Nel duomo
K
fu incaricato di mostrare alcuni monumenti a un corrispondente
d'affari italiano molto importante per la banca, il quale soggiornava
per la prima volta in città. Era un incarico che in altri tempi lui
avrebbe ritenuto assai degno, ma, proprio ora che con molti sforzi
riusciva a conservare la sua reputazione in banca, vi si sottomise
controvoglia. Ogni ora che lui sottraeva all'ufficio gli procurava
ansia; certo non riusciva più, di gran lunga, a sfruttare l'orario
di lavoro come prima, trascorreva parecchie ore unicamente
mostrandosi massimamente bisognoso di lavorare davvero, ma se non si
trovava in ufficio maggiori diventavano le sue preoccupazioni.
Credeva poi di vedere che il vice direttore, il quale del resto era
stato sempre all'erta, di tanto in tanto veniva nel suo ufficio, si
sedeva alla sua scrivania, rovistava tra le sue carte, riceveva
clienti con i quali da anni K era quasi in amicizia e glieli portava
via, anzi forse scopriva perfino errori dai quali K si vedeva sempre
minacciato durante il lavoro da ogni parte, e non riusciva più a
evitare. Se lui veniva perciò incaricato in modo ancora così
lusinghiero sia di procedere a un affare sia di un piccolo viaggio –
simili incarichi si erano accumulati ultimamente del tutto a caso –
era ovvio in ogni caso supporre che lo si allontanasse per un po'
dall'ufficio e si volesse verificare il suo lavoro, o almeno che lo
si ritenesse facilmente sostituibile in ufficio. La maggior parte di
questi incarichi lui avrebbe potuto senza difficoltà scansarli, ma
non osava, infatti, se il suo timore era anche minimamente fondato,
evitare l'incarico significava ammettere la sua paura. Per cui li
assumeva con apparente tranquillità e arrivò a nascondere perfino,
dovendo fare un faticoso viaggio di 2 giorni, un brutto raffreddore,
solo per non esporsi al pericolo, se lui si fosse richiamato alla già
dominante stagione autunnale, piovosa, di venir trattenuto dal
viaggio. Quando con un mal di testa tremendo tornò da questo viaggio
seppe che per il giorno dopo era destinato ad accompagnare il
corrispondente d'affari italiano. Era assai sedotto dalla prospettiva
di rifiutarsi, almeno stavolta, prima di tutto ciò che gli era stato
destinato proprio non aveva connessione immediata con gli affari; il
compimento di questo dovere di tipo mondano nei confronti del
corrispondente d'affari in sé era senza dubbio abbastanza
importante, non solo per K, che pure lo sapeva di poter restare a
galla solo con dei successi professionali e, qualora ciò non gli
fosse riuscito, sapeva che era del tutto inutile che lui magari a
sorpresa incantasse quest'italiano; non voleva nemmeno per un giorno
venir spostato dall'ambito lavorativo, infatti il timore di non venir
più richiamato era troppo grande, era un timore che lui riconosceva
molto bene come esagerato, ma che però lo opprimeva. In questo caso
certamente era quasi impossibile escogitare un'obbiezione
accettabile, la conoscenza della lingua italiana da parte di K non
era certo molto grande, ma pur sempre sufficiente; decisivo era però
che K da anni possedesse delle conoscenze in storia dell'arte, cosa
che in banca era diventato esageratamente nota dal momento che K per
un periodo, del resto per motivi di lavoro, era stato membro della
Associazione per la Conservazione dei Monumenti Cittadini. Ora,
l'italiano, come si era saputo da voci, aveva la passione per l'arte,
e la scelta di K a suo accompagnatore fu per ciò scontata.
Era
una mattina molto piovosa e burrascosa quando K, irritatissimo a
causa della giornata che aveva davanti, fu in ufficio già attorno
alle sette per ultimare almeno un po' di lavoro prima che la visita
lo sottraesse a tutto. Era molto stanco, difatti aveva trascorso metà
della nottata a studiare una grammatica italiana per prepararsi un
po'; la finestra presso cui ultimamente troppo spesso sedeva lo
attirava più della scrivania, ma resisté e si mise al lavoro.
Purtroppo entrò l'usciere e annunciò che il signor direttore lo
aveva mandato a controllare se il signor procuratore era già in
sede; se era presente allora volesse essere così gentile di recarsi
nella sala di ricevimento, il signore dall'Italia era già là.
“Vengo subito”, disse K, ficcò in tasca un dizionarietto, prese
sotto braccio un album di Cose Cittadine Notevoli da Vedere che aveva
preparato per lo straniero e, attraversando l'ufficio del vice
direttore, andò in direzione. Era fortunato a esser venuto in
ufficio tanto presto e a poter essere a disposizione subito, ciò che
nessuno seriamente si era aspettato. L'ufficio del vice direttore era
com'è naturale ancora vuoto come in piena notte, probabilmente
l'usciere aveva dovuto chiamare anche lui nella sala di ricevimento,
ma a vuoto. Quando K entrò nella sala di ricevimento i due signori
si alzarono dalle loro profonde poltrone. Il direttore sorrise
gentile, chiaro che era molto soddisfatto della venuta di K, si
dedicò subito alle presentazioni, l'italiano scosse vigorosamente la
mano a K e nominò ridendo un certo personaggio mattiniero, K non
capì bene chi, si trattava inoltre di una parola particolare il cui
significato K indovinò solo dopo un certo tempo. Rispose con alcune
frasi forbite che l'italiano di nuovo accolse ridendo mentre più
volte nervoso si passava una mano sul pizzo grigio azzurro. Il pizzo
era certamente profumato, quasi si era tentati di avvicinarsi e di
annusarlo. Quando tutti si furono seduti, iniziando un discorsetto
preliminare, K si accorse con gran disagio di capire l'italiano solo
in modo frammentario. Quando parlava lentamente lui capiva quasi
tutto, erano però solo rare eccezioni, per lo più gli zampillavano
davvero le parole dalla bocca e scuoteva la testa, come godendone.
Quel che diceva s'imbrogliava regolarmente in un dialetto che per K
non aveva più nulla della lingua italiana, e che il direttore però
non solo capiva, ma anche parlava, ciò che K d'altra parte avrebbe
potuto prevedere, infatti l'italiano era originario del sud Italia,
dove anche il direttore era stato qualche anno. Comunque K riconobbe
che la possibilità d'intendersi con l'italiano era in gran parte
esclusa, difatti anche il francese che quello parlava era difficile
da capire, inoltre la barba gli nascondeva i movimenti delle labbra,
la cui vista forse sarebbe servita a capire. K iniziò a prevedere
molte noie, intanto rinunciò a voler capire l'italiano – in
presenza del direttore, che lo capiva tanto facilmente, sarebbe stato
uno sforzo inutile. Pur sprofondato in poltrona, si muoveva con
facilità, l'italiano, continuava a tirarsi la corta e attillata
giacchetta e, in un caso, le braccia sollevate, scioltamente muovendo
le mani sui polsi, cercò di descrivere qualcosa che K non riuscì a
capire - si limitò, piegato in avanti, pur senza togliersi le mani
che teneva davanti agli occhi, a osservare l'italiano. Infine
prevalse in K, che senza far altro si limitava a seguire
meccanicamente l'andamento del discorso, la stanchezza mattutina, e
spaventato in un caso si accorse del fatto che, per fortuna a tempo,
distrattamente stava per alzarsi, girarsi e andar via. Finalmente
l'italiano guardò l'orologio e saltò su. Congedatosi dal direttore,
si accostò tanto a K che questi fu costretto a spostare indietro la
sua poltrona per potersi muovere. Il direttore, che certo leggeva
negli occhi di K l'imbarazzo in cui si trovava nei confronti di
quell'italiano, s'infilò in ciò che questi diceva, ma con tanta
abilità e grazia che dette l'impressione di aggiungere solo modesti
consigli, mentre in realtà rendeva comprensibile in sintesi a K
tutto quello che l'italiano diceva, interrompendolo senza tregua. K
seppe così che l'italiano aveva per il momento ancora da curarsi di
certi affari, che avrebbe avuto solo poco tempo in tutto, che inoltre
proprio non intendeva fare in furia il giro di tutte le cose notevoli
da vedere, che invece – certo solo se K era d'accordo, a lui stava
decidere – aveva deciso di visitare unicamente il duomo, ma per
bene. Immensamente lieto di poter fare tale visita in compagnia di un
uomo tanto colto e amabile – così fu definito K, impegnato solo a
evitare l'eloquio dell'italiano per afferrare alla svelta le parole
del direttore – lo pregò, se gli andava bene, di trovarsi entro
due ore, circa alle 10, nel duomo. Quanto a lui sperava di poter
esserci con certezza, a quell'ora. K rispose a modino, l'italiano
strinse la mano prima al direttore, poi a K, poi di nuovo al
direttore e andò verso la porta, seguito da entrambi, voltato solo a
metà verso di loro, ma senza smettere di parlare. K rimase ancora un
poco insieme al direttore che quel giorno pareva davvero star poco
bene. Ritenne di doversi scusare con K e disse – stavano in piedi
confidenzialmente vicini – che dapprima aveva pensato di andarci
lui con l'italiano, ma poi – non spiegò perché – aveva
preferito mandarci K. Se all'inizio non lo capiva subito, non doveva
farsi confondere, molto presto si arrivava a capire, e poi,
nell'ipotesi di capir poco in genere, non era tutto questo male,
difatti per l'italiano non era mica tanto importante venir capito.
Del resto la conoscenza della lingua italiana di K era
sorprendentemente buona e lui si sarebbe adattato magnificamente alla
faccenda. Con ciò K fu congedato. Impiegò il tempo che gli rimaneva
a trascrivere dal dizionario vocaboli non comuni utili a far la guida
nel duomo. Lavoro faticoso assai: gli uscieri portarono la posta, gli
impiegati vennero a domandare cose varie e vedendo K impegnato
restarono sulla porta senza però andarsene fino a quando lui non
dette loro relazione, il vice direttore non mancò di dargli noia,
entrò e rientrò, gli prese il dizionario di mano e lo sfogliò
senza capirci nulla, chiaro, aprendosi la porta nella penombra
dell'anticamera dei clienti fecero capolino inchinandosi incerti,
volevano farsi vedere ma non erano sicuri di esser visti – tutto
questo si muoveva attorno a K come attorno al proprio centro, mentre
lui metteva insieme le parole che gli servivano, le cercava nel
dizionario, poi le trascriveva, si esercitava a pronunciarle e infine
si sforzava di impararle a memoria. La sua buona memoria di una volta
gli pareva di averla completamente perduta, a tratti s'infuriò
talmente con l'italiano, causa di quella sua fatica, che seppellì il
dizionario sotto le carte con la ferma intenzione di non prepararsi
più, poi però capì che non poteva passare di fronte alle opere
d'arte nel duomo senza dir nulla e ritirò fuori il dizionario con
rabbia accresciuta.
Proprio
attorno alle nove e mezzo, quando stava per andare, ci fu una
chiamata telefonica, Leni gli augurò il buongiorno e gli chiese come
stava, K ringraziò in fretta facendo notare che ora non poteva
mettersi a discorrere, perché doveva andare in duomo. “In duomo?”
- chiese Leni. K cercò di spiegarglielo in breve, ma aveva appena
iniziato a farlo che Leni disse di colpo: “ti stanno addosso.” K
non ebbe la pazienza di deplorare il fatto di non esserselo voluto
lui né aspettato, si congedò con due parole, ma mentre riattaccava
disse un po' a se stesso, un po' alla ragazza lontana, che non lo
sentiva più: “sì, mi stanno addosso.”
Però
s'era fatto tardi, quasi c'era il rischio di non arrivare puntuale.
Andò in automobile, all'ultimo momento s'era ricordato anche
dell'album che prima non aveva trovato occasione di proporre e che
per questo prese con sé. Se lo tenne sulle ginocchia e ci tamburellò
sopra per tutto il tragitto. La pioggia era diminuita, ma faceva
freddo, era scuro e umido, in duomo si sarebbe visto poco, però lì
a forza di stare sulle mattonelle gelide il raffreddore di K sarebbe
peggiorato molto.
La
piazza del duomo era completamente vuota, K si rammentò che già da
bambino lo aveva sorpreso il fatto che in quella stretta piazza quasi
tutte le imposte alle finestre delle case fossero abbassate. Col
tempo di oggi era del resto più comprensibile del solito. Anche
dentro il duomo pareva vuoto, naturalmente a nessuno veniva in mente
di venirci, ora. K percorse entrambe le navate laterali, incontrò
solo una vecchia avvolta in un caldo scialle inginocchiata dinnanzi a
un'immagine di Maria, e la guardò. Da lontano vide poi sparire in
una porta un sagrestano zoppo. K era arrivato puntuale, proprio al
suo ingresso erano suonate le 11, ma ancora l'italiano non c'era. K
tornò all'ingresso principale, vi restò per un po' indeciso e fece
poi un giro attorno al duomo, sotto la pioggia, per vedere se
l'italiano non fosse in attesa magari a una delle porte laterali. Non
trovò nessuno. Che il direttore avesse capito male l'ora? Come si
faceva del resto a capir bene quell'uomo? Fosse come fosse, K doveva
aspettarlo almeno ½ ora. Dato che era stanco si volle mettere a
sedere, tornò nel duomo, su un gradino trovò una specie di straccio
di tappeto, lo tirò con la punta di un piede davanti a un banco
vicino, si strinse di più nel cappotto, tirò su il bavero e si mise
seduto. Per distrarsi aprì l'album, lo sfogliò un poco, ma fu
costretto a smettere presto, difatti era talmente scuro che, quando
alzò lo sguardo, nella vicina navata laterale si distingueva appena
un dettaglio.
In
lontananza scintillava sull'altar maggiore un grande triangolo di
luci di candela, K non avrebbe potuto dire con precisione se le
avesse già viste prima. Forse erano state accese solo ora. I
sagrestani sono sornioni professionali, non li si nota. Nel voltarsi
per caso K vide non lontano dietro di sé un lungo e grosso cero
fissato su una colonna bruciare anch'esso. Per quanto donasse
all'illuminazione delle immagini presenti sull'altare, in maggioranza
esse si trovavano nella tenebra degli altari laterali, il cero non
bastava affatto, anzi accresceva la tenebra. Da parte dell'italiano
era stato tanto ragionevole quanto scortese non esser venuto, non ci
sarebbe stato nulla da vedere, accontentandosi della lampadina
elettrica tascabile di K per ispezionare, a mo' di doganieri, qualche
immagine. Per individuare che cosa ci si potesse aspettare K andò in
una piccola cappella laterale, salì pochi gradini fino a un basso
parapetto di marmo e chinato sopra illuminò con la lampadina
l'immagine sull'altare. Importuno, il lumino votivo vi pendeva
davanti. La prima cosa che vide e in parte indovinò K era un grosso
cavaliere in corazza rappresentato al margine estremo del quadro. Si
appoggiava a una spada che aveva spinto nel suolo ghiacciato davanti
a sé – spuntavano solo alcuni fili d'erba qua e là. Pareva
osservare attento un evento che gli si svolgeva davanti. Strano che
restasse fermo e non si avvicinasse. Forse aveva l'ordine di far la
guardia. K, che già da molto non aveva visto alcun quadro, esaminò
meglio il cavaliere nonostante che a causa della luce verde della
lampadina, che non sopportava, fosse costretto a stringere gli occhi.
Quando passò con la luce sul resto del quadro trovò una sepoltura
di Cristo di usuale concezione - per altro il quadro era nuovo. Mise
in tasca la lampadina e tornò al suo posto.
Probabilmente
era già inutile, ora, aspettare l'italiano, fuori però pioveva a
dirotto e dato che lì non era così freddo come lui si era
aspettato, decise di restare, per il momento. Vicino a lui si trovava
il pulpito maggiore sul cui tettuccio tondo erano fissate due croci
dorate vuote semi orizzontali, i cui vertici s'incrociavano. La
parete esterna del parapetto fino alla colonna portante era formata
da un fogliame verde nel quale mettevano le mani angioletti sia
vivaci sia placidi. K andò davanti al pulpito e lo esaminò da tutti
i lati, la lavorazione della pietra era estremamente accurata, la
profonda oscurità tra le foglie e dietro di esse gli parve come
fosse intrappolata e trattenuta, mise una mano in uno di quei varchi
tra le foglie e saggiò cauto la pietra, fin lì non era affatto
stato a conoscenza di quel pulpito. In quella scorse per caso dietro
la fila più vicina di banchi un sagrestano che stava lì con addosso
un abito nero a pieghe cadenti, nella mano sinistra teneva una
scatola di tabacco da fiuto e scrutava K. “Ma cosa vuole?” pensò
K. “Mi vede come un tipo sospetto? Vuole una mancia?” Quando però
il sagrestano vide che K lo aveva notato, con la destra indicò una
direzione vaga, tra due dita ancora tenendo una presa di tabacco. La
sua condotta era quasi incomprensibile, K attese ancora un po', ma il
sagrestano non smetteva di indicare qualcosa sottolineando il gesto
con dei cenni del capo. “Ma cosa vuole?”, chiese a bassa voce K,
non osando chiamarlo, in quel luogo; poi però estrasse il borsellino
e s'infilò tra i banchi per raggiungerlo. Quello fece subito un
movimento di ripulsa con una mano, scosse le spalle e alla zoppa se
ne andò. Con un simile frettoloso zoppicare K da bambino aveva
cercato di imitare l'andare a cavallo. “Un vecchio puerile”,
pensò K, “ha comprendonio bastante a fare il sagrestano, guarda
come si ferma se mi fermo io e come sta in agguato a vedere se voglio
andar oltre.” Con un risolino K seguì il vecchio attraverso
l'intera navata laterale quasi fino all'altezza dell' altar maggiore,
senza che quello smettesse di indicare qualcosa, tuttavia a bella
posta K non si voltò, il gesto non aveva altra meta che distoglierlo
dall'inseguimento. Infine rinunciò, non voleva impaurirlo troppo né
intendeva scacciar del tutto quell'apparizione, nel caso che
l'italiano dovesse ancora venire.
Entrato
nella navata centrale per cercare il posto dove aveva lasciato
l'album, notò una colonna quasi al limite dei banchi del coro presso
l'altare, che su un fianco aveva un piccolo pulpito di semplicissima
pietra, sbiadita e spoglia. Era così piccolo che da lontano pareva
una nicchia ancora vuota destinata a includere una statua. Il
predicatore certo non poteva retrocedere dal parapetto di un passo
completo. Oltre a ciò la curvatura della volta del pulpito, fatta in
pietra, iniziava insolitamente in basso e - sì - saliva del tutto
disadorna, tuttavia al vertice era talmente acuta che un uomo di
taglia normale non poteva starci in piedi, ma era costretto a
piegarsi costantemente sul parapetto. L'insieme era destinato come a
tormentare il predicatore, era incomprensibile la finalità di quel
pulpito dal momento che ce n'era un altro grande e artisticamente
ornato a disposizione.
A
K certo questo piccolo pulpito non avrebbe dato nell'occhio, se non
vi fosse stata messa una lampada, in alto, come si usa disporne
subito prima di una predica. Doveva, per dire, averne luogo una ora?
Con la chiesa vuota? K guardò la scala che addossata alla colonna
portava al pulpito, stretta come se non dovesse servire a delle
persone, ma solo come ornamento. Tuttavia sotto il pulpito, e K fece
un risolino di stupore, c'era davvero il prete, aveva una mano sulla
balaustra, pronto a salire, e guardava verso K. Poi annuì
leggermente, per cui K si fece il segno della croce e s'inchinò,
come avrebbe già dovuto fare. Il prete si dette un po' di slancio e
salì a passi brevi e svelti al pulpito. Davvero doveva iniziare una
predica? Forse il sagrestano non era poi tanto insensato e aveva
inteso spingere K dal predicatore, cosa certo, stante la vuotezza
della chiesa, necessaria. Per altro da qualche parte c'era ancora
davanti a un'immagine di Maria una vecchia che anche lei avrebbe
dovuto venire. E nel caso che già dovesse esserci una predica,
perché non veniva introdotta dall'organo? Invece la sua alta mole
taceva brillando debolmente.
K
pensò se non dovesse allontanarsi in fretta, ora, se non lo faceva
subito non c'era alcuna probabilità che potesse farlo durante la
predica, quindi era costretto a restare finché durava, in ufficio
perdeva tanto di quel tempo, non era più di gran lunga tenuto ad
aspettare l'italiano, guardò l'orologio, erano le 11. Ma davvero
poteva esserci una predica? K da solo poteva rappresentare la
comunità religiosa? E come, dal momento che era un estraneo che
voleva solo visitare la chiesa? In fondo era solo questo. Era una
stupidaggine pensare che dovesse aver luogo una predica ora, alle 11,
in una giornata lavorativa e con un tempo orribile. Il prete – lo
era indubbiamente, era un giovane dal volto scuro e liscio –
certamente andava su per spegnere la lampada, accesa per errore.
Non
fu così, però, il prete esaminò anzi la lampada e ne aumentò la
luce ancora un po', poi si volse lento verso il parapetto e lo
afferrò con entrambe le mani sul davanti del bordo spigoloso. Stette
così per un po' e, la testa immobile, guardò attorno. K era
arretrato di un bel pezzo e con i gomiti si appoggiò al banco più
prossimo. Incerto vide da qualche parte, senza ben distinguere dove,
il sagrestano che si accovacciava sghembo, tranquillo come dopo aver
finito quel che doveva fare. Ma che silenzio, ora, nel duomo! Però K
era costretto a turbarlo, non aveva intenzione di restare; se era
dovere del prete predicare a una certa ora senza considerare
l'uditorio, che lo facesse, ciò sarebbe riuscito anche senza che ci
fosse lì K, inoltre la presenza di K non ne avrebbe di certo
accresciuto l'effetto. Per cui K si mosse, in punta di piedi annaspò
lungo il banco, pervenne nel largo passaggio centrale e lo percorse
del tutto indisturbato, peccato che il pavimento di pietra risuonasse
anche al passo più leggero e le volte riecheggiassero, debolmente ma
senza interruzione, quel regolarissimo procedere. K si sentì un po'
smarrito nell'avanzare in solitudine, forse osservato dal prete, tra
i banchi vuoti, e la grandezza del duomo gli parve stare al limite di
ciò che umanamente era ancora sopportabile. Arrivato al suo posto di
prima, cercò davvero al volo, senza fermarsi, l'album che aveva
lasciato lì e lo prese con sé. Aveva già quasi lasciato la zona
dei banchi e si avvicinava all'area libera tra essi e l'uscita quando
udì per la prima volta la voce del prete. Voce poderosa, esercitata.
Come si diffuse, nel duomo preparato ad accoglierla! Tuttavia non
alla comunità religiosa si rivolgeva il prete, in tutta evidenza e
senza scappatoie egli chiamava “Joseph K!”
K
s'arrestò e guardò il suolo davanti a sé. Per il momento era
ancora libero, poteva ancora procedere e attraversare una delle tre
porticine di legno scuro, che non erano lontane. Ciò avrebbe
significato che non aveva capito o che, sì, aveva capito, ma non ne
voleva sapere. Nel caso che si voltasse era preso, difatti avrebbe
confessato di aver capito bene, di essere davvero la persona chiamata
e di voler inoltre obbedire. Se il prete avesse chiamato ancora una
volta certo K sarebbe andato oltre, ma poiché tutto tacque intanto
che K aspettava, voltò un po' la testa, difatti voleva vedere che
cosa ora facesse il prete. Stava sul pulpito tranquillo come prima,
ma era evidente che aveva notato il movimento della testa fatto da K.
Sarebbe stato un gioco infantile a nascondino se ora lui non si fosse
girato del tutto. Lo fece e venne chiamato dal prete, col cenno di un
dito, ad avvicinarsi. Poiché ora tutto poteva avvenire apertamente,
lui si affrettò – tanto per curiosità quanto per abbreviare la
cosa – verso il pulpito a passi lunghi e rapidi. Si fermò presso i
primi banchi, ma al prete la distanza pareva ancora troppo grande,
protese una mano e con l'indice energicamente abbassato indicò un
punto vicinissimo al pulpito. K ubbidì, in quel punto doveva
piegare la testa parecchio indietro per vedere ancora il prete. “Tu
sei Joseph K”, disse questi alzando una mano sul parapetto con un
movimento incerto. “Sì”, disse K pensando a quanto apertamente,
prima, lui avesse sempre detto il suo nome, mentre da un po' di tempo
gli faceva fatica, e ora il suo nome era noto anche a gente che lui
incontrava per la prima volta - com'era bello presentarsi da
principio e solo dopo venir conosciuto! “Tu sei imputato”, disse
il prete assai a bassa voce. “Sì”, disse K, “mi hanno
informato di ciò.” “Allora sei la persona che cerco”, disse il
prete. “Sono il cappellano del carcere.” “Ah, ecco”, disse K.
“Ti ho fatto chiamare qui “, disse il prete, “per parlare con
te.” “Non lo sapevo”, disse K. “Sono venuto qui per mostrare
il duomo a un italiano.” “Lascia perdere le cose secondarie”,
disse il prete. “Cosa tieni in mano? Un libro di preghiere?”
“No”, rispose K, “è un album di cose cittadine notevoli da
vedere” “Toglitelo di mano”, disse il prete. K lo gettò via
con tanta energia che l'album si aprì e scivolò per un pezzo sul
pavimento con le pagine spiegazzate. “Lo sai che il tuo processo va
male?” “Pare anche a me”, disse K. “Mi sono affaticato in
ogni modo, ma finora senza successo. D'altra parte non ho ancora
l'istanza pronta.” “Come t'immagini che finisca?” - chiese il
prete. “Prima pensavo che dovesse finir bene”, disse K, “ora ne
dubito molto anch'io, a volte. Non so come finirà. Tu lo sai?”
“No”, disse il prete, “ma temo che finirà male. Ti si ritiene
colpevole. Il tuo processo forse non perverrà nemmeno oltre un
tribunale di basso grado. Almeno per il momento si ritiene la tua
colpa come dimostrata.” “Io però non sono colpevole”, disse K.
“Si tratta di un errore. Ma come può, in genere, un uomo essere
colpevole? Siamo tutti uomini, qui, uno come l'altro.” “E'
giusto”, disse il prete, “ma così parlano di solito i
colpevoli.” “Anche tu hai un pregiudizio contro di me?” -
chiese K. “Nessun pregiudizio contro di te”, disse il prete. “Ti
ringrazio”, disse K. “Ma tutti gli altri che partecipano al
procedimento hanno un pregiudizio contro di me. Lo infondono anche in
coloro che non ne fanno parte. La mia posizione diventa sempre più
difficile.” “Tu fraintendi le cose”, disse il prete. “Il
verdetto non arriva in una volta sola, è il procedimento che un po'
alla volta si trasforma in verdetto.” “Dunque è così”, disse
K e abbassò il capo. “Che cosa vuoi fare prossimamente con la tua
causa?” - chiese il prete. “Intendo cercare ancora aiuto”,
disse K sollevando il capo per vedere come il prete valutava ciò.
“Ci sono ancora certe possibilità che non ho sfruttato.” “Tu
cerchi troppi aiuti estranei”, disse con tono di biasimo il prete,
“specie tra le donne. Ma non ti accorgi che non è vero aiuto?”
“Talvolta, anche spesso, potrei darti ragione”, disse K, “ma
non sempre. Le donne hanno un gran potere. Se alcune donne che
conosco potessi portarle a lavorare per me tutte insieme, mi
imporrei. In particolare presso questo tribunale, che consiste quasi
solo di donnaioli. Indica al giudice istruttore una donna da lontano
e lui solo per arrivarci in tempo rovescia il tavolo del tribunale e
l'imputato.” Il prete abbassò il capo verso il parapetto, solo ora
la copertura del pulpito parve opprimerlo. Ma che razza di tempaccio
doveva esserci fuori! Non era più una giornata fosca, era già notte
fonda. Nessuna delle vetrocromie delle grandi finestre era in grado
di interrompere il buio delle pareti anche solo con un bagliore. E
proprio ora il sagrestano iniziava a spegnere una dopo l'altra le
candele sull' altar maggiore. “Ce l'hai con me?” - chiese K al
prete. “Forse non sai di che razza di tribunale sei al servizio.”
Non ebbe alcuna risposta.” “Si tratta solo di esperienze mie”,
disse K. In alto non vi fu parola. “Non volevo offenderti”, disse
K. In quella il prete urlò verso K: “Ma non ce la fai a vedere più
in là di due passi?” Urlata rabbiosa, ma insieme come di chi veda
qualcuno cadere e senza volere urli perché è spaventato lui stesso.
Tacquero
entrambi, ora, a lungo. Certo il prete non poteva vedere bene K nel
buio che in basso dominava, mentre K, alla luce della piccola
lampada, lo vedeva con chiarezza. Perché non scendeva, il prete? Non
aveva tenuto mica una predica, aveva comunicato a K solo delle cose
che, se lui ci avesse fatto attenzione per bene, probabilmente gli
avrebbero fatto più danno che servirgli. Eppure a K pareva, quella
del prete, senza dubbio un'intenzione buona, non era impossibile che
il prete si unisse a lui, se scendeva, non era impossibile che lui ne
ricevesse un decisivo e accettabile consiglio che, per esempio,
indicasse non come si poteva influire sul processo, per dire, ma come
sfuggirgli, come eluderlo, come poter vivere al di fuori di esso.
Doveva esserci questa possibilità, negli ultimi tempi K ci aveva
pensato più volte. Se però il prete conosceva una tale possibilità
forse, se glielo si chiedeva, l'avrebbe rivelata nonostante che anche
lui facesse parte del tribunale e nonostante che, quando K aveva
criticato il tribunale, lui avesse represso la sua natura placida e
addirittura si fosse messo a urlargli contro.
“Non
vuoi scendere?” - disse K. “Mica c'è da fare una predica. Vieni
giù da me.” “Ora posso venire”, disse il prete, forse pentito
della sua urlata. Mentre toglieva la lampada dal gancio, disse:
“dapprima fui costretto a parlarti da lontano. Altrimenti mi lascio
influenzare facilmente e dimentico il mio compito.”
K
lo attese in fondo alla scala. Il prete gli tese la mano già da un
gradino sopra, mentre scendeva. “Hai un po' di tempo per me?” -
chiese K. “Quanto te ne serve”, disse il prete porgendo la
piccola lampada a K perché la portasse. Anche da vicino non andava
perduta una certa solennità del suo essere. “Sei molto gentile con
me”, disse K. Camminavano su e giù uno accanto all'altro nella
buia navata laterale. “Sei un'eccezione tra tutti quelli che fanno
parte del tribunale. Mi fido più di te che di ogni altro di quelli
che già conosco. Con te posso parlar chiaro.” “Non ti illudere”,
disse il prete. “Ma illudermi a proposito di che?” - chiese K.
“Ti fai illusioni sul tribunale”, disse il prete, “negli
scritti introduttivi alla Legge è trattata tale illusione: davanti
alla Legge sta un guardiano della porta. Da lui arriva un uomo dalla
campagna e lo prega di farlo accedere alla Legge. Tuttavia il
guardiano dice che subito non può concedergli l'accesso. L'uomo
riflette e poi chiede se più tardi potrà accedervi. 'E' possibile',
dice il guardiano, 'ma ora no.' Dato che il portone d'accesso alla
Legge è libero come sempre e il guardiano si pone a lato, l'uomo si
sporge a guardare dentro attraverso il portone. Quando il guardiano
se ne accorge, ride e dice: 'se tanto ti attira, prova a entrare,
nonostante il mio divieto. Ma attento: io sono potente. E sono solo
il guardiano di più basso grado. Di aula in aula ci sono però
uscieri uno più potente dell'altro. Già la vista del terzo nemmeno
io posso tollerarla.' L'uomo di campagna non si è aspettato simili
difficoltà, la Legge dev'essere a tutti e sempre accessibile, lui
pensa, ma ora che guarda meglio il guardiano, il suo cappotto di
pelliccia, il suo nasone a punta, la lunga e sottile barba nera alla
tartara, decide che è meglio aspettare fino a quando non riceverà
il permesso di accedere. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo
lascia sedere di lato alla porta. Lì siede giorni e anni. Fa
svariati tentativi di venir ammesso e stanca il guardiano con le sue
preghiere. Il guardiano più volte dà luogo a modeste
interrogazioni, gli chiede del suo luogo natio e di molto altro, ma
si tratta di domande prive di partecipazione come quelle che fanno i
gran signori, e in conclusione continua a ridirgli che ancora non può
ammetterlo. L'uomo, che per il suo viaggio si è ben provvisto,
adopera tutto, per quanto si tratti anche di valori, allo scopo di
conquistare il guardiano. Questi accetta sì tutto, ma insieme dice:
'lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.'
Durante quei molti anni l'uomo osserva il guardiano quasi
ininterrottamente. Dimentica gli altri uscieri e questo, il primo,
gli sembra l'unico ostacolo per accedere alla Legge. Maledice lo
sfortunato caso, nei primi anni a voce alta, più tardi, quando
invecchia, brontola soltanto, senza guardare il guardiano.
Rimbambisce e poiché nello studiare per lunghi anni il guardiano ha
acquisito la conoscenza anche delle pulci presenti nel bavero della
sua pelliccia, prega anche le pulci di aiutarlo e di far cambiare
idea al guardiano. Infine gli s'indebolisce la vista né sa se
attorno a lui si fa veramente più buio o se gli occhi lo ingannano.
Però è capace di riconoscere ora nel buio un brillio che
inestinguibile proviene dalla porta della Legge. Non vive più a
lungo, ora. Prima di morire nella sua testa tutte le esperienze di
tutto quanto il tempo si riassumono in una domanda che ancora lui non
ha posto al guardiano. Gli fa un cenno, dato che non riesce più ad
alzarsi con il suo corpo irrigidito. Il guardiano è costretto a
chinarsi profondamente, difatti la differenza di taglia tra loro è
cambiata molto a sfavore dell'uomo. 'Ma che cosa vuoi ancora sapere?'
- chiede il guardiano, 'sei insaziabile.' 'Tutti mirano alla Legge',
dice l'uomo, ' ma com'è che in tanti anni nessuno, oltre a me, ha
chiesto di essere ammesso?' Il guardiano comprende che l'uomo è già
arrivato alla fine e, per riuscire a farsi sentire da quelle orecchie
morenti, gli grida: 'qui nessun altro poteva ottenere di essere
ammesso, quest'entrata era destinata solo a te. Ora vado a
chiuderla.' “
“Dunque
il guardiano ha ingannato l'uomo”, disse subito K, tutto preso
dalla storia. “Non aver troppa fretta”, disse il prete, “non
accettare l'opinione di estranei senza metterla alla prova. Ti ho
riferito la storia testualmente. Non v'è niente che parli
d'inganno.” “Invece è chiaro”, disse K, “e la tua prima
lettura era giustissima. Il guardiano ha fatto la comunicazione
liberatoria solo allorquando essa non poteva più aiutare l'uomo.”
“Non venne interrogato, prima”, disse il prete, “considera che
era solo un guardiano e come tale ha fatto il suo dovere.” “Perché
dici che ha fatto il suo dovere?” - chiese K, “non l'ha fatto. Il
suo dovere forse era respingere tutti gli estranei, ma quell'uomo era
destinato all'accesso, lui avrebbe dovuto farlo passare.” “Non
sei stato abbastanza attento al testo e cambi la storia”, disse il
prete. “La storia contiene in merito all'accesso alla Legge due
spiegazioni importanti da parte del guardiano, una all'inizio, una
alla fine. Nell'una dice 'che non poteva subito concedergli
l'accesso', e nell'altra: 'questo accesso era destinato solo a te.'
Se ci fosse tra queste due spiegazioni una contraddizione allora
avresti ragione tu e il guardiano avrebbe ingannato l'uomo. Orbene,
non c'è però alcuna contraddizione. Al contrario, la prima
spiegazione accenna alla seconda, perfino. Il guardiano andò oltre
il suo dovere, si potrebbe dire, nel prospettare all'uomo la futura
possibilità di essere ammesso. In quel momento sembra essere stato
suo dovere solo respingere l'uomo. E in effetti molti esegeti si
meravigliano del fatto che il guardiano abbia fatto quell'accenno,
difatti egli pare amar la correttezza e veglia severo sul suo
ufficio. Per molti anni non lascia il suo posto e chiude il portone
solo all'ultimo, è assai consapevole dell'importanza del suo
servizio, difatti dice: 'io sono potente', ha rispetto per i
superiori, difatti dice 'sono solo l'ultimo degli uscieri'; com'è
suo dovere lui non si fa commuovere né esasperare, difatti dell'uomo
si dice che 'stanca il guardiano con le sue preghiere'; non è
ciarliero, difatti durante molti anni pone solo domande, sta scritto,
'senza partecipazione'; non è corruttibile, difatti in merito a un
dono dice di prenderlo 'solo perché' l'uomo 'non creda di aver
trascurato qualcosa'; infine anche il suo aspetto esteriore, il
nasone a punta e la lunga barba sottile alla tartara, indica un
carattere pedante. Può esserci un guardiano più ligio al dovere?
Orbene, però in lui sono commisti anche altri tratti caratteriali
che, per chi desidera l'ammissione alla Legge, sono assai positivi e
rendono pur sempre comprensibile che lui in quell'accenno a una
futura possibilità potesse essere andato un po' oltre il suo dovere.
Voglio dire che è innegabile che lui sia un po' semplicista e, in
rapporto a ciò, un po' presuntuoso. Anche se le sue affermazioni
circa il suo potere, circa il potere degli altri guardiani e circa la
loro vista perfino a lui intollerabile – dico, anche se tutte
queste affermazioni dovessero essere corrette, il modo in cui lui le
formula indica però che il suo comprendonio è offuscato
dall'ingenuità e dalla superbia. Gli esegeti dicono: comprensione
corretta di una cosa e comprensione scorretta della medesima cosa non
si escludono a vicenda del tutto. Comunque si deve ammettere però
che ogni ingenuità e presunzione, per quanto si mostrino forse al
minimo, indeboliscono la sorveglianza dell'accesso, si tratta di
lacune nella fermezza del guardiano. Inoltre il guardiano sembra
essere per natura gentile, non è assolutamente sempre un uomo
d'ufficio. Fin dai primi momenti per scherzo nonostante il vigente
divieto di ingresso invita l'uomo, poi non lo manda via, diciamo
così, ma gli dà uno sgabello, come sta scritto, e lo fa sedere da
una parte davanti alla porta. La pazienza con cui per anni e anni
tollera le preghiere dell'uomo, i brevi colloqui, l'accettazione dei
doni, l'eleganza con cui ammette che l'uomo lì a due passi deprechi
a voce alta l'infelice caso che ha messo sul posto il guardiano –
tutto questo lascia concludere che in lui vi siano sentimenti
compassionevoli. Non tutti i guardiani avrebbero agito così. E da
ultimo basta un cenno perché lui si chini tutto verso l'uomo per
dargli l'opportunità della domanda finale. Appena un po'
d'impazienza – il guardiano sa che è davvero la fine – si
esprime nelle parole 'sei insaziabile'. Diversi esegeti vanno oltre,
con tale modalità esplicativa, e opinano che le parole 'sei
insaziabile' esprimano una sorta di amichevole stupore del resto non
privo di simpatia. Comunque così la figura del guardiano si
definisce diversamente da come tu ritieni.” “Tu credi dunque che
l'uomo non venne ingannato?” “Non equivocare le mie parole”,
disse il prete, “ti segnalo solo le opinioni che ci sono in merito.
Non devi badare troppo alle opinioni. Il testo è immutabile e
sovente le opinioni sono soltanto un'espressione di disperazione ad
esso riferita. In questo caso c'è perfino un'opinione secondo cui
proprio il guardiano è la persona ingannata.” “E' un'opinione
estensiva”, disse K, “che fondamento ha?” “Il fondamento”,
rispose il prete, “sta l'ingenuità del guardiano. Si dice che egli
non conosce l'interno della Legge, ma solo il percorso che davanti
all'ingresso lui deve sempre ripercorrere. Ciò che egli s'immagina
dell'interno viene ritenuto infantile e si suppone che lui stesso
tema l'oggetto della paura che vuol incutere all'uomo. Anzi lo teme
più dell'uomo, difatti questi non vuole nient'altro che entrare,
anche quando è venuto a sapere dei terribili guardiani che ci sono
all'interno, al contrario il guardiano non vuole entrare, almeno,
nulla se ne sa. Altri dicono, è vero, che in precedenza nell'interno
dev'esserci stato, il guardiano, difatti un tempo è stato assunto al
servizio della Legge, cosa che può avvenire solo nell'interno. A ciò
si può rispondere che lui potrebbe esser stato fatto guardiano
tramite una nomina dall'interno, ma all'interno potrebbe non esserci
stato, per lo meno non molto all'interno, dato che non riesce a
tollerare già la vista del terzo guardiano. A parte ciò, tuttavia,
non si dice che in tanti anni egli abbia riferito qualcosa
dell'interno, a parte quel che disse circa i guardiani. Potrebbe
esser stato proibito farlo, ma neppure della proibizione egli
riferisce qualcosa. Da ciò si conclude che lui non sa nulla di come
si presenta e di quale sia il significato dell'interno, per questo
s'inganna. Tuttavia lui forse s'inganna anche sull'uomo di campagna,
difatti gli è subordinato, e non lo sa. Che lui tratti l'uomo come
un subordinato si capisce da molte cose, non te ne scordare. Che
però di fatto gli sia subordinato deve risultare, secondo tale
opinione, altrettanto chiaramente. Prima di tutto il libero cittadino
è anteposto al cittadino soggetto a controllo. Orbene, l'uomo è di
fatto libero, può andare dove vuole, solo l'accesso alla Legge gli è
proibito e inoltre solo da un singolo, dal guardiano. Se si siede di
lato al portone sullo sgabello e ci resta per tutta la vita, ciò
avviene per sua libera volontà, la storia non riferisce di alcuna
costrizione. Al contrario il guardiano è legato dal suo ufficio al
suo posto, non ha il permesso di allontanarsi, ma stando
all'apparenza non può neanche andare nell'interno, anche volendo.
Oltre a ciò lui è sì al servizio della Legge, ma nei limiti di
questo ingresso, dunque anche solo per quest'uomo al quale soltanto è
destinato quest'ingresso. Anche per questo motivo il guardiano gli è
subordinato. E' ipotizzabile che per anni e anni, durante l'età
virile, egli abbia prestato un servizio privo di scopo, difatti viene
detto che viene un uomo, dunque qualcuno di età virile, che dunque
il guardiano dovette attendere a lungo prima che il suo compito si
realizzasse, così a lungo quanto all'uomo aggradava, il quale venne
tuttavia di sua volontà. Tuttavia anche il termine del servizio
viene determinato dal termine della vita dell'uomo, fino al termine
il guardiano gli rimane subordinato. E continua a essere sottolineato
che di tutto questo il guardiano non sembra sapere nulla. In ciò non
viene visto però nulla di scandaloso, difatti stando a
quest'opinione il guardiano si ritrova in un più grave inganno, che
riguarda il suo servizio. Da ultimo, mi spiego, egli parla dell'
entrata e dice 'ora vado e la chiudo', ma all'inizio sta scritto che
il portone alla Legge è libero come sempre, ma se è libero come
sempre, vale a dire sempre, indipendentemente dalla durata della vita
dell'uomo cui è destinato, allora nemmeno il guardiano lo potrà
chiudere. Su questo le opinioni si dividono: annunciando che chiuderà
il portone il guardiano vuol dare solo una risposta, o vuol rimarcare
il suo dovere, oppure all'ultimo momento vuol far pentire l'uomo e
rattristarlo? In molti però concordano su fatto che lui il portone
non potrà chiuderlo. Addirittura ritengono che alla fine egli sia
subordinato all'uomo anche in quel che lui sa, difatti l'uomo vede il
brillio che viene fuori dall'ingresso della Legge, mentre il
guardiano, come tale, sta con le spalle al portone e in nessun modo
mostra di aver notato un cambiamento.” “E' ben fondata
quest'opinione”, disse K, che sottovoce aveva ricapitolato per sé
, della spiegazione del prete, i singoli punti. “Ben fondata, ora
credo che anche il guardiano s'inganni. Con ciò non ho abbandonato
la mia opinione di prima, difatti entrambe in parte coincidono. Non è
determinante che il guardiano abbia le idee chiare o invece
s'inganni. L'uomo viene ingannato, dissi. Se il guardiano ha le idee
chiare si potrebbe avere il dubbio se l'uomo venga, o non venga,
ingannato; ma se il guardiano s'inganna, allora il suo essere
ingannato necessariamente deve trasferirsi sull'uomo. Il guardiano
no, non è affatto un impostore, ma allora è così ingenuo che
dovrebbe subito essere cacciato dal suo servizio. Puoi però
considerare che l'inganno in cui si trova il guardiano non lo
danneggia per niente, mentre danneggia l'uomo millanta volte.” “Qui
incorri in una opinione contraria”, disse il prete. “Voglio dire,
molti dicono che la storia non dà ad alcuno il diritto di giudicare
in merito al guardiano. A parte il modo come egli ci appare, è un
servitore della Legge, dunque le appartiene, dunque è distolto dal
giudizio umano. Si può poi anche non credere che il guardiano sia
subordinato all'uomo. Esser legato dal suo servizio, anche solo
all'accesso alla Legge, è incomparabilmente di più che non vivere
liberi nel mondo. L'uomo alla Legge viene e basta, il guardiano c'è
già. Dalla Legge è destinato al servizio, dubitare del suo esserne
degno, significa dubitare della Legge.” “Con tale opinione non
sono d'accordo”, disse K scuotendo la testa, “difatti se si
aderisce a essa, si deve ritenere vero tutto quel che il guardiano
dice. Che però ciò non sia possibile, tu stesso lo hai
dettagliatamente motivato.” “No”, disse il prete, “non si
deve ritenere tutto vero, si deve solo ritenerlo necessario.”
“Opinione triste”, disse K. “La menzogna viene trasformata in
ordinatrice del mondo.”
K
lo disse a mo' di conclusione, ma non era il suo un giudizio
definitivo. Era troppo stanco per poter tener d'occhio tutte le
conseguenze argomentative della storia, inoltre i ragionamenti a cui
essa lo portava erano insoliti, astrazioni più adatte alle
discussioni della compagnia dei funzionari del tribunale che a lui.
Quella semplice storia era diventata un qualcosa d'informe, lui
voleva sbarazzarsene e il prete, ora dimostrando un gran tatto, fu
tollerante e tacque all'osservazione di K, nonostante che certo non
coincidesse con la sua propria.
Continuarono
per un po' a camminare in silenzio, K tenendosi stretto al prete
senza sapere, nella tenebra, dove si trovasse. La lampada che aveva
in mano s'era da molto spenta. A un tratto proprio davanti a lui
luccicò la statua argentea d'un santo solo per il brillare
dell'argento, e subito risparì nel buio. Per non abbandonarsi del
tutto al prete, K gli chiese: “Non siamo nelle vicinanze
dell'ingresso principale?” “No”, disse il prete, “ne siamo
lontani. Vuoi già andartene?” Nonostante che in quel momento K non
ci pensasse, disse subito: “Certo, devo andare. Sono procuratore in
una banca, mi aspettano, sono venuto solo per mostrare a un collega
straniero il duomo.” “Be'”, disse il prete porgendogli la mano,
“allora va'.” “Ma non riesco da solo a orientarmi nel buio”,
disse K. “Tieniti a sinistra alla parete”, disse il prete, “poi
seguila senza lasciarla e troverai un'uscita.” S'era allontanato di
pochi passi, il prete, e già K lo chiamava a voce altissima: “per
favore, aspetta.” “Aspetto”, disse il prete. “Non vuoi
ancora qualcosa da me?”, chiese K. “No”, disse il prete. “Fosti
così gentile con me, poco fa”, disse K, “mi hai spiegato tutto,
ora invece mi abbandoni come se non t'importasse nulla di me.” “Ma
devi andare”, disse il prete. “Sì, certo”, disse K, però abbi
considerazione.” “Abbine tu, prima, di chi sono io”, disse il
prete. “Sei il cappellano del carcere”, disse K e gli si
avvicinò, il suo immediato ritorno in banca non era così necessario
come l'aveva presentato, poteva ben restare ancora lì. “E faccio
parte del tribunale”, disse il prete. “Perché dunque dovrei
voler qualcosa da te. Il tribunale da te non vuole nulla. Ti riceve
quando vieni, e ti lascia quando vai.”
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