martedì 25 settembre 2012

F.Kafka: Un fratricidio *


E’ dimostrato che l’omicidio ebbe luogo nel seguente modo: Schmar, l’assassino, verso le nove di una sera rischiarata dalla luna si mise all’angolo in cui Wese, la vittima, doveva svoltare dalla via dove aveva l’ufficio in quella dove abitava.
Freddo, aria notturna che fa rabbrividire chiunque. Eppure Schmar aveva soltanto un leggero abito azzurro; inoltre la giacca era sbottonata. Non sentiva alcun freddo, ma continuava a tremare. Teneva fermamente stretta in pugno, sfoderata, l’arma del delitto, una via di mezzo tra la baionetta e il coltello da cucina. Alla luce della luna la esaminò, il taglio luccicava; non abbastanza, per Schmar; l’arrotò provocando scintille sui mattoni del fondo stradale; forse se ne pentì; e per rimediare all’errore strofinò il coltello, a mo’ di violinista, sulla suola dello stivale, mentre, chinato in avanti su una gamba, ascoltava il rumore del coltello sullo stivale e contemporaneamente tutto quel che poteva succedere nella strada accanto, colma di fato.
Perché il pensionato Pallas, che dalla sua finestra a un secondo piano stava in osservazione, non alzò un dito? Vai a sapere, la natura umana! Guardò in basso, il bavero della vestaglia sollevato, e scosse la testa.
Cinque edifici oltre, davanti a lui, di lato, la signora Wese, pelliccia di volpe sulla camicia da notte, controllava, guardava se stesse arrivando suo marito, oggi insolitamente molto in ritardo.
Ultimo, si sentì il suono del campanello posto sulla porta dell’ufficio di Wese, troppo forte per un campanello, sulla città, fino al cielo, e Wese, l’indefesso lavoratore serale, uscì in strada, ancora non visibile, segnalato soltanto dal suono del campanello; e subito il pavimento stradale contò i suoi passi tranquilli.
Pallas si sporge; non può lasciarsi sfuggire niente. La signora Wese, tranquillizzata dal suono del campanello, chiude rumorosamente la finestra.
Schmar continua a inginocchiarsi, ad appoggiare il viso e le mani, tutto quel che visibilmente ha di scoperto, sulla pietra; dove tutto è gelo, lui brucia.
Wese si trova fermo proprio sull’angolo tra la strada dov’è il suo ufficio e quella di casa, è soltanto il suo bastone che tocca la seconda. Un capriccio. L’ha attratto il cielo serale, il cupo azzurro, lo splendore. Ignaro guarda, ignaro infila una mano sotto il cappello e si gratta tra i capelli; niente, lassù, che lo informi del suo prossimo futuro; tutto insondabile, insensato, al suo posto. E’ di per sé molto razionale che Wese riprenda il cammino, sennonché finisce sul coltello di Schmar.
Wese!”, grida Schmar, ritto sulle punte dei piedi, il braccio levato, il coltello puntato con forza, “Wese! E’ inutile che Julia ti aspetti!” E lo pugnala alla gola, due colpi, a sinistra, a destra, e un terzo affondo nel ventre. Sbudellate, le talpe emettono un suono simile a quello di Wese.
Fatto”, dice Schmar, e scaglia il coltello, zavorra insanguinata, contro la facciata dell’edificio più vicino. ”Beatitudine dell’assassinio! Che sfogo, che sollievo dà il sangue altrui che scorre! Wese, vecchia ombra notturna, amico, compagno di bevute, il fondo della strada ti beve. Perché non sei solo una vescica gonfia di sangue, che io mi ci piazzi sopra per farti sparire completamente? Non si può avere tutto, non s’avvera ogni sogno di sangue, le tue pesanti spoglie già sono di ostacolo a qualunque passo. Quale domanda muta puoi tu porre su questo?”
Pallas, sconvolto, inghiottendo veleno, ora si affaccia alla sua porta. “Schmar, Schmar! Visto tutto, nulla è sfuggito”. I due si scrutano a vicenda. A Pallas basta questo, Schmar non ne trae niente di conclusivo.
La signora Wese, intorno a lei una folla di persone, corre sul posto, lo spavento le ha invecchiato il volto. Cade sopra Wese, e il suo corpo rivestito dalla camicia da notte appartiene a lui; la pelliccia, aperta sui coniugi, come erba tombale, appartiene alla folla.
Schmar, lui reprime a fatica l’estrema nausea premendo la bocca sulla spalla della guardia che lesta lo porta via.

*Nel testo non si accenna alla parentela tra l'omicida e la vittima.

giovedì 13 settembre 2012

F.Kafka: Un giovane studente ambizioso *


Un giovane studente ambizioso, che si era molto interessato al caso dei cavalli di Elberfeld ** ed aveva accuratamente letto e meditato tutto ciò che sull’argomento era apparso sulla stampa, decise di avviare di propria iniziativa il tentativo in questa direzione e di affrontare la cosa fin da principio in modo tutto nuovo e a suo parere incomparabilmente più accurato dei suoi predecessori. A dire il vero i suoi mezzi economici in sé non bastavano a rendergli fattibile in grande stile il tentativo, e nel caso che il primo cavallo che intendeva comprare per tale tentativo si mostrasse ostinato, ciò che può anche essere stabilito solo dopo settimane di faticosissimo lavoro, lo studente non avrebbe avuto, per un tempo piuttosto lungo, alcuna prospettiva di iniziare un nuovo tentativo. Tuttavia non se ne preoccupò troppo, perché con il suo metodo probabilmente poteva esser vinta ogni ostinazione. In ogni caso lui si portò avanti, in modo corrispondente alla sua indole, già con il calcolo delle spese che gli sarebbero toccate e con il metodo che avrebbe adottato, del tutto sistematicamente. Alla somma che gli occorreva per le strette necessità dello studio, fino a quel momento speditagli regolarmente ogni mese dai suoi genitori, poveri bottegai della provincia, a tale sostegno lui pensò di non rinunciare neppure in seguito, per quanto com’è ovvio lui dovesse abbandonare del tutto gli studi che i genitori seguivano a distanza con grandi speranze, se voleva conseguire gli attesi grandi risultati nel campo in cui ora sarebbe entrato. Che loro avessero comprensione per questi sforzi, o che magari lo incoraggiassero in tale direzione, era impensabile, lui doveva dunque tener loro segreti i suoi propositi, per quanto fosse doloroso, e mantenerli nella convinzione che lui stesse procedendo con regolarità nello studio seguito fino a quel momento. Quest’impostura ai danni dei genitori era solo uno dei sacrifici che lui aveva intenzione di imporsi per il bene della cosa. Il contributo dei genitori non poteva bastare alla copertura dei costi, prevedibilmente alti, che sarebbero stati necessari ai suoi sforzi. Lo studente perciò decise da ora d’impiegare in lezioni private la maggior parte della giornata, che fin lì era servita allo studio. La maggior parte della notte, tuttavia, doveva servire al lavoro vero e proprio. Lo studente scelse le ore notturne per l’addestramento dei cavalli non solo perché nel corso delle sue non propizie relazioni esterne era, per di più, impacciato, anche le nuove regole che lui aveva intenzione d’introdurre nell’addestramento dei cavalli lo rimandavano per vari motivi alla notte. Anche la più breve distrazione dalla vigilanza esercitata sul cavallo, secondo la sua opinione, comportava un danno irreparabile all’addestramento, perciò durante la notte lui era il più possibile sicuro. L’eccitabilità della persona e del cavallo, se durante la notte essi sono svegli e al lavoro, risulta catturata, nel suo piano si prevedeva esplicitamente. Non temeva, come altri esperti, la natura selvaggia dei cavalli, ne pretendeva di più, anzi aveva intenzione di generarla, certo non con la frusta, ma per mezzo della stimolazione causata dalla sua incessante presenza e dall’incessante addestramento. Sosteneva che nell’addestramento dei cavalli non era possibile avere alcun progresso isolato, i progressi isolati di cui si vantavano troppo, ultimamente, svariati dilettanti, non erano altro che o prodotti dell’immaginazione dell’istruttore od invece il segnale chiarissimo che mai stava per sopraggiungere un progresso complessivo, ciò che era anche peggio. Lui stesso da null’altro desiderava astenersi di più che dal conseguimento di progressi isolati, la moderazione dei suoi predecessori, che credevano, con il buon esito del calcolo dei piccoli passi, di aver già raggiunto qualcosa, gli pareva incomprensibile, in questo modo era come quando s’intendeva stabilire, nell’educazione dei bambini, che al bambino s’inculcassero isolatamente le tabelline, senza considerare che lui, cieco in paragone al mondo umano, era sordo ed insensibile. Era così completamente assurdo, gli errori degli altri istruttori di cavalli talvolta gli sembravano così spaventosamente netti che lui maturò dei sospetti perfino su se stesso, infatti era quasi impossibile che uno solo, per giunta inesperto, spinto unicamente da una sicurezza profonda e senz’altro indomabile, ma priva di verifiche, potesse aver ragione contro tutti gli intenditori.


** Cittadina non lontana da Düsseldorf. Nei primi anni del Novecento un insegnante di matematica aveva addestrato un cavallo di nome Hans a risolvere calcoli. Hans passò poi ad un abitante di Elberfeld, che fece il tentativo con altri cavalli, muli, ponies eccetera.

lunedì 3 settembre 2012

F.Kafka:Il maestro di scuola di villaggio


Coloro che come me trovano ripugnante perfino una talpa piccola, sarebbero morti di ripugnanza, probabilmente, se avessero visto la talpa gigantesca osservata anni or sono nei pressi di un villaggio, che per questa ragione ha raggiunto una certa effimera notorietà. Oggi del resto già da tempo è ricaduto nell’oblio e partecipa perciò all’oscurità dell’intero fatto, rimasto del tutto senza spiegazioni, che tuttavia non ci si è sforzati neanche molto di spiegare e che, a seguito di un’incomprensibile negligenza di alcuni circoli che avrebbero dovuto occuparsene, e che si occupano con effettiva concentrazione di molte cose insignificanti, è stato dimenticato, senza ricerche ulteriori. Non se ne riesce a trovare alcuna giustificazione con l’argomento che il villaggio è assai distante dalla ferrovia, molta gente venne per curiosità da lontano, perfino dall’estero, soltanto coloro che avrebbero dovuto mostrare qualcosa di più della curiosità non vennero. Certo, se non si fosse curata dell’evento la gente semplice del tutto isolatamente, la gente il cui lavoro quotidiano le permetteva appena di respirare, se non se ne fosse curata in modo disinteressato, la fama del fatto avrebbe appena varcato il circondario immediato. Si deve aggiungere che la fama, in altri casi inarrestabile, stavolta fu francamente lenta, se non la si fosse addirittura promossa, non si sarebbe propagata. Tuttavia anche questo non costituiva davvero una ragione per non occuparsi dell’evento, al contrario, anche questo fatto avrebbe dovuto essere studiato meglio. Invece se ne lasciò l’unica cura scritta al vecchio maestro del villaggio, certo nel suo ufficio un uomo notevole, ma dotato di capacità ed insieme di preparazione poco adatte a produrre un’approfondita ed in seguito utilizzabile descrizione, ed ancor meno poi una spiegazione. Lo scrittarello fu stampato e numerosamente venduto ai visitatori di allora, ebbe anche qualche riconoscimento, ma il maestro era abbastanza saggio da rendersi conto che le sue isolate fatiche, senza alcun sostegno, erano in fondo inutili. Se lui nonostante ciò non desisté da esse e rese l’evento, nonostante che esso per sua natura, anno dopo anno, divenisse sempre più senza speranza, il compito della sua vita, ciò prova quanto grande era l’effetto che l’evento era in grado di fare e d’altra parte quanta perseveranza e fedeltà alle proprie convinzioni si possono trovare in un vecchio ignorato maestro di villaggio. Che lui tuttavia abbia molto sofferto a causa degli atteggiamenti di rifiuto delle personalità dotate d’influenza, lo prova una postilla che lui aggiunse al suo scritto, del resto la prima dopo diversi anni, cioè in un’epoca nella quale giusto qualcuno poteva ricordarsi di che cosa si fosse trattato. In tale postilla egli protesta persuasivamente, forse non da storico, ma con schiettezza, per l’incomprensione che gli è toccata da parte della gente, laddove se ne sarebbe dovuta aspettare di meno. Di tale gente egli dice, in modo giusto: “Non sono io, ma loro, a parlare come fanno i vecchi maestri di villaggio.” E tra le altre cita l’osservazione di uno scienziato da cui si è recato appositamente per la sua cosa. Il nome dello scienziato è omesso, ma da svariate circostanze si può indovinare di chi si tratti. Dopo che il maestro aveva superato grandi difficoltà per ottenere d’essere ricevuto dallo scienziato, cui si era annunciato con settimane d’anticipo, già dall'accoglienza fu chiaro che lo scienziato era, riguardo all’evento, preda di un invincibile pregiudizio. Con quale distrazione lo scienziato stette a sentire il lungo resoconto del maestro, fatto sulla base del suo scritto, ciò si manifestò nell’osservazione che costui fece dopo alcune riflessioni simulate. “Certo ci sono svariate talpe, piccole e grandi. Nella vostra regione il terreno è particolarmente duro e scuro. Ora, esso per questa ragione dà alle talpe un’alimentazione particolarmente grassa, ed esse diventano insolitamente grandi in modo.” “Sì’, ma mica grandi così”, esclamò il maestro, e misurò, con il suo accanimento un po' eccessivo, due metri dalla parete.”Sì, sì”, rispose lo scienziato, cui l’intera faccenda pareva evidentemente molto spassosa, “perché no, in fondo?” Il maestro tornò a casa con questa risposta. Racconta come di sera, sotto una nevicata, lungo la strada provinciale sua moglie e i suoi sei figli l’avessero atteso, e come lui dovette confessare loro il fallimento completo delle sue speranze.
Quando io lessi del contegno tenuto dallo scienziato nei confronti del maestro, non conoscevo ancora per niente il suo scritto. Ma senza indugio presi la decisione sia di raccogliere sia di confrontare tutto quel che potevo apprendere sul caso. Poiché non potevo misurare un pugno in faccia allo scienziato, almeno il mio scritto doveva difendere il maestro, o, per dir meglio, non tanto il maestro, quanto le buone intenzioni di un uomo onesto privo di autorità. Lo ammetto, mi pentii presto di tale decisione, dato che alla svelta mi resi conto che la sua messa in atto doveva portarmi in una strana posizione. Da un lato anche la mia influenza era largamente insufficiente a portare gli scienziati e perfino l’opinione pubblica dalla parte del maestro, dall’altro il maestro doveva capire che a me il suo proposito principale, dimostrare l’apparizione della grande talpa, premeva meno della difesa della sua onestà, che a lui sembrava del resto ovvia e non bisognosa di alcuna difesa. Si doveva arrivare dunque al punto che io, che pure intendevo unirmi al maestro, non trovai da lui alcuna comprensione, probabilmente invece, per giovargli, mi sarebbe servito un aiuto diverso, era davvero incredibile il contegno del maestro. Oltre a ciò mi addossai, con la mia decisione, una gran fatica. Avevo intenzione di essere convincente, dunque non potevo richiamarmi al maestro, che certo non era riuscito ad esserlo. La conoscenza del suo scritto mi avrebbe soltanto fuorviato, ed evitai perciò di leggerlo prima di eseguire il mio proprio lavoro. Certo, non entrai neppure una volta in contatto con il maestro. Tuttavia tramite intermediari lui venne a sapere delle mie ricerche, ma ignorava se lavoravo secondo la sua idea o contro. Certo, sospettava quest’ultima possibilità, per quanto lo negasse, ma ho la prova che lui mi ha messo nel frattempo diversi ostacoli sulla via. Poteva farlo molto facilmente, perché ero costretto, certo, a ricominciare tutte le ricerche che lui aveva già condotto, e per questo lui poteva sempre precedermi. Tale obbiezione era l’unica che a ragione si poteva fare al mio metodo, obbiezione del resto inevitabile, che però, certo poteva essere molto indebolita tramite la cautela e la dissimulazione dei miei fini. A parte ciò, tuttavia, il mio scritto era libero da ogni influsso del maestro, forse su questo punto avevo dato prova di perfino troppa meticolosità, era davvero come se nessuno avesse finora studiato il caso, come se io fossi il primo ad interrogare i testimoni che avevano visto e quelli che avevano sentito dire, il primo che confrontasse tra loro le dichiarazioni, il primo che traesse conclusioni. Quando, successivamente, lessi lo scritto del maestro – aveva un titolo assai prolisso: Una talpa così grande come ancora nessuno l’ha vista - di fatto trovai che noi su punti essenziali non concordavamo, anche se entrambi credevamo di aver provato la cosa principale, cioè l’esistenza della talpa. Quelle divergenze sì erano singole, ma ostacolarono la nascita di un rapporto amichevole con il maestro che io veramente mi ero aspettato. Da parte sua si sviluppò quasi dell’ostilità. Restava certo sempre misurato e ossequioso con me, ma il suo stato d’animo autentico si poteva notare tanto più distintamente. Era dell’opinione che io avessi danneggiato lui e, completamente, la cosa, e che la mia fiducia di aver giovato o di poter giovare ad essa fosse nel caso migliore dabbenaggine, ma verosimilmente presunzione o perfidia. Per prima cosa indicava a tale proposito che tutti i suoi oppositori finora non avevano mostrato assolutamente la loro avversione, magari solo a quattr’occhi o almeno soltanto a parole, mentre io avevo ritenuto necessario far pesare subito tutte le mie critiche. Che inoltre i pochi oppositori che si erano occupati sul serio dell’evento, anche se solo superficialmente, avevano ascoltato, prima di pronunciarsi, la sua opinione, l’opinione del maestro, cioè quella nella fattispecie decisiva, che io invece avevo prodotto risultati, sulla base di testimonianze raccolte in modo non sistematico e in parte interpretate male, essenzialmente esatti, ma che dovevano certo sembrare, tanto alla massa quanto alle persone istruite, inattendibili. La più tenue apparenza d’inattendibilità era tuttavia il peggio che in questo caso poteva darsi. In merito a tali obbiezioni, quand’anche copertamente avanzate, avrei potuto rispondergli facilmente – per esempio che proprio il suo scritto rappresentava il vertice dell’inattendibilità – ma meno facile tuttavia era combattere il suo ulteriore sospetto, e questa era la ragione per cui mi limitavo molto in genere nei suoi confronti. Egli, cioè, credeva segretamente che io avessi voluto togliergli la gloria di essere il primo patrocinatore pubblico della talpa. Ora, sì, la sua persona non era toccata quasi da nessuna gloria, ma piuttosto dal ridicolo, del resto limitato ad una sempre più ristretta cerchia, al quale ridicolo io certo non desideravo aspirare. Inoltre io avevo spiegato con chiarezza, nell’introduzione al mio scritto, che il maestro doveva per sempre essere considerato lo scopritore della talpa – eppure non lo era - e che soltanto il senso di partecipazione alla sorte del maestro mi aveva spinto alla stesura dello scritto. “Il fine di questo scritto è” – così concludevo in modo troppo patetico, ma corrispondente alla mia passione di allora – “giovare alla meritata diffusione dello scritto del maestro. Ciò fatto, il mio nome, che è intrecciato alla presente vicenda in modo solo transitorio ed esterno, poi deve senza indugio essere da essa cancellato.” In questo modo respinsi apertamente ogni maggior partecipazione alla cosa; era quasi come se avessi in qualche modo presentito l’incredibile rimprovero del maestro. Ciò nonostante lui trovò in questa presa di posizione il pretesto contro di me, e non nego che una traccia di giustificazione, in quel che disse o forse accennò, era insita, così come mi accorsi, soprattutto in certi casi, che lui sotto alcuni aspetti mostrava nei miei confronti più acume che non nel suo scritto. Affermava, cioè, che la mia introduzione era ipocrita. Se veramente tenevo alla diffusione del suo scritto, perché non mi occupavo esclusivamente di lui e del suo scritto, perché non indicavo la sua priorità, la sua inconfutabilità, perché non mi limitavo a mettere in rilievo l’importanza della scoperta ed a renderla comprensibile, perché insistevo molto di più sulla scoperta e trascuravo completamente il libro? Non era già stata fatta, la scoperta? Restava forse, stando a tale sospetto, ancora qualcosa da fare? Ma, se io veramente ritenevo che la scoperta fosse da fare di nuovo, perché nell’introduzione mi dichiaravo così solennemente slegato dalla scoperta? Ciò avrebbe potuto essere ipocrita modestia, ma era alquanto irritante. Mettevo fuori corso la scoperta, richiamavo su di essa l’attenzione soltanto per annientarne il senso, l’avevo esaminata ed accantonata, forse intorno a quest’evento si era fatto un po’ più silenzio, io ora facevo di nuovo del chiasso, ma nello stesso tempo rendevo la situazione del maestro più difficile di quel che era mai stata. Al maestro premeva soltanto ciò che significava per lui la difesa della reputazione dell’evento, soltanto quello. Tuttavia io la tradivo perché non lo capivo, perché non ne davo la giusta valutazione, perché non ero sensibile ad esso. Superava altissima il mio intelletto. Sedeva davanti a me e mi guardava calmo con la sua vecchia faccia rugosa, ma la sua opinione era solo questa. Per altro non era esatto che gli premesse solo l’evento, egli era addirittura famelico di onori e desiderava anche guadagnare del denaro, ciò che, stando alla sua numerosa famiglia, era comprensibilissimo, eppure il mio interesse all’evento, in confronto al suo, gli sembrava così piccolo, che credeva di poter passare per disinteressato senza dire una menzogna troppo grande. In realtà non era sufficiente a soddisfarmi, neppure intimamente, dire a me stesso che i suoi rimproveri in fondo risalivano al fatto che lui aveva diciamo toccato con mano la sua talpa e voleva che chiunque le si avvicinasse anche solo con un dito fosse definito traditore. Non era così, la sua condotta non era spiegabile facendo riferimento all’avarizia, almeno non solo all’avarizia, ma più facilmente facendo riferimento alla rabbia che le sue grandi fatiche prive totalmente di successo avevano suscitato in lui. Ma neppure la rabbia spiegava tutto. Forse il mio interesse all’evento era davvero troppo scarso, il disinteresse del mondo esterno nei confronti del maestro era già un’abitudine per lui, che nel complesso soffriva meno, e non soffriva più di pene particolari, tuttavia a questo punto aveva trovato uno che s’interessava all’evento in modo non comune, eppure non lo capiva. Una volta, messo alle corde in tal senso, non volli negare. Non sono mica uno zoologo, forse me ne sarei dato l’aria, tutto infervorato per questo caso, se avessi fatto la scoperta, ma non ho fatto la scoperta. Una talpa così enorme è certo una curiosità, ma non si può pretendere l’attenzione ininterrotta del mondo intero sulla talpa, specie se la sua esistenza non è del tutto ineccepibilmente accertata e non si può esibire. E io garantii inoltre che mai, anche nel caso che ne fossi stato lo scopritore, mi sarei tanto impegnato in merito alla talpa quanto volontariamente m’impegnavo di buon grado per il maestro.
Ora, il disaccordo tra me e il maestro forse si sarebbe risolto presto se il mio scritto avesse avuto successo. Ma tale successo mancò. Forse non era buono, non era scritto in modo abbastanza persuasivo, io sono un commerciante, la stesura di uno scritto del genere eccede il mio settore abituale più estesamente di quanto non fosse il caso del maestro, nonostante che io fossi superiore a lui in ogni conoscenza necessaria a tal fine. L’insuccesso poteva spiegarsi anche diversamente, il momento dell’uscita forse era sfavorevole. La scoperta della talpa, incapace di imporsi, da un lato non era così lontana nel tempo da esser del tutto dimenticata e dunque riproponibile come cosa straordinaria con il mio scritto, dall’altro era trascorso abbastanza tempo da esaurire completamente quel po’ d’interesse che c’era stato all’inizio. Coloro che, d’altronde, si accostarono al mio scritto, si dissero, con quello sconforto già da anni dominante in questa discussione, che ora le vane fatiche su questo noioso evento obbligatoriamente sarebbero certo riprese un’altra volta, e alcuni addirittura confusero il mio scritto con quello del maestro. In un importante periodico di economia agraria si leggeva la seguente nota, per fortuna stampata in piccoli caratteri e nell'ultima pagina: “Ci è stato inviato di nuovo lo scritto sulla talpa gigante. Ce ne ricordiamo, già una volta anni or sono ne abbiamo riso di cuore. Da allora non è divenuto più ragionevole, né noi più stupidi. Semplicemente, non riusciamo a riderne per la seconda volta. Piuttosto domandiamo alle nostre associazioni d’insegnanti se un maestro di villaggio non possa trovare un’occupazione più utile che non andare a caccia di talpe giganti.” Un’imperdonabile confusione! Non si era letto né il primo né il secondo scritto, e le due insufficienti parole acchiappate in fretta, talpa gigante e maestro di villaggio, bastarono a quei signori per supplire alla manifestazione di più validi interessi. Fosse andata diversamente, varie cose si sarebbero potuto tentare con successo, ma la scarsità di riconoscimento me ne tenne lontano, alla pari del maestro. Tentai bensì di tenergli nascosto il periodico per quel che potevo. Lui tuttavia lo scoprì ben presto, lo capii già da un’osservazione contenuta in una sua lettera con cui mi prospettava la sua visita durante le vacanze natalizie. Scriveva: “Il mondo è malvagio e ladro”, dove voleva dire che io sono una parte del mondo malvagio, ma non mi accontento della cattiveria insita in me, invece rubo, cioè sono indaffarato a carpire la cattiveria generale ed a procacciarle la vittoria. Ora, io avevo già preso le necessarie decisioni, potevo tranquillamente aspettarlo e stare a vedere come veniva da me, lui salutò in modo meno cortese del solito, si sedette muto davanti a me, estrasse con cura il periodico dalla tasca interna della sua caratteristica giacca imbottita di bambagia e me lo spinse davanti senza parole, aperto. “Lo conosco”, dissi e respinsi il periodico senza leggere. “Lo conoscete”, disse lui sospirando, aveva l’abitudine dei vecchi maestri di ripetere le risposte altrui. “Naturalmente non accetterò questo senza difendermi”, continuò picchiettando inquieto un dito sul periodico, e mi guardò con aria severa come se io fossi dell’opinione contraria; aveva il giusto presentimento di quel che volevo dire; ho ritenuto di far notare che lui, non tanto da quel che diceva, quanto dagli altri segni, possedeva una sensibilità molto giusta circa i miei propositi, ma ad essa io non cedetti e la lasciai deviare. Ecco che cosa dissi allora, posso riprodurlo quasi alla lettera perché lo annotai poco dopo il colloquio.”Fate quel che volete”, dissi, “da oggi le nostre strade si dividono. Credo che questo non vi risulti né inatteso né spiacevole. La nota qui sul periodico non è la causa della mia decisione, essa l’ha consolidata definitivamente. La vera ragione sta nel fatto che io all’inizio credevo con la mia entrata in scena di potervi giovare, mentre ora sono costretto a vedere che vi ho nociuto in ogni senso. Perché sia andata così, non lo so, le ragioni del successo e dell’insuccesso sono sempre ambigue da spiegare, non mi riferisco soltanto alle spiegazioni che mi accusano. Ricordatevi, anche voi avevate le migliori intenzioni, e tuttavia vi è andata male, parlando in generale. Non sto scherzando, va contro di me se dico che anche il rapporto con me contribuisce al vostro insuccesso; che io ora mi ritiri non è né viltà né tradimento. Avviene addirittura con sforzo di autocontrollo; come stimi la vostra persona risulta già nel mio scritto, mi siete divenuto, da un certo punto di vista, maestro e perfino la talpa mi è divenuta cara. Nonostante questo mi faccio da parte, voi siete lo scopritore e, mentre desideravo impegnarmi anch’io, v’impedisco sempre d’incontrare la probabile gloria, attiro l’insuccesso e ve lo trasmetto. Basta così. Per ammenda posso solo chiedervi perdono e, se volete, la confessione fatta qui la ricapitolo pubblicamente, per esempio, su questo periodico.” Queste furono allora le mie parole, non erano del tutto sincere, ma la sincerità era facilmente deducibile da esse. In lui ciò agì come più o meno avevo previsto. La maggior parte delle persone anziane hanno caratterialmente qualcosa d’ingannevole nei confronti dei giovani, qualcosa di falso, si continua a vivere tranquillamente accanto a loro, si ritiene consolidato il rapporto, si conoscono le opinioni prevalenti, si ricevono continue attestazioni d’armonia, tutto si considera certo, e all’improvviso, se avviene qualcosa di decisivo, mentre la calma fin lì predisposta doveva funzionare, queste persone anziane insorgono come estranee, hanno opinioni più nette, più impetuose, ora dispiegano la loro bandiera per la prima volta e vi si legge con sgomento il nuovo motto. Principalmente tutto questo sgomento deriva dal fatto che ciò che dicono ora gli anziani veramente è molto giustificato, sensato e, come se la certezza fosse aumentata, è anche più certo. La falsità ineguagliabile tuttavia è che quel che dicono ora essi in fondo lo hanno sempre detto, eppure non era in genere prevedibile. Dovevo aver approfondito molto questo maestro di villaggio, infatti ora non mi sorprese affatto. “Ragazzo”, disse, appoggiò la mano sulla mia e amichevolmente la strofinò, “come vi venne in mente di aver a che fare con questa cosa? Quando mi giunse all’orecchio la prima volta, ne parlai con mia moglie.” Si spostò dal tavolo, allargò le braccia e guardò in basso, come se lì sotto, piccolissima, ci fosse sua moglie: “ ‘Così tanti anni’, le dissi, ‘che noi combattiamo in solitudine, e ora invece sembra sopraggiunto in città un protettore di rango più elevato, un commerciante del posto, che si chiama così e così. Ora dovremmo essere assai felici, no? Un commerciante in città non vuol dire poco, se un miserabile contadino crede in noi e lo manifesta, questo non può giovarci, infatti quel che fa un contadino è sempre volgare, sia che dica che il vecchio insegnante del villaggio ha ragione, sia che sputi in modo sconveniente, entrambe le cose fanno lo stesso effetto. Se invece di un contadino insorgono diecimila contadini, l’effetto se possibile è anche peggiore. Un commerciante di città è al contrario qualcosa di diverso, un uomo del genere ha delle relazioni, perfino quel che dice solo per caso si diffonde in cerchie più larghe, nuovi protettori s’interessano all’evento, per esempio uno dice che anche da un maestro di villaggio si può imparare, ciò che il giorno dopo va mormorandosi una quantità di persone dalle quali, a giudicare dalle apparenze, mai si sarebbe supposto di dedurlo. Ora si trovano risorse in denaro per la cosa, uno raccoglie e gli altri gli contano il denaro in mano, si ritiene che il maestro del villaggio debba essere portato via di lì, si arriva, non ci si cura del suo aspetto, lo si prende con sé e, poiché la moglie e i figli dipendono da lui, si prendono anche loro. L’hai vista la gente di città? Cinguettano senza tregua. Sono una fila intera e il cinguettìo va da destra a sinistra e viceversa, e su e giù. Così ci issano cinguettando in carrozza, c’è appena il tempo di accennare un saluto. Il signore a cassetta si sistema gli occhiali, brandisce la frusta e partiamo. Tutti accennano un saluto per congedarsi dal villaggio, come noi fossimo ancora lì e non sedessimo tra loro. Dalla città ci vengono incontro alcune carrozze di persone particolarmente impazienti. Appena ci avviciniamo si alzano dai loro sedili e si allungano per vederci. Colui che ha raccolto il denaro fa ordine ed esorta alla calma. Quando entriamo in città la fila delle carrozze è già lunga. Abbiamo creduto che i saluti fossero già terminati, ma ora davanti all’albergo essi riprendono. Nella città si riuniscono, come a un appello, molte persone. A ciò cui s’interessa l’uno, s’interessa anche l’altro. Ci si strappano, insieme al respiro, le opinioni e le si fanno proprie. Non tutte queste persone possono viaggiare in carrozza, aspettano davanti all’albergo. Altre possono, ma deliberatamente non lo fanno. Aspettano anche loro. E’ incredibile come colui che ha raccolto il denaro abbracci con lo sguardo tutti quanti.’ “
Lo avevo ascoltato tranquillamente e mi ero fatto sempre più tranquillo durante il suo discorso. Sul tavolo avevo accumulato tutte le copie disponibili del mio scritto. Ne mancavano solo pochissime, perché negli ultimi tempi per mezzo di una lettera circolare avevo chiesto la restituzione di tutte le copie inviate, e la maggior parte le avevo ricevute. Da molte parti mi era stato scritto, del resto molto cortesemente, che non ci si ricordava affatto di aver ricevuto uno scritto come il mio, e che sfortunatamente si doveva averlo perduto, se pure era arrivato. Anche così andava bene, in fondo non desideravo altro. Solo uno mi pregava di poter tenere lo scritto come curiosità e si impegnava, ai sensi della mia circolare, a non mostrarlo ad alcuno per i prossimi venti anni. Il maestro del villaggio ancora non aveva visto questa circolare, mi rallegrai che le sue parole mi rendessero tanto agevole mostrargliela. Potevo farlo, ma, in caso contrario, tranquillamente, dato che nel redigerla avevo usato molta cautela e mai avevo trascurato gl’interessi del maestro del villaggio e della sua cosa. Il tema centrale della circolare suonava così: “Non chiedo la restituzione perché mi sia in certo modo allontanato dalle opinioni sostenute nello scritto o perché in alcune parti le consideri erronee o anche solo indimostrabili. La mia richiesta ha ragioni solo personali, per quanto plausibili, essa non consente tuttavia, circa la mia posizione in merito all’evento, le minime illazioni, sono a pregarvi di prender nota particolare di questo e, se vi piace, anche di darne diffusione.”
Questa circolare per il momento la tenni ancora coperta dalle mie mani e dissi: “Volete rimproverarmi perché non è andata così? Perché volete far ciò? Non amareggiamoci il distacco. E infine, provate a riconoscere che voi avete certo fatto una scoperta, che però essa non oltrepassa tutto il resto e che, a causa di ciò, neanche l’ingiustizia che vi tocca è un’ingiustizia che oltrepassa tutte le altre. Non conosco le regole delle società scientifiche, ma non credo che vi sarebbe stata predisposta un’accoglienza, anche nel caso più favorevole, solo approssimativamente paragonabile ad una come quella che avete descritto alla vostra povera moglie. Se io stesso speravo qualcosa dallo scritto, credevo che magari potesse attirare sulla nostra cosa l’attenzione di un professore, il quale avrebbe incaricato un giovane studente di seguirla, che questo studente sarebbe venuto da voi e avrebbe controllato ancora una volta a modo suo le vostre e le mie ricerche, e che alla fine, se l’esito gli fosse sembrato degno di menzione - qui va ricordato che tutti i giovani studenti dubitano molto -, avrebbe pubblicato un suo scritto nel quale ciò che voi avete riferito sarebbe stato scientificamente giustificato. Tuttavia, anche nel caso che tale speranza fosse stata soddisfatta, non molto sarebbe stato ancora ottenuto. Lo scritto dello studente che avesse giustificato un caso così particolare forse sarebbe stato messo in ridicolo. Guardate qui, come esempio, nel periodico di economia agraria, come ciò accada facilmente, e i periodici scientifici sono da questo punto di vista ancora più spietati. E’ anche comprensibile, i professori hanno molte responsabilità nei confronti di se stessi, della scienza, delle generazioni future, non possono vantarsi ad ogni nuova scoperta. Noialtri siamo in confronto a loro in vantaggio. Ma io ci rinuncio e voglio ora ammettere che lo scritto dello studente si fosse imposto. Che cosa sarebbe successo, allora? Il vostro nome sarebbe stato fatto qualche volta con rispetto, probabilmente avrebbe giovato alla vostra posizione, si sarebbe detto: “I nostri maestri di villaggio tengono gli occhi aperti”, e questo periodico di economia agraria avrebbe dovuto chiedere scusa, se i periodici avessero memoria e coscienza, si sarebbe trovato quindi anche un professore di buona volontà allo scopo di favi ottenere uno stipendio, è anche possibile che si sarebbe tentato di spostarvi in città, di procurarvi un posto in una scuola elementare cittadina e di darvi occasione di utilizzare i sussidi scientifici che la città offre per la vostra ulteriore formazione. Se devo esser franco bisogna che dica che ciò si sarebbe soltanto tentato. Nel caso che voi foste chiamato, che voi foste anche venuto, e certo come postulante al pari delle centinaia che ce ne sono, senza tutta quell’accoglienza grandiosa, che si fosse parlato con voi, che si fosse riconosciuta la vostra ambizione, tuttavia si sarebbe visto allo stesso tempo che siete un uomo anziano, che a quest’età iniziare studi scientifici è inutile, che voi per prima cosa siete arrivato alla vostra scoperta più per caso che secondo un programma, e che, a parte questo caso particolare, non vi si prevede di nuovo operativo. Per queste ragioni vi si sarebbe lasciato certamente nel villaggio. La vostra scoperta d’altra parte sarebbe stata portata avanti, perché non è così modesta da esser dimenticata, una volta riconosciuta. Ma voi non sareste venuto a saperne più molto, e ciò che avreste saputo lo avreste capito appena. Ad ogni scoperta tocca di essere incanalata nella totalità delle scienze e cessa per così dire di essere una scoperta, essa cresce nell’insieme e sparisce, è necessario possedere un occhio scientificamente educato per riconoscerla dopo. Viene connessa a princìpi di cui noi non sappiamo niente, e, nel corso delle dispute scientifiche, sulla base di tali princìpi viene sollevata in alto fino alle nuvole. Vogliamo capirlo? Se udissimo una disputa del genere, crederemmo magari che sia in questione la scoperta della talpa, ma invece è in questione tutt’altra cosa.”
Bene”, disse il maestro del villaggio, prese la sua pipa e cominciò a riempirla del tabacco che portava con sé sciolto in tutte le tasche, “voi volontariamente vi siete preso cura dello spiacevole evento ed ora lo stesso volontariamente vi ritirate. E’ tutto assolutamente giusto.” “Non sono ostinato”, dissi io. “Trovate nella mia iniziativa forse qualcosa da criticare?” “No, niente affatto”, disse il maestro, e la sua pipa già sbuffava. Non ne sopportavo il puzzo e perciò mi alzai e mi mossi in giro nella stanza. Già da precedenti conversazioni ero abituato al fatto che il maestro con me era assai di poche parole e che, però, una volta venuto, non voleva andarsene. La cosa mi aveva colpito, talvolta, avevo sempre pensato, di conseguenza, che volesse qualcosa da me, e gli avevo offerto del denaro, che di regola lui accettava. Ma era sempre andato via quando gli era garbato. Abituale era quindi finir di fumare la pipa, girarsi sulla sedia, riaccostarla rispettosamente al tavolo, afferrare il bastone nodoso appoggiato da una parte, tendermi la mano con zelo, e andarsene. Oggi però il suo starsene lì seduto senza parole mi dava noia. Se una buona volta a uno si propone il congedo definitivo, come avevo fatto io, e tal congedo dall’altro è considerato del tutto giusto, e poi si fa il poco che c’è da sbrigare insieme il più possibile alla svelta, non si opprime l’altro con la propria presenza silenziosa. Se da dietro si osservava come sedeva al mio tavolo, il tenace vecchietto, si poteva credere che fosse assolutamente impossibile cacciarlo dalla stanza.