Eduard
Raban attraversò l'atrio e dal vano del portone vide che pioveva. Un
po'.
Proprio
davanti a lui sul marciapiede c'erano molte persone che procedevano
in vari modi, chi s'avvicinava ed attraversava la carreggiata, una
fanciullina reggeva sulle mani un cagnolino stanco, due signori si
scambiavano informazioni, uno di loro teneva le mani con i palmi
sollevati e le muoveva in modo simmetrico quasi tenesse in sospeso un
carico. Poi si vide una signora il cui cappello era assai carico di
nastri, nastrini e fiori, ed un giovane con bastoncello che s'avvicinava
in fretta, la sinistra sul petto come schiacciata. Andavano e
venivano uomini che fumavano soffiando nuvolette oblunghe e dritte.
Tre signori – due tenevano i soprabiti leggeri ripiegati
sull'avambraccio – tendevano a muoversi dalla parete dell'edificio
fino al margine del marciapiede, osservavano ciò che vi succedeva,
e, continuando a parlare, ritornavano indietro.
Attraverso
gli spazi lasciati tra coloro che passavano si vedevano le pietre ben
sistemate del selciato, su cui carrozze dalle ruote alte e sottili
erano tirate da cavalli con il collo teso. La gente che sedeva sui
sedili imbottiti guardava in silenzio chi andava a piedi, i negozi, i
balconi ed il cielo. Dovendo una carrozza sorpassarne un'altra i
cavalli si sforzarono insieme ed i loro finimenti ballarono, dettero
strappi contro il timone, la carrozza corse oscillando fin quando non
ebbe completato il sorpasso ellittico della carrozza davanti, ed i
cavalli si separarono di nuovo l'un dall'altro, ravvicinate solo le
strette teste impassibili.
Alcune
persone si fecero rapidamente avanti sul portone dell'edificio,
restarono sopra il mosaico, all'asciutto, e si girarono attorno con
lentezza guardando la pioggia che cadeva strozzata in quella stretta
viuzza.
Raban
si sentiva stanco. Aveva labbra pallide come il rosso scolorito della
sua larga cravatta a disegni moreschi. La signora che si trovava al
di là del vano della porta ora guardava verso di lui con
indifferenza, o forse guardava solo la pioggia che cadeva davanti a
lui, o i manifesti commerciali che erano fissati, al di sopra dei
capelli di lui, sulla porta. Raban la credette meravigliata.
“Dunque”, pensò, se potessi farle un resoconto, non sarebbe mica
meravigliata. Si lavora in ufficio con tal foga che poi si è perfino
troppo stanchi per godersi le ferie. Tuttavia, con tutto che si
lavora, ancora non si arriva ad aver alcun diritto di esser trattati
per bene da tutti, anzi, a tutti si è estranei. Fintanto poi che tu
dici “si” invece che “io” passi, e si può raccontarla,
questa storia, ma non appena tu ammetti che in questione sei tu
stesso, allora sei alla lettera trafitto, e inorridisci.
Mise
giù la valigia ricoperta di stoffa piegando le ginocchia. L'acqua
piovana intanto scorreva sui lati della carreggiata, a fiotti
allargantisi fino alle fognature.
Se
però io distinguo tra “si” e “io”, come posso poi lamentarmi
degli altri? Probabilmente non hanno torto, ma io sono troppo stanco
per capire tutto. Sono perfino troppo stanco per far la strada verso
la stazione senza sforzo, eppure è breve. Perché dunque non resto
durante queste brevi ferie in città, per rimettermi? Eppure sono
irrazionale. Questo viaggio mi farà star male, lo so. La mia camera
non sarà abbastanza confortevole, in campagna non può essere che
così. Siamo appena alla prima metà di giugno, l'aria in campagna
spesso è ancora parecchio fredda. Certamente sono vestito in modo
appropriato, ma dovrò accompagnarmi con gente che la sera tardi va a
passeggio. Ci sono laghetti, si andrà a camminarci lungo le rive. Ed
io certo prenderò freddo. In compenso mi segnalerò poco nelle
conversazioni. Non saprò mettere a confronto uno di quei laghetti
con altri di luoghi lontani, infatti non ho mai viaggiato e, per
parlare della luna, provar beatitudine e salire entusiasta su mucchi
di ruderi, sono troppo vecchio per non venir deriso.
Vennero
verso di me delle persone con le teste un po' abbassate reggendo
ombrelli scuri aperti. S'avvicinò anche un carro, sul cui sedile
impagliato un uomo teneva le gambe larghe in modo tanto trasandato
che un piede gli toccava quasi terra, mentre l'altro stava sulla
paglia e i brandelli del sedile. Pareva che, nel corso di una bella
giornata, se ne stesse seduto in un prato. Eppure vigile aveva le
redini, per cui il carro, su cui sbattevano tra loro sbarre di ferro,
si barcamenava bene nella calca. Per terra si vide nel bagnato il
riflesso del ferro scivolare da una fila di pietre all'altra, sinuoso
e lento. Il bambino vicino alla signora era vestito come un
viticoltore d'una volta. Il suo abito a pieghe in basso faceva un
gran cerchio, mentre era stretto sotto le ascelle da una cintura di
cuoio. Il suo berretto semisferico arrivava fino ai sopraccigli e
dalla cima pendeva un fiocco giù fino all'orecchio sinistro. La
pioggia lo rallegrava. Corse fuori dal portone e ad occhi aperti
scrutò il cielo allo scopo di prenderne di più. Continuò a saltar
su, tanto che l'acqua schizzò abbondante e chi arrivava lo
rimproverò assai. Allora la signora lo chiamò e da quel momento lo
tenne per la mano; eppure lui non pianse.
Raban
si spaventò. Non era già tardi? Dato che portava soprabito e giacca
aperti prese alla svelta l'orologio. Era fermo. Di malumore ad uno
che era lì vicino, ma un po' più all'interno dell'atrio, chiese
l'ora. Costui stava conversando e disse, ancora impegnato a ridere di
qualcosa della sua conversazione: “ma prego, son le quattro
passate”, e si girò.
Raban
aprì rapidamente l'ombrello e prese la valigia in mano. Quando però
stava per uscire in strada fu ostacolato da alcune donne frettolose
che fece passare. Nel far ciò abbassò lo sguardo sul cappello d'una
ragazza bassa, che aveva una coroncina verde sulla tesa ondulata di
paglia color rosso.
Ancora
se ne ricordava, quando si trovò nella strada che saliva nella
direzione che lui intendeva prendere. Poi se ne dimenticò, dato che
ora aveva da sforzarsi un poco; la valigetta non gli risultava
leggera, e il vento gli soffiava contro facendo sventolare la giacca
e rovesciare in fuori le stecche dell'ombrello.
Fu
costretto a prender fiato; un orologio in una piazza vicina suonò
con gravità le cinque meno un quarto; da sotto l'ombrello vide i
passettini della gente che gli veniva incontro, ruote di carrozza
scricchiolarono frenando, rallentarono, i cavalli tesero le loro
scure zampe anteriori, baldi come camosci in montagna.
A
quel punto a Raban fu chiaro che avrebbe patito per tutti i prossimi
quattordici giorni un brutto periodo, si tratta di solo quattordici
giorni, dunque d'un tempo limitato, e, anche se le spiacevolezze
diventano sempre maggiori, scema anche il tempo durante il quale si
devono sopportare. Per cui il coraggio senza dubbio cresce. Tutti
quelli che sono intenzionati a tormentarmi, e che ora hanno occupato
tutto lo spazio che mi circonda, sono respinti pian piano indietro
per mezzo del benigno scorrere di questi giorni, e senza che io debba
collaborarvi nemmeno minimamente. E posso, dal momento che ciò si
produce come cosa naturale, esser mite e tranquillo e far riuscire
tutto a mio pro' - tutto deve però diventar buono soltanto per mezzo
dello scorrer via dei giorni.
E
non sono in grado di farlo, come sempre facevo da bambino nel caso di
impegni rischiosi? Non ho affatto bisogno di andare in campagna, non
serve. Ci mando solo il mio corpo vestito. Che traballa fuori
dall'uscio di camera mia, e traballare non significa timore, ma
vacuità. Né emozione, quand'esso incespica sulle scale, quando
singhiozzando va in una qualche campagna e, piangendo, cena. Io, io,
frattanto, giaccio nel mio letto, completamente protetto dalla
coperta giallo/marrone, a parte l'aria che spira dalla finestra
semichiusa.
Giacendo
a letto sembro un grosso scarafaggio, un cervo volante o un
maggiolino, credo.
Dinnanzi
a un negozio dentro cui, al loro bastoncino, stavano appesi piccoli
cappelli da uomo dietro una vetrina bagnata, lui restò a guardare,
le labbra riunite a punta. Orbene, il mio cappello per le ferie
basterà, pensò passando oltre, e se nessuno riesce a sopportarmi
per via del mio cappello, tanto meglio.
Grossa
figura di scarafaggio, certo. La mettevo come in letargo e mi
stringevo le gambette al tronco panciuto. Sibilo una piccola quantità
di parole, trattasi di disposizioni per il mio corpo afflitto, che
presso di me fatica a starci, rassegnato. Presto son pronto, lui
s'inchina, se ne va svelto, e farà tutto per bene, intanto che io
riposo.
Raggiunse
una solitaria porta dalla volta tonda che, in cima alla ripida
viuzza, portava in una piazzetta circondata da botteghe già
illuminate. Nel centro della piazza, oltre la luce un po' attenuata,
si trovava la bassa statua d'un uomo seduto, cogitante. Davanti alle
luci le persone si muovevano facendo la parte di smilze saracinesche
e, poiché le pozzanghere ampliavano in larghezza e profondità il
riflesso, l'aspetto della piazza mutava di continuo.
Raban
avanzò alquanto nella piazza, tuttavia schivando con un guizzo la
carrozza che spuntava, saltò dall'isolata pietra asciutta all'altra
asciutta reggendo con mano sollevata l'ombrello aperto per vedere
ogni cosa all'intorno. Fino a fermarsi vicino all'asta d'una
lanterna – una fermata del tranvia elettrica – piazzata in un
basamento cubico di mattoni.
Eppure
in campagna mi si attende. Già si fan supposizioni? Tuttavia in una
settimana, da quando lei è in campagna, non le ho scritto, solo
stamani presto. Dopotutto mi s'immagina diverso. Si crede forse che
mi precipiti a rivolgere la parola a uno, eppure non è mia
abitudine, o che io l'abbracci, all'arrivo, cosa anche questa che non
faccio volentieri. Se cercherò di rabbonirli li farò irritare. Se
davvero potessi farli irritare tentando di rabbonirli!
In
quel m omento venne avanti una carrozza aperta, non veloce, dietro le
cui due lampade accese c'erano due signore sedute su scuri sedili di
pelle. Una era appoggiata indietro ed aveva il volto nascosto da un
velo e dall'ombra del cappello. Ma il corpo dell'altra era eretto; il
cappello era piccolo, penne scure lo circondavano. Tutti potevano
vederla. Il suo labbro inferiore era un po' ritirato nella bocca.
Mentre
la carrozza era davanti a Raban un palo coprì la vista dell'altro
cavallo, poi un cocchiere – indossava un gran cappello a cilindro –
su un'insolitamente alta cassetta apparve davanti alle signore –
ch'erano già molto lontane – quindi la sua carrozza girò l'angolo
d'una casetta, cosa che ora parve strana, e sparì alla vista.
Gli
guardò dietro a testa china, Raban, appoggiandosi il manico
dell'ombrello alla spalla per vedere meglio. S'era ficcato il pollice
destro in bocca e ci sfregava i denti sopra. La valigia gli stava
vicino per terra su un lato.
Carrozze
andavano da strada a strada sulla piazza, il tronco dei cavalli
volava a balzi equilibrati, come lanciato, la lor testa faceva sì sì
indicando il brio e però anche lo sforzo del movimento.
A
tutti e tre gli angoli delle strade che sfociavano nella piazza
stavano sul marciapiede molti sfaccendati che picchiettavano coi loro
bastoncelli il pavimento. Tra i loro gruppi v'erano banchi presso cui
ragazze mescevano limonata, orologi stradali su pali sottili, uomini
con sul petto e le spalle grandi cartelli su cui a caratteri
multicolori erano segnalati intrattenimenti, poi facchini su sedie
giallognole con <...> della sera
(manca
un foglio)
una
combriccola. Due carrozze padronali che attraverso la piazza
imboccavano la stradina in discesa tennero indietro alcuni signori di
tale combriccola, ma dietro la seconda carrozza – già dietro la
prima, cauti assai, ci avevano provato – si ricompattarono, questi
signori, con gli altri, insieme ai quali poi in lunga fila presero il
marciapiede ed entrarono in un caffè, attirati dentro in fretta
dalla luce delle lampade elettriche che pendevano al di sopra
dell'ingresso.
Ingombranti,
certe vetture della tranvia elettrica si avvicinarono, altre rimasero
indistinte, silenti in strade lontane.
“Com'è
curva”, pensò Raban guardando ora la foto, “mai una volta che
stia diritta, e magari ce l'ha tonda, la schiena. Dovrò farci molta
attenzione. E la bocca così larga, e il labbro inferiore sporgente
senza dubbio in fuori, qui nella foto, ma certo, ora me ne ricordo. E
l'abito. Non ci capisco niente, è naturale, di abiti, ma queste
maniche tutte cucite strette son davvero brutte, fanno l'effetto
d'una fasciatura. E il cappello con la tesa ch'è sollevata in ogni
punto, rispetto al viso, da un'ulteriore piega all'insù. Gli occhi
però ce li ha belli, marroni se non sbaglio. Lo dicono tutti, che ha
gli occhi belli.
Quando
poi una vettura si fermò davanti a Raban, attorno a lui passarono
molte persone dirette agli scalini d'accesso con gli ombrelli
appuntiti semichiusi tenuti diritti nelle mani aderenti alla spalla.
Raban, che teneva sotto braccio la valigia, venne sospinto fuori dal
marciapiede e s'infilò con forza in una pozzanghera non vista. Nella
vettura, su una panca stava inginocchiato un bambino, portò alle
labbra le punte delle dita di entrambe le mani come se prendesse
congedo da qualcuno che se ne andava di lì. Alcuni passeggeri
scesero e furono costretti a fare lungo la vettura alcuni passi, per
venir fuori dalla calca. Poi salì sul primo gradino una signora il
cui strascico da lei retto con entrambe le mani le si strinse sulle
gambe. Un signore tenendosi stretto ad una sbarra d'ottone della
vettura le raccontava qualcosa, eretto il capo. Tutti volevano
entrare, non avevano pazienza. Il conducente urlò.
Raban,
che ora si trovava al margine del gruppo in attesa, dal momento che
qualcuno lo aveva chiamato per nome, si girò.
“Ah,
Lement”, disse senza fretta porgendo il mignolo al giovane che si
avvicinava, infatti con la mano teneva l'ombrello.
“Ecco
dunque il fidanzato che se ne va dalla fidanzata. Pare paurosamente
innamorato”, disse Lement ridendo a bocca chiusa.
“Devi
scusarmi, se vado oggi”, disse Raban. “T'ho anche scritto, nel
pomeriggio. Sarei naturalmente andato molto volentieri con te domani,
ma domani è sabato, ci sarà il pienone, il viaggio è lungo.”
“Fa
niente. Sì, me l'hai promesso; ma quando si è innamorati – ecco
che dovrò viaggiare da solo.” Lement aveva un piede sul
marciapiede, l'altro sul selciato, e teneva ora la parte superiore
del corpo su una gamba, ora sull'altra. “Tu stavi salendo sul
<tram> elettrico; sta per partire. Andiamo a piedi, ti
accompagno. C'è ancora abbastanza tempo.”
“Non
è già troppo tardi? Ti prego.”
“Nulla
di strano che tu lo tema, ma ancora ne hai, di tempo. Io sono a
posto, dato proprio proprio ora ho mancato Gillemann.”
“Gillemann?
Non abiterà anche lui là?”
“Certo,
con sua moglie, la prossima settimana vogliono andarci, perciò ho
appunto promesso oggi a Gillemann di incontrarlo quando esce
dall'ufficio. Mi voleva dare delle istruzioni riguardanti il mobilio
di casa sua, per questo lo dovevo incontrare. Ora però più o meno
ho fatto tardi, avevo da fare. E proprio mentre riflettevo se dovevo
andarci, t'ho visto, dapprima sorpreso per la valigia, e t'ho
chiamato. Ora però è già sera troppo inoltrata per far visite,
insomma è impossibile andarci ora, dai Gillemann.”
“Naturale,
si tratta comunque di conoscenti che avrò là. D'altra parte la
signora Gilleman non l'ho mai vista.”
“Ed
è assai bella. E' bionda ed ora, dopo che è stata ammalata,
pallida. Ha gli occhi più belli che io abbia mai visto.”
“Prego,
come si vede che gli occhi sono belli? Non è vero che l'occhio di
per sé non può esser bello? E' lo sguardo? Mai che io abbia trovato
occhi belli.”
“Vabbè,
forse ho esagerato un po'. E' comunque una donna carina.”
Oltre
la porta a vetri d'un caffè al livello del suolo si vedevano accanto
alla finestra signori che leggevano e mangiavano attorno ad un tavolo
triangolare; uno aveva abbassato un giornale sul tavolo, teneva
sollevata una tazzina e guardava di lato, ad occhi ben aperti, in
direzione della via. Dietro questo tavolo presso la finestra nel
salone mobili e oggetti erano nascosti dagli avventori seduti in
piccoli circoli. Sedevano anche, curvi, in fondo alla sala, dove
(manca
un foglio)
...
comunque non è affatto un affare sgradevole, nevvero? Molti se lo
prenderebbero sulle spalle, tale peso, credo.”
Arrivarono
in una piazza piuttosto buia che cominciava dalla via che loro due
percorrevano, mentre si faceva stretta dall'altra parte. Sul lato
della piazza lungo il quale essi procedevano c'era un blocco
ininterrotto di edifici agli angoli del quale due file di case tra
loro distanti retrocedevano nell'ignota lontananza in cui esse
parevano riunirsi. Il marciapiede degli edifici, in maggioranza
piccoli, era stretto, non si vedeva alcun negozio, né passava una
carrozza. Un piedistallo di ferro decorato con cariatidi ed erba
sotto, e foglie sopra, vicino al termine della via da cui essi
venivano, sosteneva alcune lampade fissate in due cerchi paralleli.
La fiamma di forma trapezoidale ardeva tra lastre di vetro disposte
specularmente tra loro sotto un largo paralume turriforme, come in
una cameretta, e pochi passi oltre lasciava sussistere il buio.
“Ora
di sicuro è già troppo tardi, tu non me lo hai detto ed io perdo il
treno. Perché?”
(Mancano
due fogli)
Il
Pirkershofer al massimo, e quell'altro ...”
“Il
nome appare credo nelle lettere della Betty, non è aspirante
applicato alle ferrovie?”
“Sì,
aspirante applicato alle ferrovie e persona spiacevole. Mi darai
ragione quando avrai visto quel suo nasino grasso. Non ti dico quando
si va a passeggio con lui in quegli uggiosi terreni. Del resto è già
promosso e se ne va via, credo e spero, la prossima settimana.”
“Aspetta,
hai detto prima che mi consigli di restar qui stanotte. Ci ho
pensato, non sarebbe opportuno. Ho scritto che arrivo stasera, mi
aspetteranno.”
“E'
semplice, telegrafi.”
“Certo,
si potrebbe – non sarebbe però carino se non andassi – anche se
sono stanco, ci andrò – se arrivasse un telegramma, si
spaventerebbero – e poi a che scopo? Dov'è che andremmo, noi?”
“Allora
è davvero meglio se vai – pensavo soltanto – potrei anche non
accompagnarti, ho sonno, mi son dimenticato di dirtelo. Mi congederò
ora, dato che non voglio attraversare con te il parco, che è umido,
e potrei ancora cercar di andare da Gilleman. Manca un quarto alle
sei, a uno che si conosce bene si può far visita. Allora addio <it.
nel testo>, buon viaggio e saluti a tutti.”
Lement
si voltò a destra e porse la mano per congedarsi, così che per un
momento camminò in direzione contraria rispetto al suo braccio
proteso.
“Adieu”,
disse Raban.
Ad
una certa distanza Lement gridò ancora: “Eduard, senti me, chiudi
l'ombrello, è un bel po' che non piove più. Non ho fatto in tempo a
dirtelo.”
Raban
non rispose, iniziò a richiudere l'ombrello ed il cielo gli si parò
sopra livido, oscurandosi.
Se
almeno, pensò, fosse salito su un treno sbagliato, mi parrebbe come
se fosse già iniziata la cosa, e se più tardi, chiarito l'errore,
tornando indietro arrivassi di nuovo a questa fermata, per me sarebbe
già molto meglio. Tuttavia, infine, se la località laggiù è
noiosa, come dice Lement, non dev'essere in alcun modo un guaio. Ci
si tratterrà magari nelle stanze mai sapendo in effetti dove tutti
gli altri siano, o c'è un rudere nei dintorni e vi si fa una
passeggiata in compagnia, di sicuro si è già stabilito da tempo.
Allora si deve accettare volentieri, che non sia consentito mancarvi.
Se tuttavia non c'è alcunché del genere che meriti d'esser visto,
non ne consegue nessuna discussione, si aspetta, tutti facilmente
saranno d'accordo se d'improvviso, contrariamente ad ogni abitudine,
si considera valida un'escursione più ampia, basta mandare la
ragazza <di servizio> nell'appartamento degli altri, dove essi
siedono davanti a una lettera o davanti a un libro, e restano
incantati da tal notizia. Ora, da tali inviti non è difficile
difendersi. Eppure non so se potrò farlo, infatti non è così
facile come sembra pensandoci, eccomi ancora solo, e posso ancora
fare tutto, ancora posso tornare indietro quando voglio. Infatti là
non avrò nessuno cui potrei far visita quando voglio, e nessuno con
cui poter fare noiose escursioni, che mi indichi lo stato delle sue
granaglie o della sua cava di pietre che lui fa funzionare. Nemmeno
d'un vecchio conoscente si è affatto sicuri. Lement non è stato,
oggi, gentile con me? Mi ha spiegato qualcosa ed ha illustrato tutto
come mi apparirà. Mi ha rivolto la parola e poi accompagnato, ciò
nonostante da me non voleva saper nulla ed aveva anche un'altra cosa
da fare. Ora però se ne è andato all'improvviso, eppure non è che
lo abbia seccato dicendo alcunché. Certo, mi sono rifiutato di
passar la sera in città, ma ciò era naturale, non può essergli
dispiaciuto, lui è una persona ragionevole.
L'orologio
della stazione suonò, erano le sei meno un quarto. Raban si fermò,
sentiva il cuore palpitare, rapido camminò lungo il laghetto del
parco, arrivò in un sentiero stretto, male illuminato, tra grandi
cespugli, sbucò precipitoso in uno spiazzo con molte panchine vuote
appoggiate ad alberelli, rallentando attraversò un varco della
cancellata verso la strada, l'attraversò, balzò nell'ingresso della
stazione, trovò quasi subito uno sportello e fu costretto a bussare
un po' sulla lastra che lo chiudeva. Apparve l'impiegato, disse che
non era tardi, prese la banconota e buttò rumorosamente pochi soldi
di resto ed il biglietto sul piano. Ora, Raban voleva in fretta
rifare il calcolo, ritenendo di dover avere più soldi di resto, ma
un facchino che passava lì vicino lo spinse, attraverso una porta a
vetri, sulla banchina. Raban si guardò intorno, lì, intanto che al
facchino gridava “grazie, grazie”, e poiché non trovava alcun
conduttore salì su un vagone da solo per la più vicina scaletta,
operazione che svolse tramite lo spostamento della valigia sul
gradino più alto, poi seguendola, una mano appoggiata all'ombrello,
l'altra alla maniglia della valigia. Il vagone in cui mise piede era
rischiarato dalle molte luci della hall della stazione dov'esso era
fermo; davanti a numerosi vetri tutti chiusi fino in cima pendeva,
visibile a poco distanza, una lampada ad arco che faceva fumo, le
molte gocce bianche di pioggia tendevano a muoversi una ad una sopra
il vetro. A Raban arrivò il frastuono della banchina anche quando
ebbe chiuso la porta del vagone e si fu seduto sull'ultimo piccolo
spazio libero d'una panca di legno marrone chiaro. Vide molte schiene
e nuche e tra loro sempre volti girati indietro, sulla panca davanti.
Da certi posti volteggiava fumo di pipa e di sigaro, in un caso
pigramente finendo sulla faccia d'una ragazza. I passeggeri tendevano
a cambiar di posto discutendo tra loro tale cambiamento, oppure
spostavano il loro bagaglio, che si trovava in una stretta rete blu,
in un'altra rete. Se sporgeva in fuori un bastone o l'angolo
rinforzato d'una valigia, ciò veniva fatto notare al suo
proprietario che allora andava a rimetterlo a posto. Anche Raban ne
tenne conto e fece scivolare la valigia sopra il posto dove sedeva.
Accanto
a lui presso il finestrino sedevano uno davanti all'altro due signori
che parlavano di prezzi e di merci. “Commessi viaggiatori”, pensò
Raban, e respirando regolarmente li guardò. Il capo della ditta li
manda in provincia, essi obbediscono, viaggiano con il treno e in
ogni paese vanno di negozio in negozio. Spesso viaggiano in carrozza
tra i paesani. In nessun luogo si devono trattenere a lungo, infatti
tutto deve andar di fretta e loro sono obbligati a parlare solo delle
merci. Con qual gioia ci si può impegnare in un impiego tanto ameno!
Quello
più giovane aveva estratto di colpo dalla tasca dei calzoni un
taccuino, lo sfogliava con l'indice umettato in fretta sulla lingua e
poi leggeva una pagina, mentre scendeva con il dorso dell'unghia
lungo essa. Guardava Raban, quando alzava gli occhi e, menzionando
ora i prezzi dei filati, non distoglieva il viso da Raban, come si
guarda fisso verso un qualche punto allo scopo di non dimenticare
nulla di quanto si vuol dire. Abbassò poi le palpebre. Tenne nella
sinistra il taccuino semichiuso, il pollice sopra la pagina letta per
poterci tornar sopra facilmente, se gli fosse servito. Il taccuino
tremolava, infatti costui non appoggiava il braccio da nessuna parte
e il vagone in marcia urtava le rotaie come un martello.
L'altro
viaggiatore aveva appoggiato la schiena, stava a sentire ed annuiva a
intervalli ineguali. Si vedeva che non era affatto d'accordo su
tutto, e che dopo avrebbe detto la sua.
Raban
si prese con i palmi incrociati le ginocchia e sporgendosi vide tra
le teste dei viaggiatori il finestrino attraverso il quale luci
correvano in avanti ed altre fuggivano lontano. Di quel che dicevano
i viaggiatori non capiva nulla, nemmeno la risposta dell'altro, lui
avrebbe compreso. Sarebbe servita una gran preparazione, dato che
s'aveva a che fare con gente che fin dalla sua gioventù aveva avuto
a che fare con le merci. Se si è avuto in mano tanto spesso un
rocchetto di filo e tanto spesso lo si è porto al cliente, allora si
sa il prezzo e se ne può parlare. Se ne può parlare mentre i paesi
arrivano verso di noi e passano via, mentre scappano nel profondo
della provincia, dove ci diventano invisibili. Eppur tuttavia tali
paesi sono abitati ed i commessi viaggiatori magari ci vanno, di
negozio in negozio.
Dall'altra
parte del vagone in un angolo si levò un omone che in mano aveva
carte da gioco; disse ad alta voce: “Marie, le hai messe in valigia
anche le camicie di zephir <è un tipo di cotone; fonte: Diz. Enc.
Treccani>?” - “Ma certo”, disse la donna seduta davanti a
Raban. Aveva dormito un po', e, quando la domanda la svegliò,
rispose rivolta a Raban, come se l'avesse fatta lui. “Andate a
Jungbunzlau <nome tedesco di Moleslav – città boema che si
trova a nord est di Praga - a cinquanta km di distanza – fonte:
Wikipedia> per il mercato, eh?”, le chiese vivace il commesso
viaggiatore . “Sì, a Jungbunzlau.” - “Stavolta è di quelli
grandi, vero?” - “Sì, grande.” Era assonnata, appoggiava il
gomito sinistro su un fagotto blu e la testa le pesava sulla mano che
premeva, dentro la carne della guancia, sullo zigomo. “Com'è
giovane”, disse il viaggiatore.
Raban
prese dalla tasca del panciotto i soldi che aveva avuto dal cassiere,
e li ricontò. Tenne a lungo stretta e dritta ogni moneta tra pollice
e indice, con il quale continuò a muoverla avanti e indietro sopra
l'interno del pollice. A lungo guardò l'immagine dell'imperatore,
poi la sua attenzione fu attirata dalla corona d'alloro e dal modo
come era attaccata, con i lacci e i nodi d'un nastro, all'occipite.
Infine trovò che la somma era corretta e mise i soldi in un grosso
portamonete nero. Quando però stava per dire al viaggiatore: “Si
tratta di una coppia di coniugi, credete?”, il treno si fermò, il
frastuono della marcia cessò, conduttori gridarono il nome d'una
località e Raban non disse alcunché.
Il
treno si rimise in movimento così piano che ci si potevano figurare
le ruote mentre giravano, però subito superò una pendenza e di
colpo davanti al finestrino le lunghe sbarre della balaustra di un
ponte parvero come strappate l'una dall'altra e l'una sull'altra
pressate.
Piaceva
a Raban, ora, che il treno corresse tanto, infatti nell'ultima
località non avrebbe voluto restare. Se v'è tanto scuro, se non vi
si conosce nessuno, se si è tanto lungi da casa. E poi di giorno
dev'essere spaventosa. Ed alla prossima fermata è diverso? O in
quella prima, o in quella dopo, o dove vado io?
Il
commesso viaggiatore d'improvviso alzò la voce. Eccoci, pensò
Raban. ”Signore, certo lo sapete bene quanto me, fate che questi
industriali vadano nei più miseri paesucoli, ed eccoli strisciare
fin dai merciai più luridi, e credete che facciano loro prezzi
diversi da quelli che facciamo noi grossisti? Signore, lasciate che
lo dica, gli stessissimi prezzi, proprio ieri l'ho visto, nero su
bianco. Questa io lo chiamo una cosa da furfanti. Ci strangolano,
alle condizioni di oggi per noi è semplicemente, totalmente
impossibile lavorare; ci strangolano.” Guardò di nuovo Raban; non
si vergognava delle lacrime che aveva agli occhi; si portò le nocche
della mano sinistra alla bocca, poiché gli tremavano le labbra.
Raban si appoggiò indietro e con la sinistra si tirò debolmente i
baffi.
La
merciaia di fronte si svegliò e sorridente si strofinò la fronte.
Il commesso abbassò la voce. Di nuovo la donna si aggiustò come per
dormire, si appoggiò semidistesa al suo fagotto e sospirò. Sopra il
suo fianco destro le si allargò il soprabito.
Dietro
sedeva un signore con un berretto da viaggio in testa e leggeva un
grosso giornale. La ragazza davanti a lui, che probabilmente era sua
parente, lo pregò – piegando la testa verso la spalla destra –
di voler aprire il finestrino, perché faceva molto caldo. Lui disse
senza guardarla che lo avrebbe fatto subito, doveva soltanto leggere
ancora un paragrafo fino alla fine, ed indicò qual'era.
La
merciaia non riusciva più a riaddormentarsi, si tirò su e guardò
fuori dal finestrino, poi a lungo la lampada a petrolio che ardeva
gialla al soffitto del vagone. Raban per un poco chiuse gli occhi.
Quando
li riaprì la merciaia stava mangiando un pezzo di dolce coperto di
marmellata marrone. Il fagotto vicino a lei era aperto. In silenzio
il commesso viaggiatore fumava una sigaretta, continuando a scuoterne
la cenere. L'altro muoveva qua e là la punta di un coltello tra le
rotelline di un orologio da tasca, al punto che lo si udiva.
Quasi
ad occhi chiusi Raban vide inoltre, confusamente, che il signore con
il berretto da viaggio tirava la cinghia del finestrino. Entrò aria
fredda, un cappello di paglia cadde da un gancio. Raban ritenne di
svegliarsi, ecco perché sentiva le guance ben rinfrescate, o che si
aprisse la porta e lo si tirasse dentro la camera, e, comunque
s'ingannasse, alla svelta si addormentò.
Continuarono
a vibrare un po', i gradini del vagone, dopo che Raban li ebbe
discesi. Sul viso, che veniva dall'aria chiusa, gli batté la
pioggia, e lui chiuse gli occhi. Sulla tettoia di lamiera
dell'edificio dello scalo ferroviario pioveva rumorosamente, ma
oltre, nella campagna, la pioggia cadeva in modo da far credere di
sentire solo un vento che soffiava con regolarità. Un ragazzo scalzo
venne di corsa – Raban non aveva visto da dove – e senza fiato
pregò Raban di volergli far portare la valigia, perché pioveva, ma
Raban disse: certo che piove, perciò andrò con l'omnibus. Non aveva
bisogno di lui. Il ragazzo di conseguenza fece una smorfia, come se
considerasse più distinto camminare nella pioggia e farsi portare la
valigia, che andare in omnibus, si girò subito e corse via. E fu già
troppo tardi, quando Raban voleva chiamarlo.
Due
lanterne si videro ardere, e un impiegato dello scalo ferroviario
uscì da una porta. Senza esitazione attraversò la pioggia fino alla
locomotiva, stette lì fermo a braccia conserte fino a quando il
conducente della locomotiva si piegò sopra il parapetto e parlò con
lui. Fu chiamato un facchino, arrivò e fu mandato indietro. A
diversi finestrini del treno c'erano passeggeri e, dato che dovevano
trovarsi a vedere solo il solito edificio di uno scalo ferroviario,
il loro sguardo era opaco, le palpebre socchiuse come durante il
viaggio. Una ragazza, che con un ombrello parasole a fiori veniva in
fretta dalla strada principale alla banchina, appoggiò l'ombrello
aperto al suolo e si mise a muovere le gambe alternatamente perché
il soprabito le si asciugasse meglio, aperto, facendoci passar sopra
la punta delle dita. Due sole lampade ardevano, il viso di lei era
indistinguibile. Il facchino, quello di prima, protestò che sotto
l'ombrello si formavano pozzanghere, con le braccia fece davanti a sé
un cerchio per indicare la grandezza di queste pozzanghere e poi
mosse le mani nell'aria una dietro l'altra, come pesci che si tuffano
nell'acqua fonda, per chiarire che a causa di quest'ombrello il
passaggio veniva ostacolato.
Il
treno partì, sparì come una lunga porta scorrevole, e dietro i
pioppi, al di là delle rotaie, la massiccia fisicità della contrada
fu tale da togliere il respiro. Si trattasse di una prospettiva di
buio o di una foresta, d'un laghetto o di un edificio entro cui le
persone già dormivano, del campanile d'una chiesa o di un
avvallamento tra le colline, nessuno poteva azzardarsi in quella
direzione, ma chi n'era capace se ne teneva indietro.
Quando
Raban di nuovo vide l'impiegato – già era davanti ai gradini del
suo ufficio – corse da lui e lo trattenne: “Per favore, il paese
è distante? - mi spiego, voglio andarci.”
“No,
un quarto d'ora, ma con l'omnibus – dato che piove – ci siete in
cinque minuti. Prego.”
“Piove.
Non è per niente una bella primavera”, disse Raban di rimando.
L'impiegato
aveva la destra appoggiata al fianco, e, attraverso il triangolo
formato tra il braccio ed il corpo, Raban vide la ragazza, che aveva
già chiuso l'ombrello, sulla sua panca.
“Se
ora si deve villeggiare, c'è da rammaricarsene. In effetti pensavo
che mi si sarebbe aspettato. “ E si guardò intorno per sostanziare
ciò che aveva detto.
“Perderete
l'omnibus, temo. Non sta ad aspettare. Non ringraziatemi. E' dietro
l'angolo.”
Davanti
alla stazione la strada non era illuminata, solo da tre finestre a
piano terra dell'edificio veniva un bagliore annebbiato che non si
spandeva lontano. Raban in punta di piedi attraversò la fanghiglia
gridando ripetutamente “cocchiere”, “ehilà”, “omnibus” e
“sono qui”, quando però sul margine scuro della strada incappò
in pozzanghere quasi ininterrotte, fu costretto a riprendere la
marcia <non in punta di piedi, ma> a suole piene, finché non
venne con la fronte a /rinfrescante/ contatto del muso d'un cavallo.
L'omnibus era lì, svelto salì in vettura, si mise seduto vicino al
vetro, alle spalle del sedile del cocchiere, ed in quell'angolo
appoggiò la schiena, poiché aveva fatto tutto quello che era
necessario. Infatti, se il cocchiere dorme, si sveglierà entro
domani, se è morto verrà un nuovo cocchiere, o il gestore, o
altrimenti con il primo treno verranno passeggeri, gente che ha
fretta e fa chiasso. Comunque sia si può star tranquilli, si può
anche tirar la tenda davanti al finestrino ed aspettare la scossa
della partenza di questa vettura.
E'
sicurissimo che, dopo le tante che ho fatto, domani sarò da Betty e
Mamma, nessuno può impedirlo. Solo che è logico, la mia lettera
arriverà solo domani, c'era da pensarci prima, avrei benissimo
potuto restare in città e trascorrere una notte piacevole con Elvy,
senza dover temere la fatica del giorno seguente, ciò che mi guasta
ogni piacere. Ma guarda, ho i piedi bagnati.
Accese
il pezzo di candela tirato fuori dalla tasca del panciotto e se lo
mise davanti sulla panca. Era abbastanza chiaro, il buio all'esterno
aveva come conseguenza che non si vedessero i vetri dell'omnibus, di
colore scuro. Né si doveva pensare alle ruote sottostanti, ed al
cavallo, attaccato davanti.
Raban
si strofinò con cura i piedi sulla panca, s'infilò altri calzini e
si tirò su. Allora udì qualcuno che dalla stazione gridava. “Ehi!”,
se nell'omnibus c'era un passeggero, allora che si facesser sentire.
“Sì
sì, e gli piacerebbe essere già in viaggio”, rispose Raban,
sportosi dalla portiera aperta, la mano destra stretta allo stipite,
la sinistra aperta a fianco della bocca. L'acqua piovana gli scrosciò
tra il colletto e il collo.
Paludato
nella tela di due sacchi stracciati, il cocchiere si fece avanti, il
riflesso della sua lanterna da stalla saltellava sotto di lui lungo
le pozzanghere. Irritato, iniziò a spiegare. Aveva intensamente
giocato a carte con il Lebeda, erano proprio sul più bello
all'arrivo del treno. In pratica gli sarebbe stato impossibile venire
a vedere, tuttavia non voleva offendere chi non riuscisse a capire la
cosa. D'altra parte quello era un posto semplicemente spregevole, e
non si capiva cosa ci potesse aver da fare un signore siffatto, e
dunque mai ci sarebbe venuto in ritardo, per cui il signore non ci
aveva nulla da protestare. Era venuto quasi subito il signor
Pirkershofer – chiedo scusa, è il signor applicato – ed aveva
detto che credeva che un biondino avrebbe voluto viaggiare con
l'omnibus. Allora, lui s'era informato subito, o no?
La
lanterna fu assicurata alla punta del timone, il cavallo,
cavernosamente richiamato, si mosse e l'acqua, furiosa sull'omnibus,
ora gocciolò lentamente nella vettura da una crepa.
Percorso
forse scosceso, certo il fango schizzava nei raggi, ventagli di acqua
dalle pozzanghere fumando si formavano dietro al girare delle ruote,
il cocchiere teneva il cavallo a briglie via via più sciolte. Non si
potevano utilizzare, tutte quelle cose, come rimproveri contro Raban?
Molte pozzanghere venivano di colpo rischiarate dalla lanterna che
tremolava dal timone, sopportavano l'urto degli zoccoli del cavallo,
onde si disperdevano spingendosi sotto la ruota. Ciò avveniva solo
acciocché Raban si recasse dalla sua fidanzata, Betty, una graziosa
ragazza non giovanissima. E, anche nel caso che se ne volesse
parlare, chi avrebbe valutato che cosa mai meritava, Raban, stavolta,
anche nel caso che lui li tollerasse, quei rimproveri che, del resto,
nessuno gli poteva fare apertamente. Naturalmente lo faceva
volentieri, lui, Betty era la sua fidanzata, le voleva bene, e
sarebbe stato disgustoso se lei per questo lo avesse ringraziato
anche, eppur tuttavia... Senza volere continuò a batter la testa
sulla parete cui stava appoggiato, poi per un poco guardò in
direzione del soffitto. In un caso la mano destra gli scivolò giù
dal femore cui la aveva appoggiata. Tuttavia il gomito rimase lì,
tra la gamba ed il bacino.
L'omnibus
transitava già tra le case, a tratti l'interno della vettura
prendeva luce da una stanza illuminata, ecco una scalinata costruita
per una chiesa, per vederne i primi gradini Raban avrebbe dovuto
alzarsi, ecco una lanterna dove ardeva una gran fiamma davanti al
cancello d'un parco, mentre risaltò, nera, la statua di un santo, a
contrasto con l'illuminazione d'una merceria, ed a quel punto Raban
vide la sua candela consumata, la cera, sgocciolata secca, pendeva
dalla panca.
Quando
la vettura si fermò davanti alla locanda la pioggia si fece sentire
forte, insieme alle voci degli ospiti - una finestra forse era
aperta; allora Raban si chiese se fosse meglio scendere subito oppure
aspettare che venisse il locandiere. Come si usava in quella
cittadina lui non lo sapeva, ma di sicuro Betty aveva parlato del suo
fidanzato e, secondo la baldanza o la fiacchezza della di lui entrata
in scena, la reputazione di lei sarebbe cresciuta, in loco, o
diminuita, e di rimbalzo con ciò anche quella di lui. Ora, lui non
sapeva né qual reputazione lei avesse sul momento né che cosa
avesse detto in giro su di lui, tanto meno piacevole e tanto più
arduo. Bella la città, e più bello ancora tornare a casa. Piove e
lì si va a casa con la tranvia elettrica sul selciato bagnato, qui
ci s'impantana in un carro e si approda in una locanda. La città è
lontana da qui e, se io ora morissi di nostalgia, nessuno potrebbe
oggi più accompagnarmici. Ora, non morirò, invece ci avrò pronta
sul tavolo la pietanza stabilita per stasera, a destra dietro il
piatto il giornale, a sinistra la lampada, qui mi si darà un cibo
insolitamente grasso - non si sa che ho uno stomaco debole, e se lo
si sapesse – un giornale insolito, ci saranno molte persone, già
le sento, e per tutti arderò una lampada sola. Che razza di luce può
fare, per giocare a carte, magari, ma per leggere il giornale?
Il
locandiere non viene, non gl'importa nulla degli ospiti, magari è un
uomo scorbutico. Oppure sa che sono il fidanzato di Betty e questo
non gli dà motivo di venire da me, che il cocchiere alla stazione mi
abbia fatto aspettare tanto potrebbe anche passare. Betty diverse
volte ha raccontato quanto avesse avuto da patire da uomini
libidinosi e come ne dovesse respingere l'insistenza, forse anche qui
<non
conclude>
N.B.
Si propone solo la traduzione della stesura prima del racconto,
comunque anche le altre due, più brevi, sono incomplete.
Titolo
originale: Hochzeitvorbereitungen auf dem Land (1907).
A
cura di: Nicola Spinosi
spinnic@libero.it
Nessun commento:
Posta un commento