lunedì 30 luglio 2012

F.Kafka: La coppia coniugale


Lo stato generale degli affari è così cattivo che addirittura mi capita, se in ufficio ne trovo il tempo, di prendere la cartella con i modelli e di andare di persona dai clienti. Già da un po’, tra l’altro, mi ero riproposto di andare una volta da K., con cui in precedenza sono stato in stabili rapporti di lavoro che, tuttavia, l’anno scorso per motivi a me ignoti si sono pressoché interrotti. Per inconvenienti simili non serve affatto che ci siano neppure vere ragioni; negli odierni rapporti instabili spesso a decidere è un nulla, uno stato d’animo, e altrettanto un nulla, una parola, può rimettere tutto a posto. Però è un poco disagevole recarsi da K.; è un uomo vecchio, ultimamente molto malato, ed anche se tiene ancora in mano gli affari del negozio, sul lavoro non viene di persona quasi più; se si vuole parlarci bisogna andare a casa sua, e un’incombenza di lavoro del genere volentieri si rimanda.
Ieri sera dopo le sei comunque mi mossi; certo non era più affatto ora di visite, ma la faccenda era valutabile come commerciale, non d’ufficio. Ebbi fortuna, K. si trovava a casa; appena tornato insieme a sua moglie da una passeggiata, mi dissero in anticamera, era nella camera di suo figlio, a letto perché non stava bene. Mi pregarono inoltre di entrare; dapprima tentennai, ma poi prevalse il desiderio di por fine alla penosa visita prima possibile, così mi feci accompagnare come mi trovavo, cappotto, cappello e cartella dei modelli in mano, attraverso una stanza buia in un'altra male illuminata, dove si trovava riunita una piccola compagnia.
Quasi d’istinto il mio sguardo cadde dapprima su un agente di commercio anche troppo ben noto, in certo modo mio concorrente. Dunque si era di nuovo infilato qui prima di me. Sedeva comodo vicino al letto del malato come se fosse il medico; stava lì con il suo bel cappottone aperto, colossale; la sua sfrontatezza non ha pari; anche il malato doveva pensare qualcosa del genere, mentre giaceva a letto con le guance un po’ arrossate dalla febbre ed a tratti lo guardava. Non è più giovane, tra parentesi, avrà la mia età, il figlio, con la barba, a causa della malattia, tutta quanta mal cresciuta. Il vecchio K., un omone dalle spalle larghe, ma, con mio stupore, molto dimagrito per via delle sue segrete pene, incurvito e malfermo, si trovava ancora come era arrivato, in pelliccia, e mormorava qualcosa in direzione del figlio. Sua moglie, minuta e decrepita, ma molto vivace limitatamente a ciò che riguardava il marito – noialtri ci guardava appena – era indaffarata a togliergli la pelliccia, quel che la gran differenza tra i due rendeva un po’ difficoltoso, però da ultimo ci riuscì. Del resto il difficile stava nel fatto che K. non aveva pazienza e si agitava, proteso a tentoni verso l’agognata poltrona che poi, dopo che la pelliccia fu tolta, sua moglie gli avvicinò svelta. Prese la pelliccia quasi scomparendoci sotto e la portò via.
A questo punto finalmente mi sembrò venuto il mio momento, o meglio, non era venuto e probabilmente neppure sarebbe venuto; se però d’altra parte volevo ancora fare un qualche tentativo, doveva succedere ugualmente, perché avevo la sensazione che in quel luogo le premesse per una discussione d’affari stessero diventando ancora più sfavorevoli; però piazzarmi lì, come sembrava che ne avesse l’intenzione l’agente, non mi piaceva; del resto non volevo avere per lui la minima considerazione. Così cominciai veramente di punto in bianco ad esporre la mia faccenda, nonostante notassi che a K. faceva piacere intrattenersi un po’ con il figlio. Purtroppo ho l’abitudine, parlando in stato di leggera agitazione – cosa che avvenne ancor prima del solito in questa camera di malato – di alzarmi e andare, durante il discorso, avanti e indietro. Quando si è nel proprio ufficio si tratta di un’ottima mossa, in casa d’altri tuttavia è un po’ fastidiosa. Ma non riuscivo a dominarmi, senza contare che mi mancava la solita sigaretta. Ora, ciascuno ha le sue cattive abitudini, ciò nonostante le mie, in confronto a quelle dell’agente, io le lodo. Che dire per esempio del fatto che lui, totalmente di sorpresa, a un tratto si mise in testa il cappello che teneva appoggiato su un ginocchio e che continuava adagio a spostare su e giù; certo, se lo ritolse come se fosse stata una svista, tuttavia l’aveva tenuto in testa per un attimo, e lo rifece, e continuò ancora ad intervalli di tempo. Impossibile qualificare una condotta simile. Non importa, vado avanti e indietro, sono tutto preso dalle mie cose nel parlare e ci passo sopra, ma possono esserci persone che un simile numero cappellistico può portare alla completa perdita del controllo. A dire il vero io non ci bado, non solo non mi scaldo per un disturbo del genere, ma neppure per nessun disturbo in assoluto, certo che vedo quel che succede, ma lo accetto finché non ho finito o finché non mi arriva un’obbiezione che per così dire mi colga impreparato. Così notai bene per esempio che K. era assai poco ricettivo; a disagio continuava a ruotare le mani intorno ai braccioli, non guardava me, vanamente intento, piuttosto, a cercar qualcosa nel vuoto, e il suo viso sembrava così disinteressato come se nessun suono delle mie parole, e certo neppure una sensazione della mia presenza, entrassero in lui. Anche se vedevo che tale condotta insolita mi dava poco da sperare, continuai a parlare come se comunque avessi ancora qualche speranza di riequilibrare nuovamente, alla fine, ogni cosa con le mie parole, con le mie vantaggiose offerte – io stesso ero sgomentato dalle concessioni che stavo facendo, concessioni che nessuno mi aveva chiesto. Un certo compiacimento mi venne anche dal fatto che l’agente, come notai di sfuggita, finalmente lasciò in pace il cappello e incrociò le braccia sul petto; le mie argomentazioni, che certo in parte erano calibrate anche su di lui, sembravano assestare un duro colpo ai suoi piani. E avrei continuato a parlare forse ancora a lungo, nello stato di benessere in quel modo generatosi, se il figlio, cui non avevo finora fatto caso in quanto persona per me marginale, non si fosse tirato su nel suo letto e, minacciandomi con un pugno, non mi avesse fatto tacere. Visibilmente aveva intenzione anche di dire qualcosa, di segnalare qualcosa, ma non ne ebbe la forza necessaria. Dapprima scambiai il tutto per un delirio, ma poi senza volere mi accorsi del vecchio K. e compresi meglio.
K. sedeva là, gli occhi aperti, vitrei, gonfi, per il momento ancora sotto controllo, tremando chinato in avanti come se qualcuno lo stringesse o lo colpisse sulla nuca, il labbro inferiore e anche la mandibola, tutte scoperte le gengive, penzolavano per conto loro, il volto interamente sfatto; se non altro respirava, quand’anche con difficoltà, ma poi come sciolto cadde indietro contro la spalliera, chiuse gli occhi, gli passò ancora sul viso l’espressione di qualche gran fatica, e fu finita. Svelto balzai verso di lui, gli presi una mano rilasciata e morta, fredda da far rabbrividire; non c’era più pulsazione alcuna. Così dunque era la fine. Certo, un vecchio. Magari la morte potesse venirci con la stessa leggerezza. Ma quanto c’era da fare, ora! E cosa, prima di tutto, e alla svelta? Mi guardai intorno in cerca d’aiuto; ma il figlio si era tirata la coperta sulla testa, si sentiva il suo singhiozzare; L’agente, freddo come una rana, sedeva immobile nella sua poltrona, a due passi da K., ed era evidente che non aveva intenzione di far nulla, se non aspettare che scorresse il tempo; dunque io, soltanto io restavo per far qualcosa, ed ora giustappunto la cosa peggiore, cioè dare la notizia alla signora in un qualche modo accettabile, un modo che però non esiste. E già udivo nella stanza accanto i passi, premurosi e strascicati.
Ella – ancora in abito da passeggio, non aveva avuto il tempo di cambiarsi – recava una camicia da notte tenuta al caldo sulla stufa, che ora voleva far mettere al marito. “Si è addormentato”, disse sorridendo e scrollando la testa, quando ci trovò così silenziosi. E, infinita fiducia dell’innnocenza, prese la stessa mano che io avevo tenuto con ripugnanza e timore nella mia, la baciò con breve tocco coniugale e – per il gran piacere di noialtri tre – K. si mosse, sbadigliò rumorosamente, si lasciò infilare la camicia, sopportò tra l’ironico e l’irritato gli affettuosi rimproveri della moglie per essersi lui tanto sforzato nella passeggiata troppo lunga e, per spiegare dal suo punto di vista il fatto di essersi addormentato, obbiettò curiosamente qualcosa sulla noia. Poi si stese momentaneamente, per non prender freddo nel passaggio in altra stanza, a letto insieme al figlio; la sua testa fu fatta adagiare, accanto ai piedi del malato, su due cuscini sveltamente portati lì dalla moglie. Dopo quel che era successo, non ci trovai proprio niente di strano. Poi chiese il giornale della sera, lo prese senza riguardo per gli ospiti, ma non si mise a leggere, lo scorse un poco e, con sorprendente perspicacia professionale, ci espresse qualche vera e propria spiacevolezza in merito alle merci da noi offerte, mentre con la mano libera continuava a fare gesti sprezzanti ed accennava, schioccando la lingua, al cattivo sapore che il nostro agire professionale gli aveva lasciato in bocca. L’agente non riuscì a trattenersi dal formulare qualche inopportuna osservazione, perfino con la sua grossolana sensibilità capiva bene che ora K. doveva produrre una qualche compensazione a quel che era successo prima, ma indubitabilmente la cosa non gli andava giù. Io mi congedai alla svelta, quasi grato all’agente; senza la sua presenza non avrei avuto la forza di andarmene così subito.
Nell’anticamera incontrai ancora la signora K.. Vedendone l’aspetto dimesso espressi con franchezza quel che pensavo, che mi ricordava un poco mia madre. E, dato che restava in silenzio, aggiunsi:” Che cos’altro si può dire a questo punto, quella era capace di miracoli. Ciò che noi avevamo distrutto, lei lo rimetteva a nuovo. L’ho perduta quand’ero bambino.” Intenzionalmente avevo parlato in modo lentissimo e chiaro, infatti credevo che la vecchia signora fosse debole d’udito. Invece era proprio sorda, infatti di rimando chiese: “Che mi dite dell’aspetto di mio marito?”. Nelle poche parole di commiato del resto mi accorsi che mi scambiava per l’agente; volentieri ritenni che altrimenti avrebbe avuto con me più familiarità.
Poi scesi le scale. La discesa fu più ardua della salita che l’aveva preceduta, e mai qui una salita era stata facile. Ohi, ohi, cosa non capita nei giri di lavoro a vuoto, e cosa non si seguita a sopportare!


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