domenica 21 agosto 2016
Il "cremlino" di Kafka
Il famoso romanzo di Kafka noto come Il castello s'intitola in tedesco Das Schloss. Orbene, la traduzione impostasi è inevitabile, ma pigra, infatti propriamente è in questione non un castello, ma una sorta di cittadella o al limite una fortezza. Traggo questa conclusione dalla memoria del testo e da una recente "scoperta" relativa al famoso Cremlino. Tale termine significa in russo appunto cittadella o fortezza, ed il Cremlino a tutti noto non è altro che la più famosa di queste fortezze o cittadelle russe. Scoperta che mi ha aperto gli occhi circa Das Schloss.
martedì 16 agosto 2016
La colonia penale kafkiana
Traducendo "Nella colonia penale", il famoso racconto di Kafka, che non leggevo da decenni e di cui com'è naturale ricordavo solo la macchina che serve per incidere sulla schiena dei condannati la sentenza, oggetto narrativo di grande interesse tecnico o fantatecnico, ho messo a fuoco che la vicenda si svolge in zona tropicale, in un'isola, e che il Paese da cui la colonia penale dipende è caratterizzato dalla poligamia maschile, infatti si insiste in più luoghi sulle Damen che circondano il comandante della colonia, in un caso chiamandole Frauen. Mogli. Il cerchio si stringe con l'accenno alla ciotola di riso che il condannato alla tortura di cui sopra (mortale) ha a disposizione. Direi che la colonia penale fa parte della Cina kafkiana.
Uno studioso degli usi e costumi del vasto mondo (etnologo, antropologo culturale, direi) si reca in visita in una colonia penale dove gli si mostra una complessa macchina, o apparato, che semplicemente punisce (nel caso in esame si tratta di un attendente che si è ribellato al suo superiore) il reo, ignaro della condanna e del tutto passivo rispetto all'accusa (das ist Kafka!) torturandolo con la incisione tramite aghi sulla sua schiena della sentenza. Tutto macchinico, elettricamente mosso e avveniristico - si pensa alle oggi antiche "schede perforate". La tortura, che permette al condannato di arrivare nel corso di dodici ora di incisione a conoscere la sentenza in modo sensoriale, nella carne, termina con la morte. L'ufficiale che illustra (Erklaerung) allo studioso l'apparato, ne è un fanatico, in ciò assolutamente minoritario, infatti la nuova dirigenza della colonia penale è contraria al metodo e lo boicotta. Anche lo studioso è un oppositore della tortura, ma è quasi soggiogato dalla eloquenza appassionata e folle dell'ufficiale conservatore, e lo lascia parlare. Quando il conservatore si accorge che dallo studioso non otterrà appoggi a favore dell'apparato e si rende conto di essersi fatto delle illusioni assurde su di lui, libera il condannato, si denuda e mette se stesso alla tortura; la macchina inizia a operare, ma si rompe, va in pezzi, e l'ufficiale muore trafitto dagli aghi che servono alla incisione sul corpo della sentenza. Essa dice: "Sii giusto!" Sei Recht!
Lo studioso, insieme al condannato scampato e al soldato di guardia, una coppia che da ultimo diviene buffa ricordandoci gli aiutanti dell'agrimensore in Das Schloss (Il castello), lascia il luogo dell'apparato e fa ritorno nella colonia: prende la prima nave e se ne va.
Tristi tragicomici tropici! Ottimo racconto.
(Ora, non so se esistano o siano esistite pratiche "penali" e di tortura analoghe a quella immaginata da Kafka; non posso però evitare di attribuirne la genesi alla mente di Kafka.
Altro: salta agli occhi la finezza "empatica" della rappresentazione del protagonista del racconto, l'ufficiale fedele alla pratica creata dal defunto comandante della colonia penale, ormai un "esule in patria", direi, uno straniero tra i suoi. Un sopravvissuto!
La posizione della pietra tombale del comandante inventore della macchina da tortura, infine, nascosta sotto un tavolo della lurida casa del té, è una meravigliosa beffa kafkiana che ha dell'onirico.)
(Marzo 2020) La traduzione è postata nella mia sezione del sito Scribd - con il titolo "Nella colonia penale").
Uno studioso degli usi e costumi del vasto mondo (etnologo, antropologo culturale, direi) si reca in visita in una colonia penale dove gli si mostra una complessa macchina, o apparato, che semplicemente punisce (nel caso in esame si tratta di un attendente che si è ribellato al suo superiore) il reo, ignaro della condanna e del tutto passivo rispetto all'accusa (das ist Kafka!) torturandolo con la incisione tramite aghi sulla sua schiena della sentenza. Tutto macchinico, elettricamente mosso e avveniristico - si pensa alle oggi antiche "schede perforate". La tortura, che permette al condannato di arrivare nel corso di dodici ora di incisione a conoscere la sentenza in modo sensoriale, nella carne, termina con la morte. L'ufficiale che illustra (Erklaerung) allo studioso l'apparato, ne è un fanatico, in ciò assolutamente minoritario, infatti la nuova dirigenza della colonia penale è contraria al metodo e lo boicotta. Anche lo studioso è un oppositore della tortura, ma è quasi soggiogato dalla eloquenza appassionata e folle dell'ufficiale conservatore, e lo lascia parlare. Quando il conservatore si accorge che dallo studioso non otterrà appoggi a favore dell'apparato e si rende conto di essersi fatto delle illusioni assurde su di lui, libera il condannato, si denuda e mette se stesso alla tortura; la macchina inizia a operare, ma si rompe, va in pezzi, e l'ufficiale muore trafitto dagli aghi che servono alla incisione sul corpo della sentenza. Essa dice: "Sii giusto!" Sei Recht!
Lo studioso, insieme al condannato scampato e al soldato di guardia, una coppia che da ultimo diviene buffa ricordandoci gli aiutanti dell'agrimensore in Das Schloss (Il castello), lascia il luogo dell'apparato e fa ritorno nella colonia: prende la prima nave e se ne va.
Tristi tragicomici tropici! Ottimo racconto.
(Ora, non so se esistano o siano esistite pratiche "penali" e di tortura analoghe a quella immaginata da Kafka; non posso però evitare di attribuirne la genesi alla mente di Kafka.
Altro: salta agli occhi la finezza "empatica" della rappresentazione del protagonista del racconto, l'ufficiale fedele alla pratica creata dal defunto comandante della colonia penale, ormai un "esule in patria", direi, uno straniero tra i suoi. Un sopravvissuto!
La posizione della pietra tombale del comandante inventore della macchina da tortura, infine, nascosta sotto un tavolo della lurida casa del té, è una meravigliosa beffa kafkiana che ha dell'onirico.)
(Marzo 2020) La traduzione è postata nella mia sezione del sito Scribd - con il titolo "Nella colonia penale").
sabato 13 agosto 2016
Hungernkuenstler
Non digiunatore, ma virtuoso del digiuno ho tradotto Hungernkuenstler, per rendere giustizia all'originale tedesco ed alla maestria del protagonista. Faccio notare che le scene relative ai rapporti tra il protagonista in gabbia e i suoi guardiani ricordano quelle tra la scimmia in gabbia e i suoi occasionali compagni umani in "Relazione per un'accademia"
venerdì 5 agosto 2016
F.Kafka: Un virtuoso del digiuno
Negli
ultini decenni l'interesse per i virtuosi del digiuno è assai
scemato. Mentre prima valeva la pena organizzare simili dimostrazioni
in proprio, oggi è del tutto impossibile. Erano altri tempi. Allora
l'intera città si occupava del virtuoso; quotidianamente insieme
alla durata del digiuno saliva la partecipazione; ognuno almeno una
volta al giorno voleva vedere il virtuoso; aumentando i giorni di
digiuno c'erano abbonati i quali sedevano tutto il dì davanti alla
piccola gabbia; anche di notte avevano luogo visite allo scopo di
accrescere l'effetto con la luce delle fiaccole; quando il tempo era
buono la gabbia era trasportata all'aperto ed in questo caso
specialmente ai bambini veniva mostrato il virtuoso; mentre per gli
adulti era spesso soltanto un divertimento cui essi prendevano parte
perché era di moda, i bambini stavano a guardare a bocca aperta,
tenendosi, a scanso di rischi, reciprocamente per mano, stupefatti da
come lui, pallido, una maglia nera adosso, le costole sporgenti,
sedeva sulla paglia sparsa perfino disdegnando una sedia, da come
annuendo a un tratto gentilmente rispondeva alle domande con un
sorriso forzato, da come tendeva tra le sbarre della gabbia il
braccio per far sentire la sua magrezza e poi però riaffondava
completamente in se stesso senza curarsi di nessuno, neppure del
rintocco dell'orologio, unico arredo della gabbia, per lui così
importante, e invece continuava a guardare davanti a sé con gli
occhi quasi chiusi, di tanto in tanto centellinando un sorsino
d'acqua da un piccolo bicchiere per inumidirsi le labbra.
A
parte i mutevoli spettatori c'erano anche guardiani fissi scelti nel
pubblico, notevolmente di solito macellai i quali, sempre tre per
volta, avevano l'incarico di osservare notte e giorno il virtuoso
acciocché questi, in un qualche modo più o meno segreto, non si
nutrisse. Solo una formalità a scopo di tranquillizare la massa,
infatti gli iniziati sapevano bene che mai il virtuoso durante il
digiuno per nessuna circostanza, neppur con la forza, avrebbe
mangiato neppure la minima cosa; lo proibiva l'onor dell'arte sua.
S'intende che non tutti i guardiani potevano capire ciò, talvolta
c'erano gruppi di guardia notturni i quali esercitavano la
sorveglianza in modo assai lasso, deliberatamente si sedevano insieme
in un angolo lontano e lì s'immergevano nel gioco delle carte con l'
intenzione manifesta di concedere al virtuoso un rinfreschino che
secondo loro egli poteva tirar fuori da una qualche riserva segreta.
Niente era più molesto per il virtuoso di siffatti guardiani; lo
rattristavano; gli rendevano il digiuno orribile; talvolta vinceva la
sua debolezza e cantava durante questo tempo di guardia, finché
semplicemente non ne poteva più, per mostrare a quella gente quanto
ingiustamente lo sospettassero. Però serviva a poco; essi finivano
per stupirsi soltanto della sua disinvoltura nel mangiare mentre
cantava. Molto di più gli piacevano i guardiani che si mettevano
vicino alle sbarre, non si accontentavano dell'illuminazione notturna
della sala, ma lo illuminavano con le torce elettriche che
l'impresario <in italiano nel testo - n.d.t.> metteva loro a
disposizione. La luce abbagliante non lo disurbava affatto, tanto a
dormire, in linea di massima, non riusciva, e un poco poteva sempre
assopirsi con qualsiasi illuminazione e ad ogni ora, anche con la
sala strapiena e chiassosa. Assai volentieri era disposto a
trascorrere completamente senza sonno la notte con guardiani del
genere; disposto a scherzarci, a raccontar loro storie della sua vita
nomade e ad ascoltare poi le loro, tutto all'unico scopo di tenerli
desti per poter continuare a mostrar loro che lui nella gabbia non
aveva nulla di commestibile e che digiunava come nessun di loro
avrebbe potuto. Il massimo per lui tuttavia era quando poi arrivava
la mattina e veniva portata loro, a spese sue, una sontuosa colazione
su cui si gettavano con l'appetito di uomini sani dopo una faticosa
notte di veglia. Certo, non mancava gente che in questa colazione
voleva vedere una disdicevole subornazione dei guardiani, ma ciò
oltrepassava i limiti, e quando si domandava ai guardiani se
volevano, diciamo per la causa, sobbarcarsi la veglia notturna senza
colazione, loro storcevano la bocca, però restavano a causa delle
insinuazioni di quella gente.
Questo
certo faceva parte però delle insinuazioni assolutamente
inseparabili dal digiuno. Nessuno in fin dei conti era in grado di
passare tutti i giorni e le notti presso il virtuoso
ininterrottamente come guardiano, nessuno dunque poteva di suo
propriamente sapere, senza fallo, se davvero si era digiunato
ininterrottamente; soltanto il virtuoso stesso poteva saperlo,
soltanto lui poteva allo stesso tempo essere il digiunatore e
l'osservatore pienamente soddisfatto del suo digiuno. Sempre, invece,
era insoddisfatto per un altro ulteriore motivo; forse non aveva
affatto ottenuto dal digiuno quel dimagrimento tale che parecchi, non
tollerandone la vista, dovessero star lontano dagli spettacoli in
segno di compianto, piuttosto era dimagrito soltanto a causa
dell'insoddisfazione di sé. Solo lui, in altre parole, sapeva, e
nessun altro iniziato lo sapeva, com'era facile il digiuno. La cosa
più facile al mondo. Neanche lo nascondeva, questo, ma non gli si
credeva, nel caso più favorevole lo si considerava modesto, ma
specilmente voglioso di pubblicità o perfino un imbroglione cui il
digiuno era in fondo facile perché sapeva renderselo facile e che
aveva anche la sfrontatezza di ammetterlo. Tutto questo lui doveva
accettarlo, ci si era anche abituato con gli anni, ma interiormente
questa insoddisfazione continuava a rodergli, e ancora mai dopo alcun
periodo di digiuno - si doveva riconoscerglielo - aveva lasciato di
sua volontà la gabbia. Come limite massimo del digiuno l'impresario
aveva posto quello di quaranta giorni, oltre non lasciava digiunare
nessuno, neanche nelle metropoli, e certamente per buone ragioni.
Secondo l'esperienza tramite la pubblicità gradualmente crescente si
poteva circa per quaranta giorni stuzzicare sempre di più
l'interesse di una città, dopo però il pubblico mancava, era
osservabile un essenziale calo di affluenza; sussitevano naturalmente
a questo riguardo piccole differenze tra le città e le province, ma
come regola valeva che il limite massimo era quaranta giorni. Così
al quarantesimo giorno la porta inghirlandata di fiori della gabbia
veniva aperta, una entusiastica partecipazione di spettatori riempiva
l'anfiteatro, una banda militare suonava, due medici entravano nella
gabbia per prendere le necessarie misurazioni al virtuoso, con un
megafono i risultati venivano annunciati alla sala, ed infine ecco
due giovani signore contente del fatto che proprio loro fossero state
sorteggiate, che intendevano far scendere un paio di gradini fuori
dalla gabbia al virtuoso fino ad un tavolino su cui era servito un
pasto da ammalati accuratamente scelto. A questo punto il virtuoso si
opponeva sempre. Certo, appoggiava ancora volontariamente le sue
braccia ossute sulle mani soccorrevoli protese dalle signore, chine
su di lui, ma non voleva stare in piedi. Perché smettere proprio ora
dopo quaranta giorni? Avrebbe resistito ancora a lungo,
illimitatamente; perché smettere proprio ora che lui si trovava,
anzi, non era ancora nel meglio del digiuno? Perché si voleva
derubarlo della gloria di digiunare più a lungo, di diventare non
solo il più grande virtuoso del digiuno di tutti i tempi, il che
lui, anzi, probabilmente già era, ma anche di superare se stesso
fino all'inesplicabile, dal momento che lui non sentiva alcun limite
alla sua capacità digiunatoria. Perché questa folla che pretendeva
di ammirarlo così tanto aveva così poca pazienza? Se lui resisteva
ancora a digiunare più a lungo, perché essa non voleva resistere?
Inoltre era stanco, si trovava bene sulla paglia, ora doveva tirarsi
su, e non per poco, andar a mangiare, cosa che già a figurarsela gli
provocava nausee la cui espressione tratteneva a fatica per riguardo
alle signore. E dal basso guardava negli occhi le signore,
apparentemente tanto gentili, in realtà così crudeli e faceva segno
di no con la testa appesantita sul debole collo. Però poi succedeva
quel che succedeva sempre. Veniva l'impresario, senza parole - la
musica rendeva impossibile parlare - sollevava le braccia sul
virtuoso quasi che invitasse il cielo ad osservare una buona volta
l'opera sua lì sulla paglia, questo miserevole martire, il che il
virtuoso era di certo, ma in tutt'altro senso; afferrava per la
sottile vita il virtuoso, facendo ciò con esagerata cautela lui
voleva render credibile che lui lì avesse a che fare come con una
cosa fragile; e lo consegnava - non senza dargli segrete scosse in
modo che il virtuoso con le gambe ed il busto incontrollatamente
oscillasse qua e là - alle signore nel frattempo impallidite come
due morte. Ora il virtuoso sopportava tutto; la testa appoggiata al
petto, era come fosse rotolata in basso e si reggesse per miracolo;
la pancia svuotata; le gambe si stringevano l'una con l'altra
all'altezza delle ginocchia per istinto di conservazione, ma
raspavano il suolo, come se non si trattasse di cosa reale si
preoccupavano di trovare quello vero; e tutto il peso, invero
modesto, del corpo si appoggiava su una delle signore, la quale in
cerca d'aiuto, con il respiro accelerato - non si era figurata così
questo ufficio d'onore - tendeva al massimo il collo almeno per
difendere il viso dal contatto con il virtuoso, poi però, dato che
ciò non le riusciva e la sua più fortunata compagna non la
soccorreva, si accontentava di liberarsi, tremando, della mano del
virtuoso, questo pacchetto di ossa, tra le risate entusiastiche della
sala rompeva in lacrime, e doveva esser rilevata da un inserviente da
tempo predisposto. Poi veniva il mangiare, un poco del quale
l'impresario somministrava al virtuoso, durante una sonnolenza simile
allo svenimento, in mezzo a gioiosi applausi, che doveva sviare
l'attenzione dallo stato del virtuoso; poi al pubblico si rivolgeva
un brindisi presumibilmente sussurrato dal virtuoso all'impresario;
l'orchestra ratificava il tutto con gran squilli, e si andava via,
nessuno aveva ragione di essere scontento del virtuoso, nessuno, solo
lui, sempre solo lui.
Così
visse molti anni, con piccole pause di riposo periodiche,
apparentemente fulgido, onorato dal mondo, malgrado tutto, però, in
genere di un cattivo umore che diveniva sempre peggiore per il fatto
che nessuno intendeva prenderlo sul serio. In che modo lo si doveva
poi consolare? Cosa gli restava da desiderare? E se capitava una
buona volta chi bonariamente lo compativa e intendeva spiegargli che
la sua afflizione proveniva dal digiuno, poteva succedere, specie
durante l'aumentare del tempo digiunato, che il virtuoso rispondesse
con un esplosione di rabbia e iniziasse, come una belva, a scuotere
le sbarre. Comunque l'impresario per stati simili aveva un rimedio
punitivo che il virtuoso accoglieva volentieri. Lo giustificava di
fronte al pubblico riunito, ammetteva che solo l'irritabilità
suscitata dal digiuno poteva scusare il comportamento del virtuoso,
essendo tale irritabilità, per le persone sazie, senz'altro
incomprensibile; veniva poi, in rapporto a ciò, a parlare anche
dell'altrettanto spiegabile affermazione del virtuoso che lui avrebbe
potuto digiunare anche molto più a lungo di quanto faceva; lodava lo
sforzo, la buona volontà, la grande abnegazione che certo in tale
affermazione erano contenuti; cercava poi di confutare, però,
l'affermazione abbastanza semplicemente tramite l'esibizione di
fotografie che allo stesso tempo venivano smerciate, infatti in esse
si vedeva il virtuoso pervenuto ad un quarantesimo giorno di digiuno,
allettato, quasi spento a causa della debolezza. Ben note, queste
foto, al virtuoso, certo, ma sempre di nuovo lo stravolgimento della
verità, che lo snervava, era troppo per lui. Ciò che era
conseguenza del prematuro termine del digiuno, qui si mostrava come
se fosse la causa! Combattere contro tale dissennatezza, contro
questo mondo d'insensatezza, era impossibile. Ancor sempre in buona
fede aveva riascoltato, impaziente alle sbarre, l'impresario,
all'apparizione delle fotografie però ogni volta le aveva
abbandonate, sospirando si era afflosciato nella paglia, ed il
pubblico tranquillizzato poteva di nuovo avvicinarsi per guardarlo.
Se
alcuni anni più tardi i testimoni ripensavano a simili scene, spesso
le trovavano addirittura incomprensibili. Infatti nel frattempo era
subentrato quel sopra menzionato capovolgimento; era successo quasi
d'improvviso; poteva avere motivi profondi, ma a chi importava di
scovarli? Comunque il raffinato virtuoso si vide un giorno
abbandonato dalla folla desiderosa di divertimento, la quale fluì
verso altre attrazioni. L'impresario si sguinzagliò con lui in mezza
Europa per vedere se non si ritrovava ancora qua e là il vecchio
interesse; tutto finito; come in un accordo segreto dappertutto si
era formata una vera e propria ripugnanza nei confronti della vista
dei digiuni. Naturalmente ciò in realtà non era potuto avvenire
d'improvviso, ed ora ci si rammentava ricostruttivamente di molti
indizi a suo tempo, nell'ubriacatura del successo, non abbastanza
osservati , non abbastanza repressi, tuttavia ora farci qualcosa di
oppositivo era troppo tardi. Certo era sicuro che una buona volta
anche per il digiuno il tempo sarebbe ritornato, ma per i vivi ciò
non era di conforto. Che cosa doveva fare ora il virtuoso? Colui per
il quale in migliaia avevano giubilato non poteva esibirsi in
baracconi di modeste fiere annuali, e per trovare un altro impiego il
virtuoso non soltanto era troppo anziano, ma soprattutto troppo
fanaticamente devoto. Così licenziò l'impresario, il compagno d'una
carriera senza pari, e si fece ingaggiare da un grande circo; per
proteggere la sua sensibilità non guardò nemmeno le condizioni
contrattuali.
Un
grande circo con la sua quantità enorme di persone, animali ed
attrezzature sempre reciprocamente articolati può necessitare di
tutti in ogni momento, anche d'un virtuoso del digiuno di pretese, è
naturale, adeguatamente modeste, e, a parte ciò, certo in questo
caso particolare non tanto era ingaggiato il virtuoso stesso, quanto
il suo vecchio famoso nome, ma non si poteva neppur dire, data la
particolarità di quest'arte col passare degli anni tramontata, che
un virtuoso d'altri tempi non più all'altezza della sua capacità
volesse rifugiarsi in una tranquilla posizione circense, al
contrario, il virtuoso assicurò che lui, ciò che assolutamente era
degno di esser creduto, digiunava bene proprio come prima, anzi
riteneva perfino che, se lo si lasciava fare, e questo gli si promise
senz'altro, avrebbe per la prima volta, proprio ora, fatto
fondatamente stupire il mondo: un'affermazione, data la mentalità
dell'epoca dallo zelante virtuoso facilmente dimenticata, che davvero
suscitò soltanto un sorriso.
In
fondo tuttavia neanche il virtuoso perdeva di vista la realtà delle
cose, ed accettò come ovvio che non lo si mettesse con la sua gabbia
in pista come all'incirca un'attrazione principale, ma invece lo si
collocasse fuori in un posto, abbastanza ben accessibile del resto,
in prossimità degli stallaggi. Grandi variopinte insegne
incorniciavano la gabbia e indicavano ciò che lì c'era da vedere.
Quando il pubblico negl'intervalli dello spettacolo si spingeva verso
le gabbie per guardare gli animali era quasi inevitabile che
transitasse davanti al virtuoso ed un poco vi si fermasse, forse ci
si sarebbe trattenuti più a lungo davanti a lui se coloro che
stavano dietro nello stretto ambulacro, i quali non capivano questa
sosta sulla via delle agognate gabbie, non avessero reso impossibile
una più lunga tranquilla osservazione. Anche questo era il motivo
per cui il virtuoso, di fronte a questi momenti di visita che lui
naturalmente desiderava come meta vitale, non mancava però di
rabbrividire. All'inizio aveva faticato nell'attesa delle pause dello
spettacolo; in estasi aveva guardato verso la folla che si avvicinava
scomposta finché presto si era convinto con coraggio - anche il più
caparbio, quasi consapevole, autoinganno non resse alle prove - che
si trattava per lo più di gente intenzionata, sempre, senza
eccezione, chiaramente a visitare le gabbie. E questa vista a
distanza rimase ancor sempre la più bella. Infatti quando essi erano
arrivati fino a lui, subito gli infuriavano attorno grida e insulti
degl'ininterrottamente formantisi nuovi partiti, del partito - presto
più indigesto per il virtuoso - che lo voleva vedere con comodità,
non per apprezzamento, all'incirca, ma per capriccio e puntiglio, e
del partito che bramava soprattutto le gabbie. Davanti c'era
l'assembramento grande, dietro i ritardatari che veramente, pur non
impediti più dal restare quanto volessero, si affrettavano a grandi
passi per arrivare in tempo agli animali, quasi senza guardare di
lato. E non capitava affatto di frequente la fortuna che un padre di
famiglia coi suoi bambini indicasse il virtuoso, che spiegasse in
modo dettagliato di che cosa si trattava lì, che raccontasse degli
anni passati, dove il virtuoso, per simili ma incomparabilmente
maggiori esibizioni, era stato, e che poi i bambini, a causa della
insoddisfacente loro preparazione scolastica e di vita, restassero
certo sempre senza capire - cos'era per loro il digiuno? - e che però
con la luce dei loro occhi scrutatori manifestassero qualcosa dei
nuovi tempi più favorevoli in arrivo. Forse, così si diceva il
virtuoso poi talvolta, tutto sarebbe cambiato un po' in meglio se la
sua ubicazione non fosse stata tanto vicina alle gabbie. La scelta
alla gente risultava così troppo facile, per non dire che molto lo
ferivano e lo tormentavano senza tregua le esalazioni delle gabbie,
l'irrequietezza degli animali durante la notte, il trasporto che
davanti a lui veniva effettuato dei pezzi di carne cruda per le
belve, lo strepito del loro mangiare. Tuttavia non osava fare le sue
rimostranze presso la direzione; per lo meno doveva, anzi, agli
animali la folla dei visitatori, tra i quali poteva trovarsene qua e
là uno destinato a lui, e chi lo sapeva dove lo si sarebbe ficcato
se lui avesse voluto ricordare che esisteva, senza contare il fatto
che lui, strettamente parlando, era solo un intralcio sulla via
verso le gabbie.
Davvero
un intralcio modesto, un intralcio sempre più modesto. Ci si era
assuefatti allo straordinario per aver voglia di rivendicare, oggi,
attenzione per un virtuoso del digiuno, e con tale assuefazione il
verdetto sul virtuoso del digiuno era pronunciato. Aveva così la
possibilità di digiunare bene quanto gli riusciva, e lo faceva, ma
niente poteva più salvarlo dal fatto che lo si passasse sotto
silenzio. Provaci, a spiegare a qualcuno l'arte del digiuno! A chi
non ci ha sensibilità, non gli si può render comprensibile. Le
belle insegne divennero luride ed illeggibili, le si strapparono via,
a nessuno venne in mente di sostituirle; la tabella con il numero dei
giorni di digiuno effettuati che nei primi tempi accuratamente ogni
giorno era stato rinnovato, già da lungo tempo restava sempre la
stessa, infatti dopo le prime settimane il personale s'era stufato
anche di questo modesto lavoro; e dunque il virtuoso seguitava a
digiunare, certamente, come in passato aveva sognato di fare, una
buona volta, e gli riusciva senza sforzo proprio come allora aveva
predetto, ma nessuno contava i giorni, nessuno, nemmeno lui stesso lo
sapeva quanto grande era la sua prestazione, e quando una volta un
perdigiorno si fermò, si burlò dell'alto numero e parlò
d'imbroglio, e ciò in tal senso fu la più sciocca delle menzogne
che l'insensibilità e la malvagità potessore escogitare, infatti il
virtuoso non imbrogliava, operava in modo onorevole, ma era il mondo
in compenso ad imbrogliarlo.
Eppure
passarono ancora molti giorni, e anche ciò ebbe una fine. Una volta
ad un sorvegliante dette nell'occhio la gabbia e lui chiese agli
inservienti perché si lasciasse inutilizzata questa bella gabbia con
dentro la paglia putrefatta; nessuno lo sapeva, finché uno si
rammentò, con l'aiuto della tabella numerata, del virtuoso. Si frugò
la paglia con dei bastoni e ci si trovò il virtuoso. "E tu
seguiti a digiunare?", domandò il sorvegliante, " ma
quando la finirai?" "Perdonatemi tutti", sussurrò il
virtuoso; soltanto il sorvegliante che teneva l'orecchio alle sbarre,
lo intese. "Certo", disse il sorvegliante appoggiandosi
alla fronte un dito per far capire al personale la condizione del
virtuoso, "ti perdoniamo". "Incessantemente desideravo
che ammiraste il mio digiuno", disse il virtuoso." Certo
che lo ammiriamo", disse il sorvegliante per compiacerlo."Ma
non dovete ammirarlo", disse il virtuoso. "Va bene, e noi
allora non lo ammiriamo", disse il sorvegliante, "perché
poi non dobbiamo?" "Perché io sono costretto a digiunare,
non posso farne a meno", disse il virtuoso. "Ma guarda un
po'", disse il sorvegliante, "perché non puoi farne a
meno?" "Perché io", disse il virtuoso, sollevò la
testolina un poco e parlò proprio nell'orecchio del sorvegliante,
con le labbra raccolte a guisa di bacio, perché niente andasse
perduto, "perché io non riuscii a trovare cibo che mi piacesse.
Se l'avessi trovato, credimi, non avrei mai dato nell'occhio ed avrei
mangiato perfettamente come te e tutti." Queste furono le ultime
parole, ma nei suoi occhi spenti c'era ancora la ferma ancorché non
più fiera convinzione di continuare il digiuno.
"Va
bene, ma ora mettiamo in ordine!", disse il sorvegliante, e si
chiuse lì con il virtuoso e con la paglia insieme. Alla gabbia
invece si assegnò una giovane pantera. Era anche nel senso più
banale un ristoro vedere aggirarsi questo selvaggio animale nella
gabbia così a lungo desolata. Ad esso non mancava niente. Il
nutrimento, che gli piaceva, i guardiani glielo recavano senza starci
troppo a pensare; neppure pareva accorgersi della mancanza di
libertà; questo nobile corpo strettamente dotato del necessario per
sbranare pareva portar con sè anche la libertà; essa appariva
nascosta da qualche parte nella dentatura; e la gioia di vivere
usciva con tanto più potente fervore dalla gola, che non era facile
per gli osservatori resisterle. Tuttavia essi si dominavano, si
stringevano attorno alla gabbia e non volevano staccarsene.
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