venerdì 20 marzo 2020

Franz Kafka: Tra i miei compagni di scuola non ero il più goffo


Tra i miei compagni di scuola io ero goffo, ma non il più goffo. Eppure questo giudizio estremo è rimasto per alcuni dei miei insegnanti valido ed è stato propinato a me e ai miei genitori; chissà cosa credevano di fare.
Che tuttavia io fossi goffo lo pensavano tutti e facilmente ne davano le prove a un estraneo che invece non si era fatto una cattiva impressione di me, e lo diceva.
Di ciò fui costretto ad arrabbiarmi sovente e anche a piangere. Questi erano gli unici momenti in cui mi sentivo insicuro nelle situazioni serie del presente, e disperato rispetto a quelle future; però insicuro in teoria, disperato in teoria, infatti in una cosa da fare immediatamente ero sicuro e privo di dubbi quasi come un attore che si precipita fuori dalle quinte di slancio, resta lontano per un attimo dal centro del palcoscenico - io le mani le porterei alla fronte - e l'emozione immancabile s'è fatta così grande in lui che non può nasconderla, hai voglia a morderti le labbra, a sbarrare gli occhi. L'insicurezza presente, quasi passata, fa salire l'emozione che sta sbocciando e l'emozione rinforza l'insicurezza. Immancabile si forma una nuova insicurezza che abbraccia sia l'emozione che l'insicurezza iniziale, e ti stringe.
Per questo mi accadeva di aver la nomea di persona spinosa con gli estranei. Ero già inquieto se mi guardavano di profilo il naso come da una casetta si scruta il mare con il telescopio o magari la montagna e l'aria tersa. E allora si dava la stura a risibili affermazioni, a menzogne statistiche, a errori geografici, a erronee dottrine tanto viete quanto insensate, a validi punti di vista politici, rispettabili opinioni su eventi attuali, a idee lodevoli che quasi subito sorprendevano sia chi le esprimeva sia i presenti, e di tutto quanto era prova il mio sguardo, il modo come toccavo uno spigolo del tavolo, o come saltavo su dalla sedia. Subito dopo smettevano di guardarmi fisso, loro, gli si spostava da sé il busto, in avanti o all'indietro. Alcuni addirittura trascuravano di avere addosso un abito, per appoggiarsi solo sulla punta dei piedi piegavano le gambe ad angolo acuto o si mettevano a sgualcire tutta quanta la giacca stringendosela addosso; altri no, molti con le dita si attaccavano agli occhiali, al ventaglio, a un lapis, a un occhialetto, a una sigaretta; e ai più, per quanto avessero la pelle bella dura, il viso si infiammava. Lo sguardo loro poi scivolava via da me come cala giù un braccio prima alzato.
Cacciato nel mio stato naturale, potevo aspettare, o stare a sentire, oppure andarmene e mettermi a letto, dove mi trovavo sempre bene dato che la timidezza m'intontiva. Era come una lunga pausa durante un ballo, quando solo pochi si decidono ad andarsene, e i più stanno qua e là in attesa seduti o in piedi mentre i musicisti, cui nessuno pensa, da qualche parte si ristorano in vista della ripresa delle danze. Però non era riposante la pausa e molti non se ne accorgevano, infatti nella sala qualcuno seguitava a ballare.
Comunque continuavo a provare timore, timore di uno a cui avevo teso la mano con freddezza - ne ignoravo il cognome - forse uno dei suoi amici aveva detto qual era il prenome - gli ero stato seduto davanti  per ore tutto tranquillo, solo un po' snervato, come capita ai giovani se un adulto volge ogni tanto lo sguardo su loro.
Ammettiamolo, qualche volta i miei occhi avevano incontrato i suoi, e siccome non ci avevo nulla da fare per il fatto che che nessuno mi considerava avevo tentato di tenere più a lungo il mio sguardo nei suoi occhi azzurri e buoni, per quanto così in pratica ci si escludesse dal resto dei presenti. E se non avevo avuto successo, almeno avevo tentato. Va bene, non mi riusciva, mi mostravo incapace fin dall'inizio e dopo non riuscivo neanche per un momento a nascondere la mia incapacità, e anche i miei piedi, come i pattini di un incapace, se ne volevano andare uno in una direzione, l'altro in un'altra, bastava scappare dal ghiaccio. Un altro al posto mio

<lacuna nel testo>

ero intelligente però non stavo né davanti né alla pari, né dietro ad altri cento, per cui non era facile né immediato vedermi, ero nel branco, per cui solo da un posto assai alto mi si poteva notare, e anche in quel caso mi si vedeva, ma scomparivo. Ecco il giudizio su di me di mio padre, un uomo, specie nell'ambiente politico della mia patria, particolarmente stimato e di successo. Per caso l'ho sentito che avevo forse diciassette anni, da una porta aperta di una stanza vicina alla camera di mio padre, mentre leggevo un libro sugli indiani. Parole che allora mi colpirono, me le fissai, ma non mi fecero nessun effetto. Come accade nella maggioranza dei casi, i giudizi che si danno in genere sui giovani non hanno su di loro alcun effetto. Essi infatti o sono ancora del tutto imbozzolati in se stessi o in se stessi invece vengono rigettati senza tregua, e sentono l'essere loro forte e squillante come una marcia militare. Il giudizio che si propina in genere ha per loro ignote premesse e sconosciute mete, inaccessibili; come se uno  passeggiasse sull'isola del laghetto nel parco: non ci sono barche né ponti: la musica uno la sente, ma lui gli altri non lo sentono.
Non è con questo che intendo però aver colto la logica dei giovani

<non terminato>

(traduzione libera)

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