domenica 27 luglio 2014
Attraversamento della Grande Acqua
Nell'autobiografia di I.B.Singer (Ricerca e Perdizione) si indica in otto giorni il tempo della traversata dell'Atlantico da Cherbourg a New York, fatta dal Singer stesso nel 1935. Ciò induce a pensare che i cinque giorni di cui parla Kafka nel primo capitolo di America in merito alla traversata dell'Atlantico da Hamburg a New York (evidentemente parecchi anni prima del "35, con ogni probabilità con nave meno veloce) potrebbero essere una "licenza poetica". Sì, la nave di cui tratta Kafka è narrativa, ma Franz si sarà documentato un poco sull'America, no?
giovedì 17 luglio 2014
Il popolo dei topi
Ho inserito nel post precedente il racconto Josefine la cantante, ovvero il popolo dei topi, credo l'ultimo scritto da Kafka. La traduzione che offro rispetta la mancanza d'ariosità nella prosa di K, in altri termini tradisce tale prosa il meno che può. K fu del resto un pensatore di grande sottigliezza, ma non sempre la sua sottigliezza riesce a distinguersi dal dubbio ossessivo o dall'oziosità. Dall'inciso, dall'arzigogolo.
Josefine è una storia che di animale ha poco, i topi c'entrano fino a un certo punto. In questione è il rapporto tra l'artista ed il popolo. Tra il popolo e l'artista. L'importanza della dimensione spettacolare dell'arte, la scontatezza della critica che rimprovera all'arte di non essere altro che impostura - "questo lo saprei fare anch'io".
Josefine è una storia che di animale ha poco, i topi c'entrano fino a un certo punto. In questione è il rapporto tra l'artista ed il popolo. Tra il popolo e l'artista. L'importanza della dimensione spettacolare dell'arte, la scontatezza della critica che rimprovera all'arte di non essere altro che impostura - "questo lo saprei fare anch'io".
Etichette:
Arte,
Il popolo dei topi,
Josefine,
Kafka,
Popolo
F.Kafka: Josefine la cantante, ovvero il popolo dei topi
La
nostra cantante si chiama Josefine. Chi non l'ha udita ignora il
potere del canto. Non c'è alcuno che il suo canto non trascini, ciò
che vale anche di più dal momento che la nostra specie solitamente
non ama la musica. La tranquillità del silenzio è la musica che noi
preferiamo; la nostra vita è difficile, anche se abbiamo fatto lo
sforzo di liberarci per una volta di ogni cruccio quotidiano, non
sappiamo più elevarci a quanto è tanto lontano, come la musica,
dalla nostra solita vita. Tuttavia non ce ne lagniamo molto; non
arriviamo neanche a questo; una certa qual furbizia pratica, che però
ci serve senza dubbio in sommo grado, noi la poniamo come nostra
massima virtù, e cerchiamo di confortarci soprattutto con il sorriso
di tal furbizia, e se una volta dovessimo avere desiderio della
felicità – ciò del resto non accade - esso devia dalla musica,
forse. Solo Josefine è differente; lei ama la musica e sa anche
produrne; è l'unica; con la sua dipartita la musica – chissà per
quanto tempo – scomparirà dalla nostra vita.
Ho
riflettuto spesso su come stanno davvero le cose in merito a questa
musica. E' certo che noi siamo del tutto non musicali; come accade
che comprendiamo il canto di Josefine o, dal momento che lei nega la
nostra comprensione, crediamo di comprenderlo? La risposta più
semplice sarebbe che la bellezza di questo canto è tanta che anche i
sensi più ottusi non san resistere, ma tale risposta non soddisfa.
Fosse davvero così, in presenza di questo canto si dovrebbe in primo
luogo e sempre sentire lo straordinario, sentire qualcosa che solo
quest'unica Josefine e nessun altro ci abilita ad udire, qualora
risonasse da questa gola qualcosa da noi mai udito finora e che non
siamo capaci di udire. Ciò, secondo la mia opinione, non succede
proprio, io non lo sento e neppure ho notato alcunché di simile in
altri. In cerchie intime noi parliamo con franchezza del fatto che il
canto di Josefine non rappresenta nulla di eccezionale, come canto.
Si
tratta poi davvero di canto? A dispetto della nostra non musicalità
noi abbiamo tradizioni canore; ci fu, nei nostri tempi antichi, del
canto; ne raccontano leggende, e si conservano perfino canzoni che
però nessuno sa più cantare. Un sentore di che cos'è il canto
dunque lo abbiamo, e l'arte di Josefine in realtà non vi
corrisponde. Si tratta poi davvero di canto? Non è invece forse solo
uno squittire? E noi tutti del resto conosciamo lo squittire, è la
vera capacità artistica del nostro popolo, o, molto meglio, non una
capacità, piuttosto una caratteristica manifestazione di vita. Tutti
noi squittiamo, ma nessuno pensa certo di dar luogo con ciò a
qualcosa di artistico, squittiamo senza farci caso, di più, senza
capirlo, e tra noi ci sono molti che ignorano del tutto che lo
squittire appartiene alle nostre caratteristiche. Se dunque fosse
vero che Josefine non canta, ma squittisce soltanto e forse
addirittura, come almeno a me pare, varca a mala pena il limite dello
squittire normale – anzi, forse non ha neppure la forza bastevole a
questo squittire normale, quando invece uno sterratore qualsiasi
riesce a farlo tutto il giorno mentre è al lavoro – se fosse vero,
allora certo la pretesa artisticità di Josefine sarebbe confutata,
ma poi ci sarebbe, a maggior ragione, da risolvere l'enigma della sua
grande efficacia.
Non
è tuttavia proprio soltanto uno squittire, quel che lei produce. Ci
si metta distanti da lei e si ascolti, o, ancor meglio, ci si faccia
interrogare in merito, canti Josefine putacaso tra altre voci e ci si
dia il compito di riconoscere la sua, allora inevitabilmente non si
coglierà altro che un normale squittire, magari poco appariscente,
che sta tra il delicato ed il fioco. Ma si resti davanti a lei, non è
soltanto uno squittire; ai fini della comprensione della sua arte è
necessario non solo udirla, ma anche vederla. Anche se si trattasse
del nostro squittire quotidiano, però, già innanzitutto la
singolarità consiste nel fatto che qualcuno si metta con solennità
a fare null'altro che il solito. Schiacciare una noce non è davvero
arte, nessuno oserà radunare un pubblico per schiacciare noci allo
scopo d'intrattenerlo. Ma se lo fa ed il suo proposito riesce, allora
può essere in questione non solo il puro e semplice schiacciar
noci. O no, si tratta di schiacciar noci, ma salta fuori che noi
abbiamo ignorato quest'arte perché la conoscevamo perfettamente, e
che tal nuovo schiacciatore di noci ne indica per primo l'essenza
particolare, ragion per cui, s'egli è un po' meno abile nello
schiacciar noci della maggioranza di noi, ai fini del risultato ciò
potrebbe perfino essere vantaggioso.
Forse
succede qualcosa di simile con il canto di Josefine, noi ammiriamo in
lei quel che non ammiriamo affatto in noi, del resto lei concorda in
pieno con noi a quest' ultimo riguardo. Una volta ero presente quando
qualcuno, come naturalmente accade spesso, richiamò senza
sfacciataggine la di lei attenzione sul generale squittire popolare,
per Josefine ciò fu troppo. Non ho ancora visto un sorriso tanto
sfrontato, altezzoso, come quello che allora fece lei; lei, che è
esteriormente la tenerezza perfetta, che par tenera anche all'interno
del nostro popolo, ricco di simili figure di donna, quella volta si
mostrò meschina; del resto, sensibile com'è, riuscì a sentire di
esser meschina, e si contenne. Comunque lei nega ogni rapporto tra la
sua arte e lo squittire. Non si cura di color che sono di opinione
contraria, forse segretamente li odia. Non si tratta della solita
vanità, infatti gli oppositori, tra i quali in parte mi trovo,
l'ammirano certo non meno della massa, ma Josefine non vuole essere
ammirata soltanto, vuole essere ammirata esattamente nel modo da lei
stabilito, niente le garba dell'ammirazione generica. E quando le
sediamo davanti, lei ne ha contezza; solo da lungi si pratica
l'opposizione; quando le sediamo davanti, sappiamo che quel che lei
squittisce non è affatto uno squittire.
Poiché
lo squittire fa parte delle nostre abitudini involontarie, si
potrebbe opinare che anche all'interno dell'uditorio di Josefine
taluni squittiscano; che, nonostante l'arte sua, ci venga bene
squittire, e che, se ci va, noi squittiamo; invece il suo uditorio
non squittisce, se ne sta zitto zitto, taciamo come fossimo divenuti
partecipi alla bramata armonia da cui il nostro proprio squittire
come minimo ci allontana. E' nel suo canto, la malia, o non lo è
molto di più nel silenzio solenne da cui la sua deboletta voce è
circondata? In un caso capitò che una qualunque, durante il canto di
Josefine, iniziasse a squittire candidamente, anche lei, una stolta
cosuccia. Orbene, si trattava assolutamente della stessa cosa che
udivamo da parte di Josefine; là davanti, nonostante tutto il
mestiere, sempre lo stesso timido squittire, qui, tra il pubblico, lo
svagato infantile squittire; indicarne la differenza sarebbe stato
impossibile; e però fischiammo e squittimmo addosso alla
disturbatrice per quanto non fosse necessario, infatti lei si sarebbe
nascosta lo stesso, impaurita e vergognosa, intanto che Josefine
iniziava ad intonare il suo squittire trionfale protendendo le
braccia, tutta fuor di sé, gonfio al massimo il collo.
Del
resto lei è sempre così, ogni inezia, ogni caso, ogni
insubordinazione, uno scricchiolio in platea, un digrignar di denti,
ogni disturbo dell'illuminazione, lei lo ritiene confacente ad
aumentare l'effetto del suo canto; di fatto lei canta, questa la sua
opinione, davanti a orecchie dure; passione e plauso non mancano, ma
lei ha imparato a rinunciare alla comprensione autentica, come pensa.
Ecco che ogni disturbo le viene a fagiolo; tutto quel che da fuori si
oppone alla purezza del suo canto e che è vinto con lieve lotta,
anzi senza lotta, con il solo mezzo del raffronto, può contribuire a
destare la massa, ad insegnarle certo non la comprensione, ma il
rispetto responsabile.
Se
tuttavia le fa tanto gioco il meno, quanto maggiormente le serve il
più? La nostra vita è molto agitata, ogni giorno porta sorprese,
angosce, speranze e spaventi che il singolo non può sopportare da
solo senza l'appoggio del compagno in qualsiasi momento del giorno e
della notte; ma anche così spesso è davvero difficile; talvolta
sotto il fardello cui era destinato uno solo, tremano anche mille
spalle. E' allora che Josefine stima che sia venuto il suo momento.
Eccola, la tenera creatura, vibrante il suo petto di straordinaria
angoscia, è come se avesse radunato tutta la sua forza, come se in
lei ciò che non serve direttamente al canto fosse proibito; devolve
tutte le sue forze, quasi tutta la sua vitalità, ai buoni spiriti
della protezione, come se un alito più freddo, intanto che lei si
trova tutta rinserrata nel canto, potesse ucciderla. Tuttavia davanti
ad un simile spettacolo noi supposti oppositori siamo soliti dirci:
”Non sa neanche squittire; deve sforzarsi in modo così spaventoso,
e non per cavar da se stessa un po' di canto – non parliamo mai di
canto – ma il solito squittire.” Questo il nostro parere, certo è
un'impressione inevitabile, eppur fuggevole, che cessa velocemente. E
già anche noi ci immergiamo nel sentimento della moltitudine stante
in ascolto calda, accostati i corpi, in soggezione, il fiato sospeso.
E
per radunare intorno a sé tal moltitudine di popolo, il nostro, che
più o meno in continuo movimento scappa qua e là, nella maggioranza
dei casi Josefine non deve far altro che prendere quella posizione,
testolina inclinata indietro, bocca semiaperta, occhi volti all'insù,
indicante che lei intende cantare. Può farlo dove vuole, non
dev'essere affatto un luogo visibile da lontano, è adatto anche un
qualche oscuro angoletto scelto a caso per improvviso capriccio. La
notizia che lei ha intenzione di cantare si propaga lo stesso, e
velocemente si allungano processioni. Ora, capita che subentrino
ostacoli, Josefine preferisce cantare proprio nei momenti
d'inquietudine, molteplici preoccupazioni e necessità ci costringono
quindi a svariati percorsi, con la migliore volontà non si riesce
radunarsi con la velocità che Josefine desidera, e lei in tali
occasioni se ne sta lì con la sua aria d'importanza senza un totale
sufficiente di uditori, per un po' – allora s'infuria, scalpita,
impreca in modo non certo femminile, anzi, arriva a mordere. Eppure
neanche una condotta del genere nuoce alla sua reputazione; invece di
porre qualche argine alle sue enormi pretese ci si sforza di
aderirvi; si mandano messaggeri a chiamar gli uditori; tenendoglielo
segreto; si notano nelle vie vicine vedette far cenni di sbrigarsi a
chi si avvicina; fino a quando da ultimo non si raccoglie un numero
passabile di uditori.
Che
cosa spinge il popolo a disturbarsi tanto per Josefine? Trattasi di
questione non più facile da risolvere di quella inerente il canto di
Josefine, ma ad essa legata. Potremmo cancellarla ed unificarla con
la seconda, se si sostenesse a un dipresso che il popolo è
incondizionatamente devoto al canto di Josefine. Ma non è così; il
nostro popolo quasi ignora la devozione senza condizioni; questo
popolo amante più di tutto dell'astuzia bonaria, del bisbiglio
infantile, del pettegolezzo innocente, com'è ovvio, e leggibile solo
a fior di labbra, un tal popolo non può comunque abbandonarsi senza
condizioni, lo sente bene anche Josefine, ecco che cosa lei combatte
sforzando la sua deboletta gola.
Non
è certo lecito andar troppo lontano opinando che il popolo è devoto
a Josefine ma non in modo incondizionato. Per dirne una, non sarebbe
capace di ridere di lei. E' garantito che più d'uno incita a ridere
di lei; e noi siamo gente che è sempre prossimo al ridere od al
deridere; a dispetto di tutte le disgrazie della nostra vita da noi è
sempre di casa per dir così un sommesso riso; ma non su Josefine. A
volte ho l'impressione che il popolo interpreti il suo rapporto con
Josefine nel senso che lei, questa creatura fragile, valetudinaria,
in qualche modo speciale, secondo lei speciale per via del canto, gli
sia affidata e che sia doveroso preoccuparsi di lei; nessuno ne sa la
ragione, ma il fatto è sicuro. E su quel che ci è affidato non si
ride; riderne sarebbe violazione dei doveri; il massimo della
cattiveria è quel che i peggiori tra noi aggiungono: “Il ridere ci
passa, se vediamo Josefine.”
Così
il popolo si preoccupa per Josefine a mo' di un padre che si prende
cura di un figlio che tende verso di lui le sue manine – non
sappiamo se imploranti od incoraggianti. Il nostro popolo non è
capace di compiere questi doveri, si potrebbe obbiettare, ma in
realtà li esercita, almeno in questo caso, in modo esemplare; nessun
singolo individuo potrebbe fare quello di cui il popolo come
totalità è capace. Di sicuro la differenza di forza tra il popolo e
il singolo è tanto enorme, basta questo, da attirare il protetto nel
calore della sua vicinanza, e la protezione è sufficiente. A
Josefine del resto non si osa parlare di tali cose: “Io squittisco
per proteggervi”, lei dice, “Sì sì, tu squittisci”, pensiamo
noi. E non c'è davvero nessuna obbiezione, se lei si ribella, poiché
tali ribellioni fanno parte dell'indole infantile e della
riconoscenza infantile, ed il padre, secondo la sua natura, non ne
tiene conto.
Però
conta anche dell'altro, che è difficile da spiegare, in questa
relazione tra popolo e Josefine. Lei in altri termini è
dell'opinione contraria, crede di essere la protettrice del popolo.
Il suo canto ci salva per dir così da condizioni peggiori in
politica ed in economia, niente di meno, e se non allontana i guai
almeno ci dà la forza di tollerali. Non che lei si esprima così, od
in altri modi, di base parla poco, tace in mezzo ai chiacchieroni, ma
lampeggiano dai suoi occhi, certe opinioni, rilevabili dalla sua
bocca chiusa – tra noi pochi san tenerla chiusa, lei ci riesce.
Dopo ogni cattiva notizia – e certi giorni esse si rincorrono, tra
loro le false e le vere a metà – lei si alza, quando di solito
anela fiaccamente il suolo, tende il collo e tenta la visione
generale del suo gregge, come il pastore in vista del temporale.
Certo anche i bambini, secondo la loro indole rozzamente priva di
autocontrollo, hanno pretese simili, che però in Josefine non sono
altrettanto prive di fondamento. E' chiaro che lei non ci salva né
ci dà alcuna forza, è facile atteggiarsi a salvatore di questo
popolo che pure si è sempre salvato da solo, foss'anche a costo di
olocausti in merito ai quali lo storico – in genere noi trascuriamo
del tutto gli studi storici – impietrisce orripilato. Eppure è
vero che proprio in stato di necessità, più che non nella
normalità, stiamo ad ascoltare la voce di Josefine. Le minacce che
incombono su di noi ci rendono più silenziosi, più modesti, più
arrendevoli in rapporto all'attitudine al comando di Josefine; ci
raduniamo di buon grado, di buon grado ci stringiamo gli uni agli
altri; in particolare perché ciò accade del tutto collateralmente
rispetto alla straziante questione principale; è come se noi
tornassimo in fretta – necessaria fretta, Josefine lo dimentica
troppo spesso – a bere insieme al calice della pace, in vista della
battaglia. Non si tratta di un'esibizione canora, ma, molto di più,
di un'adunata popolare in cui il popolo tace del tutto prima del
deboletto squittire; l'ora è troppo seria perché si voglia
trascorrerla nelle chiacchiere.
Ora,
d'una simile relazione Josefine non potrebbe rallegrarsi affatto.
Nonostante tutto il malessere nervoso che, a causa della sua
posizione mai del tutto chiarita, la colma, lei non nota tante cose,
accecata dal suo orgoglio, e può senza grande sforzo essere indotta
alla sopravvalutazione di molte cose, una schiera di zelatori è a
tale proposito, dunque in un senso in genere proficuo, sempre attiva,
ma non sprecherebbe certo per loro il suo canto, per quanto ciò in
sé non sarebbe affatto poca cosa - lei da una parte, inosservata, in
un angolo dell'adunata popolare.
Tuttavia
non ha da fare neanche questo, perché la sua arte non resta
inosservata. Per quanto noi ci si occupi di tutt'altro e non domini
assoluto il silenzio solo per amor del canto, e molti non alzino lo
sguardo, premendo anzi il muso nella pelliccia del vicino, e Josefine
lassù sembri affaticarsi a vuoto, tuttavia – è innegabile -
qualcosa del suo squittire penetra immancabilmente anche in noi.
Questo squittire, che si leva dove a tutti gli altri è imposto di
tacere, viene quasi come un messaggio del popolo ai singoli; il
delicato squittire di Josefine tra le gravi decisioni è quasi come
la misera esistenza del nostro popolo nel mezzo del tumulto del mondo
ostile (corsivo
a cura del traduttore). Josefine si afferma, questa
nullità in fatto di voce, di prestazione, si afferma e si fa strada
verso di noi, ciò fa pensare. Un artista del vero canto, se mai tra
noi ce ne potesse trovare uno, non lo sopporteremmo di certo, in
simili occasioni, e respingeremmo unanimi l'insensatezza di una
simile esibizione. A Josefine piacerebbe esser protetta dal conoscere
che il fatto che noi stiamo ad ascoltarla è una dimostrazione contro
il di lei canto. Ne ha certo il sentore, perché altrimenti
negherebbe così appassionatamente che noi la stiamo ad ascoltare?
Eppure al di là di tal sentore continua ogni volta a cantare di
nuovo, e squittisce tuttavia.
Però
sarebbe pur sempre una consolazione per lei: stiamo ad ascoltarla
davvero, per dir così, probabilmente in modo analogo a come si sta
ad ascoltare un artista del canto; lei perviene a risultati cui
inutilmente presso di noi aspirerebbe un artista del canto, e che
solo ai suoi insufficienti mezzi sono per l'appunto consentiti. Ciò
sta certo in relazione principalmente con il modo di vivere del
nostro popolo.
In
esso è ignota ogni giovinezza, a malapena si conosce un'infanzia
brevissima. E' vero, con regolarità si rivendica la possibilità di
garantire ai bambini una libertà speciale, una cura speciale, il
diritto ad un po' di spensieratezza, ad un po' di sgambettamento a
vuoto, ad un po' di gioco, è un diritto che si potrebbe riconoscere
dandogli una realizzazione; si manifestano tali rivendicazioni e
quasi tutti le approvano, ma non v'è nulla che nella realtà della
nostra vita potrebbe esser meno concesso, si approvano le
rivendicazioni, si fanno tentativi in tal senso, ma presto tutto di
nuovo ricade dalla parte dei vecchi. La nostra vita purtroppo è
siffatta che un bambino, non appena corre un poco e può discernere
l'ambiente, deve occuparsi di sé proprio come un adulto, i territori
nei quali per convenienza dobbiamo vivere dispersi sono troppo vasti,
troppi i nostri nemici che dappertutto ci creano pericoli
imprevedibili – non possiamo tenere i bambini lontani dalla lotta
per l'esistenza, se lo facessimo ciò vorrebbe dire la loro fine
precoce. A queste tristi ragioni facilmente se ne aggiunge una più
importante: la fecondità della nostra stirpe. Una generazione – e
ciascuna è numericamente grande – incalza l'altra, i bambini non
hanno il tempo di essere bambini. Presso gli altri popoli i bambini
possono essere curati scrupolosamente, là si possono edificare
scuole per loro, quotidianamente possono uscirne, sono il futuro del
popolo, loro, ma continuando a sbucarne senza darsi il cambio con
altri per parecchio tempo, giorno dopo giorno. Noi non abbiamo alcuna
scuola, tuttavia dal nostro popolo escono a brevissimi intervalli le
incalcolabili greggi dei nostri bambini felicemente fischiando o
sibilando fino a quando ancora non sanno squittire, ruzzolando o
seguitando a rotolare in virtù del loro peso fino a quando non sanno
ancora correre, portando via con sé ogni cosa con la loro massa,
goffamente, fino a quando ancora non sanno vedere, i nostri bambini!
E non, come in quelle scuole, sempre gli stessi, no, ancor sempre e
sempre nuovi, senza fine, senza interruzione, non appena sbuca un
bambino non è più un bambino, ma già dietro a lui spingono nuovi
musi di bambino indistinguibili nella loro frettolosa moltitudine,
rosei e felici.
Per
quanto ciò possa essere bello ed altri a ragione possano
invidiarlo, però noi non possiamo dare ai nostri bambini un'infanzia
autentica. Da ciò certi effetti, come una certa inesausta ed
inestirpata fanciullaggine che scorre nel nostro popolo; in deciso
contrasto con quel che abbiamo di meglio, con la praticità ed
esattezza della comprensione, talvolta noi agiamo del tutto da
stolti, in altri termini quasi come agiscono i bambini, in modo
assurdo, dissipatorio, grandioso, spensierato, e tutto ciò spesso
per amore di una piccola burla. E se la nostra gioia, com'è
naturale, non può continuare ad aver tutta la forza di quella
infantile, qualcosa certo ne sopravvive. Di tal fanciullaggine del
nostro popolo Josefine approfitta da sempre.
Il
nostro popolo tuttavia non è solo infantile, è per dir così anche
precocemente vecchio, infanzia e vecchiaia si presentano presso di
noi in modo diverso che presso altri. Non abbiamo giovinezza alcuna,
siamo come adulti, e lo siamo troppo a lungo, una certa fiacchezza e
una certa disperazione solca profondamente lo spirito del nostro
popolo d'altra parte in genere tanto tenace e dotato in fatto di
speranza. Anche la nostra non musicalità è davvero in relazione con
questo; siamo troppo vecchi per la musica, essa eccita, slancia, ciò
non si accorda con la nostra gravità, stanchi le opponiamo un
diniego; in merito allo squittire abbiamo operato una ritrattazione;
un poco di squittire di tanto in tanto, questa è la cosa giusta per
noi. Chissà se tra noi non ci sono talenti musicali; ma se ci
fossero, il generale carattere etnico dovrebbe assoggettarli in vista
della sua evoluzione. Al contrario Josefine a suo piacimento può
squittire o cantare, o come vuol chiamarlo lei, questo non ci
disturba, ci è conforme, possiamo tollerarlo bene; se dovesse
esserci, dentro, qualcosa di musicale, ciò è ridotto alla massima
nullità possibile; si difende una certa tradizione musicale, ma
senza che questo ci opprima minimamente.
Josefine
però a questo popolo siffattamente disposto reca assai di più.
Durante i suoi concerti, specie in tempi gravi, s'interessano ancora
alla cantante in quanto tale soltanto i giovanissimi, che, soli,
stanno a guardare come lei arriccia le labbra, come soffia via l'aria
tra i graziosi denti incisivi, ammirati ai suoni che lei insieme
emette e spegne, spingendosi con tal venir meno ad un nuovo effetto
che le viene sempre più astruso, tuttavia la massa vera e propria
s'è ritirata in se stessa – ciò è evidente. Durante le scarse
pause tra una battaglia e l'altra il popolo qui sogna, è come se al
singolo si sciogliessero le membra, come se l'angustiato potesse una
buona volta a piacer suo allungarsi e stirarsi nel gran letto caldo
del popolo. E in tali sogni trilla qua e là lo squittire di
Josefine; lo chiama spumeggiante, lei, noi traballante; comunque qui
è al suo posto come da nessun altra parte, come musica quasi mai
trova il suo momento giusto. Nello squittire c'è qualcosa della
misera breve infanzia, qualcosa della perduta e mai riacquistabile
felicità, ma anche qualcosa della presente vita operosa, del suo po'
di incomprensibile eppur sussistente né troppo soffocabile allegria.
E tutto ciò non è espresso davvero con grandi suoni, ma lievi,
bisbiglianti, confidenziali, talvolta un poco rauchi. E' uno
squittire, certo. Perché no, poi? Lo squittire è la lingua del
nostro popolo, molti per tutta la vita non fanno altro che squittire
e non lo sanno, ma qui lo squittire è affrancato dalle catene della
vita lavorativa, e libera per un breve tempo anche noi. Certo non
vorremmo fare a meno di queste esibizioni.
Da
qui a quanto asserisce Josefine, che nei momenti gravi ci darebbe
nuove forze eccetera eccetera, ce ne corre. Secondo la gente comune,
ma non secondo gli zelatori di Josefine. “Come sennò” - dicono
loro, davvero con disinvolta sfacciataggine - “si potrebbe spiegare
altrimenti, specie nell'urgenza di un immediato pericolo, il grande
afflusso che già alcune volte ha impedito addirittura la sufficiente
tempestività della difesa precisamente da tal pericolo?” Ora,
questo è giusto, purtroppo, ma non è un titolo di merito di
Josefine, specie se si aggiunge che, quando le adunate improvvisate
venivano disperse dal nemico e alcuni di noi dovevano lasciarci la
vita, Josefine, di tutto quanto responsabile, che anzi aveva forse
attirato il nemico con il suo squittire, aveva per sé i più sicuri
posticini ed era la prima a sparire zitta e svelta sotto la
protezione dei suoi seguaci. Ma in fondo tutti lo sanno, questo, ciò
non di meno si affrettano di nuovo quando Josefine, a sua
discrezione, alla prima occasione una volta o l'altra si alza e
canta. Dal che si potrebbe concludere che Josefine sta quasi al di
fuori della legge, che ha il permesso di fare quel che vuole, anche
quando il fatto mette in pericolo la collettività, e che tutto le
viene perdonato. Se fosse così, allora anche le pretese di Josefine
sarebbero comprensibili, anzi, in tale libertà che le darebbe il
popolo, in questo straordinario omaggio mai di norma accordato ad
altri, e che di fatto indebolisce le leggi, potrebbe in certo qual
modo vedersi un'ammissione di questo, che il popolo, come lei
asserisce, non la comprende, osserva impotente e stupefatto l'arte
sua, non se ne sente degno, e cerca di compensare questo suo torto ai
danni di Josefine per mezzo di una gratificazione chiaramente
estrema, e, così come l'arte sua esorbita dalla sua capienza, anche
la sua persona ed i suoi desideri esorbitano dal suo potere di
comando. Orbene, questo non è assolutamente vero, forse il popolo
capitola troppo alla svelta davanti a Josefine, ma non in modo
incondizionato, così come non capitola incondizionatamente davanti
ad alcuno.
Già
da molto tempo, forse dall'inizio della sua carriera artistica,
Josefine lotta per essere affrancata da qualsiasi lavoro in
considerazione del suo canto; perché le si possano togliere le
preoccupazioni in merito al pane quotidiano ed a tutto quello che è
di norma connesso con la nostra lotta per l'esistenza, probabilmente
scaricandole sul popolo come collettività. Un appassionato incauto –
ve n'è di tali – potrebbe già soltanto dalla singolarità di tali
pretese, dalla disposizione d'animo capace di escogitare tali
pretese, trarre conclusioni in merito alla sua intrinseca
giustificazione. Ma il nostro popolo trae conclusioni diverse, e
serenamente disapprova le pretese. Non si stanca neanche molto a
confutarne i motivi. Per esempio, Josefine sa a questo riguardo che
la fatica lavorativa danneggia la voce, certo essa è modesta in
confronto a quella canora, che però tal fatica la priva della
possibilità, una volta cantato, di riposare a sufficienza e di
riprendersi in vista del successivo canto, inoltre lei è costretta a
dare proprio tutto, ma, nonostante tal costrizione, in queste
circostanze giammai può raggiungere il massimo della sua
prestazione. Il popolo sta ad ascoltarla, ma ignora quanto sopra.
Questo popolo che tanto facilmente è troppo commosso, talvolta non
si commuove affatto. Il rifiuto talvolta è così duro che anche
Josefine se ne sorprende, sembra sottomettersi; si affatica come le
si addice, canta bene come sa, ma tutto questo solo per poco, poi
riprende la lotta con nuove energie – che sembra avere illimitate.
Ora,
è certamente chiaro che Josefine non aspira davvero a quel che alla
lettera richiede. E' ragionevole, non rifugge il lavoro perché
sicuramente il rifiuto del lavoro specie tra noi è ignoto, lei non
vivrebbe diversamente da prima una volta che le sue pretese fossero
soddisfatte, il lavoro non sarebbe affatto d'intralcio al suo canto,
ed il canto del resto non diverrebbe neanche più bello – ciò cui
aspira è dunque il chiaro, netto, duraturo riconoscimento fin qui
conosciuto della superiorità della sua arte su ogni altra. Mentre
tuttavia tutto il resto le pare raggiungibile, questo le si nega con
caparbietà. Forse avrebbe dovuto condurre l'assalto altrove fin da
principio, forse adesso lei stessa si accorge dell'errore, ma ora non
può tornare indietro, tornare indietro significa non essere fedele a
se stessa, ora lei deve mantenere le sue pretese o cadere.
Se
avesse veramente nemici come dice, essi potrebbero assistere
soddisfatti a tale lotta senza muovere un dito. Ma lei non ha alcun
nemico, ed anche se qua e là certuni hanno obbiezioni nei suoi
confronti, questa lotta non piace a nessuno. Non già perché in
questo caso il popolo si mostra nel suo atteggiamento di giudicante
freddezza, come presso di noi si vede solo assai di rado. Ed anche se
in questo caso può approvare tale atteggiamento, la semplice
obbiezione che una volta potrebbe agire in modo simile esclude ogni
gioia. Non si tratta, nel caso del rifiuto come nel caso delle
pretese, della stessa cosa, ma del fatto che il popolo possa
ritirarsi in modo tanto impenetrabile nei confronti di un compagno,
tanto più impenetrabile di quanto altrimenti provveda con umiltà
proprio a tal compagno in modo paterno e più che paterno.
Se
al posto del popolo, qui, ci fosse un singolo, si potrebbe credere
che quest'uomo abbia continuato a cedere, riguardo a Josefine, alle
sua perenni richieste, e che finalmente ponga termine
all'arrendevolezza; che abbia ceduto in modo eccezionale, fiducioso
che la concessione comunque troverà il suo preciso limite; anzi, che
abbia concesso più del necessario soltanto per affrettare la
faccenda, per viziare Josefine e suscitarne sempre nuovi desideri,
fino al momento in cui lei non accampi davvero l'ultima delle
pretese; che abbia dato luogo ora al rifiuto definitivo, esatto,
netto, proprio perché lungamente preparato. Ora, di certo il popolo
non si comporta così, non ha bisogno di simili astuzie, inoltre il
suo culto per Josefine è leale e provato, e le pretese di Josefine
sono d'altronde tanto grandi che qualsiasi bambino avrebbe potuto
pronosticarne l'esito; ciò nonostante può essere che alla
concezione che Josefine ha della questione concorrano anche simili
congetture e che aggiungano amarezza al dolore del rifiuto.
Tuttavia
lei può fare anche simili congetture, non si fa spaventare dalla
lotta. Negli ultimi tempi essa addirittura si acutizza; fin qui lei
l'ha condotta a parole, ora inizia ad usare altri mezzi che, a suo
avviso più efficaci, ai nostri occhi sono più pericolosi per lei.
Molti
credono che Josefine si faccia tanto insistente perché si sente
diventare vecchia, la voce rivela indebolimento, e che le sembri
perciò arrivato il momento di condurre la lotta finale per il suo
riconoscimento. Io non sono d'accordo. Josefine non sarebbe lei, se
fosse vero. Per lei non c'è alcuna vecchiaia ed alcun indebolimento
vocale. Se pretende qualcosa, non è spinta da cose esteriori, ma
invece da interna coerenza. Tende alla corona massima non perché a
un dato momento essa pende un poco più in giù, ma perché si trova
al massimo dell'altezza; fosse in suo potere, l'appenderebbe ancora
più in alto.
Questo
disdegno delle difficoltà esterne non le impedisce del resto di
adottare i mezzi più indegni. Non ha dubbi sui suoi diritti; quel
che le preme è come realizzarli; in particolare proprio i mezzi
degni devono fallire in questo mondo, come le si presenta. Forse per
questo ha spostato perfino la lotta per i suoi diritti dal terreno
del canto ad un altro che le garba poco. I suoi sostenitori hanno
diffuso sue asserzioni secondo cui lei si sente assolutamente abile a
cantare in modo tale che per il popolo in tutti i suoi strati, fino
alla più nascosta opposizione, sarebbe un vero diletto, vero diletto
non secondo il popolo, che sostiene anzi di provarne da sempre, al
canto di Josefine, ma diletto secondo i desideri di Josefine. Lei
aggiunge però che, siccome non potrebbe dissimulare ciò che è
elevato né cedere alle lusinghe di ciò che è vile, l'elevato deve
restare esattamente com'è. Altro discorso è quello della lotta per
venir liberata dal lavoro, in effetti anch'essa finalizzata al canto,
ma non condotta direttamente con le armi del canto, bensì con ogni
mezzo che sia buono abbastanza allo scopo.
Così
per esempio veniva propagata la diceria che Josefine aveva
intenzione, qualora non le si cedesse, di abbreviare i suoi
gorgheggi. Io non so niente di gorgheggi, non ho mai notato nel suo
canto un qualche gorgheggio. Lei però vuole abbreviarli, non
sopprimerli per intanto, solo abbreviarli. Ha realizzato la sua
minaccia, dicono, del resto non mi sono accorto di alcuna differenza
rispetto alle esibizioni precedenti. Il popolo nell'insieme è stato
ad ascoltare come sempre, senza pronunciarsi in merito ai gorgheggi,
né è mutato il suo modo di trattare le pretese di Josefine. Non si
nega però che Josefine possieda talvolta della vera leggiadria,
tanto nella sua figura quanto nei suoi pensieri. Così, per esempio,
dopo ogni sua esibizione lei è andata spiegando, quasi che il taglio
dei gorgheggi fosse stato troppo duro e immediato per il popolo, che
nel futuro lei canterà di nuovo gorgheggiando in pieno. Dopo il
concerto successivo tuttavia ha cambiato idea un'altra volta, con i
gorgheggi pieni era finita inappellabilmente, e, prima d'una presa di
posizione popolare a lei favorevole, non sarebbero più stati
eseguiti. Orbene, il popolo sta ad ascoltare senza abbassarsi a tutto
questo spiegare, decidere e cambiar decisione, come un adulto assorto
nei suoi pensieri ascolta le chiacchiere di un bambino,
fondamentalmente ben disposto, ma inaccessibile.
Josefine
non cede, però. Così di recente affermava di essersi fatta male a
un piede sul lavoro, ciò che durante il canto le rendeva gravosa la
posizione eretta; potendo d'altra parte cantare solo stando in piedi,
era costretta addirittura ad abbreviare le sue canzoni. Nonostante
che zoppichi e si faccia sostenere dai suoi seguaci, nessuno crede ad
una ferita vera. Anche ammettendo la speciale sensibilità del suo
corpicino, noi però siamo un popolo lavoratore, ed anche lei fa
parte del popolo; se per ogni escoriazione dovessimo zoppicare,
nessuno potrebbe smetterla. Lei vuole farsi portare come fosse
paralitica, tuttavia, preferisce farsi vedere in questo stato
miserevole, il popolo ascolta riconoscente ed affascinato il suo
canto, ma non si preoccupa del fatto che sia abbreviato.
Siccome
non può continuare a zoppicare, escogita qualcos'altro, prende a
pretesto la stanchezza, il malumore, la debolezza. Non bastavano i
concerti, ora abbiamo anche il teatro. Vediamo alle sue spalle i suoi
seguaci quanto la pregano e scongiurano di cantare. Ne avrebbe
voglia, ma non può. La si conforta, adula, quasi la si trascina fino
al luogo prescelto perché lei canti. Infine cede inspiegabilmente in
lacrime, ma quando intende cantare visibilmente con la volontà che
le resta, spossata, con le braccia non levate come al solito, ma
penzolanti dal corpo senza vita, per cui si ricava l'impressione che
siano un po' troppo corte – quando si accinge a cantare, dunque,
poiché ancora non sta bene accenna il fatto con una sdegnata scossa
del capo, e crolla davanti ai nostri occhi. Del resto in seguito
balza in piedi e canta, secondo me, non molto diversamente dal
solito, forse avendo orecchio alle più fini sfumature si coglie una
stizza un po' fuori del comune, che tuttavia torna utile alla cosa. E
alla fine lei è perfino meno stanca di poco prima, a passi sicuri,
ammesso che il suo trotterellare sgusciante possa esser definito
così, si allontana respingendo ogni aiuto dei sostenitori e
scrutando con freddezza la folla che la scansa reverente.
Così
ultimamente, ma l'ultimissima è che lei, quando si aspettava che
cantasse, era scomparsa. Non solo i seguaci la cercano, in molti si
mettono al servizio di tal ricerca, è inutile; Josefine è sparita,
non vuol cantare, non vuole neppure esser pregata, stavolta ci ha
proprio abbandonato.
Strano
come faccia male i suoi conti, lei, la furba, così male che si
dovrebbe credere che non li faccia proprio, che invece sia spinta dal
suo destino, che nel nostro mondo può essere soltanto un destino
assai triste. Sottraendosi al canto lei distrugge anche il potere che
ha acquisito sui cuori. Come poteva fare solo lei, perché questi
cuori li conosce ben poco. Si cela e non canta, ma il popolo,
tranquillo, senza visibile delusione, altero, massa autoconsistente
che all'apparenza, per quanto l'apparenza dica il contrario, può
solo dare, mai ricevere doni, nemmeno da Josefine, questo popolo
prosegue per la sua strada.
Per
Josefine però si mette male. Presto verrà il momento in cui
risuonerà il suo ultimo squittire, e finirà. Lei è un breve
episodio della storia infinita del nostro popolo, ed il popolo
supererà la perdita. Non sarà facile, come saranno possibili le
adunate totalmente mute? In effetti, non lo erano anche con Josefine?
Il suo effettivo squittire era più alto e vivo del ricordo che se ne
ha? Da viva, era più di un puro e semplice ricordo? Nella sua
saggezza il popolo non ha, invece, posto il canto di Josefine tanto
in alto proprio perché esso nel suo genere era imperdibile?
Forse
dunque non ne sentiremo molto la mancanza, ma Josefine, liberata
dalle tribolazioni terrene che tuttavia, secondo lei, sono preparate
per gli eletti, felicemente si perderà nella folla innumerevole
degli eroi del nostro popolo e presto, poiché noi non tramandiamo
alcuna storia, sarà dimenticata, come tutti i suoi fratelli, entro
una più grande liberazione.
venerdì 28 marzo 2014
Kafka era "una brava persona"
In questa fine di marzo 2014 su Repubblica abbiamo letto un testo del giurista Cassese in merito a "Il processo", tradotto in italiano tra gli altri da Primo Levi (Einaudi). Questo romanzo, insolitamente compiuto, può ben attirare l'attenzione specialistica di un giurista, in quanto racconta di un imputato che si sbatte invano tra tribunale ed avvocati senza capire di che cosa è accusato. La competenza specifica è utile, sempre, ma deve essere sostenuta dalla competenza aspecifica, altrimenti c'è il rischio di non vedere il panorama mentre si osserva il singolo villaggio.
Il testo di Cassese è tagliato, qua e là, quindi non sappiamo se nell'originale il passaggio dalla dimensione narrativa (il romanzo) a quella biografica (lettere, diari, informazioni sulla vita professionale di Kafka) è più sapiente di quanto ci appare nella versione diffusa da Repubblica.
Il Cassese sostiene sulla base delle accennate informazioni che Kafka era "una brava persona" ed aveva a cuore i poveri, eccetera. Quindi non meritava né il processo né la condanna.
Siamo lieti di apprendere che Kafka era "una brava persona", ma di brave persone in fondo ce ne sono un certo numero, mentre di persone brave a scrivere "Il processo" ce n'è una sola.
Mai mescolare. Tuttavia anche il grande Elias Canetti cade in questo errore all'incirca imperdonabile - con la costruzione che propone ne "L'altro processo": essere quello del romanzo ombra del "processo" patito da Franz a causa della rottura del fidanzamento con Felice Bauer.
Il testo di Cassese è tagliato, qua e là, quindi non sappiamo se nell'originale il passaggio dalla dimensione narrativa (il romanzo) a quella biografica (lettere, diari, informazioni sulla vita professionale di Kafka) è più sapiente di quanto ci appare nella versione diffusa da Repubblica.
Il Cassese sostiene sulla base delle accennate informazioni che Kafka era "una brava persona" ed aveva a cuore i poveri, eccetera. Quindi non meritava né il processo né la condanna.
Siamo lieti di apprendere che Kafka era "una brava persona", ma di brave persone in fondo ce ne sono un certo numero, mentre di persone brave a scrivere "Il processo" ce n'è una sola.
Mai mescolare. Tuttavia anche il grande Elias Canetti cade in questo errore all'incirca imperdonabile - con la costruzione che propone ne "L'altro processo": essere quello del romanzo ombra del "processo" patito da Franz a causa della rottura del fidanzamento con Felice Bauer.
sabato 8 febbraio 2014
Duello
Di recente in un racconto di Schnitzler * ho trovato il termine Zweikampf usato come sinonimo di Duell, ed ho pensato che il Kampf del racconto giovanile di Kafka intitolato Beschreibung eines Kampfes possa essere tradotto come segue: duello. Infatti di duello si tratta, metaforico certo, tra i due protagonisti. Vedi indietro i vari post dedicati al racconto - intitolati "Schermaglie kafkiane".
Colgo l'occasione per ringraziare i molti (oltre 23 mila) che sono capitati in questo blog certo a causa dell'immensa fama di K, al cui fuoco scaldo la mia minestra in pubblico.
*Der Sekundant.
Colgo l'occasione per ringraziare i molti (oltre 23 mila) che sono capitati in questo blog certo a causa dell'immensa fama di K, al cui fuoco scaldo la mia minestra in pubblico.
*Der Sekundant.
Iscriviti a:
Post (Atom)