venerdì 26 giugno 2020

Franz Kafka: Il processo - 9


Nel duomo

K fu incaricato di mostrare alcuni monumenti a un corrispondente d'affari italiano molto importante per la banca, il quale soggiornava per la prima volta in città. Era un incarico che in altri tempi lui avrebbe ritenuto assai degno, ma, proprio ora che con molti sforzi riusciva a conservare la sua reputazione in banca, vi si sottomise controvoglia. Ogni ora che lui sottraeva all'ufficio gli procurava ansia; certo non riusciva più, di gran lunga, a sfruttare l'orario di lavoro come prima, trascorreva parecchie ore unicamente mostrandosi massimamente bisognoso di lavorare davvero, ma se non si trovava in ufficio maggiori diventavano le sue preoccupazioni. Credeva poi di vedere che il vice direttore, il quale del resto era stato sempre all'erta, di tanto in tanto veniva nel suo ufficio, si sedeva alla sua scrivania, rovistava tra le sue carte, riceveva clienti con i quali da anni K era quasi in amicizia e glieli portava via, anzi forse scopriva perfino errori dai quali K si vedeva sempre minacciato durante il lavoro da ogni parte, e non riusciva più a evitare. Se lui veniva perciò incaricato in modo ancora così lusinghiero sia di procedere a un affare sia di un piccolo viaggio – simili incarichi si erano accumulati ultimamente del tutto a caso – era ovvio in ogni caso supporre che lo si allontanasse per un po' dall'ufficio e si volesse verificare il suo lavoro, o almeno che lo si ritenesse facilmente sostituibile in ufficio. La maggior parte di questi incarichi lui avrebbe potuto senza difficoltà scansarli, ma non osava, infatti, se il suo timore era anche minimamente fondato, evitare l'incarico significava ammettere la sua paura. Per cui li assumeva con apparente tranquillità e arrivò a nascondere perfino, dovendo fare un faticoso viaggio di 2 giorni, un brutto raffreddore, solo per non esporsi al pericolo, se lui si fosse richiamato alla già dominante stagione autunnale, piovosa, di venir trattenuto dal viaggio. Quando con un mal di testa tremendo tornò da questo viaggio seppe che per il giorno dopo era destinato ad accompagnare il corrispondente d'affari italiano. Era assai sedotto dalla prospettiva di rifiutarsi, almeno stavolta, prima di tutto ciò che gli era stato destinato proprio non aveva connessione immediata con gli affari; il compimento di questo dovere di tipo mondano nei confronti del corrispondente d'affari in sé era senza dubbio abbastanza importante, non solo per K, che pure lo sapeva di poter restare a galla solo con dei successi professionali e, qualora ciò non gli fosse riuscito, sapeva che era del tutto inutile che lui magari a sorpresa incantasse quest'italiano; non voleva nemmeno per un giorno venir spostato dall'ambito lavorativo, infatti il timore di non venir più richiamato era troppo grande, era un timore che lui riconosceva molto bene come esagerato, ma che però lo opprimeva. In questo caso certamente era quasi impossibile escogitare un'obbiezione accettabile, la conoscenza della lingua italiana da parte di K non era certo molto grande, ma pur sempre sufficiente; decisivo era però che K da anni possedesse delle conoscenze in storia dell'arte, cosa che in banca era diventato esageratamente nota dal momento che K per un periodo, del resto per motivi di lavoro, era stato membro della Associazione per la Conservazione dei Monumenti Cittadini. Ora, l'italiano, come si era saputo da voci, aveva la passione per l'arte, e la scelta di K a suo accompagnatore fu per ciò scontata.
Era una mattina molto piovosa e burrascosa quando K, irritatissimo a causa della giornata che aveva davanti, fu in ufficio già attorno alle sette per ultimare almeno un po' di lavoro prima che la visita lo sottraesse a tutto. Era molto stanco, difatti aveva trascorso metà della nottata a studiare una grammatica italiana per prepararsi un po'; la finestra presso cui ultimamente troppo spesso sedeva lo attirava più della scrivania, ma resisté e si mise al lavoro. Purtroppo entrò l'usciere e annunciò che il signor direttore lo aveva mandato a controllare se il signor procuratore era già in sede; se era presente allora volesse essere così gentile di recarsi nella sala di ricevimento, il signore dall'Italia era già là. “Vengo subito”, disse K, ficcò in tasca un dizionarietto, prese sotto braccio un album di Cose Cittadine Notevoli da Vedere che aveva preparato per lo straniero e, attraversando l'ufficio del vice direttore, andò in direzione. Era fortunato a esser venuto in ufficio tanto presto e a poter essere a disposizione subito, ciò che nessuno seriamente si era aspettato. L'ufficio del vice direttore era com'è naturale ancora vuoto come in piena notte, probabilmente l'usciere aveva dovuto chiamare anche lui nella sala di ricevimento, ma a vuoto. Quando K entrò nella sala di ricevimento i due signori si alzarono dalle loro profonde poltrone. Il direttore sorrise gentile, chiaro che era molto soddisfatto della venuta di K, si dedicò subito alle presentazioni, l'italiano scosse vigorosamente la mano a K e nominò ridendo un certo personaggio mattiniero, K non capì bene chi, si trattava inoltre di una parola particolare il cui significato K indovinò solo dopo un certo tempo. Rispose con alcune frasi forbite che l'italiano di nuovo accolse ridendo mentre più volte nervoso si passava una mano sul pizzo grigio azzurro. Il pizzo era certamente profumato, quasi si era tentati di avvicinarsi e di annusarlo. Quando tutti si furono seduti, iniziando un discorsetto preliminare, K si accorse con gran disagio di capire l'italiano solo in modo frammentario. Quando parlava lentamente lui capiva quasi tutto, erano però solo rare eccezioni, per lo più gli zampillavano davvero le parole dalla bocca e scuoteva la testa, come godendone. Quel che diceva s'imbrogliava regolarmente in un dialetto che per K non aveva più nulla della lingua italiana, e che il direttore però non solo capiva, ma anche parlava, ciò che K d'altra parte avrebbe potuto prevedere, infatti l'italiano era originario del sud Italia, dove anche il direttore era stato qualche anno. Comunque K riconobbe che la possibilità d'intendersi con l'italiano era in gran parte esclusa, difatti anche il francese che quello parlava era difficile da capire, inoltre la barba gli nascondeva i movimenti delle labbra, la cui vista forse sarebbe servita a capire. K iniziò a prevedere molte noie, intanto rinunciò a voler capire l'italiano – in presenza del direttore, che lo capiva tanto facilmente, sarebbe stato uno sforzo inutile. Pur sprofondato in poltrona, si muoveva con facilità, l'italiano, continuava a tirarsi la corta e attillata giacchetta e, in un caso, le braccia sollevate, scioltamente muovendo le mani sui polsi, cercò di descrivere qualcosa che K non riuscì a capire - si limitò, piegato in avanti, pur senza togliersi le mani che teneva davanti agli occhi, a osservare l'italiano. Infine prevalse in K, che senza far altro si limitava a seguire meccanicamente l'andamento del discorso, la stanchezza mattutina, e spaventato in un caso si accorse del fatto che, per fortuna a tempo, distrattamente stava per alzarsi, girarsi e andar via. Finalmente l'italiano guardò l'orologio e saltò su. Congedatosi dal direttore, si accostò tanto a K che questi fu costretto a spostare indietro la sua poltrona per potersi muovere. Il direttore, che certo leggeva negli occhi di K l'imbarazzo in cui si trovava nei confronti di quell'italiano, s'infilò in ciò che questi diceva, ma con tanta abilità e grazia che dette l'impressione di aggiungere solo modesti consigli, mentre in realtà rendeva comprensibile in sintesi a K tutto quello che l'italiano diceva, interrompendolo senza tregua. K seppe così che l'italiano aveva per il momento ancora da curarsi di certi affari, che avrebbe avuto solo poco tempo in tutto, che inoltre proprio non intendeva fare in furia il giro di tutte le cose notevoli da vedere, che invece – certo solo se K era d'accordo, a lui stava decidere – aveva deciso di visitare unicamente il duomo, ma per bene. Immensamente lieto di poter fare tale visita in compagnia di un uomo tanto colto e amabile – così fu definito K, impegnato solo a evitare l'eloquio dell'italiano per afferrare alla svelta le parole del direttore – lo pregò, se gli andava bene, di trovarsi entro due ore, circa alle 10, nel duomo. Quanto a lui sperava di poter esserci con certezza, a quell'ora. K rispose a modino, l'italiano strinse la mano prima al direttore, poi a K, poi di nuovo al direttore e andò verso la porta, seguito da entrambi, voltato solo a metà verso di loro, ma senza smettere di parlare. K rimase ancora un poco insieme al direttore che quel giorno pareva davvero star poco bene. Ritenne di doversi scusare con K e disse – stavano in piedi confidenzialmente vicini – che dapprima aveva pensato di andarci lui con l'italiano, ma poi – non spiegò perché – aveva preferito mandarci K. Se all'inizio non lo capiva subito, non doveva farsi confondere, molto presto si arrivava a capire, e poi, nell'ipotesi di capir poco in genere, non era tutto questo male, difatti per l'italiano non era mica tanto importante venir capito. Del resto la conoscenza della lingua italiana di K era sorprendentemente buona e lui si sarebbe adattato magnificamente alla faccenda. Con ciò K fu congedato. Impiegò il tempo che gli rimaneva a trascrivere dal dizionario vocaboli non comuni utili a far la guida nel duomo. Lavoro faticoso assai: gli uscieri portarono la posta, gli impiegati vennero a domandare cose varie e vedendo K impegnato restarono sulla porta senza però andarsene fino a quando lui non dette loro relazione, il vice direttore non mancò di dargli noia, entrò e rientrò, gli prese il dizionario di mano e lo sfogliò senza capirci nulla, chiaro, aprendosi la porta nella penombra dell'anticamera dei clienti fecero capolino inchinandosi incerti, volevano farsi vedere ma non erano sicuri di esser visti – tutto questo si muoveva attorno a K come attorno al proprio centro, mentre lui metteva insieme le parole che gli servivano, le cercava nel dizionario, poi le trascriveva, si esercitava a pronunciarle e infine si sforzava di impararle a memoria. La sua buona memoria di una volta gli pareva di averla completamente perduta, a tratti s'infuriò talmente con l'italiano, causa di quella sua fatica, che seppellì il dizionario sotto le carte con la ferma intenzione di non prepararsi più, poi però capì che non poteva passare di fronte alle opere d'arte nel duomo senza dir nulla e ritirò fuori il dizionario con rabbia accresciuta.
Proprio attorno alle nove e mezzo, quando stava per andare, ci fu una chiamata telefonica, Leni gli augurò il buongiorno e gli chiese come stava, K ringraziò in fretta facendo notare che ora non poteva mettersi a discorrere, perché doveva andare in duomo. “In duomo?” - chiese Leni. K cercò di spiegarglielo in breve, ma aveva appena iniziato a farlo che Leni disse di colpo: “ti stanno addosso.” K non ebbe la pazienza di deplorare il fatto di non esserselo voluto lui né aspettato, si congedò con due parole, ma mentre riattaccava disse un po' a se stesso, un po' alla ragazza lontana, che non lo sentiva più: “sì, mi stanno addosso.”
Però s'era fatto tardi, quasi c'era il rischio di non arrivare puntuale. Andò in automobile, all'ultimo momento s'era ricordato anche dell'album che prima non aveva trovato occasione di proporre e che per questo prese con sé. Se lo tenne sulle ginocchia e ci tamburellò sopra per tutto il tragitto. La pioggia era diminuita, ma faceva freddo, era scuro e umido, in duomo si sarebbe visto poco, però lì a forza di stare sulle mattonelle gelide il raffreddore di K sarebbe peggiorato molto.
La piazza del duomo era completamente vuota, K si rammentò che già da bambino lo aveva sorpreso il fatto che in quella stretta piazza quasi tutte le imposte alle finestre delle case fossero abbassate. Col tempo di oggi era del resto più comprensibile del solito. Anche dentro il duomo pareva vuoto, naturalmente a nessuno veniva in mente di venirci, ora. K percorse entrambe le navate laterali, incontrò solo una vecchia avvolta in un caldo scialle inginocchiata dinnanzi a un'immagine di Maria, e la guardò. Da lontano vide poi sparire in una porta un sagrestano zoppo. K era arrivato puntuale, proprio al suo ingresso erano suonate le 11, ma ancora l'italiano non c'era. K tornò all'ingresso principale, vi restò per un po' indeciso e fece poi un giro attorno al duomo, sotto la pioggia, per vedere se l'italiano non fosse in attesa magari a una delle porte laterali. Non trovò nessuno. Che il direttore avesse capito male l'ora? Come si faceva del resto a capir bene quell'uomo? Fosse come fosse, K doveva aspettarlo almeno ½ ora. Dato che era stanco si volle mettere a sedere, tornò nel duomo, su un gradino trovò una specie di straccio di tappeto, lo tirò con la punta di un piede davanti a un banco vicino, si strinse di più nel cappotto, tirò su il bavero e si mise seduto. Per distrarsi aprì l'album, lo sfogliò un poco, ma fu costretto a smettere presto, difatti era talmente scuro che, quando alzò lo sguardo, nella vicina navata laterale si distingueva appena un dettaglio.
In lontananza scintillava sull'altar maggiore un grande triangolo di luci di candela, K non avrebbe potuto dire con precisione se le avesse già viste prima. Forse erano state accese solo ora. I sagrestani sono sornioni professionali, non li si nota. Nel voltarsi per caso K vide non lontano dietro di sé un lungo e grosso cero fissato su una colonna bruciare anch'esso. Per quanto donasse all'illuminazione delle immagini presenti sull'altare, in maggioranza esse si trovavano nella tenebra degli altari laterali, il cero non bastava affatto, anzi accresceva la tenebra. Da parte dell'italiano era stato tanto ragionevole quanto scortese non esser venuto, non ci sarebbe stato nulla da vedere, accontentandosi della lampadina elettrica tascabile di K per ispezionare, a mo' di doganieri, qualche immagine. Per individuare che cosa ci si potesse aspettare K andò in una piccola cappella laterale, salì pochi gradini fino a un basso parapetto di marmo e chinato sopra illuminò con la lampadina l'immagine sull'altare. Importuno, il lumino votivo vi pendeva davanti. La prima cosa che vide e in parte indovinò K era un grosso cavaliere in corazza rappresentato al margine estremo del quadro. Si appoggiava a una spada che aveva spinto nel suolo ghiacciato davanti a sé – spuntavano solo alcuni fili d'erba qua e là. Pareva osservare attento un evento che gli si svolgeva davanti. Strano che restasse fermo e non si avvicinasse. Forse aveva l'ordine di far la guardia. K, che già da molto non aveva visto alcun quadro, esaminò meglio il cavaliere nonostante che a causa della luce verde della lampadina, che non sopportava, fosse costretto a stringere gli occhi. Quando passò con la luce sul resto del quadro trovò una sepoltura di Cristo di usuale concezione - per altro il quadro era nuovo. Mise in tasca la lampadina e tornò al suo posto.
Probabilmente era già inutile, ora, aspettare l'italiano, fuori però pioveva a dirotto e dato che lì non era così freddo come lui si era aspettato, decise di restare, per il momento. Vicino a lui si trovava il pulpito maggiore sul cui tettuccio tondo erano fissate due croci dorate vuote semi orizzontali, i cui vertici s'incrociavano. La parete esterna del parapetto fino alla colonna portante era formata da un fogliame verde nel quale mettevano le mani angioletti sia vivaci sia placidi. K andò davanti al pulpito e lo esaminò da tutti i lati, la lavorazione della pietra era estremamente accurata, la profonda oscurità tra le foglie e dietro di esse gli parve come fosse intrappolata e trattenuta, mise una mano in uno di quei varchi tra le foglie e saggiò cauto la pietra, fin lì non era affatto stato a conoscenza di quel pulpito. In quella scorse per caso dietro la fila più vicina di banchi un sagrestano che stava lì con addosso un abito nero a pieghe cadenti, nella mano sinistra teneva una scatola di tabacco da fiuto e scrutava K. “Ma cosa vuole?” pensò K. “Mi vede come un tipo sospetto? Vuole una mancia?” Quando però il sagrestano vide che K lo aveva notato, con la destra indicò una direzione vaga, tra due dita ancora tenendo una presa di tabacco. La sua condotta era quasi incomprensibile, K attese ancora un po', ma il sagrestano non smetteva di indicare qualcosa sottolineando il gesto con dei cenni del capo. “Ma cosa vuole?”, chiese a bassa voce K, non osando chiamarlo, in quel luogo; poi però estrasse il borsellino e s'infilò tra i banchi per raggiungerlo. Quello fece subito un movimento di ripulsa con una mano, scosse le spalle e alla zoppa se ne andò. Con un simile frettoloso zoppicare K da bambino aveva cercato di imitare l'andare a cavallo. “Un vecchio puerile”, pensò K, “ha comprendonio bastante a fare il sagrestano, guarda come si ferma se mi fermo io e come sta in agguato a vedere se voglio andar oltre.” Con un risolino K seguì il vecchio attraverso l'intera navata laterale quasi fino all'altezza dell' altar maggiore, senza che quello smettesse di indicare qualcosa, tuttavia a bella posta K non si voltò, il gesto non aveva altra meta che distoglierlo dall'inseguimento. Infine rinunciò, non voleva impaurirlo troppo né intendeva scacciar del tutto quell'apparizione, nel caso che l'italiano dovesse ancora venire.
Entrato nella navata centrale per cercare il posto dove aveva lasciato l'album, notò una colonna quasi al limite dei banchi del coro presso l'altare, che su un fianco aveva un piccolo pulpito di semplicissima pietra, sbiadita e spoglia. Era così piccolo che da lontano pareva una nicchia ancora vuota destinata a includere una statua. Il predicatore certo non poteva retrocedere dal parapetto di un passo completo. Oltre a ciò la curvatura della volta del pulpito, fatta in pietra, iniziava insolitamente in basso e - sì - saliva del tutto disadorna, tuttavia al vertice era talmente acuta che un uomo di taglia normale non poteva starci in piedi, ma era costretto a piegarsi costantemente sul parapetto. L'insieme era destinato come a tormentare il predicatore, era incomprensibile la finalità di quel pulpito dal momento che ce n'era un altro grande e artisticamente ornato a disposizione.
A K certo questo piccolo pulpito non avrebbe dato nell'occhio, se non vi fosse stata messa una lampada, in alto, come si usa disporne subito prima di una predica. Doveva, per dire, averne luogo una ora? Con la chiesa vuota? K guardò la scala che addossata alla colonna portava al pulpito, stretta come se non dovesse servire a delle persone, ma solo come ornamento. Tuttavia sotto il pulpito, e K fece un risolino di stupore, c'era davvero il prete, aveva una mano sulla balaustra, pronto a salire, e guardava verso K. Poi annuì leggermente, per cui K si fece il segno della croce e s'inchinò, come avrebbe già dovuto fare. Il prete si dette un po' di slancio e salì a passi brevi e svelti al pulpito. Davvero doveva iniziare una predica? Forse il sagrestano non era poi tanto insensato e aveva inteso spingere K dal predicatore, cosa certo, stante la vuotezza della chiesa, necessaria. Per altro da qualche parte c'era ancora davanti a un'immagine di Maria una vecchia che anche lei avrebbe dovuto venire. E nel caso che già dovesse esserci una predica, perché non veniva introdotta dall'organo? Invece la sua alta mole taceva brillando debolmente.
K pensò se non dovesse allontanarsi in fretta, ora, se non lo faceva subito non c'era alcuna probabilità che potesse farlo durante la predica, quindi era costretto a restare finché durava, in ufficio perdeva tanto di quel tempo, non era più di gran lunga tenuto ad aspettare l'italiano, guardò l'orologio, erano le 11. Ma davvero poteva esserci una predica? K da solo poteva rappresentare la comunità religiosa? E come, dal momento che era un estraneo che voleva solo visitare la chiesa? In fondo era solo questo. Era una stupidaggine pensare che dovesse aver luogo una predica ora, alle 11, in una giornata lavorativa e con un tempo orribile. Il prete – lo era indubbiamente, era un giovane dal volto scuro e liscio – certamente andava su per spegnere la lampada, accesa per errore.
Non fu così, però, il prete esaminò anzi la lampada e ne aumentò la luce ancora un po', poi si volse lento verso il parapetto e lo afferrò con entrambe le mani sul davanti del bordo spigoloso. Stette così per un po' e, la testa immobile, guardò attorno. K era arretrato di un bel pezzo e con i gomiti si appoggiò al banco più prossimo. Incerto vide da qualche parte, senza ben distinguere dove, il sagrestano che si accovacciava sghembo, tranquillo come dopo aver finito quel che doveva fare. Ma che silenzio, ora, nel duomo! Però K era costretto a turbarlo, non aveva intenzione di restare; se era dovere del prete predicare a una certa ora senza considerare l'uditorio, che lo facesse, ciò sarebbe riuscito anche senza che ci fosse lì K, inoltre la presenza di K non ne avrebbe di certo accresciuto l'effetto. Per cui K si mosse, in punta di piedi annaspò lungo il banco, pervenne nel largo passaggio centrale e lo percorse del tutto indisturbato, peccato che il pavimento di pietra risuonasse anche al passo più leggero e le volte riecheggiassero, debolmente ma senza interruzione, quel regolarissimo procedere. K si sentì un po' smarrito nell'avanzare in solitudine, forse osservato dal prete, tra i banchi vuoti, e la grandezza del duomo gli parve stare al limite di ciò che umanamente era ancora sopportabile. Arrivato al suo posto di prima, cercò davvero al volo, senza fermarsi, l'album che aveva lasciato lì e lo prese con sé. Aveva già quasi lasciato la zona dei banchi e si avvicinava all'area libera tra essi e l'uscita quando udì per la prima volta la voce del prete. Voce poderosa, esercitata. Come si diffuse, nel duomo preparato ad accoglierla! Tuttavia non alla comunità religiosa si rivolgeva il prete, in tutta evidenza e senza scappatoie egli chiamava “Joseph K!”
K s'arrestò e guardò il suolo davanti a sé. Per il momento era ancora libero, poteva ancora procedere e attraversare una delle tre porticine di legno scuro, che non erano lontane. Ciò avrebbe significato che non aveva capito o che, sì, aveva capito, ma non ne voleva sapere. Nel caso che si voltasse era preso, difatti avrebbe confessato di aver capito bene, di essere davvero la persona chiamata e di voler inoltre obbedire. Se il prete avesse chiamato ancora una volta certo K sarebbe andato oltre, ma poiché tutto tacque intanto che K aspettava, voltò un po' la testa, difatti voleva vedere che cosa ora facesse il prete. Stava sul pulpito tranquillo come prima, ma era evidente che aveva notato il movimento della testa fatto da K. Sarebbe stato un gioco infantile a nascondino se ora lui non si fosse girato del tutto. Lo fece e venne chiamato dal prete, col cenno di un dito, ad avvicinarsi. Poiché ora tutto poteva avvenire apertamente, lui si affrettò – tanto per curiosità quanto per abbreviare la cosa – verso il pulpito a passi lunghi e rapidi. Si fermò presso i primi banchi, ma al prete la distanza pareva ancora troppo grande, protese una mano e con l'indice energicamente abbassato indicò un punto vicinissimo al pulpito. K ubbidì, in quel punto doveva piegare la testa parecchio indietro per vedere ancora il prete. “Tu sei Joseph K”, disse questi alzando una mano sul parapetto con un movimento incerto. “Sì”, disse K pensando a quanto apertamente, prima, lui avesse sempre detto il suo nome, mentre da un po' di tempo gli faceva fatica, e ora il suo nome era noto anche a gente che lui incontrava per la prima volta - com'era bello presentarsi da principio e solo dopo venir conosciuto! “Tu sei imputato”, disse il prete assai a bassa voce. “Sì”, disse K, “mi hanno informato di ciò.” “Allora sei la persona che cerco”, disse il prete. “Sono il cappellano del carcere.” “Ah, ecco”, disse K. “Ti ho fatto chiamare qui “, disse il prete, “per parlare con te.” “Non lo sapevo”, disse K. “Sono venuto qui per mostrare il duomo a un italiano.” “Lascia perdere le cose secondarie”, disse il prete. “Cosa tieni in mano? Un libro di preghiere?” “No”, rispose K, “è un album di cose cittadine notevoli da vedere” “Toglitelo di mano”, disse il prete. K lo gettò via con tanta energia che l'album si aprì e scivolò per un pezzo sul pavimento con le pagine spiegazzate. “Lo sai che il tuo processo va male?” “Pare anche a me”, disse K. “Mi sono affaticato in ogni modo, ma finora senza successo. D'altra parte non ho ancora l'istanza pronta.” “Come t'immagini che finisca?” - chiese il prete. “Prima pensavo che dovesse finir bene”, disse K, “ora ne dubito molto anch'io, a volte. Non so come finirà. Tu lo sai?” “No”, disse il prete, “ma temo che finirà male. Ti si ritiene colpevole. Il tuo processo forse non perverrà nemmeno oltre un tribunale di basso grado. Almeno per il momento si ritiene la tua colpa come dimostrata.” “Io però non sono colpevole”, disse K. “Si tratta di un errore. Ma come può, in genere, un uomo essere colpevole? Siamo tutti uomini, qui, uno come l'altro.” “E' giusto”, disse il prete, “ma così parlano di solito i colpevoli.” “Anche tu hai un pregiudizio contro di me?” - chiese K. “Nessun pregiudizio contro di te”, disse il prete. “Ti ringrazio”, disse K. “Ma tutti gli altri che partecipano al procedimento hanno un pregiudizio contro di me. Lo infondono anche in coloro che non ne fanno parte. La mia posizione diventa sempre più difficile.” “Tu fraintendi le cose”, disse il prete. “Il verdetto non arriva in una volta sola, è il procedimento che un po' alla volta si trasforma in verdetto.” “Dunque è così”, disse K e abbassò il capo. “Che cosa vuoi fare prossimamente con la tua causa?” - chiese il prete. “Intendo cercare ancora aiuto”, disse K sollevando il capo per vedere come il prete valutava ciò. “Ci sono ancora certe possibilità che non ho sfruttato.” “Tu cerchi troppi aiuti estranei”, disse con tono di biasimo il prete, “specie tra le donne. Ma non ti accorgi che non è vero aiuto?” “Talvolta, anche spesso, potrei darti ragione”, disse K, “ma non sempre. Le donne hanno un gran potere. Se alcune donne che conosco potessi portarle a lavorare per me tutte insieme, mi imporrei. In particolare presso questo tribunale, che consiste quasi solo di donnaioli. Indica al giudice istruttore una donna da lontano e lui solo per arrivarci in tempo rovescia il tavolo del tribunale e l'imputato.” Il prete abbassò il capo verso il parapetto, solo ora la copertura del pulpito parve opprimerlo. Ma che razza di tempaccio doveva esserci fuori! Non era più una giornata fosca, era già notte fonda. Nessuna delle vetrocromie delle grandi finestre era in grado di interrompere il buio delle pareti anche solo con un bagliore. E proprio ora il sagrestano iniziava a spegnere una dopo l'altra le candele sull' altar maggiore. “Ce l'hai con me?” - chiese K al prete. “Forse non sai di che razza di tribunale sei al servizio.” Non ebbe alcuna risposta.” “Si tratta solo di esperienze mie”, disse K. In alto non vi fu parola. “Non volevo offenderti”, disse K. In quella il prete urlò verso K: “Ma non ce la fai a vedere più in là di due passi?” Urlata rabbiosa, ma insieme come di chi veda qualcuno cadere e senza volere urli perché è spaventato lui stesso.
Tacquero entrambi, ora, a lungo. Certo il prete non poteva vedere bene K nel buio che in basso dominava, mentre K, alla luce della piccola lampada, lo vedeva con chiarezza. Perché non scendeva, il prete? Non aveva tenuto mica una predica, aveva comunicato a K solo delle cose che, se lui ci avesse fatto attenzione per bene, probabilmente gli avrebbero fatto più danno che servirgli. Eppure a K pareva, quella del prete, senza dubbio un'intenzione buona, non era impossibile che il prete si unisse a lui, se scendeva, non era impossibile che lui ne ricevesse un decisivo e accettabile consiglio che, per esempio, indicasse non come si poteva influire sul processo, per dire, ma come sfuggirgli, come eluderlo, come poter vivere al di fuori di esso. Doveva esserci questa possibilità, negli ultimi tempi K ci aveva pensato più volte. Se però il prete conosceva una tale possibilità forse, se glielo si chiedeva, l'avrebbe rivelata nonostante che anche lui facesse parte del tribunale e nonostante che, quando K aveva criticato il tribunale, lui avesse represso la sua natura placida e addirittura si fosse messo a urlargli contro.
Non vuoi scendere?” - disse K. “Mica c'è da fare una predica. Vieni giù da me.” “Ora posso venire”, disse il prete, forse pentito della sua urlata. Mentre toglieva la lampada dal gancio, disse: “dapprima fui costretto a parlarti da lontano. Altrimenti mi lascio influenzare facilmente e dimentico il mio compito.”
K lo attese in fondo alla scala. Il prete gli tese la mano già da un gradino sopra, mentre scendeva. “Hai un po' di tempo per me?” - chiese K. “Quanto te ne serve”, disse il prete porgendo la piccola lampada a K perché la portasse. Anche da vicino non andava perduta una certa solennità del suo essere. “Sei molto gentile con me”, disse K. Camminavano su e giù uno accanto all'altro nella buia navata laterale. “Sei un'eccezione tra tutti quelli che fanno parte del tribunale. Mi fido più di te che di ogni altro di quelli che già conosco. Con te posso parlar chiaro.” “Non ti illudere”, disse il prete. “Ma illudermi a proposito di che?” - chiese K. “Ti fai illusioni sul tribunale”, disse il prete, “negli scritti introduttivi alla Legge è trattata tale illusione: davanti alla Legge sta un guardiano della porta. Da lui arriva un uomo dalla campagna e lo prega di farlo accedere alla Legge. Tuttavia il guardiano dice che subito non può concedergli l'accesso. L'uomo riflette e poi chiede se più tardi potrà accedervi. 'E' possibile', dice il guardiano, 'ma ora no.' Dato che il portone d'accesso alla Legge è libero come sempre e il guardiano si pone a lato, l'uomo si sporge a guardare dentro attraverso il portone. Quando il guardiano se ne accorge, ride e dice: 'se tanto ti attira, prova a entrare, nonostante il mio divieto. Ma attento: io sono potente. E sono solo il guardiano di più basso grado. Di aula in aula ci sono però uscieri uno più potente dell'altro. Già la vista del terzo nemmeno io posso tollerarla.' L'uomo di campagna non si è aspettato simili difficoltà, la Legge dev'essere a tutti e sempre accessibile, lui pensa, ma ora che guarda meglio il guardiano, il suo cappotto di pelliccia, il suo nasone a punta, la lunga e sottile barba nera alla tartara, decide che è meglio aspettare fino a quando non riceverà il permesso di accedere. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo lascia sedere di lato alla porta. Lì siede giorni e anni. Fa svariati tentativi di venir ammesso e stanca il guardiano con le sue preghiere. Il guardiano più volte dà luogo a modeste interrogazioni, gli chiede del suo luogo natio e di molto altro, ma si tratta di domande prive di partecipazione come quelle che fanno i gran signori, e in conclusione continua a ridirgli che ancora non può ammetterlo. L'uomo, che per il suo viaggio si è ben provvisto, adopera tutto, per quanto si tratti anche di valori, allo scopo di conquistare il guardiano. Questi accetta sì tutto, ma insieme dice: 'lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.' Durante quei molti anni l'uomo osserva il guardiano quasi ininterrottamente. Dimentica gli altri uscieri e questo, il primo, gli sembra l'unico ostacolo per accedere alla Legge. Maledice lo sfortunato caso, nei primi anni a voce alta, più tardi, quando invecchia, brontola soltanto, senza guardare il guardiano. Rimbambisce e poiché nello studiare per lunghi anni il guardiano ha acquisito la conoscenza anche delle pulci presenti nel bavero della sua pelliccia, prega anche le pulci di aiutarlo e di far cambiare idea al guardiano. Infine gli s'indebolisce la vista né sa se attorno a lui si fa veramente più buio o se gli occhi lo ingannano. Però è capace di riconoscere ora nel buio un brillio che inestinguibile proviene dalla porta della Legge. Non vive più a lungo, ora. Prima di morire nella sua testa tutte le esperienze di tutto quanto il tempo si riassumono in una domanda che ancora lui non ha posto al guardiano. Gli fa un cenno, dato che non riesce più ad alzarsi con il suo corpo irrigidito. Il guardiano è costretto a chinarsi profondamente, difatti la differenza di taglia tra loro è cambiata molto a sfavore dell'uomo. 'Ma che cosa vuoi ancora sapere?' - chiede il guardiano, 'sei insaziabile.' 'Tutti mirano alla Legge', dice l'uomo, ' ma com'è che in tanti anni nessuno, oltre a me, ha chiesto di essere ammesso?' Il guardiano comprende che l'uomo è già arrivato alla fine e, per riuscire a farsi sentire da quelle orecchie morenti, gli grida: 'qui nessun altro poteva ottenere di essere ammesso, quest'entrata era destinata solo a te. Ora vado a chiuderla.' “
Dunque il guardiano ha ingannato l'uomo”, disse subito K, tutto preso dalla storia. “Non aver troppa fretta”, disse il prete, “non accettare l'opinione di estranei senza metterla alla prova. Ti ho riferito la storia testualmente. Non v'è niente che parli d'inganno.” “Invece è chiaro”, disse K, “e la tua prima lettura era giustissima. Il guardiano ha fatto la comunicazione liberatoria solo allorquando essa non poteva più aiutare l'uomo.” “Non venne interrogato, prima”, disse il prete, “considera che era solo un guardiano e come tale ha fatto il suo dovere.” “Perché dici che ha fatto il suo dovere?” - chiese K, “non l'ha fatto. Il suo dovere forse era respingere tutti gli estranei, ma quell'uomo era destinato all'accesso, lui avrebbe dovuto farlo passare.” “Non sei stato abbastanza attento al testo e cambi la storia”, disse il prete. “La storia contiene in merito all'accesso alla Legge due spiegazioni importanti da parte del guardiano, una all'inizio, una alla fine. Nell'una dice 'che non poteva subito concedergli l'accesso', e nell'altra: 'questo accesso era destinato solo a te.' Se ci fosse tra queste due spiegazioni una contraddizione allora avresti ragione tu e il guardiano avrebbe ingannato l'uomo. Orbene, non c'è però alcuna contraddizione. Al contrario, la prima spiegazione accenna alla seconda, perfino. Il guardiano andò oltre il suo dovere, si potrebbe dire, nel prospettare all'uomo la futura possibilità di essere ammesso. In quel momento sembra essere stato suo dovere solo respingere l'uomo. E in effetti molti esegeti si meravigliano del fatto che il guardiano abbia fatto quell'accenno, difatti egli pare amar la correttezza e veglia severo sul suo ufficio. Per molti anni non lascia il suo posto e chiude il portone solo all'ultimo, è assai consapevole dell'importanza del suo servizio, difatti dice: 'io sono potente', ha rispetto per i superiori, difatti dice 'sono solo l'ultimo degli uscieri'; com'è suo dovere lui non si fa commuovere né esasperare, difatti dell'uomo si dice che 'stanca il guardiano con le sue preghiere'; non è ciarliero, difatti durante molti anni pone solo domande, sta scritto, 'senza partecipazione'; non è corruttibile, difatti in merito a un dono dice di prenderlo 'solo perché' l'uomo 'non creda di aver trascurato qualcosa'; infine anche il suo aspetto esteriore, il nasone a punta e la lunga barba sottile alla tartara, indica un carattere pedante. Può esserci un guardiano più ligio al dovere? Orbene, però in lui sono commisti anche altri tratti caratteriali che, per chi desidera l'ammissione alla Legge, sono assai positivi e rendono pur sempre comprensibile che lui in quell'accenno a una futura possibilità potesse essere andato un po' oltre il suo dovere. Voglio dire che è innegabile che lui sia un po' semplicista e, in rapporto a ciò, un po' presuntuoso. Anche se le sue affermazioni circa il suo potere, circa il potere degli altri guardiani e circa la loro vista perfino a lui intollerabile – dico, anche se tutte queste affermazioni dovessero essere corrette, il modo in cui lui le formula indica però che il suo comprendonio è offuscato dall'ingenuità e dalla superbia. Gli esegeti dicono: comprensione corretta di una cosa e comprensione scorretta della medesima cosa non si escludono a vicenda del tutto. Comunque si deve ammettere però che ogni ingenuità e presunzione, per quanto si mostrino forse al minimo, indeboliscono la sorveglianza dell'accesso, si tratta di lacune nella fermezza del guardiano. Inoltre il guardiano sembra essere per natura gentile, non è assolutamente sempre un uomo d'ufficio. Fin dai primi momenti per scherzo nonostante il vigente divieto di ingresso invita l'uomo, poi non lo manda via, diciamo così, ma gli dà uno sgabello, come sta scritto, e lo fa sedere da una parte davanti alla porta. La pazienza con cui per anni e anni tollera le preghiere dell'uomo, i brevi colloqui, l'accettazione dei doni, l'eleganza con cui ammette che l'uomo lì a due passi deprechi a voce alta l'infelice caso che ha messo sul posto il guardiano – tutto questo lascia concludere che in lui vi siano sentimenti compassionevoli. Non tutti i guardiani avrebbero agito così. E da ultimo basta un cenno perché lui si chini tutto verso l'uomo per dargli l'opportunità della domanda finale. Appena un po' d'impazienza – il guardiano sa che è davvero la fine – si esprime nelle parole 'sei insaziabile'. Diversi esegeti vanno oltre, con tale modalità esplicativa, e opinano che le parole 'sei insaziabile' esprimano una sorta di amichevole stupore del resto non privo di simpatia. Comunque così la figura del guardiano si definisce diversamente da come tu ritieni.” “Tu credi dunque che l'uomo non venne ingannato?” “Non equivocare le mie parole”, disse il prete, “ti segnalo solo le opinioni che ci sono in merito. Non devi badare troppo alle opinioni. Il testo è immutabile e sovente le opinioni sono soltanto un'espressione di disperazione ad esso riferita. In questo caso c'è perfino un'opinione secondo cui proprio il guardiano è la persona ingannata.” “E' un'opinione estensiva”, disse K, “che fondamento ha?” “Il fondamento”, rispose il prete, “sta l'ingenuità del guardiano. Si dice che egli non conosce l'interno della Legge, ma solo il percorso che davanti all'ingresso lui deve sempre ripercorrere. Ciò che egli s'immagina dell'interno viene ritenuto infantile e si suppone che lui stesso tema l'oggetto della paura che vuol incutere all'uomo. Anzi lo teme più dell'uomo, difatti questi non vuole nient'altro che entrare, anche quando è venuto a sapere dei terribili guardiani che ci sono all'interno, al contrario il guardiano non vuole entrare, almeno, nulla se ne sa. Altri dicono, è vero, che in precedenza nell'interno dev'esserci stato, il guardiano, difatti un tempo è stato assunto al servizio della Legge, cosa che può avvenire solo nell'interno. A ciò si può rispondere che lui potrebbe esser stato fatto guardiano tramite una nomina dall'interno, ma all'interno potrebbe non esserci stato, per lo meno non molto all'interno, dato che non riesce a tollerare già la vista del terzo guardiano. A parte ciò, tuttavia, non si dice che in tanti anni egli abbia riferito qualcosa dell'interno, a parte quel che disse circa i guardiani. Potrebbe esser stato proibito farlo, ma neppure della proibizione egli riferisce qualcosa. Da ciò si conclude che lui non sa nulla di come si presenta e di quale sia il significato dell'interno, per questo s'inganna. Tuttavia lui forse s'inganna anche sull'uomo di campagna, difatti gli è subordinato, e non lo sa. Che lui tratti l'uomo come un subordinato si capisce da molte cose, non te ne scordare. Che però di fatto gli sia subordinato deve risultare, secondo tale opinione, altrettanto chiaramente. Prima di tutto il libero cittadino è anteposto al cittadino soggetto a controllo. Orbene, l'uomo è di fatto libero, può andare dove vuole, solo l'accesso alla Legge gli è proibito e inoltre solo da un singolo, dal guardiano. Se si siede di lato al portone sullo sgabello e ci resta per tutta la vita, ciò avviene per sua libera volontà, la storia non riferisce di alcuna costrizione. Al contrario il guardiano è legato dal suo ufficio al suo posto, non ha il permesso di allontanarsi, ma stando all'apparenza non può neanche andare nell'interno, anche volendo. Oltre a ciò lui è sì al servizio della Legge, ma nei limiti di questo ingresso, dunque anche solo per quest'uomo al quale soltanto è destinato quest'ingresso. Anche per questo motivo il guardiano gli è subordinato. E' ipotizzabile che per anni e anni, durante l'età virile, egli abbia prestato un servizio privo di scopo, difatti viene detto che viene un uomo, dunque qualcuno di età virile, che dunque il guardiano dovette attendere a lungo prima che il suo compito si realizzasse, così a lungo quanto all'uomo aggradava, il quale venne tuttavia di sua volontà. Tuttavia anche il termine del servizio viene determinato dal termine della vita dell'uomo, fino al termine il guardiano gli rimane subordinato. E continua a essere sottolineato che di tutto questo il guardiano non sembra sapere nulla. In ciò non viene visto però nulla di scandaloso, difatti stando a quest'opinione il guardiano si ritrova in un più grave inganno, che riguarda il suo servizio. Da ultimo, mi spiego, egli parla dell' entrata e dice 'ora vado e la chiudo', ma all'inizio sta scritto che il portone alla Legge è libero come sempre, ma se è libero come sempre, vale a dire sempre, indipendentemente dalla durata della vita dell'uomo cui è destinato, allora nemmeno il guardiano lo potrà chiudere. Su questo le opinioni si dividono: annunciando che chiuderà il portone il guardiano vuol dare solo una risposta, o vuol rimarcare il suo dovere, oppure all'ultimo momento vuol far pentire l'uomo e rattristarlo? In molti però concordano su fatto che lui il portone non potrà chiuderlo. Addirittura ritengono che alla fine egli sia subordinato all'uomo anche in quel che lui sa, difatti l'uomo vede il brillio che viene fuori dall'ingresso della Legge, mentre il guardiano, come tale, sta con le spalle al portone e in nessun modo mostra di aver notato un cambiamento.” “E' ben fondata quest'opinione”, disse K, che sottovoce aveva ricapitolato per sé , della spiegazione del prete, i singoli punti. “Ben fondata, ora credo che anche il guardiano s'inganni. Con ciò non ho abbandonato la mia opinione di prima, difatti entrambe in parte coincidono. Non è determinante che il guardiano abbia le idee chiare o invece s'inganni. L'uomo viene ingannato, dissi. Se il guardiano ha le idee chiare si potrebbe avere il dubbio se l'uomo venga, o non venga, ingannato; ma se il guardiano s'inganna, allora il suo essere ingannato necessariamente deve trasferirsi sull'uomo. Il guardiano no, non è affatto un impostore, ma allora è così ingenuo che dovrebbe subito essere cacciato dal suo servizio. Puoi però considerare che l'inganno in cui si trova il guardiano non lo danneggia per niente, mentre danneggia l'uomo millanta volte.” “Qui incorri in una opinione contraria”, disse il prete. “Voglio dire, molti dicono che la storia non dà ad alcuno il diritto di giudicare in merito al guardiano. A parte il modo come egli ci appare, è un servitore della Legge, dunque le appartiene, dunque è distolto dal giudizio umano. Si può poi anche non credere che il guardiano sia subordinato all'uomo. Esser legato dal suo servizio, anche solo all'accesso alla Legge, è incomparabilmente di più che non vivere liberi nel mondo. L'uomo alla Legge viene e basta, il guardiano c'è già. Dalla Legge è destinato al servizio, dubitare del suo esserne degno, significa dubitare della Legge.” “Con tale opinione non sono d'accordo”, disse K scuotendo la testa, “difatti se si aderisce a essa, si deve ritenere vero tutto quel che il guardiano dice. Che però ciò non sia possibile, tu stesso lo hai dettagliatamente motivato.” “No”, disse il prete, “non si deve ritenere tutto vero, si deve solo ritenerlo necessario.” “Opinione triste”, disse K. “La menzogna viene trasformata in ordinatrice del mondo.”
K lo disse a mo' di conclusione, ma non era il suo un giudizio definitivo. Era troppo stanco per poter tener d'occhio tutte le conseguenze argomentative della storia, inoltre i ragionamenti a cui essa lo portava erano insoliti, astrazioni più adatte alle discussioni della compagnia dei funzionari del tribunale che a lui. Quella semplice storia era diventata un qualcosa d'informe, lui voleva sbarazzarsene e il prete, ora dimostrando un gran tatto, fu tollerante e tacque all'osservazione di K, nonostante che certo non coincidesse con la sua propria.
Continuarono per un po' a camminare in silenzio, K tenendosi stretto al prete senza sapere, nella tenebra, dove si trovasse. La lampada che aveva in mano s'era da molto spenta. A un tratto proprio davanti a lui luccicò la statua argentea d'un santo solo per il brillare dell'argento, e subito risparì nel buio. Per non abbandonarsi del tutto al prete, K gli chiese: “Non siamo nelle vicinanze dell'ingresso principale?” “No”, disse il prete, “ne siamo lontani. Vuoi già andartene?” Nonostante che in quel momento K non ci pensasse, disse subito: “Certo, devo andare. Sono procuratore in una banca, mi aspettano, sono venuto solo per mostrare a un collega straniero il duomo.” “Be'”, disse il prete porgendogli la mano, “allora va'.” “Ma non riesco da solo a orientarmi nel buio”, disse K. “Tieniti a sinistra alla parete”, disse il prete, “poi seguila senza lasciarla e troverai un'uscita.” S'era allontanato di pochi passi, il prete, e già K lo chiamava a voce altissima: “per favore, aspetta.” “Aspetto”, disse il prete. “Non vuoi ancora qualcosa da me?”, chiese K. “No”, disse il prete. “Fosti così gentile con me, poco fa”, disse K, “mi hai spiegato tutto, ora invece mi abbandoni come se non t'importasse nulla di me.” “Ma devi andare”, disse il prete. “Sì, certo”, disse K, però abbi considerazione.” “Abbine tu, prima, di chi sono io”, disse il prete. “Sei il cappellano del carcere”, disse K e gli si avvicinò, il suo immediato ritorno in banca non era così necessario come l'aveva presentato, poteva ben restare ancora lì. “E faccio parte del tribunale”, disse il prete. “Perché dunque dovrei voler qualcosa da te. Il tribunale da te non vuole nulla. Ti riceve quando vieni, e ti lascia quando vai.”

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