venerdì 17 aprile 2020

Franz Kafka: Il processo - 3


Prima assise istruttoria

K. era stato informato telefonicamente che la domenica successiva avrebbe avuto luogo una breve assise istruttoria in merito al suo caso. Lo s'informò del fatto che tali occasioni ora sarebbero seguite l'una all'altra con regolarità, forse una volta alla settimana, oppure con frequenza maggiore. Era da un lato d'interesse generale portare a termine il processo, dall'altro tuttavia le sedute istruttorie avrebbero dovuto essere sotto ogni aspetto accurate, e però a causa della fatica a esse collegata non avrebbero dovuto durare troppo a lungo. Perciò si era scelta la via di queste sedute frequenti, ma brevi. Si era preferito designare la domenica come giorno di assise al fine di non disturbare K. nel suo lavoro d'ufficio. Si supponeva che lui fosse d'accordo, qualora desiderasse un giorno diverso gli sarebbe venuti incontro alla meglio. Le sedute istruttorie sarebbero state per esempio possibili anche di notte, ma in quel caso K. non sarebbe stato abbastanza fresco. Comunque, fin quando K. non avesse fatto alcuna obbiezione, non si sarebbe cambiato il giorno, domenica. Era evidente che lui assolutamente dovesse comparire, non c'era bisogno neppure di farglielo notare. Gli venne menzionato il numero dell'edificio nel quale lui doveva presentarsi, era sito in una remota via di un sobborgo nel quale K. non era mai stato prima.
Avuta tale comunicazione K. agganciò il ricevitore senza rispondere; fu subito deciso ad andare, la domenica, ciò era certo necessario, il processo iniziava e lui doveva presenziarvi, anche nel caso che quella prima assise dovesse essere l'ultima. Restava ancora pensieroso presso l'apparecchio quando dietro di sé udì la voce del vice direttore che voleva telefonare e tuttavia K. gli sbarrava la strada. “Cattive notizie?” chiese il vice direttore alla leggera, non per informarsi, ma per distogliere K. dall'apparecchio. “No, no”, disse K., si fece da parte, ma non se ne andò. Il vice direttore prese il ricevitore e mentre aspettava il collegamento telefonico disse al di sopra del ricevitore: “permettete una domanda, signor K.? Potreste domenica mattina farmi il piacere di partecipare a un'uscita sulla mia barca a vela? Saremo così in bella compagnia, e certo vi saranno anche vostri conoscenti. Tra gli altri il procuratore di Stato Hasterer. Verrete? Via, venite!” K. cercò di prestare attenzione a quel che il vice direttore diceva. Non era una cosa banale per lui, difatti tale invito del vice direttore, con cui non era mai andato molto facilmente d'accordo, significava un tentativo di riconciliazione da parte sua e indicava quanto era diventato importante K. nella banca, e quanto appariva preziosa al secondo più alto funzionario la sua amicizia, o almeno la sua imparzialità. Tale invito era un abbassarsi, da parte del vice direttore, per quanto potesse esser stato espresso da sopra il ricevitore nell'attesa del collegamento telefonico. Tuttavia K., costretto a far seguire una seconda umiliazione, disse: “molte grazie! Ma purtroppo domenica non ho tempo, ho già un impegno.” “Peccato”, disse il vice direttore mettendosi a parlare al telefono, il cui collegamento era stato appunto stabilito. Non fu affatto una conversazione breve, ma distrattamente K. restò per tutto il tempo accanto all'apparecchio. Solo quando il vice direttore interruppe la comunicazione K. si spaventò e disse, per giustificare solo un poco il suo superfluo star lì: “sono stato chiamato al telefono ora, ho da andare in un posto, ma si sono scordati di dirmi l'ora.” “ Ma allora informatevene di nuovo”, disse il vice direttore. “Non è così importante”, disse K. nonostante che con ciò la sua giustificazione di prima, in sé difettosa, si sfasciasse ulteriormente. Nell'andarsene il vice direttore parlò ancora di altre cose, K. si costrinse a rispondere pensando tuttavia soprattutto che la cosa migliore sarebbe stata andare domenica verso le 9, infatti è a quell'ora che i tribunali nei giorni di lavoro iniziano a funzionare.
Domenica il tempo era nuvoloso, K. molto spossato, rimasto all'osteria fino a notte fonda per via d'una festa privata quasi non si era svegliato. In fretta e senza aver tempo di esaminare e ricomporre gli svariati piani escogitati durante la settimana, si vestì e corse senza aver fatto colazione in quel sobborgo indicatogli. Stranamente incontrò, anche se aveva poco tempo per guardarsi attorno, i tre impiegati partecipanti a quella cosa che era successa, Rabensteiner, Kullych e Kaminer. I primi due gli attraversarono la strada in tram, invece Kaminer, seduto nella terrazza di un caffè, si chinò incuriosito sul parapetto al passaggio di K. Tutti seguirono stupiti la corsa del loro superiore; fu un certo puntiglio a trattenere K. dal prendere il tram senz'altro da lì, era disgustato da qualsiasi, anche dal minimo, aiuto esterno in quella sua cosa, non voleva ricorrere a nessuno con ciò mettendolo a conoscenza di essa, e sia pure alla lontana, in definitiva però non aveva la minima voglia di abbassarsi di fronte alla commissione istruttoria con una eccessiva puntualità. Eppur tuttavia ora correva per arrivare se possibile attorno alle 9, per quanto non gli fosse stato fissato neanche un appuntamento preciso.
Aveva pensato di riconoscere già da lontano l'edificio per un qualche segno che lui stesso non si era figurato bene, oppure per un particolare movimento davanti all'entrata. Tuttavia la Juliusstrasse, in cui l'edificio doveva trovarsi, all'inizio della quale K. si fermò per un momento, conteneva su entrambi i lati edifici quasi tutti uguali, alte grige case d'affitto abitate da povera gente. A quell'ora di domenica mattina alla maggior parte delle finestre c'era qualcuno, uomini in maniche di camicia si sporgevano e fumavano, oppure reggevano bambini piccoli con cautela e garbo sul davanzale. Altre finestre erano tutte piene di coperte e lenzuola sopra cui compariva la testa scompigliata di una donna. Ci si chiamava a vicenda al di sopra della via, uno di questi gridi provocò una gran risata proprio sopra K. Regolarmente distribuiti si trovavano in quella lunga via negozietti di generi alimentari assortiti, posti in basso rispetto al livello stradale e raggiungibili da altrettante scale. Ne uscivano o ci entravano donne, oppure stavano sui gradini a chiacchierare. Un fruttivendolo che raccomandava la sua merce, tanto disattento quanto K., lo avrebbe quasi messo sotto con il suo carretto. Iniziò pure a suonare con crudeltà un grammofono residuato da quartieri migliori.
K. s'inoltrò nella viuzza lentamente come se avesse tempo, o come se il giudice istruttore lo vedesse da una qualche finestra e sapesse quindi che lui si era presentato. Erano da poco passate le 9. L'edificio si trovava piuttosto oltre, era esteso in modo quasi insolito, in particolare il portone d'ingresso era alto e largo. Era chiaramente destinato al carico e scarico dei diversi magazzini di merci che, ora chiusi, contornavano il grande cortile e recavano scritti i nomi di ditte che K. in parte conosceva per via del suo lavoro bancario. Si fermò anche un po' sull'entrata del cortile occupandosi con più precisione del suo solito di tutte quelle cose futili. Vicino, un uomo dai piedi nudi sedeva su una cassa e leggeva un giornale. Su un carretto a mano si dondolavano due ragazzi. Davanti a una pompa c'era una ragazzina magra con addosso una vestina da notte e, intanto che l'acqua scorreva nella sua brocca, guardava verso K. In un angolo del cortile venne tesa una corda cui già era appesa e fissata biancheria da asciugare. Un uomo dal basso dirigeva tale lavoro con qualche richiamo urlato.
K. si volse verso la scala per andare nella stanza dell'istruttoria, poi si fermò di nuovo, difatti a parte quella scala vide nel cortile tre diversi accessi a scale e oltre a ciò pareva che un breve passaggio al termine del cortile portasse in un secondo cortile. Se la prese perché non gli avevano indicato dov'era la stanza dell'istruttoria in modo più preciso; però! - era con una particolare trascuratezza, o indifferenza, che lo si trattava, si ripropose di dichiararlo forte e chiaro. Alla fine tuttavia salì la prima scala, mentalmente recitando un motto della guardia Willem che si ricordava: il tribunale viene attratto dalla colpa, dal che di fatto conseguiva che la stanza dell'istruttoria doveva trovarsi lungo la scala che K. sceglieva a caso.
Disturbò salendo molti bambini che giocavano per le scale e lo guardavano male se transitava tra loro. “Se dovessi ritornare”, si disse, “devo portare con me o dolciumi per rabbonirli o il bastone per dargliele.” Subito prima del primo piano fu costretto perfino ad attendere che una biglia terminasse il suo percorso, trattenendolo per i calzoni nel frattempo due ragazzini dallo strano volto da lazzarone fatto e finito; nel caso che avesse inteso scrollarseli di dosso avrebbe dovuto fargli male e ne paventò le urla.
Al primo piano iniziò la vera e propria ricerca. Non riuscendo tuttavia lui a chiedere dove fosse la commissione istruttoria, s'inventò un certo Lanz, falegname – gli venne in mente il nome perché così si chiamava il capitano, il nipote della signora Grubach – e si mise a chiedere in tutti gli appartamenti se lì abitava un certo Lanz, falegname, per avere la possibilità di guardare dentro. Si palesò tuttavia che per lo più si poteva guardare senz'altro all'interno, difatti quasi ogni uscio era aperto e i bambini correvano dentro e fuori. Erano stanze piccole e di regola con una sola finestra, e vi si cucinava pure. Parecchie donne avevano in braccio lattanti e lavoravano con la mano libera al fornello. Ragazze adolescenti con addosso apparentemente solo il grembiule trascorrevano avanti e indietro con la massima applicazione. In tutte le stanze i letti erano disfatti, vi si trovavano distesi ammalati, persone che ancora dormivano o che, vestite, si stiracchiavano. Agli appartamenti le cui porte erano chiuse K. bussò e chiese se vi abitasse il falegname Lanz. Per lo più apriva una donna, porgeva orecchio alla domanda e si girava verso qualcuno che si levava dal letto. “Il signore chiede se un certo falegname Lanz abita qui.” “Il falegname Lanz?” chiedeva chi s'era alzato dal letto. “Sì”, diceva K., per quanto non ci fosse dubbio che la commissione istruttoria lì non c'era e che quel che lui aveva da fare fosse concluso. Molti credettero che a K. importasse molto di trovare il falegname Lanz, ci pensavano a lungo, nominavano un falegname che però non si chiamava Lanz, o qualcuno che molto alla lontana si chiamava come Lanz, oppure chiedevano ai vicini, oppure accompagnavano K. a un uscio lontanissimo dove secondo loro forse abitava un uomo tipo Lanz, in subaffitto, o dove c'era chi avrebbe potuto dare informazioni migliori. Con quel metodo, finì che K. non dovette più quasi chiedere, venne invece trascinato per i vari piani della casa. Deplorò il suo metodo che all'inizio gli era sembrato tanto praticabile. Prima di salire al 5° piano si decise ad abbandonare la ricerca, si congedò da un simpatico giovane operaio che voleva continuare a guidarlo su e scese. Poi tuttavia lo irritò la vacuità dell'intera impresa e andò di nuovo a bussare alla prima porta del 5° piano. La prima cosa che vide nella stanzetta fu un grande orologio a muro che segnava già le 10. “Abita qui un certo Lanz, falegname?” chiese. “Prego”, disse una giovane donna dagli occhi neri e luminosi che stava lavando biancheria da bambini in un secchio, e gl'indicò con una mano bagnata la porta accanto, aperta.
K. credette di entrare in un'assemblea. Una ressa di gente la più varia - nessuno si curò di chi stava entrando – riempiva una stanza di media grandezza con due finestre; torno torno, in prossimità del soffitto, vi era un loggione anch'esso tutto occupato dove le persone riuscivano a stare solo piegate e urtavano con il capo e le spalle contro il soffitto. K. , essendo per lui l'aria troppo soffocante, uscì e a quella giovane donna che probabilmente lo aveva capito male disse: “non ho chiesto di un falegname, di un certo Lanz?” “Sì”, disse la donna, “prego, entrate.” K. forse non l'avrebbe seguita, se lei non gli si fosse avvicinata e avesse impugnato la maniglia della porta dicendo: “dopo di voi devo chiudere, nessun altro ha da entrare.” “Giustissimo”, disse K., “però è già strapieno.” Poi tuttavia rientrò nella stanza.
Tra 2 uomini che conversavano vicinissimi alla porta – l'uno faceva il movimento di quando si contano i soldi, tutt'e due le mani protese in avanti, l'altro lo guardava negli occhi con grande attenzione - una mano cercò di afferrare K. Si trattava di un giovane basso dalle guance rosse. “Venite, venite”, disse. K. si lasciò guidare, segnalandosi che pur nella calca brulicante c'era un passaggio libero che forse distingueva due fazioni; lo diceva anche il fatto che K. nelle prime file a destra e a sinistra a mala pena vide una faccia voltata verso di lui, ma solo schiene di gente che rivolgeva la parola e i gesti unicamente a quelli della propria fazione. La maggioranza era vestita di nero, con giacche da cerimonia all'antica, sbrendolate e lunghe. Tale abbigliamento rese perplesso K., sennò avrebbe guardato a quell'insieme come a un'assemblea politica di quartiere.
All'altra estremità dell'aula dove K. venne condotto, su un podio molto basso ugualmente stracolmo c'era un tavolino messo di traverso dietro cui, vicino al margine del podio, sedeva un omino grasso ansimante che stava conversando tra gran risate con chi gli stava dietro – i gomiti appoggiati alla spalliera della sedia, le gambe incrociate. A tratti costui brandiva un braccio in aria come se facesse il verso a qualcuno. Il giovane che guidava K. fece fatica a segnalarsi. Due volte aveva già tentato di ottenere qualcosa stando in punta di piedi senza che da quell'uomo sovrastanta gli fosse stata data attenzione. Solo quando una delle persone in alto sul podio lo notò, quell'uomo gli si rivolse e, piegato in basso, stette in ascolto di quel che il giovane comunicava sommessamente. Poi estrasse l'orologio e svelto guardò K. “Voi avreste dovuto comparire un'ora e cinque minuti fa”, disse. K. intendeva rispondere qualcosa, ma non ne ebbe il tempo, difatti non appena quell'uomo ebbe parlato si levò nella metà di destra dell'aula un generale brontolio. “Avreste dovuto comparire un'ora e cinque minuti fa”, ripeté quell'uomo a voce più alta e ora guardando rapido giù nell'aula. Subito anche il brontolio si fece più forte e si spense quando quell'uomo smise di parlare, però un poco alla volta. C'era adesso nell'aula molta più calma che non all'ingresso di K. Solo la gente in loggione non cessò di fare le sue considerazioni. Nei limiti di quanto si poteva distinguere lassù nella penombra, nella foschia e nella polvere, quella gente pareva maldisposta come quella di sotto. Parecchi avevano portato con sé cuscini che avevano messo tra il capo e il soffitto per non premercelo e scorticarlo.
K. aveva deciso di osservare più che parlare, per cui rinunciò a difendersi in merito al suo presunto ritardo e disse solo: “Posso esser venuto in ritardo, ora però ci sono.” Ne seguì dalla parte destra dell'aula un applauso di approvazione. “E' facile guadagnarsi il favore della gente”, pensò K., ora turbato dal silenzio della metà di sinistra, che gli si trovava proprio dietro e dalla quale si era levato solo un applauso del tutto isolato. Pensò a quello che poteva dire per guadagnarsi il favore degli altri, tutti in una volta o, se impossibile, almeno il favore temporaneo.
Sì”, disse quell'uomo, “ma ora non sono più tenuto a interrogarvi” - di nuovo borbottio, stavolta però non facile da interpretare, difatti quell'uomo proseguì, intanto che con una mano segnalava alla gente l'errore - “ciò non di meno oggi intendo in via eccezionale farlo. Un ritardo del genere però non si deve più ripetere. E ora fatevi avanti!” Qualcuno saltò giù dal podio in modo che si liberasse un posto per K., e lui salì. Si trovò strettamente pigiato al tavolo, la calca alle sue spalle era tanta che fu costretto a opporlesi, non intendeva sbatter giù dal podio il tavolo del giudice istruttore e magari anche quest'ultimo.
Il giudice istruttore tuttavia non se ne preoccupò, si mise abbastanza di traverso sulla sua sedia e prese, dopo che l'uomo dietro di lui gli ebbe detto qualcosa di conclusivo, un'agendina, unico oggetto sul suo tavolo. Sembrava un registro amministrativo commerciale, era vecchio, aveva molti fogli fuori posto. “Dunque”, disse il giudice istruttore, sfogliò il registro e si rivolse a K. in tono affermativo: “voi siete pittore?” “No”, disse K.,”sono primo procuratore di una grande banca.” A tale risposta seguì dalla fazione di destra una risata così cordiale che anche K. fu costretto a ridere. La gente si appoggiava le mani sulle ginocchia scossa come se avesse grandi attacchi di tosse. Rise qualcuno anche dal loggione. Il giudice istruttore che, molto arrabbiato, probabilmente non poteva far nulla con chi stava sotto, cercò di rifarsi con quelli del loggione, saltò su, li minacciò e le sue sopracciglia altrimenti poco appariscenti gli si trasformarono in cespugli neri sopra gli occhi.
La metà di sinistra dell'aula era tuttavia ancora silenziosa, la gente stava su diverse file, aveva rivolto il viso verso il podio e udiva le parole lassù scambiate con la stessa calma con cui udiva il chiasso dell'altra fazione, tollerava perfino che alcuni dei suoi qua e là si comportassero come quelli dell'altra fazione. La gente della fazione di sinistra, che del resto era poco numerosa, poteva in fondo essere trascurabile come quella della destra, ma la calma della sua condotta lasciava trasparire che essa contava. Quando K. iniziò il suo dire fu costretto a parlare tenendola in considerazione.
Signor giudice istruttore, la vostra domanda se io sono pittore – anzi non l'avete affatto domandato, ma me lo avete detto in faccia – è indicativa dei modi complessivi del procedimento a mio carico. Potete obbiettare che non si tratta affatto di un procedimento, e ben a ragione, infatti lo è solo se io lo riconosco come tale. Tuttavia io lo riconosco per il momento diciamo per compassione. Non se ne può avere che compassione, volendo porvi attenzione. Non dico che sia un procedimento trasandato, ma mi piacerebbe proporvi tale denominazione ai fini della vostra presa di coscienza.”
K. s'interruppe e guardò giù nell'aula. Ciò che aveva detto era tagliente più di quanto si fosse proposto, e però giusto. Avrebbe meritato qua e là approvazione, però tutto taceva, era chiaro che si aspettava intensamente il seguito, forse si preparava in silenzio un qualcosa di prorompente che avrebbe posto un termine al tutto. Fu un disturbo che ora si aprisse in fondo all'aula una porta, quella giovane lavandaia forse aveva finito il suo lavoro, entrò e nonostante tutta la sua cautela attirò alcuni sguardi su di sé. Soltanto il giudice istruttore fece la gioia immediata di K., difatti parve subito colpito dalle parole di K. Fin lì era stato a sentire, sorpreso dalla allocuzione di K., rivolto in piedi a quelli del loggione. Ora durante la pausa del discorso di K. si mise giù pian piano come se non dovesse farsene accorgere. Riprese l'agendina forse per darsi un tono.
Non serve a nulla”, continuò K., “anche la vostra agenda signor giudice istruttore conferma quel che dico.” Soddisfatto di udire solo le proprie parole tranquille in quella estranea riunione K. osò addirittura togliere senz'altro l'agenda al giudice istruttore e tirarne su con la punta delle dita, quasi ne avesse timore, un foglio centrale, per cui da entrambi i lati i fogli, macchiati e coperti di scrittura fitta, penzolarono giù. “Ecco la documentazione del giudice istruttore”, disse lasciando cadere l'agenda sul tavolo. “Leggete ancora con calma, signor giudice istruttore, non ho paura di quest'agenda, per quanto non possa toccarla e riesca a prenderla solo con due dita.” Sia che ciò fosse solo un segno di più profonda umiliazione o che per lo meno fosse preso come tale, il giudice istruttore prese l'agenda, che era caduta sul tavolo, cercò di rimetterla un po' in sesto e di nuovo se la mise davanti per consultarla.
Le facce della gente in prima fila erano tanto intensamente rivolte su K. che lui per un attimo restò a guardarle. Erano uomini tutti quanti anziani, alcuni avevano la barba bianca. Forse erano determinanti, potevano influire sull'intera assemblea, la quale nemmeno dall'umiliazione del giudice istruttore si faceva distogliere dall'immobilità in cui era sprofondata dopo quel che aveva detto K.
Ciò che mi è accaduto”, riprese a dire K. a voce un po' più bassa di prima e continuando a scandagliare le facce della prima fila, cosa che tolse al suo discorso un po' di incisività, “ciò che mi è accaduto è certamente solo un caso singolo e come tale non è molto importante, nemmeno io lo prendo tanto sul serio, ma segnala un modo di procedere che viene usato con molti. Per questi io rispondo, non per me.”
Aveva involontariamente alzato la voce. Da qualche parte qualcuno alzò le mani in un applauso, gridando “bravo! Perché no? Bravo, e ancora bravo!” Alcuni di quelli in prima fila si misero le mani nella barba, nessuno si guardò attorno per via di quell'evviva. Nemmeno K. la valutò significativa, tuttavia ne fu incoraggiato; non riteneva nemmeno necessario che tutti esprimessero approvazione, era sufficiente che in generale cominciassero a meditare sulla faccenda e che solo uno alla volta venissero persuasi.
Non voglio successo oratorio”, disse K. dopo tale riflessione, “neppure riuscirei a ottenerlo. Il signor giudice istruttore probabilmente parla molto meglio, è il suo mestiere. Quel che voglio è solo la discussione pubblica di un abuso pubblico. Stiano a sentire: circa 10 giorni fa sono stato arrestato, l'effettività dell'arresto mi fa ridere, ma questo ora non c'entra. Venni colto di sorpresa nel letto, forse si aveva l'ordine – non è escluso, stando a ciò che disse il giudice istruttore – di arrestare un pittore innocente come me, ma si scelse me. La stanza accanto alla mia fu presidiata da due guardie. Se fossi stato un pericoloso bandito non si sarebbe potuto provvedere meglio. Quelle guardie erano bricconi corrotti, mi riempirono di chiacchiere, volevano farsi ungere, con vane promesse volevano carpirmi biancheria e abiti, volevano soldi per portarmi a quanto pare un po' di colazione dopo che avevano mangiato la mia davanti a me con sfacciataggine. Non basta. Venni condotto in una terza stanza davanti all'ispettore. Era la camera di una signora che stimo molto e io fui costretto a stare a vedere come a causa mia, ma senza mia colpa, per la presenza delle guardie e dell'ispettore essa veniva per così dire profanata. Non fu facile mantenere la calma. Però mi riuscì e chiesi tranquillissimo all'ispettore – se fosse qui sarebbe costretto a confermarlo – perché fossi in arresto. E cosa rispose quest'ispettore? – me lo vedo ancora davanti come sta sulla sedia della menzionata signora, rappresentazione dell'arroganza più ottusa. Miei signori, in fondo non rispose alcunché, forse davvero non sapeva nulla, mi aveva arrestato e gli bastava. Addirittura ha fatto di più e nella camera di quella signora a portato 3 impiegati di basso rango della mia banca che han badato bene a tocchicchiare e a mettere a soqquadro delle fotografie appartenenti alla signora. La presenza di questi impiegati aveva naturalmente un altro scopo, essi dovevano, tanto quanto la mia padrona di casa e la sua cameriera, diffondere la notizia del mio arresto, danneggiare la mia immagine pubblica e far vacillare la mia posizione nella banca. Nulla di ciò neppure minimamente è riuscito, anche la mia padrona di casa, persona semplicissima – qui voglio farne il nome in segno di stima, si chiama Grubach – anche la signora Grubach fu in grado di capire che un simile arresto non ha un significato maggiore di un manifesto di quelli che in strada giovani non abbastanza controllati espongono. Ripeto, il tutto mi ha provocato solo dispiaceri e rabbia transitoria, ma non avrebbe potuto avere conseguenze maggiori?”
Qui interrottosi, K. guardò dalla parte del giudice istruttore e gli sembrò di notare che questi desse un'occhiata d'intesa a qualcuno della folla. K. sorrise e disse: “proprio qui accanto a me il signor giudice istruttore fa a qualcuno di loro un segnale segreto. Vi son dunque persone tra loro che son dirette da quassù. Non so se il segnale doveva provocare fischi o applausi e, ben consapevole del fatto che vado parlando troppo presto dei fatti miei, rinuncio a sapere il significato di quel segnale. Esso mi è del tutto indifferente e autorizzo il signor giudice istruttore a guidare apertamente a voce alta e non a segni segreti i suoi stipendiati che stanno laggiù, dicendo loro una volta, a un dipresso, 'fischiate', e la volta dopo 'applaudite'. “
Imbarazzato o impaziente il giudice istruttore si mosse avanti e indietro sulla sedia. Quell'uomo che aveva alle spalle e con il quale già prima aveva parlato si chinò di nuovo verso di lui, o per incoraggiarlo in modo generico, o per consigliarlo in modo specifico. In basso la gente si parlava a voce bassa, ma in modo vivace. Le due fazioni, che prima sembravano di opinioni tanto contrastanti, si mescolarono, c'era gente che segnava a dito K. e altra che indicava il giudice istruttore. La foschia nebbiosa nella stanza era estremamente molesta, impediva addirittura di veder bene chi stava lontano. In particolare per coloro che erano ospiti del loggione doveva essere disturbante, erano costretti, del resto dando timide occhiate di lato al giudice istruttore, a far domande a bassa voce ai partecipanti all'assemblea per informarsi meglio. Si rispondeva loro ugualmente a bassa voce riparandosi con la mano.
Ho quasi finito”, disse K., che in mancanza di una campanella batté un pugno sul tavolo, cosa che fece voltare la testa di colpo al giudice istruttore e al suo consigliere, impauriti: “l'intera faccenda non mi riguarda, ne consegue che io la commenti con tranquillità, e loro possono, supposto che un poco siano interessati a questo cosiddetto dibattimento, ricavare un gran vantaggio, se mi stanno a sentire. Li prego di rimandare a dopo le loro scambievoli osservazioni circa ciò che propongo, difatti non ho affatto tempo e presto me ne andrò.”
Subito vi fu silenzio; tanto K. dominava l'assemblea. Si smise di parlarsi a vicenda urlando come all'inizio, non si applaudì neppure, ma parve che si fosse già convinti, o sulla via di esserlo.
Non v'è dubbio”, disse K. a voce molto bassa, difatti l'intensità dell'ascolto di tutta l'assemblea gli piaceva, in quel silenzio c'era un brusio più stimolante del plauso più estasiato, “non v'è dubbio che dietro quanto di questo tribunale è visibile, nel caso mio dietro l'arresto e dietro l'istruttoria odierna, si trovi una grossa organizzazione. Una organizzazione che impiega non solo guardie corruttibili, ispettori inetti e giudici istruttori destinati ai casi più facili, ma che mantiene inoltre una magistratura di alto e altissimo livello con un seguito innumerevole di indispensabile personale di servizio, di scrivani, di gendarmi e di assistenti, forse perfino di boia, non indietreggio di fronte a questa parola. E qual è la finalità di tale organizzazione, miei signori? Quella di arrestare persone innocenti e di istruire contro di loro insensati e il più delle volte, come nel caso mio, inutili procedimenti. Come si poteva evitare, in presenza di questa totale insensatezza, la peggiore corruzione dei funzionari? E' impossibile che ci riuscisse neppure il giudice di grado più alto. Perciò le guardie tentano di levar di dosso all'arrestato gli abiti, perciò gli ispettori penetrano a forza negli appartamenti altrui, perciò gli innocenti invece di essere interrogati vengono umiliati davanti a intere assemblee. Le guardie mi hanno riferito di un deposito in cui si portano le proprietà dell'arrestato, vorrei vederlo una volta questo deposito in cui va in malora la proprietà con fatica guadagnata dal lavoro dell'arrestato, laddove non sia rubata da ladreschi addetti al deposito.”
K. venne interrotto da un gemito squittente in fondo all'aula, si fece ombra sugli occhi per poter vedere, difatti la luce del giorno, offuscata, imbiancava la foschia e accecava. Si trattava della lavandaia che K. subito, all'ingresso di lei nell'aula, aveva riconosciuto come un effettivo disturbo. Se ora lei ne avesse colpa o non ne avesse, non si riusciva a capire. K. vide solo che un uomo l'aveva tirata presso la porta e se la stringeva addosso. Tuttavia non lei squittiva, ma l'uomo, che aveva allargato la bocca e guardava verso il soffitto. Si era formato attorno ai due un circoletto, gli ospiti del loggione in quei pressi parevano entusiasti del fatto che la serietà indotta da K. nell'assemblea venisse in questo modo interrotta. K. intendeva, secondo la sua prima impressione, correre subito sul posto, pensava inoltre che a tutti importasse che vi fosse portato ordine e che per lo meno la coppia fosse mandata fuori dall'aula, ma le prime file davanti a lui restarono ben ferme, nessuno si mosse, nessuno fece passare K. Al contrario lo si ostacolò, gli anziani misero le braccia avanti e una mano – non ebbe tempo di voltarsi – lo prese per il colletto; K. in effetti non pensò più a quella coppia, ebbe l'impressione che la propria libertà venisse ristretta, quasi che con l'arresto si facesse sul serio, per cui balzò senza riguardi giù dal podio. Ora si trovò faccia a faccia con la ressa. Aveva giudicato in modo erroneo quella gente? Aveva creduto troppo all'effetto delle proprie parole? Si era finto, mentre lui parlava, e ora, che lui era arrivato a tirar le fila del suo discorso, se ne aveva abbastanza di fingere? Che facce attorno a lui! Occhietti neri guizzanti, guance lasche, come da alcolizzati, lunghe barbe rade e infeltrite che, a toccarle, non erano barbe, ma roba da graffiarcisi. Sotto però – fu la scoperta di K. – i colletti delle giacche luccicavano di distintivi di svariata grandezza e colore. Tutti avevano quei distintivi, a quanto si poteva vedere. Tutti rispettivamente appartenevano alle fittizie fazioni di destra e di sinistra, e quando lui si voltò d'improvviso vide gli stessi distintivi sul colletto del giudice istruttore, che, le mani in grembo, guardava tranquillamente giù. “Ecco ecco!” esclamò levando in alto le braccia - l'improvvisa scoperta voleva spazio, “voi siete tutti impiegati, come vedo, siete anzi quella banda di corrotti contro cui parlavo, vi siete accalcati qui in qualità di uditori e ficcanaso, avete formato fazioni fittizie e una ha applaudito per mettermi alla prova, voi volete imparare come si devono sedurre gli innocenti. Dunque non siete stati qui a vuoto, spero, vi ha divertito che qualcuno abbia atteso da voi una difesa dell'innocente oppure – lasciami o le prendi”, gridò K. a un vecchio tremolante che gli si era spinto particolarmente vicino, “oppure sono io che ho imparato davvero qualcosa. E con ciò vi auguro fortuna professionale.” Rapido prese il cappello che stava sul bordo del tavolo e si spinse verso l'uscita nel silenzio generale, comunque pieno di sorpresa. Il giudice istruttore parve tuttavia esser stato ancor più svelto di K., difatti era sulla porta ad aspettarlo. “Un momento”, disse, e K. si fermò guardando però non il giudice istruttore, ma la porta, di cui aveva già afferrato la maniglia. “Volevo solo rendervi noto”, disse il giudice istruttore, “che oggi – potreste ancora non esserne consapevole – vi siete privato del vantaggio che un interrogatorio in ogni caso significa per l'arrestato.” K. rise in direzione della porta. “Farabutti”, esclamò, “ve li lascio tutti, gli interrogatori”, aprì la porta e scese in fretta le scale. Alle sue spalle si levò il chiasso dell'assemblea, di nuovo vivace, che forse iniziava a discutere i fatti avvenuti, come usano gli studenti.

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