Si rifletta sulla Cina di Kafka, la quale appare in diversi suoi testi, eccellentemente in "Una vecchia pagina". Si tratta di un luogo immaginario, come del resto l'America (v. "America" o meglio "Lo scomparso", tra i romanzi di K il più bello), che permette all'autore di esercitare e precisare la sua concezione filosofico-politica, ed il suo corrosivo strumento di analisi; impossibile però non essere tentati di paragonare l'impero cinese kafkiano con l'impero di cui lui, K, ebbe diretta contezza, quello austro-ungarico.
venerdì 29 luglio 2016
F.Kafka: La costruzione della muraglia cinese
La
muraglia cinese è stata terminata nel suo cantiere più
settentrionale. La costruzione fu condotta da sudest e da sudovest,
e qui ebbe luogo l'unificazione. A questo sistema di frazionamento ci
si attenne in piccolo anche nell'ambito dei due grandi eserciti di
operai, l''esercito dell'est e quello dell'ovest. Avvenne così,
vennero formati gruppi di circa venti operai i quali avevano da
erigere una frazione di muraglia della lunghezza di circa cinquecento
metri, incontro a loro un gruppo adiacente edificava poi una muraglia
della stessa lunghezza. Dopo però che l'unificazione era effettuata,
la costruzione, al termine di questi circa mille metri, non veniva
proseguita, anzi, i gruppi di lavoro erano inviati in tutt'altre
regioni a edificare la muraglia. Naturalmente risultarono in questo
modo molte grosse lacune, che soltanto poco a poco, lentamente,
vennero colmate, parecchie addirittura soltanto dopo che si era
proclamata il completamento della costruzione della muraglia. Anzi,
ci devono essere lacune che proprio non sono state chiuse, secondo
molti esse sono molto più estese delle frazioni costruite,
un'affermazione del resto che appartiene forse solo alle numerose
leggende che sono sorte intorno alla costruzione e che non sono
verificabili da parte delle singole persone, almeno, non con i loro
occhi e con il loro metro, in conseguenza dell'estensione della
costruzione. Ora, si crederebbe a priori che sarebbe stato in ogni
senso più vantaggioso costruire in modo continuo o almeno in modo
continuo entro le due frazioni principali. La muraglia fu sì
pensata, come viene in genere divulgato, ed è noto, con scopo di
difesa dai popoli del nord. Come poteva tuttavia difendere, una
muraglia discontinua? Di più, una tale muraglia poteva non soltanto
non difendere, la stessa costruzione è costantemente in pericolo.
Queste frazioni di muraglia abbandonate possono anzi sempre di nuovo
esser distrutte con facilità dai nomadi, tanto più che costoro,
una volta messi in stato di angoscia dalla costruzione della
muraglia, ad una velocità misteriosa, come cavallette, cambiavano
d'insediamento, e per questa ragione forse possedevano una visione
d'insieme dell'avanzamento della costruzione migliore di quella che
avevamo noi stessi costruttori. Ciò nonostante la costruzione non
poteva certo esser condotta altrimenti che come è avvenuto. Per
comprendere questo si deve considerare quanto segue: la muraglia
doveva divenire una difesa per i secoli, la costruzione
accuratissima, l'impiego della
sapienza costruttiva di ogni popolo e tempo conosciuti, il durevole
senso della personale responsabilità dei costruttori erano perciò
presupposti non aggirabili dell'opera. Per i lavori minori potevano
dunque certamente venir impiegati ignari operai giornalieri del
popolo, uomini, donne, ragazzini, chi si offriva per una buona paga,
ma già per istruire quattro operai giornalieri era necessario un
uomo più intelligente, istruito nel ramo edilizio, un uomo in grado
di comprendere con tutto il cuore ciò che qui era in questione. E
tanto più era elevato il grado d'istruzione quanto più grandi le
esigenze, naturalmente. Uomini del genere erano effettivamente a
disposizione, anche se non erano quella massa di cui questa
costruzione avrebbe avuto la necessità, comunque erano un gran
numero. Non si era iniziata l'opera in modo sconsiderato. Cinquanta
anni prima dell'inizio della costruzione nell'intera Cina, che doveva
essere circondata dalla muraglia, si erano dati lumi in merito alla
più indispensabile scienza edilizia, con speciale riferimento al
mestiere di costruire muri, ed a tutto il resto che fosse connesso a
tal mestiere si era fatta solo menzione. Mi ricordo ancora benissimo
come noi bambini, appena in grado di stare in piedi, ci trovavamo nel
giardinetto del nostro maestro e dovevamo costruire una sorta di muro
di ciottoli, e come il maestro si tirava su il soprabito e gli
correva addosso naturalmente buttandolo all'aria, ed a causa della
sua fragilità ci rimproverava talmente che noi strillando correvamo
dai nostri genitori da ogni parte. Un evento minimo, ma indicativo
dello spirito del tempo. Ebbi la fortuna che quando a venti anni
avevo fatto l'ultimo esame della scuola inferiore cominciava appunto
la costruzione della muraglia. Dico fortuna, infatti molti che
avevano conseguito prima il massimo grado dell'istruzione loro
accessibile, a nulla seppero per anni dare il via con il loro sapere,
con in testa i più grandiosi piani edilizi si trascinarono
inutilmente in giro e si persero nella massa. Invece quelli che,
anche con il rango più basso, pervennero alla costruzione infine
come capomastri, ne erano effettivamente degni, si trattava di uomini
che molto avevano meditato sulla costruzione né cessavano di
meditarci sopra, uomini che con la prima pietra fatta da loro
piantare nel terreno si sentivano per così dire crescere insieme
alla costruzione. Naturalmente uomini del genere erano spinti oltre
che dalla brama di effettuare il lavoro più accurato, anche
dall'impazienza di vedere la costruzione ergersi finalmente nella sua
completezza. Il giornaliero, spinto dal solo salario, non conosceva
tale impazienza, anche i capi di grado superiore, anzi, anche i capi
intermedi, vedevano abbastanza della vasta crescita della costruzione
per tenersi con ciò poderosamente su di morale, invece per gli
inferiori, uomini che intellettualmente si trovavano parecchio al di
sopra del loro modesto impiego, si doveva provvedere altrimenti. Per
esempio, non si poteva lasciarli in una regione montagnosa
disabitata, lungi centinaia di miglia dal loro luogo natale, per mesi
o perfino per anni, a piazzare una pietra della muraglia dopo
l'altra; l'essere senza speranza di un tale lavoro, assiduo, ma anche
non recante alla meta nel corso d'una lunga vita umana, li avrebbe
resi disperati e soprattutto inutili in rapporto all'opera. Perciò
si scelse il sistema del frazionamento della costruzione, cinquecento
metri di muraglia potevano essere ultimati all'incirca in cinque
anni, poi i capi, certo, di regola erano mortalmente esauriti,
avevano perduto ogni fiducia in sé, nella costruzione, nel mondo,
tuttavia venivano inviati lontano, mentre ancora erano nel pieno
dell'euforia dell'assodato compimento di cento metri di muraglia,
vedevano ergersi qua e là nel corso del viaggio parti di muraglia
pronte, pervenivano agli accampamenti dei più alti capi che facevano
loro dono di medaglie, udivano l'esultare dei nuovi eserciti operai
sgorganti dalle profondità della regione, vedevano abbattere foreste
destinate a realizzare impalcature per la muraglia, vedevano
trasformare a colpi di piccone montagne in pietre per la muraglia,
udivano nei luoghi sacri canti dei religiosi invocare il
completamento della muraglia, tutto questo placava la loro
impazienza, la quieta vita del luogo natale, dove essi passavano
qualche tempo, li rendeva forti, la considerazione di cui godevano
tutti coloro che partecipavano alla costruzione, l'umiltà devota con
cui venivano ascoltati i loro resoconti, la fede che il semplice
tranquillo cittadino riponeva nel venturo completamento della
muraglia, tutto questo tendeva le corde dell'anima, essi come
eternamente speranzosi bambini prendevano congedo dal luogo natale,
di nuovo il diletto di lavorare nell'opera del popolo diveniva
invincibile, essi ripartivano da casa prima del necessario, mezzo
villaggio li accompagnava per lunghi tratti, in ogni via saluti,
bandierine, stendardi, mai avevano visto com'era grande e ricca e
bella e degna d'amore la loro terra, ogni suo abitante era un
fratello per il quale si costruiva una muraglia difensiva e che di
questo ringraziava con tutto ciò che lui era ed aveva, unità!
Unità! Petto a petto, una ridda di popolo, sangue non
più rinchiuso nella grettezza della circolazione corporea, ma invece
dolce rombante attraverso l'infinita Cina, eppur capace di far
ritorno.
Con
questo dunque il sistema della costruzione in parti diviene
comprensibile, tuttavia esso ebbe un ben altro motivo. Non è affatto
singolare che io mi soffermi tanto a lungo su tale questione, si
tratta di una questione essenziale in merito alla costruzione della
muraglia, per quanto appaia in un primo momento irrilevante. Se
voglio fornire il perimetro delle idee e le esperienze di quei tempi
e renderli comprensibili, non posso che approfondire proprio tale
questione.
Intanto
bisogna però dirsi che allora sono state compiute imprese che stanno
di poco dietro la costruzione della torre di Babele, quanto al
compiacere Dio certamente, almeno secondo umana valutazione,
rappresentanti proprio il contrario di quella costruzione. Lo ricordo
poiché all'inizio della costruzione un erudito ha scritto un libro
nel quale assai correttamente costruiva questo confronto. Vi tentava
la dimostrazione del fatto che la costruzione della torre di Babele
in nessun modo ha fallito la meta per le cause generalmente
considerate, o che, almeno, tra queste cause conosciute non si
trovano le principali. Le sue dimostrazioni consistevano non solo in
scritti e relazioni, ma invece egli pretendeva di aver eseguito
indagini sul posto e tramite queste di aver trovato che la
costruzione doveva naufragare, e naufragò, per la debolezza della
fondazione. Sotto questo aspetto il nostro tempo fu certamente molto
superiore ad ogni tempo passato, quasi ogni contemporaneo era
istruito e specializzato nell'edilizia e ferrato nella questione del
gettare fondazioni. Ma non a questo mirava affatto l'erudito,
piuttosto affermava che solo la grande muraglia per la prima volta
della storia umana provvederà una fondazione sicura per una nuova
torre di Babele. Dunque prima la muraglia e poi la torre. Il libro
allora fu in mano a tutti, ma io confesso che ancora oggi non afferro
bene come l'autore s'immaginava la costruzione di questa torre. La
muraglia, che non era affatto un cerchio, ma invece formava una sorta
di quartiere - o un semicerchio, doveva avere il ruolo della
fondazione di una torre? Ciò poteva essere però pensato solo da un
punto di vista spirituale. Tuttavia a che scopo poi la muraglia, che
pure era qualcosa di reale, risultato della fatica e della vita di
centinaia di migliaia? E a che scopo nell'opera erano indicati i
progetti della torre, certo progetti oscuri, e fatte proposte fin nel
dettaglio come se la forza del popolo si dovesse conformare alla nuova
creazione? C'era molta confusione di teste, allora - questo libro è
solo un esempio - forse proprio perché così in tanti quanto era
possibile si tentava di convergere su una meta. L'essere umano,
fondamentalmente sconsiderato, volatile come il pulviscolo, non
tollera affatto di essere imprigionato, s'imprigiona da sé,
comincerà presto follemente a scuotere i vincoli e la schiavitù
della muraglia, ed anche a disperdersi in tutte le regioni del
cielo.
E'
possibile che anche queste riflessioni addirittura contrarie alla
costruzione della muraglia non siano rimaste prive di considerazione
da parte della direzione nello stabilire la costruzione in parti. Noi
- qui io parlo certo a nome di molti - abbiamo in verità, intanto
che compitavamo le disposizioni dell'alta dirigenza, subito impariamo
a conoscere noi stessi ed abbiamo trovato che, senza la dirigenza, né
la nostra erudizione scolastica né la nostra intelligenza umana
sarebbero bastate anche soltanto per il modesto impiego che noi entro
il grande insieme avevamo. Nella stanza della dirigenza - dove fosse
e chi vi sedeva nessuno cui ho domandato lo sa o lo seppe - in questa
stanza roteavano da una parte certamente tutti i pensieri e desideri
umani e dall'altra ogni meta umana ed ogni suo raggiungimento,
attraverso la finestra però, sulle mani della dirigenza intente al
disegno dei progetti, cadeva il riverbero dei mondi divini. E perciò
all'osservatore onesto non vuol tornare che la dirigenza, anche se
l'avesse seriamente voluto, non avrebbe potute superare quelle
difficoltà che si opponevano ad una costruzione continua della
muraglia. Ne consegue dunque solo che la dirigenza progettò la
costruzione parziale. Ma essa era soltanto un pretesto, e inadeguato.
Ne consegue che la dirigenza voleva qualcosa di inadeguato.
Conseguenza bizzarra, certo. Eppure dotata di giustificazione, da un
altro lato. Oggi se ne può forse parlare senza pericolo. Ai tempi
era una massima segreta di molti e perfino dei migliori: Cerca con
tutte le tue forze di comprendere le disposizioni della dirigenza, ma
solo fino a un limite stabilito, poi smetti di pensarci. Massima
molto ragionevole, che del resto trovava un'amplificazione in un
paragone più tardi spesso ripetuto: Smetti di pensarci ancora, non
perché potrebbe danneggiarti, non è neppure del tutto certo che ti
danneggerà. In genere qui non si può parlare né di danni né di
non danni. Ti succederà come al fiume in primavera. Sale, aumenta di
portata, più forte alimenta la regione lungo le sue sponde, conserva
la sua natura più oltre fin dentro il mare,
e benvenuto diviene come il mare. Ripensa alle disposizioni della
dirigenza fino a questo punto. Poi però il fiume supera la sua
sponda, perde forma e connotati, rallenta la sua corsa, prova senza
volere a formar entro la regione un piccolo mare, danneggia i terreni
e tuttavia non riesce a durare in questo allargamento, ma rifluisce
entro le sue sponde, anzi s'inaridisce addirittura, miseramente,
nelle stagioni calde dell'anno che seguono. Non ripensare alle
disposizioni della dirigenza fino a questo punto.
Ora,
questo paragone può essere stato eccezionalmente appropriato durante
la costruzione della muraglia, eppure agli effetti della mia
trattazione attuale ha un valore a dir poco limitato. La mia indagine
è unicamente storica, dalle nuvole temporalesche da tempo trascorse
via più nessun lampo fende l'aria, ed io sono in grado per questo di
andare in cerca d'una spiegazione della costruzione della muraglia
che vada oltre ciò di cui ci si accontentò ai tempi. I limiti che
mi pone la mia capacità intellettuale sono certo abbastanza stretti,
ma il campo che qui sarebbe da percorrere è di quelli illimitati.
La
grande muraglia, contro chi doveva difendere? Contro i popoli del
nord. Io sono originario della Cina sudorientale. Nessun popolo del
nord là può minacciarci. Leggiamo di loro nei libri degli anziani,
le spietatezze cui loro in conformità alla loro natura aspirano ci
fanno sospirare nella tranquillità del nostro portico, nelle
raffigurazioni fedeli alla verità dell'artista noi vediamo questi
volti della maledizione, le fauci spalancate, le mascelle guarnite di
denti appuntiti, gli occhi sbarrati che già sembrano vagheggiare la
preda che la bocca schiaccerà e lacererà. Se i bambini fanno i
cattivi mostriamo loro queste figure e subito ci volano al colla
piangenti. Ma di questi settentrionali non sappiamo di più, non li
abbiamo visti, e, se restiamo nel nostro villaggio, mai li vedremo
anche se ci corrono addosso sui loro cavalli selvaggi.; troppo grande
è il paese e non glielo permette, essi si ostineranno a vuoto.
Perché
dunque, dal momento che è così, lasciamo il luogo natale, il fiume
e i ponti, la madre e il padre, la sposa piangente, i bambini
bisognosi di insegnamento e, invece di dirigerci alla scuola,
prendiamo per la lontana città ed i nostri pensieri si trovano
ancora oltre, presso la muraglia, nel nord, perché? Domandalo alla
dirigenza. Ci conosce. Essa sa i colossali affanni da noi ruminati,
conosce il nostro misero
mestiere,
ci vede tutti seduti insieme nei bassi tuguri, e le garba la
preghiera che il padre di famiglia dice a sera nella cerchia dei
suoi, o le dispiace. E se posso permettermi un simile pensiero sulla
dirigenza, devo dire che secondo la mia opinione la dirigenza c'era
già prima, non si formò come all'incirca alti mandarini suscitati
per mezzo di un bel sogno mattutino, che in gran fretta convocano una
seduta, in gran fretta la chiudono e già a sera fanno saltar fuori
dal letto la popolazione per rendere esecutive le decisioni, fosse
anche solo per allestire una luminaria in onore di un dio che ieri si
è mostrato benevolo ai signori, per bastonarli domani in un angolo
buio non appena i lampioni siano spenti. No, la dirigenza c'era già
da tempo immemorabile e così la deliberazione di costruire la
muraglia.
Io
mi sono occupato in modo esclusivo di storia popolare comparativa già
in parte durante la costruzione della muraglia e da allora fino ad
oggi - vi sono certe questioni al nervo delle quali per così dire
ci si avvicina soltanto con tal mezzo - ed ho per tale ragione
trovato che noi cinesi siamo dotati di certe istituzioni popolari e
statali di trasparenza straordinaria, invece altre sono
straordinariamente opachi. Indagare i motivi in particolare di
quest'ultimo fenomeno mi ha sempre affascinato, ancora mi affascina,
e tale questione riguarda assolutamente anche la costruzione della
muraglia. Ora, il governo imperiale fa senz'altro parte delle nostre
istituzioni più opache. Naturalmente a Pechino esiste nell'ambiente
di corte, se è per questo, una certa trasparenza, benché anch'essa
sia più apparente che effettiva; anche gli insegnanti di diritto
pubblico e di storia nelle scuole superiori asseriscono di essere
correttamente istruiti su queste cose e di poter riproporre agli
studenti tale conoscenza; e più si scende nelle scuole inferiori più
vanno sfumando logicamente i dubbi in fatto di sapere specifico, e la
cultura di superficie sminuzzò da secoli assiomi elevati come
montagne in poca roba piantata in terra che certo non ha perduto
nulla in fatto di verità eterna, tuttavia nel fumo e nella nebbia
rimane eternamente ignota.
Proprio
in merito al governo imperiale tuttavia, secondo la mia opinione, si
dovrebbe per prima cosa porre domande al popolo, dato che il governo
imperiale lì ha i suoi puntelli ultimi. Qui sono in grado, a dire il
vero, di parlare ancora solo del mio luogo natale. A parte le
divinità campestri cui sono dedicate tutto l'anno in modo
vario e bello funzioni religiose, tutti i nostri pensieri erano per
l'imperatore. Ma non per l'imperatore in carica, o meglio sarebbe
valso anche per lui, se lo avessimo conosciuto o ne avessimo saputo
qualcosa di preciso. Ci sforzavamo senza dubbio - unica curiosità
che ci pervadeva - anche di apprendere un qualcosa dell'indole.
Tuttavia - suona così strano - era a mala pena possibile apprendere
qualcosa, non dal pellegrino che pure percorre molto terreno, non nei
villaggi vicini, non in quelli distanti, non dalle imbarcazioni che
pure transitano non solo sul nostro fiumicello ma anche i fiumi
sacri. Si udiva in effetti molto, ma non si riusciva a ricavare
niente dai molti. Tanto grande è il nostro paese, non c'è favola
che ne raggiunga la grandezza, il cielo a mala pena lo abbraccia. E
Pechino è solo un punto, e la cittadella imperiale è solo un
puntolino. L'imperatore come tale certo è grande, d'altra parte, da
qualsiasi sezione di mondo lo si guardi. L'imperatore vivente
tuttavia è una persona come noi, si adagia cioè come noi sul suo
divano, certo riccamente fatto, eppure, in definitiva, stretto e
corto. Come noi talvolta si stira e quando è molto stanco sbadiglia
con la sua bocchina delicata. Dovremmo fare da qui mille miglia verso
sud, anche se confiniamo quasi con le montagne del Tibet? A parte
ciò, tuttavia, nel caso che ciascuna notizia venisse, ed arrivasse
fino a noi, ma troppo in ritardo, sarebbe divenuta ampiamente
vecchia. Intorno all'imperatore si pigia la massa dei cortigiani,
brillante eppure oscura, il contrappeso del governo imperiale, sempre
s'ingegna di rovesciare con frecce avvelenate l'imperatore dal
piatto della bilancia. Il governo imperiale è immortale, ma il
singolo imperatore deperisce e cade, perfino intere dinastie
finiscono per cadere e cessano di respirare in un solo rantolo. Il
popolo mai verrà a conoscenza di queste battaglie dolorose, esse,
come fossero ultimi arrivati ed estranei alla città, si trovano in
fondo a stradette laterali affollate a pascersi tranquillamente delle
provviste portate con sé, mentre molto avanti, nel centro della
piazza del mercato, l'esecuzione dei loro signori procede.
C'è
una leggenda che esprime bene questa relazione. A te l’imperatore,
proprio a te, un privato, misero suddito, ombra minuscola sfuggita
nella lontananza più remota al sole imperiale, a te, dicono, ha
appena inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha sussurrato di
far inginocchiare il messaggero vicino al letto e gli ha parlato in un’orecchio; gli premeva tanto il messaggio, che se lo è fatto
ripetere di
nuovo. Con cenni del capo ha approvato la conformità del
detto. E davanti a tutti quanti i testimoni della sua morte –
abbattute tutte le pareti che erano d’ostacolo, stava la cerchia
dei grandi dell’impero sulle alte armoniose scalinate - egli ha
dato il via al messaggio. Il messo parte subito per il suo viaggio,
forte, instancabile, si fa largo nella folla ora con un braccio, ora
con l’altro, trova resistenza, mostra il petto con su il simbolo
del sole, procede con gran facilità, come nessun altro farebbe,
tuttavia la folla, i cui alloggiamenti non accennano a terminare, è
così grande. Il messaggero si aprirà svelto la strada, volando, e
presto udrai il colpo magnifico dei suoi pugni sulla tua porta. No,
invece lui incontra difficoltà stancanti, attraversa le stanze del
palazzo interno sempre più a fatica, non le oltrepassa mai, e se gli
riuscisse non avrebbe ottenuto niente, dovrebbe lottare per scendere
le scalinate, e se gli riuscisse non basterebbe, ci sarebbero i
cortili, il secondo palazzo che circonda il primo, e ancora scalinate
e cortili, e ancora un palazzo, e così via per un migliaio di anni.
Infine il messaggero cadrebbe proprio davanti alla porta esterna, ma
la cosa non potrebbe mai, mai succedere; prima, davanti a lui, si
allargherebbe la città, che è il centro del mondo, fino ai suoi
dispersi suburbi, dove nessuno può farcela, men che meno con il
messaggio di un morto. Eppure tu siedi alla finestra e lo sogni,
quando viene la sera (questa leggenda è altrove pubblicata come testo autonomo -
n.d.t.).
Esattamente
così, così senza speranza e pieno di speranza, il nostro popolo
vede l'imperatore. Ignora quale imperatore governi e ci sono dubbi
anche in merito al nome della dinastia. Nella scuola molto viene
insegnato di ciò, in ordine cronologico, ma la generale incertezza sotto
questo aspetto è così grande che anche il migliore scolaro ci cade
dentro. Nei nostri villaggi imperatori da lungo tempo defunti sono
messi sul trono e quello che ancor vive soltanto nelle cantate ha da
poco emanato notizia di una proclamazione su cui, davanti all'altare,
il sacerdote fece affidamento. Si combattono giusto ora battaglie
delle nostre storie più antiche, e con il volto infiammato dalla
passione il vicino ti precipita in casa con la novità. Le imperiali
signore, troppo nutrite sui loro cuscini di seta, allontanate dalle
nobili costumanze da astuti cortigiani, crescenti quanto all'avidità
di dominio, furiosamente cupide, allargatesi nella voluttà, è
sempre una novità che commettano il loro delitti un'altra volta; più
tempo è trascorso, più orridi risaltano tutti i colori, e con alte
grida
di
dolore capita che il villaggio venga a sapere che una imperatrice
secoli prima bevve a lunghe sorsate il sangue di suo marito.
Così
dunque il popolo procede con gli appartenenti al passato, ma mescola
tra i defunti coloro che appartengono al presente. Una volta, una
volta in una generazione, un funzionario imperiale in viaggio nella
provincia per caso viene nel nostro villaggio, in nome di chi governa
pone chissà quali questioni, esamina i registri fiscali, assiste
all'insegnamento scolastico, interpella il sacerdote in merito al
nostro modo di agire e poi riassume tutto, prima di salire nella sua
portantina, in lunghe esortazioni alla comunità convenuta, quindi su
ogni volto scorre un sorriso, l'uno guarda l'altro furtivamente, ci
si abbassa verso i bambini per non farsi osservare dal funzionario.
Come fa a parlare, si pensa, di un morto come di uno che vive, questo
imperatore è pur morto già da tanto, la dinastia è spenta, il
signor funzionario si prende gioco di noi, ma noi facciamo finta di
non accorgercene, per non oltraggiarlo. Seriamente risponderemo però
solo ai nostri signori di oggi, ogni altra cosa sarebbe colpevole. E
dentro la frettolosa portantina del funzionario sale un qualcuno che
è arbitrariamente scappato fuori, a calcare il terreno in qualità di
signore del villaggio, dall'urna di una già polverizzata eccellenza.
Qualora
si avesse intenzione di concludere da tali apparenze che noi in fondo
non abbiamo proprio nessun imperatore, non si sarebbe molto lontani
dalla verità. Devo sempre ridirlo: non c'è forse alcun popolo più
leale all'imperatore del nostro, nel sud, ma la lealtà non è troppo
vantaggiosa per l'imperatore. Certo, sulla colonnetta che si trova
alla porta del villaggio c'è il drago sacro che omaggiante soffia da
tempo immemorabile l'ardente fiato esattamente in direzione di
Pechino, ma la stessa Pechino è più estranea alla gente del
villaggio della vita ultraterrena. Davvero ci sarebbe un villaggio
dove le case sono fitte e nascondono i campi, più esteso di quanto
dalla nostra collina lo sguardo possa arrivare, e dove tra queste
case di giorno e di notte le persone passano le ore appiccicate una
all'altra? Più facile che immaginarsi una città del genere è
credere che Pechino ed il suo imperatore siano una cosa sola,
all'incirca una nuvola, quietamente sotto il sole trasformantesi nel
corso dei tempi.
Da
tali opinioni deriva per così dire una vivere libero, privo di
autocontrollo. Assolutamente non scostumato, io quasi mai mi sono
imbattuto durante i miei
viaggi
in un'integrità morale come quella del mio luogo natale.
Eppur tuttavia si tratta di un vivere che non si trova sottoposto a
leggi in atto, e che obbedisce soltanto all'ordine ed
all'ammonizione, venuti dai tempi antichi giù giù fino a noi.
Mi
guardo bene dalle generalizzazioni e non sostengo che in tutti e
diecimila villaggi della nostra provincia le cose stiano così o,
anzi, in tutte le cinquecento province della Cina. Tuttavia sulla
base forse dei molti scritti che ho letto su questo argomento, così
come sulla base delle mie proprie osservazioni, posso ben dire -
specialmente l'umanità intenta alla costruzione della muraglia dette
occasione alla persona sensibile di viaggiare attraverso i sentimenti
di quasi tutte le province - sulla base di tutto questo, forse,
posso dire che la concezione dominante riguardo all'imperatore
continua ad indicare sempre e principalmente un certa caratteristica
simile alla concezione vigente nel mio luogo natale. Ora, non ho
davvero l'intenzione di far valere questa concezione come una virtù,
al contrario. Certo in generale essa è causata dal governo, che, nel
reame più antico della terra, fino ad oggi non fu capace, oppure
compagine dopo compagine trascurò, di portare l'istituzione del
governo imperiale a una trasparenza tale che operasse fino al più
remoto confine del reame. D'altra parte anche su questo punto si
trova una debolezza immaginativa, o di fede, nel popolo, il quale non
ce la fa a trascinar via il governo imperiale dallo stato semi onirico
pechinese al suo seno di suddito, colmo di vitalità e di attualità,
che niente vuole di più che sentire una volta questo contatto ed in
esso struggersi.
Questa
concezione dunque non è davvero virtuosa. Tanto più sorprendente è
che proprio questa debolezza sembra essere uno dei più importanti
mezzi di unitarietà del nostro popolo, anzi, se è lecito spingersi
tanto oltre nell'espressione, addirittura sembra essere il terreno su
cui viviamo. Motivare qui in modo dettagliato un biasimo non
significa scuotere la nostra coscienza, ma, quel che è molto peggio,
significa scuotere le nostre gambe. E perciò non intendo andare
oltre per ora nell'indagine di questa questione.
Dunque
in questo mondo venne fuori la notizia della costruzione della
muraglia. Anch'essa tardò circa trenta anni dopo la sua
promulgazione. Era una serata estiva. Io, decenne, mi trovavo con mio
padre sulla riva del fiume. In conformità con il significato di
quest'ora spesso commentata, mi ricordo delle circostanze minime.
Mi
teneva per la mano, gli piacque fare questo fino a quando non fu
vecchio, l'altra mano occupata con la sua lunga sottilissima pipa
quasi fosse un flauto. La sua notevole barba rada e dura sporgeva in
aria, infatti nell'usar la pipa lui guardava al di sopra del fiume
verso l'alto. Tanto più in basso scese il suo codino, oggetto della
primaria paura del bambino, appena appena facendo rumore sulla seta
intessuta d'oro dell'abito del giorno festivo. In quella una barca si
fermò davanti a noi, il barcaiolo fece cenno a mio padre se poteva
scendere il pendio, anche lui gli sarebbe salito incontro. A metà
s'incontrarono, il barcaiolo sussurrò qualcosa all'orecchio di mio
padre; accostandoglisi lo abbracciò. Non capii le parole, vidi solo
come mio padre non parve credere alla notizia, il barcaiolo tentò di
confermarne la veridicità, mio padre ancora non riusciva a crederci,
il barcaiolo con la passionalità del popolo dei barcaioli per
provare la verità quasi si stracciò l'abito, mio padre si fece
silenzioso ed il barcaiolo brontolando saltò nella braca e se ne
andò via. Cogitabondo si voltò verso di me, mio padre, svuotò la
pipa e la riempì, mi accarezzò una guancia e trasse la mia testa a
sé. Cosa che mi piacque moltissimo, mi rese felicissimo, e così
andammo a casa. Dove già fumava la pappa di riso sulla tavola,
c'erano riuniti alcuni ospiti, appunto si versava il vino nelle
coppe. Senza badarci mio padre iniziò già sulla soglia a raccontare
quel che aveva sentito. Delle parole naturalmente non ho alcun esatto
ricordo, il senso però dello straordinario della circostanza, da cui
anche un bambino veniva soggiogato, mi arrivò così in profondità
che oso però restituirne una sorta di testo verbale. Lo faccio forse
perché fu per la concezione popolare molto significativo. Mio padre
disse dunque all'incirca: (il testo non continua - n.d.t.).
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mercoledì 20 luglio 2016
Il tempo dei sogni.
Nel post precedente a questo si offre a chi legge una nuova traduzione di "Un medico condotto". Il testo adotta l'imperfetto al posto del passato remoto per questa ragione: il racconto è così onirico che sembra un peccato togliergli questa sostanza appiattendolo su tempi duri, tipo il passato remoto. Non a caso il tempo usato si chiama imperfetto, "imperfetto" come il racconto dei sogni e come le affabulazioni dei bambini che giocano. Sì, è vero, altre volte non si è fatto...
A proposito del titolo, medico condotto è meno bello di medico di campagna, però il testo indica con precisione che il protagonista dipende dall'amministrazione del circondario.
A proposito del titolo, medico condotto è meno bello di medico di campagna, però il testo indica con precisione che il protagonista dipende dall'amministrazione del circondario.
F.Kafka: Un medico condotto
Ero
in grande imbarazzo: m'incombeva un viaggio urgente; un malato grave
aveva bisogno di me in un villaggio distante dieci miglia; poderose
raffiche di neve colmavano il vasto spazio tra me e lui; avevo un
calesse leggero, a ruote grandi, adattissimo alle nostre strade di
campagna; infagottato nella pelliccia, in mano la borsa degli
strumenti, mi trovavo pronto al viaggio già in cortile; mancava però
il cavallo, il cavallo. Il mio cavallo nel corso dell'ultima notte
era crepato a causa delle fatiche eccessive dovute a questo gelido
inverno; ora la mia serva correva in giro nel villaggio per farsi
imprestare un cavallo; tuttavia non aveva speranza, io lo sapevo, e
sempre più stracarico di neve restavo lì senza scopo. Eccola al
portone, da sola, agitava la lanterna; è naturale, chi mai presta il
suo cavallo per un simile tragitto? Percorrevo ancora una volta il
cortile; non vedevo alcuna possibilità; storditamente, angosciato,
davo un calcio all'uscio malmesso del porcile già da anni inutile.
Si apriva e seguitava a girare sui cardini. Ne veniva fuori calore e
odore come di cavalli. Una fioca lanterna da stalla dondolava là
dentro da un gancio. Un uomo rannicchiato nella bassa baracca
mostrava il viso schietto dagli occhi azzurri ."Devo
attaccare?", domandava, strisciando fuori a quattro zampe. Io
non riuscivo a dir nulla e mi limitavo a piegarmi per vedere
cos'altro c'era nella stalla. La serva era con me. "Non si sa
che cosa cavolo si ha in casa propria", diceva, ed entrambi
ridevamo. "Olà fratello, olà sorella", gridava lo
stalliere, e due cavalli, bestie poderose dai vasti fianchi, uno dopo
l'altro, sol con la forza dei volgimenti dei loro tronchi, piegando,
come fossero cammelli, le zampe e le teste ben formate, strettamente
sul corpo, si spingevano fuori dal vano dell'uscio riempiendolo
completamente. Stavano subito ritti, però, alti di zampe, con i
corpi fumanti fitto vapore. "Aiutalo", dicevo, e la
volenterosa ragazza si affrettava a porgere al servo i finimenti del
calesse. E però, non appena gli si era appressata, lui l'abbracciava
e con il suo viso urtava il viso di lei. Urla e si rifugia presso di
me; sulla guancia le sono impresse due file rosse di denti. "Oh
bestia", grido con rabbia, "vuoi la frusta?", ma
rifletto, si tratta di uno straniero, non so da dove viene, mi viene
in aiuto di suo mentre tutti gli altri rifiutano. Come se fosse a
conoscenza dei miei pensieri, lui non si offende della mia minaccia,
ma si limita, ancora occupato con i cavalli, a girarsi verso di me.
"Sali", dice poi e, in realtà, è tutto a posto. Con un
tiro così bello, considero, ancora non ho mai viaggiato, e felice
monto."Guiderò io però", dico,"tu non conosci la
strada". "Certo", dice lui,"io non ci penso
proprio a spostarmi, resto con Rosa." "No", grida
Rosa, e corre in casa con il giusto presentimento della
ineluttabilità della sua sorte; odo risuonare la catena dell'uscio
che lei chiude; odo scattare il lucchetto; vedo come, oltre a questo,
lei correndo a precipizio nell'atrio e per le stanze spegne ogni luce
allo scopo di rendersi inrovabile. "Tu mi accompagni", dico
al servo, "o rinuncio al viaggio, per quanto sia urgente.
Proprio non ci penso,
a lasciarti la ragazza in pagamento per il viaggio."
"Muoversi!", dice lui; batte le mani; il calesse viene
trascinato via come un pezzo di legno nella corrente; sento ancora
come la porta di casa mia si spaccava e si scheggiava sotto l'assalto
del servo, poi gli occhi e le orecchie mi son colmati da un sibilo
che penetra in ugual misura in tutti i miei sensi. Tuttavia anche
questo solo un attimo, infatti, quasi che il portone della fattoria
del mio malato si aprisse immediatamente davanti al mio, sono già
lì; i cavalli stanno buoni; la nevicata è finita; tutt'intorno luce
lunare; i genitori del malato s'affrettano fuori di casa; dietro a
loro la sorella; quasi mi si solleva dal calesse; nella confusione
dei loro discorsi non capisco nulla; nella camera del malato l'aria è
appena respirabile; la stufa, trascuratissima, fa fumo; aprirò la
finestra; ma per prima cosa voglio vedere il malato. Smagrito, senza
febbre, né freddo né caldo, occhi vuoti, senza camicia, si solleva
il ragazzo sotto il piumino, mi si attacca al collo, mi sussurra
all'orecchio: "Dottore, lasciami morire." Mi guardo
intorno; nessuno ha udito; i genitori se ne stanno mutamente piegati
in avanti e aspettano il mio verdetto; la sorella ha portato una
sedia per la mia borsa. La apro e cerco tra i miei strumenti; il
ragazzo continua a cercarmi a tastoni sporgendosi dal letto verso di
me per ricordarmi la sua preghiera; afferro una pinzetta, la provo
alla luce della candela e la rimetto a posto."Ma certo",
penso blasfemo, "in casi simili gli Dei ti aiutano, ti mandano
il cavallo che manca, nella fretta ne aggiungono anche un secondo, ti
regalano per di più lo stalliere..." Ed ora mi torna in mente
Rosa; cosa faccio, come la libero, come gliela levo a questo
stalliere, lontano dieci miglia da lei, attaccati al mio calesse dei
cavalli incontrollabili? Questi cavalli in qualche modo hanno sciolto
il laccio; non so come, hanno con un urto aperto la finestra da
fuori; ciascuno infila il capo in una finestra, senza far caso al
grido spaventato della famiglia, essi scrutano il malato. "Io
torno subito indietro", penso, quasi che i cavalli mi
esortassero a muovermi, tuttavia lascio che la sorella, che mi crede
stordito dal calore, mi tolga la pelliccia. Mi viene preparato un
bicchiere di rum, il vecchio mi dà colpetti sulle spalle, questa
confidenza è giustificata dall'offerta del suo tesoro. Scuoto la
testa; nella ristretta mentalità del vecchiosarebbe perché mi dà
noia allo stomaco; solo per questo rifiuto di bere. La madre si
trova in piedi accanto al letto e mi chiama lì; io eseguo e, mentre
un cavallo nitrisce forte in direzione del soffitto della stanza,
appoggio la testa sul petto del malato, che trema sotto la mia barba
umida. Trova conferma quel che so: il ragazzo è sano, leggermente
anemico, rimpinzato di caffè dalla madre apprensiva, ma sano e, cosa
ottimale, da tirar fuori dal letto a calci. Non sono mica un
riformatore del mondo, lo lascio a letto. Ho la nomina distrettuale e
faccio il mio dovere al limite, fin dove quasi si esagera. Mal
pagato, ma generoso e pronto ad aiutare i poveri. Ho da preoccuparmi
anche di Rosa, dopodiché magari il ragazzo ha ragione e
anch'io voglio morire. Cosa ci faccio in questo inverno senza fine?
Il mio cavallo è crepato e non c'è nessuno nel villaggio che mi
presti il suo. E' da un porcile che devo ricavare il mio tiro; senza
il caso di questi cavalli, mi toccava di viaggiare con le scrofe.
Davvero. E con il capo accenno alla famiglia. Non ne sanno nulla e se
lo sapessero non ci crederebbero. Scrivere la ricetta è facile,
d'altronde è difficile intendersi con la gente. Orbene, la mia
visita sarebbe finita, mi si è incomodato un'altra volta a vuoto, ci
sono abituato, con l'aiuto del mio campanello notturno tutto il
distretto mi tormenta, ma che stavolta dovessi offrire anche Rosa,
questa bella ragazza che da anni viveva a casa mia e da me appena
guardata - è un sacrificio troppo grande, ed io devo in qualche modo
per ripiego escogitare acute spiegazioni nella mia testa allo scopo
di non scagliarmi su questa famiglia che neppure con la miglior
volontà può ridarmi Rosa indietro. Quando però chiudo la borsa e
accenno alla mia pelliccia, la famiglia insorge, il padre fiuta il
bicchiere di rum che ha in mano, la madre, probabilmente delusa da me
- oh, ma cosa si aspetta il popolo? - piena di lacrime si morde le
labbra, e la sorella agita un fazzoletto parecchio insanguinato,
allora sono in qualche modo disposto eventualmente ad ammettere che
il ragazzo, ebbene sì, forse è malato. Mi avvicino, mi sorride come
se gli portassi qualcosa tipo la zuppa energetica - ahi, ora
nitriscono entrambi i cavalli; il chiasso, in alto loco prescritto,
può ben facilitare la visita - ed ora trovo che sì, il ragazzo è
malato. A sinistra, nella regione del fianco, c'è aperta una ferita
larga come una mano, in molte sfumature di rosa, scura in profondità,
chiara ai bordi, morbida granulosa, sangue irregolarmente aggrumato,
aperta come una miniera a cielo aperto. Così a distanza. Da vicino è
anche peggio. Chi riesce a vederla senza emettere un lieve sibilo?
Vermi della robustezza e lunghezza del mio dito mignolo, rosei ed
inoltre spruzzati di sangue, si contorcono alla luce, stretti dentro
la piaga, con testoline bianche e molti peduncoli. Povero ragazzo,
per te non c'è niente da fare. Ti ho trovato una grossa piaga;
stando a questo fiore che hai nel fianco, per te è finita. La
famiglia è contenta, mi vede attivo; la sorella lo dice alla madre,
la madre al padre, il padre a certi ospiti che in punta di piedi,
bilanciandosi con le braccia distese in fuori entrano attraversando
il chiar di luna dell'uscio aperto. "Mi salverai?",
sussurra singhiozzando il ragazzo, che di vivere davvero s'illude,
con quella sua piaga. E' fatta così la gente della mia regione.
Pretendono sempre l'impossibile dal medico. Hanno smarrito la vecchia
fede; il parroco sta a casa sua a consumare i paramenti da messa uno
dopo l'altro; invece il medico deve sbrigare tutto con la sua debole
mano chirurgica. Allora, come vi garba: non mi sono offerto io;
impiegatemi per santi scopi, lo consento; che cosa voglio di meglio,
vecchio medico condotto derubato della mia serva! Ed eccoli, la
famiglia e i più anziani del villaggio, mi spogliano; un coro di
scolari con il
maestro in testa davanti alla casa canta una semplice estrema melodia
sul testo:
"Spogliatelo,
che poi curerà,
E
se non cura, allora uccidetelo!
E'
solo un dottore, solo un dottor."
Poi
eccomi spogliato, e, a testa china, contemplo, le dita nella barba,
tranquillamente la gente. Sono assolutamente calmo e resto di gran
lunga superiore a tutti, però non mi serve a nulla, ecco che mi
prendono per la testa e per i piedi e mi portano nel letto. Mi
mettono contro il muro, dalla parte della piaga. Poi escono tutti
dalla stanza; la porta viene chiusa; cessa il canto; la luna si
rannuvola; le coltri mi avvolgono calde; in ombra s'agitano le teste
dei cavalli nel vano della finestra. "Lo sai", mi sento
dire all'orecchio, "la mia fiducia in te è assai scarsa. Non
vieni con i tuoi piedi, anzi, sei capitato qui non so come. Invece di
giovarmi, tu mi restringi lo spazio del letto di morte. Ti cavo gli
occhi, lo preferisco." "Giusto", dico, "è
un'infamia. D'altra parte sono medico. Che devo fare? Credimi,
neanche per me è facile." "Mi devo accontentare di questa
giustificazione? Ah, certo ci son costretto. Sempre sono costretto ad
accontentarmi. Son venuto al mondo con una bella piaga; era tutta la
mia dotazione." "Giovane amico", dico,"il tuo
errore è la non lungimiranza. Io, che già sono stato in ogni genere
di stanza di malato, da ogni parte, ti dico: la tua piaga non è così
grave. Ferita inferta con due colpi di ascia ad angolo acuto. Molti
nella foresta offrono il loro fianco all'ascia, e la odono appena,
ancor meno odono che essa si avvicina a loro." "E' davvero
così oppure m'inganni nel mio stato febbrile?" "E'
davvero così, approfitta della parola d'onore d'un funzionario
medico." Ne approfittava e si calmava. Tuttavia ora era il
momento di pensare alla mia liberazione. I cavalli si trovavano
fedelmente ancora ai loro posti. Abito, pelliccia e borsa venivano
velocemente afferrati tutti insieme; non volevo perder tempo a
rivestirmi; se si affrettavano i cavalli come all'andata sarei
balzato per così dire da questo letto nel mio. Rispettosamente un
cavallo si ritirava dalla finestra; gettavo nel calesse il bagaglio;
la pelliccia volava troppo oltre, giusto con una manica restava
attaccata a un appiglio. Non c'è male. Mi lanciavo sul cavallo.
Fissando alla rinfusa i finimenti, un cavallo mal accoppiato
all'altro, il calesse scarrocciando, da ultimo la pelliccia nella
neve."Muoversi!", dicevo, ma a vuoto; come dei vecchietti
ci si muoveva nel deserto di neve; lungamente dietro di noi risuonava
il nuovo ma fallace canto dei bambini:
"Rallegratevi,
voi pazienti,
Il
medico sta nel letto con voi!"
Mai
tornato a casa in questo modo; perduta è la mia florida attività
professionale; un successore mi derubava, ma senza profitto, infatti
non poteva rimpiazzarmi; in casa mia imperversa disgustosamente lo
stalliere; Rosa ne è la vittima; non voglio pensarci. Nudo, esposto
al gelo di quest'epoca disgraziata, calesse di questo mondo, cavalli
d'un altro mondo, vecchio mi trascino in giro. La mia pelliccia pende
dal retro del calesse, ma a raggiungerla non ce la faccio, e nessuno
nella vivace marmaglia dei pazienti muove un dito. Imbrogliato!
Imbrogliato! Una volta che hai dato spago al suono fesso del
campanello notturno - non c'è più niente da fare.
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