lunedì 30 luglio 2012

F.Kafka: La coppia coniugale


Lo stato generale degli affari è così cattivo che addirittura mi capita, se in ufficio ne trovo il tempo, di prendere la cartella con i modelli e di andare di persona dai clienti. Già da un po’, tra l’altro, mi ero riproposto di andare una volta da K., con cui in precedenza sono stato in stabili rapporti di lavoro che, tuttavia, l’anno scorso per motivi a me ignoti si sono pressoché interrotti. Per inconvenienti simili non serve affatto che ci siano neppure vere ragioni; negli odierni rapporti instabili spesso a decidere è un nulla, uno stato d’animo, e altrettanto un nulla, una parola, può rimettere tutto a posto. Però è un poco disagevole recarsi da K.; è un uomo vecchio, ultimamente molto malato, ed anche se tiene ancora in mano gli affari del negozio, sul lavoro non viene di persona quasi più; se si vuole parlarci bisogna andare a casa sua, e un’incombenza di lavoro del genere volentieri si rimanda.
Ieri sera dopo le sei comunque mi mossi; certo non era più affatto ora di visite, ma la faccenda era valutabile come commerciale, non d’ufficio. Ebbi fortuna, K. si trovava a casa; appena tornato insieme a sua moglie da una passeggiata, mi dissero in anticamera, era nella camera di suo figlio, a letto perché non stava bene. Mi pregarono inoltre di entrare; dapprima tentennai, ma poi prevalse il desiderio di por fine alla penosa visita prima possibile, così mi feci accompagnare come mi trovavo, cappotto, cappello e cartella dei modelli in mano, attraverso una stanza buia in un'altra male illuminata, dove si trovava riunita una piccola compagnia.
Quasi d’istinto il mio sguardo cadde dapprima su un agente di commercio anche troppo ben noto, in certo modo mio concorrente. Dunque si era di nuovo infilato qui prima di me. Sedeva comodo vicino al letto del malato come se fosse il medico; stava lì con il suo bel cappottone aperto, colossale; la sua sfrontatezza non ha pari; anche il malato doveva pensare qualcosa del genere, mentre giaceva a letto con le guance un po’ arrossate dalla febbre ed a tratti lo guardava. Non è più giovane, tra parentesi, avrà la mia età, il figlio, con la barba, a causa della malattia, tutta quanta mal cresciuta. Il vecchio K., un omone dalle spalle larghe, ma, con mio stupore, molto dimagrito per via delle sue segrete pene, incurvito e malfermo, si trovava ancora come era arrivato, in pelliccia, e mormorava qualcosa in direzione del figlio. Sua moglie, minuta e decrepita, ma molto vivace limitatamente a ciò che riguardava il marito – noialtri ci guardava appena – era indaffarata a togliergli la pelliccia, quel che la gran differenza tra i due rendeva un po’ difficoltoso, però da ultimo ci riuscì. Del resto il difficile stava nel fatto che K. non aveva pazienza e si agitava, proteso a tentoni verso l’agognata poltrona che poi, dopo che la pelliccia fu tolta, sua moglie gli avvicinò svelta. Prese la pelliccia quasi scomparendoci sotto e la portò via.
A questo punto finalmente mi sembrò venuto il mio momento, o meglio, non era venuto e probabilmente neppure sarebbe venuto; se però d’altra parte volevo ancora fare un qualche tentativo, doveva succedere ugualmente, perché avevo la sensazione che in quel luogo le premesse per una discussione d’affari stessero diventando ancora più sfavorevoli; però piazzarmi lì, come sembrava che ne avesse l’intenzione l’agente, non mi piaceva; del resto non volevo avere per lui la minima considerazione. Così cominciai veramente di punto in bianco ad esporre la mia faccenda, nonostante notassi che a K. faceva piacere intrattenersi un po’ con il figlio. Purtroppo ho l’abitudine, parlando in stato di leggera agitazione – cosa che avvenne ancor prima del solito in questa camera di malato – di alzarmi e andare, durante il discorso, avanti e indietro. Quando si è nel proprio ufficio si tratta di un’ottima mossa, in casa d’altri tuttavia è un po’ fastidiosa. Ma non riuscivo a dominarmi, senza contare che mi mancava la solita sigaretta. Ora, ciascuno ha le sue cattive abitudini, ciò nonostante le mie, in confronto a quelle dell’agente, io le lodo. Che dire per esempio del fatto che lui, totalmente di sorpresa, a un tratto si mise in testa il cappello che teneva appoggiato su un ginocchio e che continuava adagio a spostare su e giù; certo, se lo ritolse come se fosse stata una svista, tuttavia l’aveva tenuto in testa per un attimo, e lo rifece, e continuò ancora ad intervalli di tempo. Impossibile qualificare una condotta simile. Non importa, vado avanti e indietro, sono tutto preso dalle mie cose nel parlare e ci passo sopra, ma possono esserci persone che un simile numero cappellistico può portare alla completa perdita del controllo. A dire il vero io non ci bado, non solo non mi scaldo per un disturbo del genere, ma neppure per nessun disturbo in assoluto, certo che vedo quel che succede, ma lo accetto finché non ho finito o finché non mi arriva un’obbiezione che per così dire mi colga impreparato. Così notai bene per esempio che K. era assai poco ricettivo; a disagio continuava a ruotare le mani intorno ai braccioli, non guardava me, vanamente intento, piuttosto, a cercar qualcosa nel vuoto, e il suo viso sembrava così disinteressato come se nessun suono delle mie parole, e certo neppure una sensazione della mia presenza, entrassero in lui. Anche se vedevo che tale condotta insolita mi dava poco da sperare, continuai a parlare come se comunque avessi ancora qualche speranza di riequilibrare nuovamente, alla fine, ogni cosa con le mie parole, con le mie vantaggiose offerte – io stesso ero sgomentato dalle concessioni che stavo facendo, concessioni che nessuno mi aveva chiesto. Un certo compiacimento mi venne anche dal fatto che l’agente, come notai di sfuggita, finalmente lasciò in pace il cappello e incrociò le braccia sul petto; le mie argomentazioni, che certo in parte erano calibrate anche su di lui, sembravano assestare un duro colpo ai suoi piani. E avrei continuato a parlare forse ancora a lungo, nello stato di benessere in quel modo generatosi, se il figlio, cui non avevo finora fatto caso in quanto persona per me marginale, non si fosse tirato su nel suo letto e, minacciandomi con un pugno, non mi avesse fatto tacere. Visibilmente aveva intenzione anche di dire qualcosa, di segnalare qualcosa, ma non ne ebbe la forza necessaria. Dapprima scambiai il tutto per un delirio, ma poi senza volere mi accorsi del vecchio K. e compresi meglio.
K. sedeva là, gli occhi aperti, vitrei, gonfi, per il momento ancora sotto controllo, tremando chinato in avanti come se qualcuno lo stringesse o lo colpisse sulla nuca, il labbro inferiore e anche la mandibola, tutte scoperte le gengive, penzolavano per conto loro, il volto interamente sfatto; se non altro respirava, quand’anche con difficoltà, ma poi come sciolto cadde indietro contro la spalliera, chiuse gli occhi, gli passò ancora sul viso l’espressione di qualche gran fatica, e fu finita. Svelto balzai verso di lui, gli presi una mano rilasciata e morta, fredda da far rabbrividire; non c’era più pulsazione alcuna. Così dunque era la fine. Certo, un vecchio. Magari la morte potesse venirci con la stessa leggerezza. Ma quanto c’era da fare, ora! E cosa, prima di tutto, e alla svelta? Mi guardai intorno in cerca d’aiuto; ma il figlio si era tirata la coperta sulla testa, si sentiva il suo singhiozzare; L’agente, freddo come una rana, sedeva immobile nella sua poltrona, a due passi da K., ed era evidente che non aveva intenzione di far nulla, se non aspettare che scorresse il tempo; dunque io, soltanto io restavo per far qualcosa, ed ora giustappunto la cosa peggiore, cioè dare la notizia alla signora in un qualche modo accettabile, un modo che però non esiste. E già udivo nella stanza accanto i passi, premurosi e strascicati.
Ella – ancora in abito da passeggio, non aveva avuto il tempo di cambiarsi – recava una camicia da notte tenuta al caldo sulla stufa, che ora voleva far mettere al marito. “Si è addormentato”, disse sorridendo e scrollando la testa, quando ci trovò così silenziosi. E, infinita fiducia dell’innnocenza, prese la stessa mano che io avevo tenuto con ripugnanza e timore nella mia, la baciò con breve tocco coniugale e – per il gran piacere di noialtri tre – K. si mosse, sbadigliò rumorosamente, si lasciò infilare la camicia, sopportò tra l’ironico e l’irritato gli affettuosi rimproveri della moglie per essersi lui tanto sforzato nella passeggiata troppo lunga e, per spiegare dal suo punto di vista il fatto di essersi addormentato, obbiettò curiosamente qualcosa sulla noia. Poi si stese momentaneamente, per non prender freddo nel passaggio in altra stanza, a letto insieme al figlio; la sua testa fu fatta adagiare, accanto ai piedi del malato, su due cuscini sveltamente portati lì dalla moglie. Dopo quel che era successo, non ci trovai proprio niente di strano. Poi chiese il giornale della sera, lo prese senza riguardo per gli ospiti, ma non si mise a leggere, lo scorse un poco e, con sorprendente perspicacia professionale, ci espresse qualche vera e propria spiacevolezza in merito alle merci da noi offerte, mentre con la mano libera continuava a fare gesti sprezzanti ed accennava, schioccando la lingua, al cattivo sapore che il nostro agire professionale gli aveva lasciato in bocca. L’agente non riuscì a trattenersi dal formulare qualche inopportuna osservazione, perfino con la sua grossolana sensibilità capiva bene che ora K. doveva produrre una qualche compensazione a quel che era successo prima, ma indubitabilmente la cosa non gli andava giù. Io mi congedai alla svelta, quasi grato all’agente; senza la sua presenza non avrei avuto la forza di andarmene così subito.
Nell’anticamera incontrai ancora la signora K.. Vedendone l’aspetto dimesso espressi con franchezza quel che pensavo, che mi ricordava un poco mia madre. E, dato che restava in silenzio, aggiunsi:” Che cos’altro si può dire a questo punto, quella era capace di miracoli. Ciò che noi avevamo distrutto, lei lo rimetteva a nuovo. L’ho perduta quand’ero bambino.” Intenzionalmente avevo parlato in modo lentissimo e chiaro, infatti credevo che la vecchia signora fosse debole d’udito. Invece era proprio sorda, infatti di rimando chiese: “Che mi dite dell’aspetto di mio marito?”. Nelle poche parole di commiato del resto mi accorsi che mi scambiava per l’agente; volentieri ritenni che altrimenti avrebbe avuto con me più familiarità.
Poi scesi le scale. La discesa fu più ardua della salita che l’aveva preceduta, e mai qui una salita era stata facile. Ohi, ohi, cosa non capita nei giri di lavoro a vuoto, e cosa non si seguita a sopportare!


giovedì 26 luglio 2012

F.Kafka: Era solo un gioco di pazienza


Era solo un gioco di pazienza, un semplice gioco di poco prezzo, non più grande di un orologio da tasca, privo di qualsiasi meccanismo particolare. Sulla superficie di legno verniciata di rosso e marrone c’erano dei tracciati, blu, alcuni sbagliati, altri sfocianti in una buchetta. La pallina, anch’essa blu, si cominciava a farla scendere in uno dei tracciati e infine nella buca. Entrata in buca la pallina, il gioco era finito; per ricominciare, si doveva di nuovo far uscire dalla buca la pallina. Tutto quanto era coperto da un robusto vetro concavo, si poteva infilare il gioco di pazienza in tasca e portarselo dietro, e, ovunque si fosse, tirarlo fuori e giocare.
La pallina era disoccupata, dunque, nella maggioranza dei casi, le mani dietro la schiena, qua e là sulla superficie scansava i tracciati. A suo parere, tra una giocata e l’altra, lei si annoiava abbastanza, quindi aveva il diritto, se non veniva giocata, di riposarsi sulla superficie libera. Aveva un’andatura arrogante e asseriva di non esser fatta per quegli angusti tracciati. Ciò in parte era vero, perché i tracciati potevano appena contenerla, ma era anche sbagliato, perché lei era accuratissimamente calibrata sulla larghezza di ogni singolo tracciato, tuttavia i tracciati non potevano risultarle comodi, perché altrimenti non ci sarebbe stato alcun gioco di pazienza.



martedì 24 luglio 2012

F.Kafka: Nella nostra sinagoga


Nella nostra sinagoga vive un animale di taglia simile a quella di una martora. Tollera che le persone gli si avvicinino fino alla distanza di due metri, qualche volta è molto bello da vedere. Il suo colore è un verdazzurro chiaro. Nessuno però ha sfiorato la sua pelliccia, quindi non se ne può dire nulla di più, si potrebbe quasi affermare, anche, che il vero colore del pelame è ignoto, forse quello visibile deriva solo dalla polvere e dalla malta cadutevi sopra, ed ha qualcosa anche dell’intonaco interno della sinagoga, solo un po’ più chiaro. Si tratta, considerando la sua ritrosia, di un animale stanziale estremamente calmo; non venisse spaventato così spesso, si sposterebbe ben difficilmente, la sua dimora preferita è la griglia della zona riservata alle donne **, alle cui maglie si aggrappa con agio evidente, si stira e guarda giù dove si prega, quest’audace posizione sembra rallegrarlo, ma l’inserviente del Tempio ha l’incarico di non permetterglielo mai, lui ci si abituerebbe e ciò, a causa delle donne che ne hanno paura, non può essere consentito. Perché lo temano non è chiaro. A prima vista sì, sembra che siano spaventate dal lungo collo, dal muso triangolare, dalla fila di denti superiori sporgente quasi in orizzontale sul labbro, dal pelame chiaro setoloso appaentemente molto duro, ma subito si deve riconoscere che tutta quest’apparente spaventosità è innocua. Innanzitutto lui si tiene ben lontano dalle persone, è più ritroso di un animale della foresta, non pare legato ad alcunché se non all’edificio, e la sua personale infelicità risiede tutta nel fatto che quest’edificio è una sinagoga, cioè un posto a momenti animatissimo. Si potrebbe comunicare con l’animale, si potrebbe davvero consolarlo con l’argomento che la comunità della nostra cittadina montana di anno in anno diviene più piccola e ciò le rende faticoso sostenere i costi della manutenzione della sinagoga. Non è escluso che tra breve la sinagoga diventi un granaio o simili, e che l’animale abbia la calma che ora gli manca dolorosamente.Soltanto le donne, a dire il vero, temono l’animale, agli uomini è diventato da molto tempo indifferente, una generazione lo ha mostrato all’altra, sempre si è continuato a vederlo, in realtà non gli si è più rivolto uno sguardo, e neanche i ragazzi che lo vedono per la prima volta si stupiscono più. E’ divenuto l’animale domestico della sinagoga, perché la sinagoga non dovrebbe avere un animale speciale mai apparso in altro luogo? Se ne saprebbe a mala pena l’esistenza, non fosse per le donne. Ma anche loro non hanno nessuna vera paura di fronte all’animale, sarebbe anche troppo strano temere un siffatto animale ogni giorno - per decine di anni. Si giustificano, certo, con l’argomento che l’animale il più delle volte si trova molto più vicino a loro che non agli uomini, e questo è vero. L’animale non si azzarda a scendere tra gli uomini, ancora non lo si è mai visto sul pavimento. Non gli si permette di arrampicarsi sulla griglia della zona riservata alle donne, così lui si tiene almeno alla stessa altezza sulla parete opposta. Lì c’è una stretta sporgenza del muro, larga appena due dita, che corre intorno ai tre lati della sinagoga, l’animale qualche volta ci transita svelto avanti e indietro, di solito però sta accovacciato tranquillamente in un certo posto elevato dirimpetto alle donne. E’ quasi incomprensibile come riesca così facilmente a servirsi di questo stretto passaggio, e merita di esser visto come, arrivato in fondo, lassù si rigiri, è un animale certo molto vecchio, eppure non esita a fare le piroette più ardite, davvero non fallisce mai, s’è appena girato in aria e già rifà il suo percorso in direzione opposta. Veramente quando lo si è visto qualche volta se ne ha abbastanza e non si ha alcun motivo di continuare a guardarlo. Sì, non è né paura né curiosità quel che tiene le donne in agitazione, fossero più impegnate nella preghiera potrebbero dimenticare del tutto l’animale, quelle devote lo farebbero anche, se le altre, che sono la gran maggioranza, lo permettessero, queste tuttavia desiderano spesso e volentieri attirare su di sé l’attenzione e l’animale è un pretesto benaccolto. Se potessero, se ne avessero il coraggio, attirerebbero l’animale ancora più vicino, per avere ancor più paura. In realtà però è vero che l’animale non si spinge affatto dalla loro parte, se non lo si assale si occupa poco delle donne come degli uomini, resterebbe probabilmente per lo più ritirato come fa tra una funzione religiosa e l’altra, forse in un buco nel muro che ancora noi non abbiamo scoperto. Appena s’inizia a pregare lui appare, spaventato dal chiasso vuol vedere che cos’è successo, vuole restare vigile, vuole essere libero, in grado di fuggire, corre fuori, fa le sue capriole di paura e non si azzarda a ritirarsi fino a quando la funzione religiosa non è terminata. Preferisce l’alto naturalmente perché lì è sicurissimo ed ha le sue migliori possibilità di fuggire sulla griglia e sulla sporgenza del muro, ma assolutamente non sta sempre lì, talvolta scende più in basso verso gli uomini; la cortina che copre l’Arca dell’Alleanza *** è sostenuta da una sbarra di ottone che sembra attrarre l’animale, lui striscia piuttosto spesso fin lì, dove però sta sempre tranquillo, mai una volta, quando è vicino all’Arca, si può dire che disturbi, con i suoi occhi lucenti sempre aperti, forse privi di palpebre, sembra guardare la comunità, ma certo non guarda nessuno, piuttosto guarda soltanto ai pericoli dai quali si sente minacciato. A questo riguardo lui pareva, almeno fino a poco tempo fa, non molto più assennato delle nostre donne. Quali pericoli ha poi da temere? Chi ha in animo di fargli qualcosa? Non vive in definitiva da molti anni del tutto abbandonato a se stesso? Gli uomini non s’interessano della sua presenza e la maggioranza delle donne sarebbe probabilmente scontenta se sparisse. E siccome è l’unico animale dell’edificio non ha del resto alcun nemico. In fin dei conti dovrebbe averlo già capito, negli anni. E la funzione religiosa con il suo chiasso può, sì, essere alquanto paurosa per l’animale, tuttavia essa si ripete con regolarità e senza sospensioni, breve ogni giorno, più lunga nelle festività, anche l’animale più pauroso avrebbe già potuto abituarsi, soprattutto vedendo che il chiasso non è qualcosa che proviene da persecutori, ma è un chiasso che non lo riguarda affatto. E tuttavia questa paura. E’ memoria di tempi lontani o presentimento di tempi a venire? Forse questo vecchio animale non lo sa meglio di quanto lo sappiano le tre generazioni che, di volta in volta, si sono radunate nella sinagoga. Molti anni or sono, così raccontano, deve davvero esser stato fatto il tentativo di allontanare l’animale. E’ certo possibile che sia vero, probabilmente tuttavia si tratta solo di storie inventate. Certo si può dimostrare che quella volta si è analizzata, dal punto di vista della legittimità religiosa, la questione se un animale simile potesse esser tollerato nella Casa del Signore. Si richiese il parere di svariati noti rabbini, le opinioni si divisero, i più furono favorevoli all’allontanamento ed alla reinaugurazione della Casa del Signore, ma tale decreto era facile a distanza, in verità era davvero impossibile allontanare l’animale.



** Divisorio che serve o serviva a non distrarre i fedeli e le fedeli dalla preghiera.
*** Cassa di legno ricoperta, dentro e fuori, con lamine d’oro, contenente le due Tavole della Legge.  

mercoledì 18 luglio 2012

F.Kafka: Difensore *


C’era molta incertezza sul fatto che io avessi il difensore, intanto non ero capace di sapere con precisione alcunché, ogni faccia mancava di affabilità, la maggior parte delle persone che incontravo e che urtavo di continuo negli ambulacri avevano l’aspetto di vecchie donne incinte, dei grandi grembiali a strisce blu e bianche nascondevano loro tutto il corpo, si sfioravano il ventre e andavano lentamente avanti e indietro. Non riuscivo neanche a sapere se ci trovavamo in un tribunale. Certi indizi lo confermavano, molti no. A parte tutti i dettagli, quello che mi ricordava di più un tribunale era un boato che si poteva di continuo sentire a distanza, non si sapeva da quale direzione, colmava tanto ogni spazio che si poteva ammettere che provenisse da ogni parte oppure, ciò che sembrava ancora più corretto, che il posto stesso dove fortuitamente ci si trovava fosse il vero e proprio luogo di tale boato, ma era di sicuro un’illusione, perché quello veniva da lontano. Questi ambulacri, stretti, dal semplice soffitto a volta, rallentati da cambi di direzione, con alte porte parsimoniosamente ornate, sembravano addirittura creati allo scopo di accrescere il silenzio, come corridoi di un museo o di una biblioteca. Se tuttavia non si trattava assolutamente di un tribunale, perché poi cercavo un difensore lì? Perché più di tutto desideravo un difensore, necessario più di tutto, certo utile meno in tribunale che altrove, dato che il tribunale giudica secondo la legge si deve accettare che agisca nell’occasione in modo ingiusto o sventato, sia pure al prezzo della vita si deve aver fiducia che il tribunale apra spazi alla maestà della legge, perché tale è il suo unico dovere, però nell’ambito della legge tutto è imputazione, difesa e giudizio, l’intrusione autonoma di una persona sarebbe qui un sacrilegio. D’altra parte le cose cambiano in merito alla fattualità di un giudizio, questo si basa su accertamenti, su indagini varie, particolarmente brevi, presso parenti ed estranei, amici e nemici, presso la famiglia e il pubblico, la città e il paese. In questo caso è urgentissimamente necessario il difensore, difensori in quantità, difensori al meglio, uno accanto all’altro, un muro vivente, perché i difensori sono per loro natura molto lenti, le imputazioni, invece, queste volpi astute, queste donnole leste, questi topolini invisibili, sgusciano nelle minime falle, scivolano tra le gambe dei difensori. Attenzione, dunque! Ecco perché mi trovo qui, faccio incetta di difensori. Ma ancora non ne ho trovato nessuno, soltanto queste vecchie vanno e vengono di continuo, se non fossi qui a cercare, mi verrebbe da addormentarmi. Non sono nel posto giusto, sfortunatamente non posso respingere l’impressione di non essere nel posto giusto. Dovrei essere in un posto dove s’incontrano persone di ogni genere, di svariate contrade, di ogni città, di ogni mestiere, di età varie, dovrei avere la possibilità di scegliere tra molti gl’idonei, gli amichevoli, coloro che hanno nei miei riguardi un certo riguardo. Al meglio sarebbe adeguata forse una grande fiera annuale. Invece sto vagando per questi ambulacri dove riesco a vedere soltanto queste vecchie donne, anche poche e sempre ogni volta le stesse, e nonostante la loro lentezza lo stesso non si fanno intercettare da me, mi scappano, stanno sospese come nubi gonfie di pioggia, tutte occupate in faccende ignote. Perché corro alla cieca in un edificio, non leggo quel che c’è scritto sulla porta, rimango negli ambulacri, resto fermo qui con un’ostinazione tale che non so ricordare di essere mai stato davanti all’edificio, di aver mai fatto le scale di corsa. Tuttavia indietro non posso andare, questa perdita di tempo, quest’ammissione di aver sbagliato strada, mi sarebbero insopportabili. E che? Riscendere giù una scala  in questa breve precipitosa vita accompagnata dall’impazienza di un boato? Impossibile. La dose di tempo che Ti è concessa è tanto breve che Tu, se perdi un secondo, hai già perso tutta la Tua vita, perché essa non è lunga di più, lo è sempre soltanto come il tempo che perdi. Hai dunque iniziato una strada, continuala comunque, puoi soltanto vincere, non corri alcun pericolo, forse alla fine cadrai, ma se Ti fossi, già dopo i primi passi, girato indietro e fossi ridisceso giù per la scala, saresti ugualmente caduto all’inizio, non forse, ma con certezza. Non trovi niente negli ambulacri, apri le porte, non ci trovi niente dietro, c’è un altro piano, di sopra non trovi niente, non c’è pericolo, sali altre scale, fin quando non smetti di salire i gradini non terminano, essi aumentano verso l’alto sotto i Tuoi piedi che salgono.

* Avvocato, ma è banale.


F.Kafka: Prime pene


Un trapezista – è noto che quest’arte, praticata nell’alto delle volte sovrastanti i grandi palcoscenici del varietà, è, tra tutte, una delle più difficilmente praticabili dall’uomo – aveva organizzato la sua vita, prima solo per la ricerca della perfezione, poi anche per l’abitudine divenuta tirannica, in modo da rimanere sul trapezio, finché lavorava nella stessa azienda, giorno e notte. A tutti i suoi bisogni, tra l’altro modesti, si faceva fronte per mezzo di una serie di servitori che sorvegliavano dal basso e tiravano su e giù, dentro recipienti realizzati appositamente, quello che in alto serviva. Da tale modo di vivere non risultavano particolari difficoltà a carico dell’ambiente teatrale, solo durante gli altri numeri in programma disturbava un poco il fatto che il trapezista, nonostante che in questi momenti se ne stesse per lo più tranquillo, deviasse su di sé uno sguardo del pubblico. Tuttavia la direzione del teatro glielo perdonava, infatti lui era un artista straordinario, insostituibile. Naturalmente si riconosceva anche che non viveva in questo modo per spavalderia, di fatto solo così restava in più costante esercizio, solo così poteva mantenere nella perfezione la sua arte.
In alto comunque era anche salubre, ed inoltre, quando nei periodi più caldi dell’anno su tutto il giro della volta si aprivano le finestre laterali e, insieme all’aria fresca, il sole entrava in quello spazio crepuscolare, era perfino bello. Naturalmente i suoi rapporti umani erano limitati, solo qualche volta un collega ginnasta si arrampicava sulla scala di corda fino al trapezista, quindi si mettevano entrambi sul trapezio, si appoggiavano a destra e a sinistra alle corde e conversavano, oppure i lavoratori edili riparavano il tetto e scambiavano con il trapezista qualche parola da una finestra aperta, oppure il vigile del fuoco controllava l’illuminazione d’emergenza nella galleria più alta e gli gridava qualcosa di rispettoso, ma scarsamente comprensibile. Altrimenti intorno al trapezista c’era la quiete; solo qualche volta faceva la sua comparsa un impiegato che magari si smarriva meditabondo nel pomeriggio del teatro vuoto, nell’altezza che quasi si sottraeva allo sguardo, là dove il trapezista, senza sapere che qualcuno stava osservandolo, esercitava la sua arte o riposava.
Il trapezista avrebbe potuto vivere dunque indisturbato, se non ci fossero stati gl’inevitabili viaggi da luogo a luogo, che lo molestavano in sommo grado. Certo l’impresario* provvedeva a dispensare il trapezista da ogni inutile prolungamento delle sue pene: per i percorsi in città ci si serviva di potenti automobili con cui, possibilmente durante la notte o nelle primissime ore del mattino, si correva nelle strade vuote di umani ad alta velocità, tuttavia senza dubbio troppo lentamente in rapporto all’ansia del trapezista; in treno si riservava un intero scompartimento dove il trapezista, compensazione effettivamente misera del suo modo di vivere, trascorreva il viaggio sulla rete portabagagli; nel teatro della successiva esibizione straordinaria il trapezio era da lungo tempo, prima dell’arrivo del trapezista, già al suo posto, anche tutte le porte d’ingresso allo spazio teatrale erano spalancate e tutti i passaggi liberi – tuttavia l’attimo più bello nella vita dell’impresario era quello in cui il trapezista metteva il piede sulla scala di corda e in un attimo, finalmente, di nuovo pendeva in alto sul suo trapezio.
Per quanto, in tal modo, all’impresario ne fossero riusciti molti, tuttavia ogni nuovo viaggio era ancora penoso, perché i viaggi, valutati da tutt’altra prospettiva, erano comunque distruttivi per i nervi del trapezista.
Una volta dunque che erano in viaggio di nuovo, il trapezista disteso sulla rete portabagagli a fantasticare, l’impresario appoggiato di fronte dalla parte del finestrino a leggere un libro, il trapezista gli si rivolse sottovoce. L’impresario fu subito ai suoi ordini. Avrebbe dovuto avere sempre due trapezi per le sue acrobazie, invece di uno com’era stato fino a quel momento, disse il trapezista mordendosi le labbra, due trapezi uno di fronte all’altro. L’impresario fu su questo subito d’accordo. Tuttavia il trapezista, come volendo evidenziare tanto l’irrilevanza del consenso dell’impresario, quanto per contraddirlo in qualche modo, disse che lui ora mai più e in nessuna circostanza avrebbe fatto le sue acrobazie con un trapezio soltanto. Alla sensazione che ciò potesse succedere anche solo una volta, egli sembrava rabbrividire. L’impresario si dichiarò, guardando titubante, di nuovo in totale accordo, due trapezi sono meglio di uno, del resto questo nuovo allestimento era vantaggioso, avrebbe reso lo spettacolo più vario. A quel punto il trapezista prese improvvisamente a piangere. Molto spaventato l’impresario si levò e domandò che cosa fosse dunque successo e, dal momento che non ebbe nessuna risposta, salì sul sedile e accarezzò il trapezista avvicinando al viso di quest’ultimo il suo viso, così che le lacrime del trapezista lo inondarono. Solo dopo molte domande e paroline carezzevoli il trapezista disse singhiozzando: “Solo quest’unica sbarra tra le mani – come devo fare a vivere!” Ora per l’impresario consolare il trapezista fu più facile; promise di telegrafare per i due trapezi subito, dalla stazione della prossima località di esibizione; si rimproverò di aver lasciato lavorare il trapezista per così tanto tempo solo su un trapezio e lo ringraziò e lodò molto del fatto che alla fine lui avesse constatato il difetto. In questo modo l’impresario riuscì a placare poco a poco il trapezista, e poté tornare di nuovo nel suo angolo. Lui stesso tuttavia era sconsolato, considerava il trapezista con più seria preoccupazione di nascosto, al di là del suo libro. Se simili pensieri cominciavano a tormentarlo una volta, potevano mai terminare del tutto? Non dovevano continuare a rafforzarsi? E davvero l’impresario credeva di vedere come ora, nel sonno apparentemente tranquillo in cui il pianto del trapezista era terminato, cominciassero a disegnarsi le prime rughe sulla sua liscia fronte fanciullesca.
* In italiano nel testo.




F.Kafka:L'avvoltoio


C’era un avvoltoio che mi dava colpi di becco sui piedi. M’aveva già lacerato stivali e calze, ora passava alla carne. Sbatteva senza tregua le ali, svolazzava inquieto intorno a me, poi ricominciava la sua opera. Un signore che passava di lì guardò un momento e domandò perché lasciavo fare. Io dissi: “Non ce la faccio, questo arriva e comincia a beccare, così, com’è naturale, volevo scacciarlo, ho tentato di strozzarlo, ma un animale del genere possiede grandi energie; voleva anche saltarmi al viso, allora gli ho offerto i piedi: ora sono mezzo dilaniati.”
“A meno che a Lei non dispiaccia esser tormentato, basta un colpo e l’avvoltoio si fa fuori.”
“Davvero?”, domandai, “e Lei avrebbe l’intenzione di farlo?” “Volentieri”, disse quel signore, “devo soltanto andare a casa per prendere il fucile. Può aspettare ancora una mezz’ora?”
“Non lo so”, dissi irrigidendomi dal dolore: “Per favore, ci provi comunque”.
“Bene” disse quel signore, “mi spiccerò”.
Durante il dialogo l’avvoltoio era rimasto a sentire quieto, i suoi occhi si spostavano da me a quel signore: ora vedevo che aveva capito tutto; si levò in volo, arretrò per prendere lo slancio e, come un giavellotto scagliato, affondò il becco nella mia bocca. Cadendo riverso mi accorsi con un senso di liberazione che l’avvoltoio annegava nel mio sangue che irresistibilmente colmava ogni mia cavità interna e sgorgava fuori senza limiti.

F.Kafka: La prova


Sono un servo, ma per me non c’è alcun lavoro. Sono timido e non mi faccio avanti, veramente non mi metto neppure in fila con gli altri, ma questa non è l’unica causa del mio disimpegno, è anche possibile che non sia particolarmente in questione il mio disimpegno, la causa principale è comunque che io non vengo chiamato al servizio, vengono chiamati altri, e non hanno cercato più di me di ottenerlo, magari forse non hanno avuto neppure il desiderio di essere chiamati, mentre io ne ho di più, almeno qualche volta.
Così dunque sto sul tavolaccio nella stanza dei lavoranti agricoli, guardo in alto la trave del soffitto, mi addormento, mi sveglio e subito mi riaddormento. Qualche volta vado all’osteria, dove si serve una birra acida, è capitato che per il disgusto io ne abbia rovesciato un bicchiere, ma poi ne bevo ancora. Mi metto volentieri lì perché da dietro la finestrella chiusa, senza essere scoperti da qualcuno, si possono guardare le finestre della nostra casa. E’ vero che non si vede molto, stando qui davanti alla strada, credo io, solo la finestra del corridoio e per giunta non di quel corridoio che porta all’appartamento dei padroni. E’anche possibile che mi sbagli, ma qualcuno una volta lo ha affermato, senza che io glielo avessi domandato, e l’impressione generale che si ha di questa facciata lo conferma. Solo raramente si aprono le finestre e quando ciò avviene è un servo a farlo, si sporge dal davanzale un momento e guarda in basso. Ci sono anche corridoi dove lui non può essere visto. Del resto non conosco questi servi che dormono di solito da un’altra parte, di sopra rispetto ai servi impegnati, non nella mia stanza.
Una volta che ero venuto all’osteria, nel mio posto di osservazione già sedeva un avventore. Non osavo proprio guardare da quella parte e avevo intenzione di girarmi subito verso la porta e di andarmene. Invece l’avventore mi chiamò lì, guarda caso anche lui era un servo che già avevo visto una volta da qualche parte, senza averci finora parlato. ”Perché vuoi andartene? Siediti e bevi. Pago io.” Così mi sedetti. Mi domandò qualcosa, ma io non sapevo rispondere, in realtà non capivo neppure le domande. Perciò dissi: “Forse ora ti penti di avermi invitato, io me ne vado”, e già volevo alzarmi. Ma lui allungò la mano sopra il tavolo e mi spinse giù: “Resta”, disse, “era solo una prova. Chi non risponde alle domande ha superato la prova.”

venerdì 6 luglio 2012

F.Kafka: Il timoniere


Non sono timoniere?”, gridai. “Tu?”, replicò un losco spilungone passandosi una mano sugli occhi, come per scacciare un sogno. Ero rimasto al timone nella notte buia, sulla mia testa quel poco di lanterna accesa, e ora quest’uomo voleva sbattermi via. Non cedetti, e quello mi piazzò un piede sul petto, mi spine pian piano indietro, ma io continuai ad attaccarmi ai mozzi della ruota del timone fino a farlo girare di colpo, con il risultato che mi trovai inginocchiato. Lui lo bloccò e lo rimise a posto, con ciò sbattendomi via. Allora mi venne in mente di correre al boccaporto dell’alloggiamento dell’equipaggio e di gridare: “Equipaggio, camerati! Venite, presto! Un estraneo mi ha scacciato dal timone!”
Vennero lentamente,salirono la scaletta, forme possenti, insonnolite, barcollavano. “Sono io, il timoniere?”, domandai. Loro annuirono, ma avevano occhi soltanto per l’estraneo, restandogli intorno, e quando lui disse con tono di comando “non disturbatemi”, si raccolsero, annuirono verso di me e infilarono di nuovo la scaletta.
Che razza di gente, stanno al mondo solo per mangiare, senza senso, oppure pensano anche?





martedì 3 luglio 2012

F.Kafka:Lo stemma della città


Per quanto riguarda la torre di Babele all’inizio tutto era abbastanza a posto, certo l’ordine forse era troppo grande, si pensava troppo alle indicazioni stradali, agl’interpreti, agli alloggi dei lavoratori, alle vie di comunicazione, come se davanti si avessero centinaia di anni di possibile lavoro. Passava l’opinione allora dominante che, di fatto, non si sapesse costruire con bastante lentezza; quest’opinione non era eccessiva e si poteva del resto esitare, spaventati dalla costruzione delle fondazioni. Si argomentava dunque in questo modo: essenziale di tutta l’impresa è l’idea di costruire una torre che arrivi a toccare il cielo. Rispetto a quest’idea tutto il resto è secondario. L’idea, una volta compresa nella sua misura, non può più svanire; finché ci sono uomini ci sarà anche il potente desiderio di portare a termine la costruzione della torre. A questo riguardo non si deve avere per il futuro alcuna preoccupazione, al contrario, il sapere umano cresce, l’abilità costruttiva ha fatto progressi e ne farà ancora, un’opera per la quale noi impieghiamo un anno sarà forse tra cento anni finita in sei mesi, meglio inoltre, e più solida. Perché dunque già oggi affaticarsi al limite delle forze? Ciò poi significherebbe solo, sperabilmente, costruire la torre nel tempo di una generazione. Ma ciò non sarebbe in alcun modo auspicabile. E’ più probabile che la prossima generazione, con il suo perfezionato sapere, trovi scadente l’operato della generazione precedente e che il costruito venga abbattuto per cominciarlo di nuovo. Tali idee paralizzavano le energie e più che della torre ci si curava della costruzione della città operaia. Ogni squadra di operai venuti dalla campagna voleva avere il quartiere più bello, da ciò si produssero controversie che crebbero al punto di diventare lotte sanguinose. Queste lotte non finivano più; per i capi esse erano un nuovo motivo per cui la torre, mancando anche la necessaria concentrazione, dovesse esser costruita con più lentezza, o meglio, soprattutto dopo la pacificazione generale. Non si consumava il tempo però solo con le lotte, nelle pause si abbelliva la città, per la qualcosa tuttavia spuntarono nuove invidie e nuove lotte. Così il tempo della prima generazione trascorse, ma nessuna delle seguenti fu diversa, solo la perizia architettonica si rinforzava di continuo, e la smania di lottare.
A questo punto accadde che già la seconda o terza generazione riconoscessero l’insensatezza della costruzione della torre fino al cielo, tuttavia si era già troppo legati reciprocamente per abbandonare la città. Tutto ciò che, in fatto di leggende e canzoni, ha avuto origine in questa città è colmo di attesa impaziente di un giorno profetizzato, quando la città sarà distrutta da cinque rapidi colpi di un pugno gigantesco. Per cui la città ha il pugno nello stemma.




domenica 1 luglio 2012

F.Kafka: Poseidon*


Poseidon guarda sul suo tavolo da lavoro e calcola. Interminabile, il daffare che gli dà l’amministrazione di tutte le acque. Potrebbe disporre di collaboratori a volontà, e ne ha già moltissimi, ma, dato che prende molto sul serio il suo ufficio, perde tempo a calcolare, dunque i collaboratori gli servono a poco. Non si può dire che il lavoro lo rallegri, in realtà lo esegue soltanto perché gli è stato imposto, anzi, ha cercato spesso di ottenerne uno più gradevole, così Poseidon si esprime, ma poi, quando gli si è fatta una proposta di cambiamento, si è visto che nulla gli andava a genio come l’ufficio che sappiamo. Davvero difficile trovare qualcos’altro per lui. Impossibile assegnargli magari un solo mare, a parte il fatto che anche in questo caso la fatica di calcolare non sarebbe minore, ma solo più delimitata: il gran Poseidon può accettare una posizione di dominio, nient’altro. Se gli si offrisse un posto esterno alle acque, a lui farebbe male, la sua divina respirazione perderebbe il ritmo, il suo ferreo torace tremerebbe. Tra l’altro le sue proteste non sono prese molto sul serio; se un personaggio di rango dà fastidio, si deve mostrare sì cedevolezza, anche nei casi più disperati, ma non c’è chi pensi davvero ad un esonero di Poseidon dal suo ufficio, fin dall’inizio dei tempi è stato il dio del mare, e così sia.
In modo particolare Poseidon si irrita – ecco la causa della sua insoddisfazione sul lavoro – quando, in moto continuo tra i flutti, con in mano il tridente, gli giungono voci e proposte su di lui. Nel frattempo scruta nelle profondità del mare e calcola senza tregua, un viaggio da Giove di quando in quando è l’unica interruzione della noia: viaggi tra l’altro da cui ritorna quasi sempre infuriato. In questo modo è probabile che li abbia appena visti, i mari, solo di sfuggita, durante le salite frettolose verso l’Olimpo, che mai li abbia attraversati. Aspetta la fine del mondo, come dice lui, quell’attimo di tranquillità appena prima della fine: un’ultima occhiata ai calcoli e potrà fare ancora un veloce giretto.
* Nettuno..