringente. Quanto prima l'avesse messa in atto tanto più danno sarebbe stato evitato. Forse però il commerciante aveva qualcosa da dire, in merito.
K si voltò, il commerciante non appena se ne accorse voleva alzarsi subito. “Restate seduto”, disse K spostando una sedia dov'era l'altro. “Siete un vecchio cliente dell'avvocato?” chiese K. “Sì”, disse il commerciante, “molto vecchio.” “Ma da quanti anni vi rappresenta?” chiese K. “Non so in che senso dite”, disse il commerciante, “nelle cause di diritto commerciale – io commercio cereali – l'avvocato mi rappresenta da quando ho iniziato, quindi da 20 anni; nel mio processo, cui probabilmente vi riferite, da più di 5 anni.” “Sì, da più di 5 anni”, proseguì, tirando fuori un vecchio portafogli, “qui ho annotato tutto, se volete vi dico la data precisa. E' difficile tenere a mente tutto. Il mio processo probabilmente è iniziato prima, iniziò poco dopo la morte di mia moglie, e lei è morta da più di 5 anni e mezzo.” K gli si avvicinò. “E così l'avvocato s'incarica anche di cause normali?” chiese. Il collegamento dei tribunali con le scienze giuridiche pareva a K tranquillante in modo straordinario. “Certo”, disse il commerciante e poi mormorò a K: “si dice addirittura che in queste cause legali egli sia più capace che nelle altre.” Poi però parve pentirsi di quello che aveva detto, mise una mano sulle spalle a K e disse: “vi prego, non mi tradite.” K gli dette un colpetto su una coscia per tranquillizzarlo e disse: “no, io non sono davvero un traditore.” “Mi spiego, è vendicativo”, disse il commerciante. “Non farà certo nulla contro un cliente tanto fedele”, disse. “Eh no”, fece il commerciante, ”quando gli gira male non fa nessuna differenza, comunque non è che io gli sia fedele, in effetti.” “E come?” chiese K. “Ve lo devo confessare?” chiese dubbioso il commerciante. “Penso che possiate permettervelo”, disse K. “Dunque”, disse il commerciante, “ve lo confesserò in parte, ma anche voi dovete dirmi un segreto, in modo che nei confronti dell'avvocato siamo pari.” “Siete molto cauto”, disse K, “ma io vi dirò un segreto che vi tranquillizzerà in pieno. In cosa consiste dunque la vostra infedeltà nei confronti dell'avvocato?” Il commerciante, incerto e in un tono come se confessasse qualcosa di disonesto, disse:”ci ho un altro avvocato, oltre a lui.” “Non è mica una cosa tanto malvagia”, disse K un po' deluso. “In questa sede sì”, disse il commerciante - per via della sua confessione respirava ancora a fatica, ma dopo l'osservazione di K riacquistò fiducia. “Non è consentito. E assolutamente non è consentito assumere oltre a un avvocato, diciamo così, anche uno pseudoavvocato. E io ho fatto proprio questo, ne ho 5 di pseudoavvocati.” “Cinque!” esclamò K, stupefatto dal numero, “cinque oltre a questo?” Il commerciante annuì: “e sono in trattativa anche con un 6°.” “Ma che ve ne fate di tutti questi avvocati?” chiese K. “Mi servono tutti”, disse il commerciante. “Non volete spiegarmelo?” chiese K. “Volentieri”, disse il commerciante. “Prima cosa non voglio perdere il mio processo, il che è evidente. Di conseguenza non mi posso permettere di trascurare nulla che potrebbe essermi utile; anche se la speranza di una utilità, in un certo caso, è minima, non posso rifiutarla. Ecco perché ho investito tutto quello che possiedo nel processo. Così ho disinvestito tutti i soldi dal mio commercio, per esempio; prima i miei uffici riempivano quasi un piano, oggi basta una stanzetta sul retro dove lavoro con un apprendista. Tale arretramento ha causato com'è naturale non solo il disinvestimento dei soldi, ma anche quello della mia energia dal lavoro. Se si vuol fare qualcosa per il proprio processo, ci si può occupare del resto solo poco.” “Dunque anche voi avete da penare col tribunale?” chiese K. “E' proprio quello su cui mi piacerebbe sapere qualcosa.” “Ne so ben poco”, disse il commerciante, “all'inizio ci ho anche provato, a informarmi, ma presto ci ho rinunciato. E' troppo faticoso e non ha successo. Darsi da fare e negoziare, anche sul posto, almeno per me si è dimostrato come assolutamente impossibile. Già il puro e semplice star seduti in attesa sfinisce. Certo lo sapete che aria pesante c'è negli uffici di cancelleria.” “Ma come lo sapete che io ci sono stato?” chiese K. “Per l'appunto mi trovavo nella stanza di attesa quando voi siete passato di lì.” “Ma che combinazione!” esclamò K, tutto preso e dimentico della precedente ridicolezza del commerciante, “dunque mi avete visto. Eravate nella stanza di attesa quando ci sono passato. Certo che ci sono passato, una volta.” “Non è una combinazione così notevole”, disse il commerciante, “ci sono quasi ogni giorno, lì.” “Io ora dovrò andarci, è probabile anche più volte”, disse K, “solo che sarà difficile che io venga ricevuto con tutti gli onori come allora. Tutti si alzarono. Si pensava certo che fossi un giudice.” “No”, disse il commerciante, “quella volta si salutò l'usciere. Lo sapevamo che voi eravate un imputato. Notizie simili fanno molto presto a diffondersi.” “Dunque già lo sapevate”, disse K, “allora però la mia condotta forse vi sembrò arrogante. Lo si disse?” “No”, disse il commerciante, “al contrario. Ma si tratta di sciocchezze.” “Sciocchezze in che senso?”, chiese K. “Perché lo volete sapere?” disse il commerciante seccato, “pare che ancora non conosciate quella gente lì, e magari finireste per non capire. Dovete tener presente che in questo tipo di procedimenti non si smette mai di parlare di molte cose cui la capacità di comprensione non arriva, si è semplicemente troppo stanchi e distratti per capirle, tutte quelle cose, e al posto loro ci si applica alla superstizione. Parlo degli altri, ma anch'io non sono affatto migliore. Una superstizione del genere è per esempio voler cogliere il genere di conclusione del processo dal viso dell'imputato, in particolare dal disegno delle labbra. Quella gente dunque ha ritenuto di concludere dalle vostre labbra che sareste stato di certo condannato, e presto. E' una ridicola superstizione, ripeto, e nella maggioranza dei casi anche completamente contraddetta dai fatti, ma quando si vive in quella compagnia di persone è difficile sottrarsi a simili opinioni. Considerate solo quanto fortemente possa agire questa superstizione: avete parlato a uno lì, no? E quello riuscì a rispondervi a mala pena. Ci sono naturalmente molti motivi per essere confusi, in quel luogo, ma uno di questi motivi fu la vista delle vostre labbra. Più tardi quello ha riferito che lui aveva creduto di vedere sulle vostre labbra anche il segno della sua propria condanna.” “Le mie labbra?” chiese K, tirò fuori uno specchietto tascabile e vi si guardò. “Dalle mie labbra non riesco a riconoscere nulla di particolare. E voi?” “Nemmeno io”, disse il commerciante, “assolutamente.” “Quant'è superstiziosa quella gente!” esclamò K. “Non ve lo dissi io?” chiese il commerciante. “Si frequentano tanto tra di loro per cui si scambiano le loro opinioni?” disse K. “Io finora mi sono tenuto del tutto in disparte.” “In generale non si frequentano tra loro”, disse il commerciante, “non sarebbe possibile, sono talmente numerosi. E ci sono anche pochi interessi in comune. Se talvolta in un gruppo emerge la credenza circa un interesse comune ciò presto si dimostra un errore. Nulla in comune ha luogo a dispetto del tribunale. Ogni caso viene istruito separatamente, si tratta davvero del tribunale più accurato. Nulla in comune dunque ha luogo a dispetto del tribunale, solo un singolo ottiene talvolta qualcosa, in segreto; lo vengono a sapere gli altri solo in seguito; nessuno sa com'è successo. Non v'è dunque alcuna comunanza, certo, di tanto in tanto ci si raduna nelle stanze d'attesa, ma lì si conversa poco. Le opinioni superstiziose esistono già dai tempi antichi e si moltiplicano da sé, in pratica.” “Vidi quei signori nella stanza d'attesa”, disse K, “ebbi l'impressione che attendessero così invano.” “Non è vana l'attesa”, disse il commerciante. “Vano è solo intervenire in modo indipendente. Già dissi che ora oltre a questo ho altri 5 avvocati. Se ne dovrebbe concludere – io stesso all'inizio lo feci – che io ora dovrei lasciar loro la causa, interamente. Tuttavia ciò sarebbe falso. Io posso delegare loro meno che se ne avessi uno solo. Lo capite bene, no?” “No”, disse K, e per frenare il troppo rapido discorso del commerciante, gli mise una mano su una mano, per placarlo, “vorrei pregarvi di parlare più lentamente, si tratta di cose molto importanti per me, è chiaro, e non riesco a seguire com'è giusto.” “E' bene che voi me lo ricordiate”, disse il commerciante, “certo siete un novizio, un giovane. Il vostro processo risale a mezzo anno fa, nevvero? Ne ho già sentito parlare. Un processo talmente giovane! E invece io a queste cose ci ho pensato innumerevoli volte, sono quanto di più evidente ci sia al mondo.” “Vi fa piacere che il vostro processo sia in tale stato di avanzamento?” chiese K, che non voleva arrivare a chiedere come stessero le cose del commerciante. Non ebbe però alcuna chiara risposta. “Sì, tiro la carretta del mio processo da 5 anni”, disse il commerciante e abbassò la testa, “non è mica un'impresa da poco.” Poi fece una pausa in silenzio. K allungò le orecchie, tante volte non arrivasse Leni. Non voleva che venisse, da una parte, difatti aveva molte domande da fare, né desiderava venir trovato da Leni in quel colloquio confidenziale con il commerciante, d'altra parte era seccato per il fatto che lei, nonostante la sua presenza, restava tanto a lungo presso l'avvocato, molto più di quanto servisse a servirgli la minestra. “Mi ricordo ancora bene”, ricominciò il commerciate subito ricatturando l'attenzione di K “dell'epoca in cui il mio processo aveva all'incirca l'età che ha ora il vostro. Allora avevo solo quest'avvocato, ma non ero molto soddisfatto di lui.” “Ora io imparo ogni cosa, qui”, pensò K annuendo vivacemente come se in quel modo potesse incoraggiare il commerciante a dire tutto quel che contava. “Il mio processo”, seguitò il commerciante, “non procedeva, certo avevano luogo assise istruttorie, io ero presente a tutte, raccoglievo materiale, tenevo in regola tutta la mia contabilità presso il tribunale, cosa che come più tardi appresi non era nemmeno necessaria, non facevo che correre dall'avvocato e lui presentava svariate istanze ...” “Svariate istanze?” chiese K. “Sì, certo”, disse il commerciante. “Questo per me è molto importante”, disse K, “nel mio caso lui sta ancora lavorando alla prima istanza. Ancora non ha fatto niente. Mi trascura in modo vergognoso.” “Che l'istanza non sia ancora pronta, può avere diversi giustificati motivi”, disse il commerciante. “Del resto più tardi si è dimostrato che erano del tutto senza valore. Ne ho addirittura letta io stesso una per la compiacenza di un funzionario del tribunale. Era certo erudita, ma in effetti priva di contenuto. Prima di tutto moltissimo latino, che io non capisco, poi paginate di generici appelli al tribunale, poi lusinghe rivolte a singoli funzionari, certo non nominati, ma che comunque un iniziato era costretto a indovinare, poi autoglorificazione dell'avvocato, laddove egli si umiliava in modo addirittura canino al cospetto del tribunale, infine riferimenti a casi giuridici del passato che dovevano essere simili al mio. Certo erano riferimenti, nei limiti in cui riuscivo a seguirli, eseguiti con grande accuratezza. Con tutto ciò non voglio giudicare affatto il lavoro dell'avvocato, del resto l'istanza che ho letto era solo una tra diverse altre, comunque, e di questo intendo parlare ora, io allora non riuscii a vedere alcun passo avanti nel mio processo.” “Ma quale passo avanti volevate vedere?” chiese K. “Domanda ragionevole, la vostra”, disse il commerciante con un risolino, “in questo tipo di procedimenti si riescono a vedere solo rari passi avanti. Allora però non lo sapevo. Sono un commerciante e ai tempi lo ero più di ora, volevo progressi tangibili, il tutto doveva da sé volgere alla fine o almeno procedere in modo regolare. E invece c'erano solo udienze che per lo più avevano lo stesso contenuto; le risposte le avevo già pronte, a litania; più volte ogni settimana messi del tribunale venivano nel mio ufficio, nella mia abitazione o dove riuscivano a incontrarmi, ciò com'è naturale era seccante (oggi almeno da questo punto di vista va molto meglio, la chiamata telefonica disturba molto meno), anche tra i miei colleghi in affari, e in special modo tra i miei parenti cominciarono a diffondersi voci in merito al mio processo, ciò provocò danni molteplici, tuttavia non v'era il minimo indizio che indicasse che avrebbe avuto luogo prossimamente anche soltanto il primo dibattimento in tribunale. Andai quindi dall'avvocato e mi lamentai. Certo mi dette lunghe spiegazioni, ma si rifiutò deciso di far qualcosa secondo quel che pensavo io, nessuno poteva influire sulla data del dibattimento, inserire in un'istanza tale questione – come desideravo – era semplicemente inaudito e avrebbe rovinato me e lui. Pensai: ciò che questo avvocato non vuole o non può, lo vorrà o potrà un altro. Cercai dunque un altro avvocato. Voglio subito anticiparlo: nessuno ha chiesto od ottenuto che fosse stabilito l'inizio del dibattimento, ciò è, certo con una eccezione di cui ancora parlerò, davvero impossibile, in relazione a ciò dunque questo avvocato non mi ha deluso; del resto tuttavia non ebbi da rammaricarmi di essermi rivolto anche a un altro avvocato. E' possibile che abbiate sentito parlare parecchio, da parte del dottor Huld, degli pseudoavvocati, probabile che ve li abbia descritti come molto spregevoli, e veramente essi lo sono. Tuttavia gli sfugge sempre, quando ne parla e paragona a loro sé e i suoi colleghi, un piccolo errore su cui voglio attirare, di passaggio, anche la vostra attenzione. Lui definisce gli avvocati della sua cerchia, per distinguerli, i 'grandi avvocati'. Ciò è falso. Com'è naturale ognuno può definirsi 'grande', se gli garba, ma in questo caso decide soltanto l'usanza del tribunale. Stando a essa, mi spiego, ci sono, a parte gli pseudoavvocati, anche i piccoli e i grandi avvocati. Quest'avvocato qui e i suoi colleghi sono però solo piccoli avvocati, i grandi avvocati, di cui ho solo sentito parlare e che mai ho visto, hanno un rango senza confronti più alto, rispetto ai piccoli avvocati, di quanto i piccoli avvocati lo abbiano rispetto ai disprezzati pseudoavvocati.” “I grandi avvocati?” chiese K. “E chi sarebbero? Come ci si arriva?” “Voi dunque non ne avete mai sentito parlare”, disse il commerciante. “A mala pena c'è un imputato che, dopo esserne stato informato, non se li sogni per un po' di tempo. Meglio che non vi facciate sedurre da ciò. Chi siano i grandi avvocati non lo so, né ci si può neppure arrivare. Non conosco alcun caso in cui si possa dire che essi siano intervenuti. Difendono parecchia gente, ma di propria volontà non ci si perviene, essi difendono solo chi vogliono difendere. La causa che si assumono deve tuttavia risultare di livello superiore al tribunale di basso grado. Per il resto è meglio non pensare a loro, altrimenti i colloqui con gli altri avvocati, i loro consigli e la loro assistenza, a uno appaiono talmente stomachevoli e inutili, io l'ho imparato da solo, che quando va bene si vorrebbe buttar via tutto, mettersi a letto e non sentirne più. Ciò com'è naturale sarebbe di nuovo la cosa più stupida, neppure a letto si riposerebbe a lungo.” “Dunque non pensaste, ai tempi, ai grandi avvocati?” chiese K. “Non a lungo”, disse il commerciante facendo un nuovo risolino, “dimenticarseli completamente purtroppo non si può, specie di notte pensarci rinfranca. Tuttavia ai tempi io desideravo un risultato immediato, per cui andai dagli pseudoavvocati.”
Ma come state seduti vicini!” esclamò Leni, che era tornata con la scodella e sostava sulla porta. In effetti sedevano vicinissimi, al minimo movimento erano costretti a urtarsi con le teste, il commerciante che, a parte la sua piccolezza, teneva anche le palle curve, aveva costretto anche K a chinarsi parecchio, se voleva sentire ogni parola. “Ancora un momento”, gridò K per fermare Leni e mosse con impazienza la mano che aveva continuato a tenere su una mano del commerciante. “Voleva che gli riferissi del mio processo”, disse il commerciante a Leni. “Riferisci pure, riferisci”, disse lei. Parlava con affetto al commerciante, eppur tuttavia con degnazione, a K questo dispiacque; come ora aveva capito, quell'uomo non mancava di un certo valore, per lo meno aveva esperienze che sapeva comunicare bene. Leni probabilmente lo giudicava male. La guardò seccato per come gli levava la candela che il commerciante aveva tenuto stretta per tutto il tempo, gli puliva col grembiule la mano e gli s'inginocchiava accanto per grattar via un po' di cera che gli era sgocciolata sui calzoni. “Mi stavate raccontando degli pseudoavvocati”, disse K levando la mano di Leni risoluto. “Ma che vuoi?” chiese Leni tentando di colpire leggermente K e continuando quel che faceva. “Certo, degli pseudoavvocati”, disse il commerciante e si passò una mano sulla fronte, come per riflettere. K gli venne in aiuto e disse: “volevate un successo rapido per cui andaste dagli pseudoavvocati.” “Proprio così”, disse il commerciante, ma non continuò. “Forse non vuole parlarne davanti a Leni”, pensò K, represse la sua impazienza di sentire subito il resto e non insisté oltre.
Mi hai annunciato?” chiese a Leni. “Certo”, disse lei, “ti aspetta. Ora lascia stare Block, ci puoi parlare dopo, lui rimane qui.” K indugiava ancora. “Restate qui?” chiese al commerciante, voleva aver risposta da lui, non voleva che Leni ne parlasse come di un assente, oggi verso di lei era pieno di una rabbia segreta. Di nuovo, però, rispose solo Leni: “dorme spesso qui.” “Dorme qui?” esclamò K, aveva pensato che il commerciante sarebbe stato ad aspettare solo lui mentre avrebbe alla svelta finito di parlare con l'avvocato, poi però sarebbero andati via insieme e avrebbero parlato a fondo e indisturbati di tutto. “Sì”, disse Leni, “non è che tutti come te, Joseph, vengono fatti passare dall'avvocato quando vogliono. Non sembri proprio stupito del fatto che l'avvocato nonostante che stia male ti riceva alle 11 di sera. Dai quello che i tuoi amici fanno per te troppo per scontato. Ora, i tuoi amici lo fanno, o almeno io lo faccio volentieri. Non voglio alcun altro grazie, né mi serve, se non che tu mi abbia a cuore.” “Avere a cuore te?” si chiese lì per lì K, poi ci pensò meglio, “ma sì, la ho a cuore.” Tuttavia disse, trascurando il resto: “mi riceve perché sono suo cliente. Se anche per camminare servisse l'aiuto altrui, a ogni passo si dovrebbe insieme pregare e dir grazie.” “E' davvero cattivo oggi, nevvero?” chiese Leni al commerciante. “Ora sono io l'assente”, pensò K e s'incattivì quasi con il commerciante quando questi, adottando la scortesia di Leni, disse: “l'avvocato lo riceve anche per altri motivi. Voglio dire, il suo caso è più interessante del mio. Inoltre il suo processo è all'inizio, dunque probabilmente ancora non molto imbrogliato, per cui l'avvocato ci s'impegna ancora volentieri. Più avanti cambierà.” “Sì sì”, disse Leni e guardò con un sorrisetto il commerciante, “quanto chiacchiera lui. Guarda”, disse rivolgendosi a K, “non gli credere proprio. Tanto è caro, quanto è chiacchierone. Forse per questo l'avvocato non lo può soffrire. Comunque lo riceve solo se ne ha voglia. Mi sono sforzata tanto per cambiare questa cosa, ma è impossibile. Pensa, capita che io annunci Block, e lui lo riceve solo dopo 3 giorni. Ma se Block nel momento in cui viene chiamato non è presente tutto è perduto e lui deve di nuovo essere annunciato. Ecco perché gli ho dato il permesso di dormire qui, è già successo che l'avvocato abbia suonato per lui durante la notte. Dunque Block è pronto, ora, anche di notte. Per dir la verità ora capita di nuovo che l'avvocato, se risulta che Block sia qui, talvolta non confermi l'ordine di farlo passare.” K guardò interrogativo il commerciante. Questi annuì e, chiaro come aveva parlato prima con K, disse, forse distratto a causa della vergogna: “sì, col tempo si diventa molto dipendenti dal proprio avvocato.” “Si rammarica solo in apparenza”, disse Leni. “Dorme qui molto volentieri, come già spesso mi ha confessato.” Andò a una porticina e la spinse. “Vuoi vedere la sua stanza da letto?” chiese. K ci andò e dalla soglia guardò l'interno di un locale basso privo di finestra completamente occupato da un lettino su cui si era costretti a salire scavalcandone la spalliera. Dalla parte della testiera c'era una rientranza nel muro in cui, meticolosamente ordinati, si trovavano una candela, penna e calamaio, e un fascio di carte, probabili scritti processuali. “Dormite nella camera da letto della ragazza di servizio?” chiese K voltandosi verso il commerciante. “Leni me l'ha ceduta”, rispose il commerciante, “è molto comoda.” K lo guardò a lungo; la prima impressione che il commerciante gli aveva fatto era dopotutto stata giusta; aveva esperienza per il fatto che il suo processo durava già da molto tempo, ma l'aveva pagata cara. D'improvviso K non resse più la vista del commerciante. “E portalo a letto”, gridò a Leni, che non sembrò neppure capire. Lui però intendeva andare dall'avvocato per licenziarlo e liberarsi non solo di lui, ma anche di Leni e del commerciante. Ancor prima che fosse arrivato alla porta, il commerciante gli si rivolse a voce bassa: “signor procuratore.” K si girò incattivito. “Vi siete dimenticato la vostra promessa”, disse il commerciante proteso verso K, da dov'era seduto, con aria supplicante, “mi volevate dire un segreto.” “E' vero”, disse K sfiorando con uno sguardo Leni, che attenta lo guardava, “ascoltate dunque, e quasi non si tratta più affatto di un segreto. Ora vado dall'avvocato per licenziarlo.” “Lo licenzia, lui!”, esclamò il commerciante, saltò giù dalla sedia e corse in giro nella cucina, le mani sollevate. Seguitava e gridare: “licenzia l'avvocato!” Leni intendeva buttarsi subito su K, ma il commerciante le andò tra i piedi, per cui si prese un pugno. Ancora con le mani strette a pugno Leni si buttò poi dietro a K, che però era già balzato molto oltre. Quasi entrato nella camera dell'avvocato, Leni andò a riprenderlo. Lui aveva quasi chiuso la porta dietro di sé, ma Leni, tenendo uno spiraglio aperto con un piede, lo prese per un braccio e voleva tirarlo indietro. Lui però le strinse il polso con tanta forza che lei fu costretta a lasciarlo, gemendo. Né osò entrare subito nella camera, e K chiuse la porta a chiave.
Vi attendo già da molto”, disse l'avvocato dal letto, appoggiò sul tavolino da notte un documento che aveva letto alla luce di una candela, e si mise gli occhiali con cui guardò severo K. Invece di scusarsi K disse: “me ne vado via presto.” Senza fare attenzione a quel che aveva detto K, che non era affatto una giustificazione, egli disse: “non vi farò più passare in futuro a un'ora così tarda.” “Ciò si accorda con quel che desidero”, disse K. L'avvocato lo guardò interrogativo. “Sedetevi”, disse. “Se volete”, disse K, spinse una sedia vicina al tavolino da notte e si accomodò. “Mi sembra che abbiate chiuso la porta a chiave”, disse l'avvocato. “Sì”, disse K, “per via di Leni”. Pareva intenzionato a non fare sconti. L'avvocato tuttavia chiese: “E' stata di nuovo invadente?” “Invadente?” chiese K. “Sì”, disse l'avvocato, rise, ebbe un accesso di tosse e, finito di tossire, ricominciò a ridere. “Ma non ci avete già fatto caso alla sua invadenza?” chiese, e dette un colpetto sulla mano che K, perplesso, aveva appoggiato sul tavolino da notte e che ora svelto tirò indietro. “Non date molta importanza alla cosa”, disse l'avvocato, visto che K taceva, “tanto meglio. Altrimenti avrei forse dovuto scusarmi con voi. Si tratta di una particolarità di Leni, del resto è tanto che la vizio, non ne parlerei se proprio ora voi non aveste chiuso la porta a chiave. Certo questa particolarità dovrei spiegarla a voi meno che a tutti, ma mi guardate così costernato per cui lo faccio, questa particolarità consiste nel fatto che Leni trova belli quasi tutti gli imputati. Si affeziona a tutti, ama tutti e comunque pare che da tutti venga amata; per intrattenermi poi capita spesso che me ne faccia il resoconto, se glielo permetto. Non sono stupito dall'intera cosa come sembrate esserlo voi. A ben guardare spesso troviamo gli imputati davvero belli. Si tratta certo di uno strano fenomeno della scienza naturale, diciamo. All'incirca sopravviene, come conseguenza dell'accusa, è ovvio, non proprio un mutamento chiaro dell'aspetto, preciso. Non è però come nelle altre faccende del tribunale: i più restano nel loro abituale modo di vivere e, se hanno un bravo avvocato che si preoccupa di loro, non vengono molto impediti dal processo. Ciò nonostante coloro che hanno esperienza in materia sono in grado di riconoscere nella più gran massa i singoli imputati, uno per uno. Da cosa? - voi chiederete. La mia risposta non vi soddisferà. Gli imputati sono per l'appunto i più belli. Non può esser la colpa che li rende belli, difatti – così devo dire, almeno, come avvocato – non sono tutti colpevoli, non può essere nemmeno la futura pena a renderli belli, ora, difatti non divengono tutti oggetto di pena, dunque ciò può risiedere solo nel procedimento contro di loro intentato, che in qualche modo gli resta addosso. Certo tra i belli ve n'è di belli in particolare. Tuttavia tutti sono belli, anche Block, questo misero verme.”
K era, quando l'avvocato ebbe finito, completamente preso, aveva perfino annuito in modo vistoso alle ultime parole e aveva messo in dubbio anche la sua vecchia opinione, che l'avvocato cercava sempre, anche stavolta, con discorsi generali che non c'entravano con la causa, di distrarlo e di distoglierlo dalla questione principale, ciò che lui aveva fatto davvero per la causa di K. L'avvocato vide bene che stavolta K gli opponeva più resistenza del solito, difatti tacque per dare a K la possibilità di parlare anche lui, poi, dato che non diceva nulla, gli chiese: “oggi siete venuto da me con un'intenzione precisa?” “Sì”, disse K e mise una mano davanti alla candela per vedere meglio l'avvocato, “volevo dirvi che con oggi vi ritiro il patrocinio.” “Sto capendovi bene?”, chiese l'avvocato, si sollevò a metà sul letto appoggiandosi con una mano ai cuscini. “M'immagino di sì”, disse K che stava seduto rigidamente eretto e come all'erta. “Ora, noi possiamo discutere anche di questo progetto”, disse l'avvocato dopo una pausa. “Non è più assolutamente un progetto”, disse K. “Può essere”, disse l'avvocato, “non precipitiamo, però.” Usava la parola “noi” come se non avesse intenzione di liberare K e come se volesse, anche non essendo più suo difensore, almeno restare suo consigliere. “Non precipitiamo affatto”, disse K, lentamente si alzò e passò dietro la sua sedia, “ci ho riflettuto bene e forse perfino troppo a lungo. La decisione è definitiva.” “Allora consentitemi solo qualche altra parola”, disse l'avvocato, tolse via il piumino e si mise sulla sponda del letto. Le gambe nude dai peli bianchi tremavano di freddo. Pregò K di prendergli una coperta dal canapè. K la prese e disse: “vi esponete a raffreddarvi senza alcuna necessità.” “La ragione è abbastanza importante”, disse l'avvocato ricoprendosi la parte superiore del corpo con il piumino e avviluppandosi le gambe nella coperta. “Vostro zio è mio amico e anche voi col tempo mi siete divenuto caro. Lo ammetto sinceramente. Non ho bisogno di vergognarmene. “ Tali parole sentimentali di quel vecchio furono assai moleste per K, difatti lo costringevano a una spiegazione estesa che volentieri avrebbe evitato e inoltre lo mettevano in imbarazzo, come sinceramente ammise con se stesso, anche se certo non potevano mai farlo retrocedere dalla decisione presa. “Vi ringrazio della vostra gentile disposizione d'animo”, disse, “riconosco anche che voi vi siete assunto la mia causa tanto quanto vi è possibile e a mio vantaggio, come a voi sembra. Io però da ultimo mi sono convinto che ciò non basta. Com'è naturale non cercherò mai di mettermi a convincere della mia opinione un uomo tanto anziano ed esperto; se talvolta senza volerlo ci ho provato, perdonatemi, la causa però, come voi stesso vi esprimeste, è abbastanza importante e, secondo la mia convinzione, è necessario intervenire nel processo con molta più energia di quanto è avvenuto fin qui.” “Capisco”, disse l'avvocato, “siete impaziente.” “Non sono impaziente”, disse K leggermente risentito e senza badare più tanto a quel che diceva. “In occasione della mia prima visita, quando venni insieme a mio zio, forse avete notato che del processo non m'importava molto; se non me lo ricordavano per forza, io me lo dimenticavo completamente. Tuttavia lo zio insisteva che vi affidassi il mio patrocinio, e lo feci per essergli ben accetto. Ci si sarebbe ora aspettati che il processo si facesse più facile di prima, per me, difatti si affida il patrocinio all'avvocato per liberarsi un po' del peso del processo. Ma è avvenuto l'opposto. Mai prima io ebbi tanto grandi preoccupazioni a causa del processo come da quando mi rappresentate voi. Quand'ero da solo non prendevo alcuna iniziativa circa la mia causa, ma a mala pena me ne accorgevo, ora invece avevo un patrocinatore, tutto era indirizzato al fine che avvenisse qualcosa, di continuo e sempre con maggior tensione aspettavo che voi interveniste, ma ciò tardava. Ricevetti certo da voi svariate comunicazioni sul tribunale che forse da nessun altro avrei potuto ricevere. Tuttavia ciò non può bastarmi quando ora il processo, praticamente in segreto, mi si accosta sempre più.” K s'era liberato della sedia e stava lì con le mani nelle tasche della giacca. “Da un certo momento dell'azione in poi”, disse piano e tranquillo l'avvocato, “non avviene più nulla di essenzialmente nuovo. Quante parti si sono, come voi, in simili stadi del processo presentate davanti a me ed hanno parlato come voi!” “E hanno, tutte queste parti, avuto ragione”, disse K, “come me. Ciò non mi confuta.” “Non volevo confutarvi”, disse l'avvocato, “intendevo aggiungere che da voi mi sarei atteso più capacità di giudizio che da altri, specie perché vi ho spiegato il carattere del tribunale e della mia pratica più di quanto altrimenti faccio con le parti. E ora sono costretto a vedere che nonostante tutto non vi fidate abbastanza di me. Non mi venite incontro.” Come si umiliava l'avvocato davanti a K! Non aveva alcun riguardo per l'onore della categoria che, certo in questi momenti, è il più sensibile. E perché lo faceva? In apparenza era un avvocato con molto lavoro e inoltre un uomo ricco, non poteva importargli molto in sé e per sé né del danno economico né della perdita di un cliente. Inoltre era di salute cagionevole e avrebbe dovuto tenere in buona considerazione il fatto che gli fosse risparmiato del lavoro. Eppure si teneva stretto K. Perché? Si trattava di partecipazione personale nei confronti dello zio, o davvero lui vedeva il processo di K come veramente tanto straordinario e sperava di segnalarsi, a K o – possibilità quasi mai da escludere – agli amici presso il tribunale? Impossibile indovinare qualcosa guardandolo, anche nel modo sfacciatamente inquisitorio di K. Si sarebbe potuto quasi supporre che l'avvocato aspettasse l'effetto delle sue parole con una faccia intenzionalmente inespressiva. Tuttavia era chiaro che interpretava il silenzio di K in modo troppo positivo, ai suoi fini, quando riprese a parlare: “avrete notato che ho certo un grosso ufficio, ma che non ho assistenti. Prima era diverso, una volta alcuni giovani laureati in giurisprudenza lavoravano per me, oggi lavoro da solo. Ciò dipende in parte dal cambiamento del mio operare, limitato sempre più a questioni giuridiche del tipo della vostra, in parte dalla conoscenza sempre più approfondita tratta da tali questioni giuridiche. Trovai che non mi era lecito lasciare tale lavoro a nessuno se non intendevo mancare nei confronti dei miei clienti e alla funzione che mi ero assunto. La decisione però di adempiere di persona a tutto il lavoro ebbe le naturali conseguenze: fui costretto a rifiutare quasi tutte le richieste di patrocinio e potei cedere solo a quelle che mi premevano specialmente – e c'è gente da poco, perfino vicino a me, che si precipita su ogni briciola che io butti via. Senza contare che l'eccesso di fatica mi rese ammalato. Ciò nonostante non mi pento della mia decisione, forse avrei dovuto rifiutare più patrocini di quel che ho fatto, che però io mi sia dato completamente ai processi assunti è divenuto con assoluta necessità evidente ed è stato ripagato dai successi. Una volta in uno scritto ho trovato assai ben espressa la differenza che c'è tra il patrocino nelle questioni giuridiche normali e il patrocinio in questioni giuridiche come quelle che ho scelto. Eccola: l'un avvocato trae il suo cliente, con un filo di refe, fino alla sentenza, l'altro subito se lo mette sulle spalle e lo porta fino alla sentenza, e oltre, senza deporlo. E' così. Tuttavia non era del tutto giusto quando dicevo che non mi pento mai di questa gran fatica. Quando essa, com'è nel vostro caso, viene così completamente disconosciuta, be', allora quasi mi pento.” K venne reso da quel discorso più impaziente che non convinto. In qualche modo ritenne di individuare, udendo la cadenza del tono dell'avvocato, che cosa lo aspettava se avesse ceduto: sarebbero ricominciate le promesse, i riferimenti ai progressi dell'istanza, alla migliore disposizione d'animo dei funzionari del tribunale, ma anche alle grandi difficoltà che si opponevano al lavoro – in breve sarebbe stato tirato in ballo tutto ciò che era noto fino alla nausea allo scopo di illudere ancora K con imprecisate speranze e tormentarlo con imprecisate minacce. Ciò doveva venir impedito in modo definitivo, per cui K disse: “Che cosa intendete intraprendere in merito alla mia causa, qualora conserviate il patrocino?” L'avvocato si rassegnò perfino a quella offensiva domanda e rispose: “andare avanti in ciò che ho già cominciato a fare per voi.” “Lo sapevo”, disse K, “ma ora parlarne ancora è inutile.” “Farò ancora un tentativo”, disse l'avvocato, quasi che quello che irritava K non avvenisse a K, ma a lui. “Mi spiego, ho l'impressione che voi veniate indotto dal fatto che vi si tratta, nonostante che siate imputato, troppo bene, o per meglio dire in modo negligente, con apparente negligenza, a giudizi sbagliati in merito non solo alla mia assistenza legale, ma anche in merito alla vostra condotta in genere. Ha un motivo anche il fatto che vi si tratti con negligenza; spesso è meglio essere in catene che liberi. Mi piacerebbe però mostrarvi come vengono trattati altri imputati, forse vi riesce trarne un insegnamento. Mi spiego, ora farò venire Block, aprite la porta e sedetevi qui presso il tavolino da notte. “ “Volentieri”, disse K facendo quel che aveva chiesto l'avvocato; a imparare era sempre pronto. Per sicurezza, caso mai, chiese: “avete però capito che vi ritiro la rappresentanza?” “Sì”, disse l'avvocato, “ma potete anche revocare tale atto oggi stesso.” Si rimise a letto, si tirò la trapunta fino al mento e si girò verso la parete. Quindi suonò.
Quasi insieme alla scampanellata apparve Leni, che cercò di capire con rapide occhiate che cosa fosse successo; che K sedesse tranquillo presso il letto dell'avvocato, parve placarne l'ansia. Annuì sorridendo a K, che la guardava fisso. “Va' a prendere Block”, disse l'avvocato. Invece di andarci Leni si mise davanti alla porta e chiamò: “Block! Dall'avvocato!” e sgattaiolò, forse perché l'avvocato restava voltato verso la parete disinteressandosi a tutto, dietro la sedia di K, iniziando a dargli noia; si protese oltre la spalliera della sedia, e gli passò le mani, d'altronde molto cauta e delicata, tra i capelli o sulle guance. Infine K cercò di impedirglielo, le afferrò una mano, e lei gliela abbandonò dopo un po' di resistenza.
Block era arrivato subito, al richiamo, ma restò sulla porta e parve che riflettesse, entrare o non entrare? Alzò le sopracciglia e piegò la testa come se stesse in attesa che venisse ripetuto il comando di venire dall'avvocato. K avrebbe potuto incoraggiarlo a entrare, ma si era proposto la rottura definitiva non solo con l'avvocato, ma con tutto ciò che era in quell'appartamento, di conseguenza restò immobile. Anche Leni taceva. Block vide che, almeno, nessuno lo cacciava via e in punta di piedi entrò, la faccia tesa, le mani contratte dietro la schiena. Aveva lasciato aperta la porta per magari ritirarsi. Non guardò affatto K, ma solo il piumino erto sull'avvocato che, spintosii vicinissimo alla parete, neppure era visibile. In quella se ne udì però la voce: “Block, sei qui?” chiese l'avvocato. La domanda di fatto fu per Block, che già era di nuovo retrocesso di un bel pezzo, una stoccata al petto e poi sulla schiena; vacillò, si fermò profondamente inchinato e disse: “a disposizione.” ”Cosa vuoi?” chiese l'avvocato, “vieni a sproposito.” “Non venni chiamato?” chiese Block più rivolto a se stesso che non all'avvocato, mise le mani avanti a mo' di difesa e fu pronto a squagliarsela. “Venisti chiamato”, disse l'avvocato, “ciò nonostante vieni a sproposito.” E dopo una pausa riprese: “vieni sempre a sproposito.” Dopo che l'avvocato aveva iniziato a parlare Block non guardava verso il letto, fissava invece lo sguardo verso un angolo, a caso, e si limitava a stare in ascolto, quasi che vedere chi parlava fosse troppo accecante per poterlo sopportare. Era dura anche stare in ascolto, difatti l'avvocato parlava rivolto al muro, non solo, ma a voce bassa e svelto. “Desiderate che me ne vada?” chiese Block. “Visto che sei qui”, disse l'avvocato, “resta!” Si sarebbe potuto credere che l'avvocato non avesse esaudito il desiderio di Block, ma che lo avesse minacciato con un bastone, infatti ora Block iniziò davvero a tremare. “Ieri fui”, disse l'avvocato, “dal terzo giudice, mio amico, e pian piano ho portato il discorso su di te. Vuoi sapere che cosa disse?” “Oh, ve ne prego”, disse Block. Poiché l'avvocato non rispose subito, Block ripeté la richiesta abbassandosi come per inginocchiarsi. Allora K lo investì: “cosa fai?” gridò. Dal momento che Leni aveva voluto impedire tale richiamo di K, lui le afferrò anche l'altra mano. Non era la pressione dell'amore, quella con cui la strinse, e lei gemé a più riprese cercando di strappar le mani da lui. Tuttavia Block fu punito per il richiamo di K, infatti l'avvocato gli chiese: “ma chi è il tuo avvocato?” “Voi, lo siete”, disse Block. “E a parte me?” chiese l'avvocato. “Nessuno, a parte voi”, disse Block. “Allora non seguire nessun altro”, disse l'avvocato. Block approvò in pieno squadrando ostile K e scuotendo con violenza il capo al suo indirizzo. Traducendo tale condotta in parole, sarebbero state offese grossolane. E con un tipo simile K aveva voluto parlare amichevolmente della sua causa! “Non ti darò più noia”, disse K accomodatosi sulla sua sedia. “Inginocchiati, mettiti a quattro zampe, fa' quel che vuoi, a me non importa.” Tuttavia Block, almeno nei confronti di K, conservava la sua dignità, difatti andò verso di lui agitando i pugni e dichiarando a voce alta quanto la vicinanza dell'avvocato glielo permetteva: “Non potete permettervi di parlarmi così, non è consentito. Perché mi offendete, per di più qui davanti al signor avvocato, dove entrambi, voi e io, siamo tollerati per compassione? Non siete migliore di me, perché anche voi siete imputato e avete un processo. Se però, ciò nonostante, siete ancora un signore, lo sono anch'io, se non anche più importante. E voglio che mi si parli come a un signore, per l'appunto da parte vostra. Se però ritenete preferibile sedere tranquillo qui e permettervi di stare a sentire tranquillo, mentre io , come vi esprimeste, mi metto a quattro zampe, allora vi ricordo il vecchio detto: chi sotto accusa è meglio si muova e non stia quieto, perché chi sta quieto può sempre, senza saperlo, esser su un piatto della bilancia e venir pesato con la sua colpa.” K non disse nulla, limitandosi a guardare meravigliato, senza batter ciglio, quell'uomo confuso. Che razza di cambiamenti s'erano prodotti in lui, Block, già nelle ultime ore! Ciò dipendeva dal processo, che lo sbatteva da una parte all'altra e non gli permetteva di capire dov'era l'amico e dove il nemico? Non vedeva infatti che l'avvocato lo umiliava intenzionalmente e stavolta non mirava ad altro che a darsi delle arie davanti a K con il suo potere, e forse ad assoggettare anche K? Se Block però non era capace di capirlo, oppure se temeva l'avvocato al punto che capire non poteva servirgli, com'era possibile che fosse tanto scaltrito o tanto intrepido da ingannare l'avvocato tacendogli che lui faceva lavorare per sé altri avvocati a parte lui? E perché osava assalire K, dal momento che K poteva subito tradire quel segreto? Ma osò anche di più, andò al letto dell'avvocato e cominciò anche lì a reclamare in merito a K: “signor avvocato”, disse, “avete sentito come mi ha parlato quest'uomo. Si possono ancora contare le ore del suo processo e già vuol dare lezioni a chi è sotto processo da 5 anni. Addirittura mi ingiuria. Non sa nulla e ingiuria me, che nei limiti delle mie deboli forze ho studiato bene ciò che serve in fatto di buona creanza, di responsabilità e di regole tribunalizie.” “Non ti curare di nessuno”, disse l'avvocato, “e fa' ciò che ti pare giusto.” “Certo”, disse Block, come dandosi coraggio, e s'inginocchiò, dando una breve occhiata di lato, vicinissimo al letto.” “Sono in ginocchio, avvocato mio”, disse. Tuttavia l'avvocato taceva. Block sfiorò cauto con una mano il piumino. Nel silenzio ora dominante, Leni disse, mentre si liberava dalle mani di K: “mi fai male. Lasciami andare da Block.” Ci andò e si sedette sulla sponda del letto. Block fu molto contento del suo arrivo, subito la pregò a segni vivaci, ma muti, di perorare la sua causa con l'avvocato. Aveva chiaramente bisogno molto urgente delle informazioni dell'avvocato, ma forse per farle sfruttare dai suoi altri avvocati. Probabile che Leni sapesse bene come poter avvicinare l'avvocato, ne indicò una mano e appuntò le labbra a mo' di bacio. Subito Block, infatti, eseguì il baciamano e, su invito di Leni, lo ripeté una seconda volta. Però l'avvocato seguitava a tacere. Allora Leni si chinò su di lui mostrando, nell'allungarsi, la grazia della sua figura, e, piegata profondamente sul viso di lui, gli sfiorò i lunghi capelli bianchi. Questo gli strappò una risposta. “Esito a confidarglielo”, disse l'avvocato, e si vide che scrollava un po' il capo, forse per partecipare di più al tocco della mano di Leni. Block ascoltava a testa china, quasi trasgredisse un ordine stando in ascolto. “Ma perché esiti?” chiese Leni. K ebbe la sensazione come di udire un colloquio preparato, che già si era spesso ripetuto, che si sarebbe ripetuto spesso, e che non riusciva a perdere la sua originalità solo per Block. “Come si è comportato oggi?” chiese l'avvocato invece di rispondere. Prima che Leni si pronunciasse in merito guardò Block osservando per un poco come sollevava le mani verso di lei e pregandola le sfregava l'una con l'altra. Infine annuì seria, si volse all'avvocato e disse: “Tranquillo e diligente.” Un anziano commerciante, un uomo dalla lunga barba, implorava da una ragazzina un giudizio favorevole. Magari aveva anche retropensieri, tuttavia nulla poteva giustificarlo agli occhi di un suo simile. Egli degradava chi lo stava a guardare. K non capiva come l'avvocato avesse potuto pensare di conquistarlo con quell'esibizione. Se già non lo avesse liquidato, con quella scena l'avvocato avrebbe raggiunto lo scopo. Dunque agiva così il suo metodo, al quale per fortuna K non era stato esposto abbastanza a lungo: il cliente finiva con lo scordare il mondo intero e sperava solo di trascinarsi su tale via, sbagliata, verso il termine del processo. Né era più un cliente, era il cane dell'avvocato. Gli avesse ordinato di strisciare sotto il letto come in un casotto per cani e da lì di abbaiare, lo avrebbe fatto con piacere. Quasi K fosse incaricato di prender buona nota di tutto ciò che veniva detto lì, di renderne conto in più alto loco facendone rapporto, stette a sentire con meditata puntigliosità. “Che hai fatto tutto il giorno?” chiese l'avvocato. “L'ho chiuso nella stanza della donna di servizio, dove lui si trattiene di solito, perché non mi desse noia durante il lavoro” disse Leni. “Dal buco della serratura di tanto in tanto potevo controllare quel che faceva. Stava sempre in ginocchio sul letto, aveva aperto le carte che gli hai messo a disposizione sul davanzale e leggeva. Ciò mi ha bene impressionata; mi spiego, la finestra porta solo a un pozzo di ventilazione e quasi non fa nessuna luce. Che Block ciò nonostante leggesse mi mostrò quanto sia diligente.” “Mi rallegra sentirlo”, disse l'avvocato. “Ha anche apprezzato quanto letto?” Block durante tale scambio muoveva le labbra di continuo, chiaramente formulava le risposte che speranzoso si aspettava da Leni. “Non posso rispondere con precisione su questo, naturalmente”, disse Leni, “in ogni modo ho visto che leggeva con scrupolo. Ha letto per tutto il giorno la stessa pagina e mentre leggeva muoveva il dito sotto le righe. Quando lo guardavo ha sempre sospirato come se leggere gli facesse assai fatica. Le carte che gli hai messo a disposizione probabilmente sono difficili da capire.” “Sì”, disse l'avvocato, “lo sono certamente. E non credo che lui ci capisca qualcosa. Devono dargli solo un sentore di quanto sia difficile la battaglia che io conduco in sua difesa. E per chi la conduco, questa difficile battaglia? Per Block – è quasi da ridere dirlo - per Block. Anche quel che significa questo lui deve imparare a capire. Ha studiato ininterrottamente?” “Quasi”, rispose Leni, “solo una volta mi ha chiesto dell'acqua da bere. Allora gli ho porto un bicchiere dall'abbaino. Circa alle otto l'ho fatto uscire e gli ho dato qualcosa da mangiare.” Block sfiorò K con un'occhiata di sbieco quasi che venisse riferito di lui qualcosa di lodevole che doveva fare impressione anche a K. Parve ora che avesse buone speranze, si muoveva con più libertà e si spostò un poco sulle ginocchia. Tanto più chiaro fu come lui rimase di gelo alle parole dell'avvocato: “lo elogi”, disse. “Tuttavia proprio questo mi rende difficile parlare. Il giudice, mi spiego, non si è espresso in modo positivo , né su Block né sul suo processo.” “Non positivo?” - chiese Leni. “Com'è possibile?” Block la guardò in un modo carico di tensione, sembrava che le confidasse la capacità di trasformare, ora, a pro suo le parole da lungo tempo profferite dal giudice. “Non positivo”, disse l'avvocato. “Fu addirittura colpito sgradevolmente quando iniziai a parlare di Block. 'Non parlate di Block', disse. 'E' mio cliente', dissi. 'Voi vi lasciate manipolare', disse. 'Non ritengo la sua causa perduta', dissi. 'Voi vi lasciate manipolare', ripeté lui. 'Non credo', dissi. 'Block sta nel processo con diligenza e segue sempre la sua causa. Abita quasi presso di me per essere sempre al corrente. Non si trova sempre uno zelo simile. Certo personalmente è spiacevole, ha modi importuni ed è sporco, ma dal punto di vista del processo è inappuntabile.' Dissi inappuntabile, esagerai a bella posta. E lui disse: 'Block è scaltro e basta. Ha accumulato molta esperienza e sa differire il processo. Ma la sua insipienza è ancora più grande della sua scaltrezza. Che cosa direbbe, se venisse a sapere che il suo processo nemmeno è iniziato, se gli si dicesse che ancora non è suonato il campanello di inizio del processo?' Calma, Bolck”, disse l'avvocato, infatti Block stava levandosi incerte sulle ginocchia e chiaramente chiedeva di avere una spiegazione. Era la prima volta, in quel momento, che l'avvocato si rivolgeva a Block espressamente. Con gli occhi stanchi guardò metà nel nulla, metà verso Block, che a tale sguardo si rimise pian piano in ginocchio. “Quanto ha detto il giudice non ha alcun significato per te”, disse l'avvocato. “Non ti spaventare per ogni parola. Se ciò si ripete non ti dirò più proprio niente. Non si riesce a iniziare una frase senza che tu stia a guardare chi parla come se fosse in questione la tua sentenza definitiva. Vergognati, davanti al mio cliente! La fai vacillare anche tu la fiducia che egli ha in me. Ma che cosa vuoi? Sei ancora vivo, ancora sei sotto la mia protezione. Timore insensato! Hai letto da qualche parte che la sentenza definitiva in molti casi viene all'improvviso da una bocca qualsiasi, in un momento qualsiasi. Certamente ciò è vero, con molte riserve, ma è altrettanto vero però che la tua paura mi offende e che io vi vedo una mancanza della necessaria fiducia. Che ho mai detto? Ho riferito le parole di un giudice. Lo sai che diversi pareri si accumulano attorno al procedimento fino alla impenetrabilità. Questo giudice per esempio assume che il procedimento inizi in un momento diverso da quanto faccio io. Una differenza di opinioni, niente di più. In un certo stadio del processo si ha, stando a un uso antico, la scampanellata. Secondo il parere di questo giudice è allora che inizia il processo. Ora non posso dirti tutto quello che contraddice tale parere, non lo capiresti neppure, ti basti che è molto, a contraddirlo.” Confuso, Block passava le dita giù sulla pelliccia dello scendiletto, la paura causata dalle parole del giudice gli faceva dimenticare temporaneamente la propria sudditanza nei confronti dell'avvocato, non pensava che a sé e rigirava da ogni parte le parole del giudice. “Block”, disse Leni in tono di ammonizione tirandolo un po' su per il colletto. “Lascia perdere la pelliccia e sta' ad ascoltare l'avvocato.”