Prima assise
istruttoria
K.
era stato informato telefonicamente che la domenica successiva
avrebbe avuto luogo una breve assise istruttoria in merito al suo
caso. Lo s'informò del fatto che tali occasioni ora sarebbero seguite
l'una all'altra con regolarità, forse una volta alla settimana,
oppure con frequenza maggiore. Era da un lato d'interesse generale
portare a termine il processo, dall'altro tuttavia le sedute
istruttorie avrebbero dovuto essere sotto ogni aspetto accurate, e
però a causa della fatica a esse collegata non avrebbero dovuto
durare troppo a lungo. Perciò si era scelta la via di queste sedute
frequenti, ma brevi. Si era preferito designare la domenica come
giorno di assise al fine di non disturbare K. nel suo lavoro
d'ufficio. Si supponeva che lui fosse d'accordo, qualora desiderasse
un giorno diverso gli sarebbe venuti incontro alla meglio. Le sedute
istruttorie sarebbero state per esempio possibili anche di notte, ma
in quel caso K. non sarebbe stato abbastanza fresco. Comunque, fin
quando K. non avesse fatto alcuna obbiezione, non si sarebbe cambiato
il giorno, domenica. Era evidente che lui assolutamente dovesse
comparire, non c'era bisogno neppure di farglielo notare. Gli venne
menzionato il numero dell'edificio nel quale lui doveva presentarsi,
era sito in una remota via di un sobborgo nel quale K. non era mai
stato prima.
Avuta
tale comunicazione K. agganciò il ricevitore senza rispondere; fu
subito deciso ad andare, la domenica, ciò era certo necessario, il
processo iniziava e lui doveva presenziarvi, anche nel caso che
quella prima assise dovesse essere l'ultima. Restava ancora
pensieroso presso l'apparecchio quando dietro di sé udì la voce del
vice direttore che voleva telefonare e tuttavia K. gli sbarrava la
strada. “Cattive notizie?” chiese il vice direttore alla leggera,
non per informarsi, ma per distogliere K. dall'apparecchio. “No,
no”, disse K., si fece da parte, ma non se ne andò. Il vice
direttore prese il ricevitore e mentre aspettava il collegamento
telefonico disse al di sopra del ricevitore: “permettete una
domanda, signor K.? Potreste domenica mattina farmi il piacere di
partecipare a un'uscita sulla mia barca a vela? Saremo così in bella
compagnia, e certo vi saranno anche vostri conoscenti. Tra gli altri
il procuratore di Stato Hasterer. Verrete? Via, venite!” K. cercò
di prestare attenzione a quel che il vice direttore diceva. Non era
una cosa banale per lui, difatti tale invito del vice direttore, con
cui non era mai andato molto facilmente d'accordo, significava un
tentativo di riconciliazione da parte sua e indicava quanto era
diventato importante K. nella banca, e quanto appariva preziosa al
secondo più alto funzionario la sua amicizia, o almeno la sua
imparzialità. Tale invito era un abbassarsi, da parte del vice
direttore, per quanto potesse esser stato espresso da sopra il
ricevitore nell'attesa del collegamento telefonico. Tuttavia K.,
costretto a far seguire una seconda umiliazione, disse: “molte
grazie! Ma purtroppo domenica non ho tempo, ho già un impegno.”
“Peccato”, disse il vice direttore mettendosi a parlare al
telefono, il cui collegamento era stato appunto stabilito. Non fu
affatto una conversazione breve, ma distrattamente K. restò per
tutto il tempo accanto all'apparecchio. Solo quando il vice direttore
interruppe la comunicazione K. si spaventò e disse, per giustificare
solo un poco il suo superfluo star lì: “sono stato chiamato al
telefono ora, ho da andare in un posto, ma si sono scordati di dirmi
l'ora.” “ Ma allora informatevene di nuovo”, disse il vice
direttore. “Non è così importante”, disse K. nonostante che con
ciò la sua giustificazione di prima, in sé difettosa, si sfasciasse
ulteriormente. Nell'andarsene il vice direttore parlò ancora di
altre cose, K. si costrinse a rispondere pensando tuttavia
soprattutto che la cosa migliore sarebbe stata andare domenica verso
le 9, infatti è a quell'ora che i tribunali nei giorni di lavoro
iniziano a funzionare.
Domenica
il tempo era nuvoloso, K. molto spossato, rimasto all'osteria fino a
notte fonda per via d'una festa privata quasi non si era svegliato.
In fretta e senza aver tempo di esaminare e ricomporre gli svariati
piani escogitati durante la settimana, si vestì e corse senza aver
fatto colazione in quel sobborgo indicatogli. Stranamente incontrò,
anche se aveva poco tempo per guardarsi attorno, i tre impiegati
partecipanti a quella cosa che era successa, Rabensteiner, Kullych e
Kaminer. I primi due gli attraversarono la strada in tram, invece
Kaminer, seduto nella terrazza di un caffè, si chinò incuriosito
sul parapetto al passaggio di K. Tutti seguirono stupiti la corsa del
loro superiore; fu un certo puntiglio a trattenere K. dal prendere il tram senz'altro da lì, era disgustato da qualsiasi, anche dal minimo,
aiuto esterno in quella sua cosa, non voleva ricorrere a nessuno con
ciò mettendolo a conoscenza di essa, e sia pure alla lontana, in
definitiva però non aveva la minima voglia di abbassarsi di fronte
alla commissione istruttoria con una eccessiva puntualità. Eppur
tuttavia ora correva per arrivare se possibile attorno alle 9, per
quanto non gli fosse stato fissato neanche un appuntamento preciso.
Aveva
pensato di riconoscere già da lontano l'edificio per un qualche
segno che lui stesso non si era figurato bene, oppure per un
particolare movimento davanti all'entrata. Tuttavia la Juliusstrasse,
in cui l'edificio doveva trovarsi, all'inizio della quale K. si fermò
per un momento, conteneva su entrambi i lati edifici quasi tutti
uguali, alte grige case d'affitto abitate da povera gente. A
quell'ora di domenica mattina alla maggior parte delle finestre c'era
qualcuno, uomini in maniche di camicia si sporgevano e fumavano,
oppure reggevano bambini piccoli con cautela e garbo sul davanzale.
Altre finestre erano tutte piene di coperte e lenzuola sopra cui
compariva la testa scompigliata di una donna. Ci si chiamava a
vicenda al di sopra della via, uno di questi gridi provocò una gran
risata proprio sopra K. Regolarmente distribuiti si trovavano in
quella lunga via negozietti di generi alimentari assortiti, posti in
basso rispetto al livello stradale e raggiungibili da altrettante
scale. Ne uscivano o ci entravano donne, oppure stavano sui gradini a
chiacchierare. Un fruttivendolo che raccomandava la sua merce, tanto
disattento quanto K., lo avrebbe quasi messo sotto con il suo
carretto. Iniziò pure a suonare con crudeltà un grammofono
residuato da quartieri migliori.
K.
s'inoltrò nella viuzza lentamente come se avesse tempo, o come se il
giudice istruttore lo vedesse da una qualche finestra e sapesse
quindi che lui si era presentato. Erano da poco passate le 9.
L'edificio si trovava piuttosto oltre, era esteso in modo quasi
insolito, in particolare il portone d'ingresso era alto e largo. Era
chiaramente destinato al carico e scarico dei diversi magazzini di
merci che, ora chiusi, contornavano il grande cortile e recavano
scritti i nomi di ditte che K. in parte conosceva per via del suo
lavoro bancario. Si fermò anche un po' sull'entrata del cortile
occupandosi con più precisione del suo solito di tutte quelle cose
futili. Vicino, un uomo dai piedi nudi sedeva su una cassa e leggeva
un giornale. Su un carretto a mano si dondolavano due ragazzi.
Davanti a una pompa c'era una ragazzina magra con addosso una vestina
da notte e, intanto che l'acqua scorreva nella sua brocca, guardava
verso K. In un angolo del cortile venne tesa una corda cui già era
appesa e fissata biancheria da asciugare. Un uomo dal basso dirigeva
tale lavoro con qualche richiamo urlato.
K.
si volse verso la scala per andare nella stanza dell'istruttoria, poi
si fermò di nuovo, difatti a parte quella scala vide nel cortile tre
diversi accessi a scale e oltre a ciò pareva che un breve passaggio
al termine del cortile portasse in un secondo cortile. Se la prese
perché non gli avevano indicato dov'era la stanza dell'istruttoria
in modo più preciso; però! - era con una particolare trascuratezza,
o indifferenza, che lo si trattava, si ripropose di dichiararlo
forte e chiaro. Alla fine tuttavia salì la prima scala, mentalmente
recitando un motto della guardia Willem che si ricordava: il
tribunale viene attratto dalla colpa, dal che di fatto conseguiva che
la stanza dell'istruttoria doveva trovarsi lungo la scala che K.
sceglieva a caso.
Disturbò
salendo molti bambini che giocavano per le scale e lo guardavano male
se transitava tra loro. “Se dovessi ritornare”, si disse, “devo
portare con me o dolciumi per rabbonirli o il bastone per dargliele.”
Subito prima del primo piano fu costretto perfino ad attendere che
una biglia terminasse il suo percorso, trattenendolo per i calzoni
nel frattempo due ragazzini dallo strano volto da lazzarone fatto e
finito; nel caso che avesse inteso scrollarseli di dosso avrebbe
dovuto fargli male e ne paventò le urla.
Al
primo piano iniziò la vera e propria ricerca. Non riuscendo tuttavia
lui a chiedere dove fosse la commissione istruttoria, s'inventò un
certo Lanz, falegname – gli venne in mente il nome perché così si
chiamava il capitano, il nipote della signora Grubach – e si mise a
chiedere in tutti gli appartamenti se lì abitava un certo Lanz,
falegname, per avere la possibilità di guardare dentro. Si palesò
tuttavia che per lo più si poteva guardare senz'altro all'interno,
difatti quasi ogni uscio era aperto e i bambini correvano dentro e
fuori. Erano stanze piccole e di regola con una sola finestra, e vi
si cucinava pure. Parecchie donne avevano in braccio lattanti e
lavoravano con la mano libera al fornello. Ragazze adolescenti con
addosso apparentemente solo il grembiule trascorrevano avanti e
indietro con la massima applicazione. In tutte le stanze i letti
erano disfatti, vi si trovavano distesi ammalati, persone che ancora
dormivano o che, vestite, si stiracchiavano. Agli appartamenti le cui
porte erano chiuse K. bussò e chiese se vi abitasse il falegname
Lanz. Per lo più apriva una donna, porgeva orecchio alla domanda e
si girava verso qualcuno che si levava dal letto. “Il signore
chiede se un certo falegname Lanz abita qui.” “Il falegname
Lanz?” chiedeva chi s'era alzato dal letto. “Sì”, diceva K.,
per quanto non ci fosse dubbio che la commissione istruttoria lì non
c'era e che quel che lui aveva da fare fosse concluso. Molti
credettero che a K. importasse molto di trovare il falegname Lanz, ci
pensavano a lungo, nominavano un falegname che però non si chiamava
Lanz, o qualcuno che molto alla lontana si chiamava come Lanz, oppure
chiedevano ai vicini, oppure accompagnavano K. a un uscio
lontanissimo dove secondo loro forse abitava un uomo tipo Lanz, in
subaffitto, o dove c'era chi avrebbe potuto dare informazioni
migliori. Con quel metodo, finì che K. non dovette più quasi
chiedere, venne invece trascinato per i vari piani della casa.
Deplorò il suo metodo che all'inizio gli era sembrato tanto
praticabile. Prima di salire al 5° piano si decise ad abbandonare la
ricerca, si congedò da un simpatico giovane operaio che voleva
continuare a guidarlo su e scese. Poi tuttavia lo irritò la vacuità
dell'intera impresa e andò di nuovo a bussare alla prima porta del
5° piano. La prima cosa che vide nella stanzetta fu un grande
orologio a muro che segnava già le 10. “Abita qui un certo Lanz,
falegname?” chiese. “Prego”, disse una giovane donna dagli
occhi neri e luminosi che stava lavando biancheria da bambini in un
secchio, e gl'indicò con una mano bagnata la porta accanto, aperta.
K.
credette di entrare in un'assemblea. Una ressa di gente la più varia
- nessuno si curò di chi stava entrando – riempiva una stanza di
media grandezza con due finestre; torno torno, in prossimità del
soffitto, vi era un loggione anch'esso tutto occupato dove le persone
riuscivano a stare solo piegate e urtavano con il capo e le spalle
contro il soffitto. K. , essendo per lui l'aria troppo soffocante,
uscì e a quella giovane donna che probabilmente lo aveva capito male
disse: “non ho chiesto di un falegname, di un certo Lanz?” “Sì”,
disse la donna, “prego, entrate.” K. forse non l'avrebbe seguita,
se lei non gli si fosse avvicinata e avesse impugnato la maniglia
della porta dicendo: “dopo di voi devo chiudere, nessun altro ha da
entrare.” “Giustissimo”, disse K., “però è già strapieno.”
Poi tuttavia rientrò nella stanza.
Tra
2 uomini che conversavano vicinissimi alla porta – l'uno faceva il
movimento di quando si contano i soldi, tutt'e due le mani protese in
avanti, l'altro lo guardava negli occhi con grande attenzione - una
mano cercò di afferrare K. Si trattava di un giovane basso dalle
guance rosse. “Venite, venite”, disse. K. si lasciò guidare,
segnalandosi che pur nella calca brulicante c'era un passaggio libero
che forse distingueva due fazioni; lo diceva anche il fatto che K.
nelle prime file a destra e a sinistra a mala pena vide una faccia
voltata verso di lui, ma solo schiene di gente che rivolgeva la
parola e i gesti unicamente a quelli della propria fazione. La
maggioranza era vestita di nero, con giacche da cerimonia all'antica,
sbrendolate e lunghe. Tale abbigliamento rese perplesso K., sennò
avrebbe guardato a quell'insieme come a un'assemblea politica di
quartiere.
All'altra
estremità dell'aula dove K. venne condotto, su un podio molto basso
ugualmente stracolmo c'era un tavolino messo di traverso dietro cui,
vicino al margine del podio, sedeva un omino grasso ansimante che
stava conversando tra gran risate con chi gli stava dietro – i
gomiti appoggiati alla spalliera della sedia, le gambe incrociate. A
tratti costui brandiva un braccio in aria come se facesse il verso a
qualcuno. Il giovane che guidava K. fece fatica a segnalarsi. Due
volte aveva già tentato di ottenere qualcosa stando in punta di
piedi senza che da quell'uomo sovrastanta gli fosse stata data
attenzione. Solo quando una delle persone in alto sul podio lo notò,
quell'uomo gli si rivolse e, piegato in basso, stette in ascolto di
quel che il giovane comunicava sommessamente. Poi estrasse l'orologio
e svelto guardò K. “Voi avreste dovuto comparire un'ora e cinque
minuti fa”, disse. K. intendeva rispondere qualcosa, ma non ne ebbe
il tempo, difatti non appena quell'uomo ebbe parlato si levò nella
metà di destra dell'aula un generale brontolio. “Avreste dovuto
comparire un'ora e cinque minuti fa”, ripeté quell'uomo a voce più
alta e ora guardando rapido giù nell'aula. Subito anche il brontolio
si fece più forte e si spense quando quell'uomo smise di parlare,
però un poco alla volta. C'era adesso nell'aula molta più calma che
non all'ingresso di K. Solo la gente in loggione non cessò di fare
le sue considerazioni. Nei limiti di quanto si poteva distinguere
lassù nella penombra, nella foschia e nella polvere, quella gente
pareva maldisposta come quella di sotto. Parecchi avevano portato con
sé cuscini che avevano messo tra il capo e il soffitto per non
premercelo e scorticarlo.
K.
aveva deciso di osservare più che parlare, per cui rinunciò a
difendersi in merito al suo presunto ritardo e disse solo: “Posso
esser venuto in ritardo, ora però ci sono.” Ne seguì dalla parte
destra dell'aula un applauso di approvazione. “E' facile
guadagnarsi il favore della gente”, pensò K., ora turbato dal
silenzio della metà di sinistra, che gli si trovava proprio dietro e
dalla quale si era levato solo un applauso del tutto isolato. Pensò
a quello che poteva dire per guadagnarsi il favore degli altri, tutti
in una volta o, se impossibile, almeno il favore temporaneo.
“Sì”,
disse quell'uomo, “ma ora non sono più tenuto a interrogarvi” -
di nuovo borbottio, stavolta però non facile da interpretare,
difatti quell'uomo proseguì, intanto che con una mano segnalava alla
gente l'errore - “ciò non di meno oggi intendo in via eccezionale
farlo. Un ritardo del genere però non si deve più ripetere. E ora
fatevi avanti!” Qualcuno saltò giù dal podio in modo che si
liberasse un posto per K., e lui salì. Si trovò strettamente
pigiato al tavolo, la calca alle sue spalle era tanta che fu
costretto a opporlesi, non intendeva sbatter giù dal podio il tavolo
del giudice istruttore e magari anche quest'ultimo.
Il
giudice istruttore tuttavia non se ne preoccupò, si mise abbastanza
di traverso sulla sua sedia e prese, dopo che l'uomo dietro di lui
gli ebbe detto qualcosa di conclusivo, un'agendina, unico oggetto sul
suo tavolo. Sembrava un registro amministrativo commerciale, era
vecchio, aveva molti fogli fuori posto. “Dunque”, disse il
giudice istruttore, sfogliò il registro e si rivolse a K. in tono
affermativo: “voi siete pittore?” “No”, disse K.,”sono
primo procuratore di una grande banca.” A tale risposta seguì
dalla fazione di destra una risata così cordiale che anche K. fu
costretto a ridere. La gente si appoggiava le mani sulle ginocchia
scossa come se avesse grandi attacchi di tosse. Rise qualcuno anche
dal loggione. Il giudice istruttore che, molto arrabbiato,
probabilmente non poteva far nulla con chi stava sotto, cercò di
rifarsi con quelli del loggione, saltò su, li minacciò e le sue
sopracciglia altrimenti poco appariscenti gli si trasformarono in
cespugli neri sopra gli occhi.
La
metà di sinistra dell'aula era tuttavia ancora silenziosa, la gente
stava su diverse file, aveva rivolto il viso verso il podio e udiva
le parole lassù scambiate con la stessa calma con cui udiva il
chiasso dell'altra fazione, tollerava perfino che alcuni dei suoi qua
e là si comportassero come quelli dell'altra fazione. La gente della
fazione di sinistra, che del resto era poco numerosa, poteva in fondo
essere trascurabile come quella della destra, ma la calma della sua
condotta lasciava trasparire che essa contava. Quando K. iniziò il
suo dire fu costretto a parlare tenendola in considerazione.
“Signor
giudice istruttore, la vostra domanda se io sono pittore – anzi non
l'avete affatto domandato, ma me lo avete detto in faccia – è
indicativa dei modi complessivi del procedimento a mio carico. Potete
obbiettare che non si tratta affatto di un procedimento, e ben a
ragione, infatti lo è solo se io lo riconosco come tale. Tuttavia io
lo riconosco per il momento diciamo per compassione. Non se ne può
avere che compassione, volendo porvi attenzione. Non dico che sia un
procedimento trasandato, ma mi piacerebbe proporvi tale denominazione
ai fini della vostra presa di coscienza.”
K.
s'interruppe e guardò giù nell'aula. Ciò che aveva detto era
tagliente più di quanto si fosse proposto, e però giusto. Avrebbe
meritato qua e là approvazione, però tutto taceva, era chiaro che
si aspettava intensamente il seguito, forse si preparava in silenzio
un qualcosa di prorompente che avrebbe posto un termine al tutto. Fu
un disturbo che ora si aprisse in fondo all'aula una porta, quella
giovane lavandaia forse aveva finito il suo lavoro, entrò e
nonostante tutta la sua cautela attirò alcuni sguardi su di sé.
Soltanto il giudice istruttore fece la gioia immediata di K., difatti
parve subito colpito dalle parole di K. Fin lì era stato a sentire,
sorpreso dalla allocuzione di K., rivolto in piedi a quelli del
loggione. Ora durante la pausa del discorso di K. si mise giù pian
piano come se non dovesse farsene accorgere. Riprese l'agendina forse
per darsi un tono.
“Non
serve a nulla”, continuò K., “anche la vostra agenda signor
giudice istruttore conferma quel che dico.” Soddisfatto di udire
solo le proprie parole tranquille in quella estranea riunione K. osò
addirittura togliere senz'altro l'agenda al giudice istruttore e
tirarne su con la punta delle dita, quasi ne avesse timore, un foglio
centrale, per cui da entrambi i lati i fogli, macchiati e coperti di
scrittura fitta, penzolarono giù. “Ecco la documentazione del
giudice istruttore”, disse lasciando cadere l'agenda sul tavolo.
“Leggete ancora con calma, signor giudice istruttore, non ho paura
di quest'agenda, per quanto non possa toccarla e riesca a prenderla
solo con due dita.” Sia che ciò fosse solo un segno di più
profonda umiliazione o che per lo meno fosse preso come tale, il
giudice istruttore prese l'agenda, che era caduta sul tavolo, cercò
di rimetterla un po' in sesto e di nuovo se la mise davanti per
consultarla.
Le
facce della gente in prima fila erano tanto intensamente rivolte su
K. che lui per un attimo restò a guardarle. Erano uomini tutti
quanti anziani, alcuni avevano la barba bianca. Forse erano
determinanti, potevano influire sull'intera assemblea, la quale
nemmeno dall'umiliazione del giudice istruttore si faceva distogliere
dall'immobilità in cui era sprofondata dopo quel che aveva detto K.
“Ciò
che mi è accaduto”, riprese a dire K. a voce un po' più bassa di
prima e continuando a scandagliare le facce della prima fila, cosa
che tolse al suo discorso un po' di incisività, “ciò che mi è
accaduto è certamente solo un caso singolo e come tale non è molto
importante, nemmeno io lo prendo tanto sul serio, ma segnala un modo
di procedere che viene usato con molti. Per questi io rispondo, non
per me.”
Aveva
involontariamente alzato la voce. Da qualche parte qualcuno alzò le
mani in un applauso, gridando “bravo! Perché no? Bravo, e ancora
bravo!” Alcuni di quelli in prima fila si misero le mani nella
barba, nessuno si guardò attorno per via di quell'evviva. Nemmeno K.
la valutò significativa, tuttavia ne fu incoraggiato; non riteneva
nemmeno necessario che tutti esprimessero approvazione, era
sufficiente che in generale cominciassero a meditare sulla faccenda e
che solo uno alla volta venissero persuasi.
“Non
voglio successo oratorio”, disse K. dopo tale riflessione, “neppure
riuscirei a ottenerlo. Il signor giudice istruttore probabilmente
parla molto meglio, è il suo mestiere. Quel che voglio è solo la
discussione pubblica di un abuso pubblico. Stiano a sentire: circa 10
giorni fa sono stato arrestato, l'effettività dell'arresto mi fa
ridere, ma questo ora non c'entra. Venni colto di sorpresa nel letto,
forse si aveva l'ordine – non è escluso, stando a ciò che disse
il giudice istruttore – di arrestare un pittore innocente come me,
ma si scelse me. La stanza accanto alla mia fu presidiata da due
guardie. Se fossi stato un pericoloso bandito non si sarebbe potuto
provvedere meglio. Quelle guardie erano bricconi corrotti, mi
riempirono di chiacchiere, volevano farsi ungere, con vane promesse
volevano carpirmi biancheria e abiti, volevano soldi per portarmi a
quanto pare un po' di colazione dopo che avevano mangiato la mia
davanti a me con sfacciataggine. Non basta. Venni condotto in una
terza stanza davanti all'ispettore. Era la camera di una signora che
stimo molto e io fui costretto a stare a vedere come a causa mia, ma
senza mia colpa, per la presenza delle guardie e dell'ispettore essa
veniva per così dire profanata. Non fu facile mantenere la calma.
Però mi riuscì e chiesi tranquillissimo all'ispettore – se fosse
qui sarebbe costretto a confermarlo – perché fossi in arresto. E
cosa rispose quest'ispettore? – me lo vedo ancora davanti come sta
sulla sedia della menzionata signora, rappresentazione
dell'arroganza più ottusa. Miei signori, in fondo non rispose
alcunché, forse davvero non sapeva nulla, mi aveva arrestato e gli
bastava. Addirittura ha fatto di più e nella camera di quella
signora a portato 3 impiegati di basso rango della mia banca che han
badato bene a tocchicchiare e a mettere a soqquadro delle fotografie
appartenenti alla signora. La presenza di questi impiegati aveva
naturalmente un altro scopo, essi dovevano, tanto quanto la mia
padrona di casa e la sua cameriera, diffondere la notizia del mio
arresto, danneggiare la mia immagine pubblica e far vacillare la mia
posizione nella banca. Nulla di ciò neppure minimamente è riuscito,
anche la mia padrona di casa, persona semplicissima – qui voglio
farne il nome in segno di stima, si chiama Grubach – anche la
signora Grubach fu in grado di capire che un simile arresto non ha un
significato maggiore di un manifesto di quelli che in strada giovani
non abbastanza controllati espongono. Ripeto, il tutto mi ha
provocato solo dispiaceri e rabbia transitoria, ma non avrebbe potuto
avere conseguenze maggiori?”
Qui
interrottosi, K. guardò dalla parte del giudice istruttore e gli
sembrò di notare che questi desse un'occhiata d'intesa a qualcuno
della folla. K. sorrise e disse: “proprio qui accanto a me il
signor giudice istruttore fa a qualcuno di loro un segnale segreto.
Vi son dunque persone tra loro che son dirette da quassù. Non so se
il segnale doveva provocare fischi o applausi e, ben consapevole del
fatto che vado parlando troppo presto dei fatti miei, rinuncio a
sapere il significato di quel segnale. Esso mi è del tutto
indifferente e autorizzo il signor giudice istruttore a guidare
apertamente a voce alta e non a segni segreti i suoi stipendiati che
stanno laggiù, dicendo loro una volta, a un dipresso, 'fischiate', e
la volta dopo 'applaudite'. “
Imbarazzato
o impaziente il giudice istruttore si mosse avanti e indietro sulla
sedia. Quell'uomo che aveva alle spalle e con il quale già prima
aveva parlato si chinò di nuovo verso di lui, o per incoraggiarlo in
modo generico, o per consigliarlo in modo specifico. In basso la
gente si parlava a voce bassa, ma in modo vivace. Le due fazioni, che
prima sembravano di opinioni tanto contrastanti, si mescolarono,
c'era gente che segnava a dito K. e altra che indicava il giudice
istruttore. La foschia nebbiosa nella stanza era estremamente
molesta, impediva addirittura di veder bene chi stava lontano. In
particolare per coloro che erano ospiti del loggione doveva essere
disturbante, erano costretti, del resto dando timide occhiate di lato
al giudice istruttore, a far domande a bassa voce ai partecipanti
all'assemblea per informarsi meglio. Si rispondeva loro ugualmente a
bassa voce riparandosi con la mano.
“Ho
quasi finito”, disse K., che in mancanza di una campanella batté
un pugno sul tavolo, cosa che fece voltare la testa di colpo al
giudice istruttore e al suo consigliere, impauriti: “l'intera
faccenda non mi riguarda, ne consegue che io la commenti con
tranquillità, e loro possono, supposto che un poco siano interessati
a questo cosiddetto dibattimento, ricavare un gran vantaggio, se mi
stanno a sentire. Li prego di rimandare a dopo le loro scambievoli
osservazioni circa ciò che propongo, difatti non ho affatto tempo e
presto me ne andrò.”
Subito
vi fu silenzio; tanto K. dominava l'assemblea. Si smise di parlarsi a
vicenda urlando come all'inizio, non si applaudì neppure, ma parve
che si fosse già convinti, o sulla via di esserlo.
“Non
v'è dubbio”, disse K. a voce molto bassa, difatti l'intensità
dell'ascolto di tutta l'assemblea gli piaceva, in quel silenzio c'era
un brusio più stimolante del plauso più estasiato, “non v'è
dubbio che dietro quanto di questo tribunale è visibile, nel caso
mio dietro l'arresto e dietro l'istruttoria odierna, si trovi una
grossa organizzazione. Una organizzazione che impiega non solo
guardie corruttibili, ispettori inetti e giudici istruttori destinati
ai casi più facili, ma che mantiene inoltre una magistratura di alto
e altissimo livello con un seguito innumerevole di indispensabile
personale di servizio, di scrivani, di gendarmi e di assistenti,
forse perfino di boia, non indietreggio di fronte a questa parola. E
qual è la finalità di tale organizzazione, miei signori? Quella di
arrestare persone innocenti e di istruire contro di loro insensati e
il più delle volte, come nel caso mio, inutili procedimenti. Come si
poteva evitare, in presenza di questa totale insensatezza, la
peggiore corruzione dei funzionari? E' impossibile che ci riuscisse
neppure il giudice di grado più alto. Perciò le guardie tentano di
levar di dosso all'arrestato gli abiti, perciò gli ispettori
penetrano a forza negli appartamenti altrui, perciò gli innocenti
invece di essere interrogati vengono umiliati davanti a intere
assemblee. Le guardie mi hanno riferito di un deposito in cui si
portano le proprietà dell'arrestato, vorrei vederlo una volta questo
deposito in cui va in malora la proprietà con fatica guadagnata dal
lavoro dell'arrestato, laddove non sia rubata da ladreschi addetti al
deposito.”
K.
venne interrotto da un gemito squittente in fondo all'aula, si fece
ombra sugli occhi per poter vedere, difatti la luce del giorno,
offuscata, imbiancava la foschia e accecava. Si trattava della
lavandaia che K. subito, all'ingresso di lei nell'aula, aveva
riconosciuto come un effettivo disturbo. Se ora lei ne avesse colpa o
non ne avesse, non si riusciva a capire. K. vide solo che un uomo
l'aveva tirata presso la porta e se la stringeva addosso. Tuttavia
non lei squittiva, ma l'uomo, che aveva allargato la bocca e guardava
verso il soffitto. Si era formato attorno ai due un circoletto, gli
ospiti del loggione in quei pressi parevano entusiasti del fatto che
la serietà indotta da K. nell'assemblea venisse in questo modo
interrotta. K. intendeva, secondo la sua prima impressione, correre
subito sul posto, pensava inoltre che a tutti importasse che vi fosse
portato ordine e che per lo meno la coppia fosse mandata fuori
dall'aula, ma le prime file davanti a lui restarono ben ferme,
nessuno si mosse, nessuno fece passare K. Al contrario lo si
ostacolò, gli anziani misero le braccia avanti e una mano – non
ebbe tempo di voltarsi – lo prese per il colletto; K. in effetti
non pensò più a quella coppia, ebbe l'impressione che la propria
libertà venisse ristretta, quasi che con l'arresto si facesse sul
serio, per cui balzò senza riguardi giù dal podio. Ora si trovò
faccia a faccia con la ressa. Aveva giudicato in modo erroneo quella
gente? Aveva creduto troppo all'effetto delle proprie parole? Si era
finto, mentre lui parlava, e ora, che lui era arrivato a tirar le
fila del suo discorso, se ne aveva abbastanza di fingere? Che facce
attorno a lui! Occhietti neri guizzanti, guance lasche, come da
alcolizzati, lunghe barbe rade e infeltrite che, a toccarle, non
erano barbe, ma roba da graffiarcisi. Sotto però – fu la scoperta
di K. – i colletti delle giacche luccicavano di distintivi di
svariata grandezza e colore. Tutti avevano quei distintivi, a quanto
si poteva vedere. Tutti rispettivamente appartenevano alle fittizie
fazioni di destra e di sinistra, e quando lui si voltò d'improvviso
vide gli stessi distintivi sul colletto del giudice istruttore, che,
le mani in grembo, guardava tranquillamente giù. “Ecco ecco!”
esclamò levando in alto le braccia - l'improvvisa scoperta voleva
spazio, “voi siete tutti impiegati, come vedo, siete anzi quella
banda di corrotti contro cui parlavo, vi siete accalcati qui in
qualità di uditori e ficcanaso, avete formato fazioni fittizie e una
ha applaudito per mettermi alla prova, voi volete imparare come si
devono sedurre gli innocenti. Dunque non siete stati qui a vuoto,
spero, vi ha divertito che qualcuno abbia atteso da voi una difesa
dell'innocente oppure – lasciami o le prendi”, gridò K. a un
vecchio tremolante che gli si era spinto particolarmente vicino,
“oppure sono io che ho imparato davvero qualcosa. E con ciò vi
auguro fortuna professionale.” Rapido prese il cappello che stava
sul bordo del tavolo e si spinse verso l'uscita nel silenzio
generale, comunque pieno di sorpresa. Il giudice istruttore parve
tuttavia esser stato ancor più svelto di K., difatti era sulla porta
ad aspettarlo. “Un momento”, disse, e K. si fermò guardando però
non il giudice istruttore, ma la porta, di cui aveva già afferrato
la maniglia. “Volevo solo rendervi noto”, disse il giudice
istruttore, “che oggi – potreste ancora non esserne consapevole –
vi siete privato del vantaggio che un interrogatorio in ogni caso
significa per l'arrestato.” K. rise in direzione della porta.
“Farabutti”, esclamò, “ve li lascio tutti, gli interrogatori”,
aprì la porta e scese in fretta le scale. Alle sue spalle si levò
il chiasso dell'assemblea, di nuovo vivace, che forse iniziava a
discutere i fatti avvenuti, come usano gli studenti.
Nessun commento:
Posta un commento