Ho postato poco fa l'ultimo brano della mia traduzione da Der Process (o Der Prozess); consta di 10 capitoli che tuttavia non hanno la denominazione di capitoli. La mia traduzione è molto legata al testo. Per una traduzione un poco più libera e scorrevole raccomando la seconda versione della presente, postata su Scribd. Le due traduzioni che io conosco sono quella di Alberto Spaini (Frassinelli 1962), e quella di Primo Levi (Einaudi 1983).
Come altre volte ho scritto, la lingua kafkiana è ampollosa e a tratti aulico-burocratica. Non è tutta colpa del tedesco!
La tentazione di sciogliere la traduzione è forte, ma il timore di un travisamento è più forte.
KAFKA. Traduzioni private per il pubblico
A cura di Nicola Spinosi
venerdì 26 giugno 2020
Franz Kafka: Il processo - 10
Fine
Alla
vigilia del suo 31° compleanno – erano circa le 9 di sera, l'ora
del silenzio nelle strade – due signori vennero nell'abitazione di
K. In finanziera, pallidi e grassi, portavano cappelli a cilindro
apparentemente inamovibili. Dopo brevi formalità sulla porta
dell'abitazione, per entrare, le stesse formalità si ripeterono,
accresciute, davanti all'uscio di K. Senza che gli fosse stata
notificata la visita, K stava, anche lui vestito di nero, seduto in
prossimità dell'uscio e lento s'infilava dei guanti nuovi che,
stretti, gli si tendevano sulle dita; pareva attendere ospiti. Subito
si alzò e guardò incuriosito quei signori. “Dunque mi sono
destinati loro?” - chiese. Essi annuirono, uno dei due con il
cilindro in mano indicò l'altro. K comprese che diversa era la
visita da lui attesa. Andò alla finestra e guardò ancora una volta
la strada buia. Anche tutte le finestre sull'altro lato della via,
quasi, erano ancora buie, e in molte le tende erano abbassate. Dietro
una finestra condominiale illuminata giocavano insieme, dietro una
grata, due bambini piccoli e, ancora incapaci di muoversi da
dov'erano, si cercavano l'un l'altro con le manine. “Mi si mandano
vecchi attori di secondo piano”, si disse K girandosi per
convincersene. “Si cerca di farla finita con me a buon prezzo.”
Si volse d'improvviso a loro e chiese: “In qual teatro recitano
loro?” “Teatro?” - chiese l'uno all'altro, contraendo gli
angoli della bocca, a scopo di averne dei lumi. L'altro si espresse a
segni come un muto che lotti con un organismo ribelle. “Non sono
preparati a ricevere domande”, si disse K e andò a prendere il
cappello.
Già
per le scale quei signori vollero agganciarlo sottobraccio K, ma
questi disse: “solo in strada, non sono malato.” Tuttavia subito
davanti al portone lo agganciarono in un modo come ancora K mai aveva
camminato sottobraccio a qualcuno. Piazzarono le spalle strettamente
dietro quelle di lui, non piegarono le braccia, ma le adoperarono per
cingere quelle di K nella loro intera lunghezza, gli afferrarono le
mani con una presa precisamente studiata, irresistibile. K camminò
stretto, inteccherito tra loro, ora tutti e tre formavano una tale
continuità che, se si fosse abbattuto uno di loro, sarebbero stati
abbattuti tutti. Era una continuità come la può formare quasi solo
l'assenza di vita.
Transitando
sotto le lanterne K tentò più volte, per quanto potesse esser
difficile farlo in tale stretta reciprocità, di vedere i suoi
accompagnatori più chiaramente di quanto fosse stato possibile nella
penombra della sua stanza. Forse si tratta di tenori, pensò alla
vista dei loro pesanti doppi menti. Fu nauseato dalla nettezza delle
loro facce. Si vedeva davvero ancora la mano nettatrice che era
passata sugli angoli dei loro occhi, che aveva rasato lo spazio tra
nasi e labbra superiori, che aveva appianato le rughe dei loro menti.
Notato
questo, K si fermò, per cui si fermarono anche gli altri; erano al
margine di un luogo aperto, deserto, abbellito da edifici. “Perché
hanno mandato proprio loro?” - gridò K più che chiederlo. Quei
signori non sapevano chiaramente dare risposta alcuna, si posero in
attesa tenendo le loro braccia libere nella posizione che assumono
gli infermieri quando il malato vuol muoversi. “Non cammino più”,
disse K, a mo' di prova. I due non ebbero bisogno di rispondere,
bastò che non allentassero la presa e cercarono di levar via K da
dov'era, ma lui si oppose. “Io non avrò più bisogno di molta
forza, l'adopero tutta subito”, pensò. Gli vennero in mente le
mosche, che con le zampette staccate dalla fraschetta spalmata di
colla muoiono. “I signori avranno un bel daffare.”
In
quella davanti a loro sbucò su una scaletta, da una stradina in
basso, la signorina Buerstner. Non v'era totale certezza che fosse
lei, la somiglianza era certo grande. Tuttavia a K non importava
affatto che fosse proprio la signorina Buerstner, lui era consapevole
della vanità della propria opposizione. Non era affatto eroico
opporsi, mettere in difficoltà quei signori, cercare ora di gustare
nella resistenza l'ultimo lampo di vita. Si mise in movimento e
qualcosa della gioia che ciò dava a quei signori passò a lui. Ora
tolleravano che lui decidesse la direzione del cammino, e lui decise
di seguire la via presa davanti a loro dalla signorina, non perché
volesse raggiungerla, diciamo, non perché volesse vederla il più
possibile a lungo, ma solo per non dimenticare l'ammonimento che lei
significava per lui. “L'unica cosa che ora posso fare”, si disse
mentre la simmetria dei suoi passi e di quelli degli altri tre
corroborava i suoi pensieri, “l'unica cosa che ora posso fare è
mantenere una serena intelligenza analitica, fino alla fine. Volli
sempre esagerare nella vita, per altro con scopi non troppo
accettabili. Non era giusto, e ora devo mostrare che neppure il
processo, lungo un anno, riuscì a istruirmi? Devo andarmene come un
uomo tardo di comprendonio? Mi si deve poter ripetere che è
dall'inizio del processo che voglio portarlo a termine e che, ora che
finisce, voglio ricominciarlo? Non voglio che si dica ciò. Sono
grato che mi abbiano assegnato per questo cammino questi signori semi
muti e incapaci di comprensione e che mi abbiano lasciato la
possibilità di dirmi da solo quel che serve.”
La
signorina era svoltata intanto in una viuzza laterale, ma K già
poteva fare a meno di lei, abbandonandosi ai suoi accompagnatori.
Tutti e tre ora in piena concordia passarono su un ponte nel bagliore
della luna, ogni piccolo movimento che K faceva quei signori lo
permettevano con prontezza, quando lui si volse un poco sul parapetto
anche loro si girarono da quella parte, come un sol uomo. L'acqua
tremava e luccicava sotto la luce della luna dividendosi attorno a
un'isoletta stracolma del fogliame di alberi e cespugli. Sotto, ora
invisibili, v'erano vialetti con panchine su cui K in estate spesso
si era steso, allungato. “Mica volevo fermarmi”, disse ai suoi
accompagnatori, vergognandosi della loro disponibilità. Uno dei due
parve, dietro le spalle di K, rimproverare un poco l'altro a causa
della fermata, frutto di equivoco, poi proseguirono. Attraversarono
alcune viuzze in salita dove camminavano o sostavano poliziotti, ora
distanti, ora vicinissimi. Uno con il pizzo ispido, la mano
sull'elsa della sciabola, si avvicinò intenzionalmente a quel non
del tutto insospettabile terzetto. Quei signori si fermarono, il
poliziotto pareva già aprir bocca, allora K con forza tirò in
avanti i suoi accompagnatori. Più volte si girò cauto per vedere se
il poliziotto li seguiva o no; quando tra loro e il poliziotto ci fu
tuttavia un angolo, K iniziò a correre e quei signori furono
costretti a correre anche loro, nonostante che respirassero molto
male.
Così,
velocemente uscirono dalla città, che da quella parte quasi senza
transizione confinava con i campi. Un ponticello di pietra,
abbandonato e malinconico, si trovava nelle vicinanze di un edificio
del tutto cittadino. Qui sostarono quei signori, sia che quel posto
fosse la loro meta fin dall'inizio, sia che fossero troppo sfiatati
per continuare la corsa. Subito lasciarono libero K, che, muto, era
in attesa, si levarono i cappelli a cilindro e, mentre si guardavano
attorno nella cava di pietre, con i fazzoletti si asciugarono la
fronte sudata. Dappertutto la luna, placida e naturale, faceva quella
luce cui nessuna è uguale.
Dopo
uno scambio di alcune forme di cortesia riguardo a chi dovesse
eseguire l'imminente compito – quei signori pareva che avessero
ricevuto l'incarico entrambi – uno andò da K e gli tolse la
giacca, il gilè e infine la camicia. Senza volere K rabbrividì, per
cui quel signore gli dette, per tranquillizzarlo, un colpetto sulle
spalle. Poi con cura mise insieme le robe come se fossero, per quanto
non nell'immediato, ancora utilizzabili. Per non esporre K, immobile,
all'aria notturna, comunque fredda, quello stesso lo prese sotto
braccio e ci camminò insieme un poco, qua e là, mentre l'altro
signore perlustrava la cava alla ricerca di un posto adeguato. Quando
lo ebbe trovato fece un cenno e l'altro vi accompagnò K. Sul posto,
prossimo alla parete della cava, v'era una pietra staccata. I due
piazzarono K in terra e lo appoggiarono alla pietra, su cui
adagiarono la sua testa. Nonostante ogni loro sforzo, nonostante
tutta la cooperazione che K dimostrava loro, il suo contegno molto sottomesso restò inattendibile. Uno dei due pregò l'altro di
lasciare un momento che lui sistemasse K da solo, ma anche così la
cosa non andò meglio. Infine lo sistemarono in una posizione che non
era nemmeno la migliore tra quelle fin lì trovata. Allora uno dei
due signori si aprì la finanziera e trasse, dal fodero che stava
appeso a una cintura tesa sul gilè, un coltello da macellaio, lungo,
stretto e affilato su entrambi i lati, lo alzò e ne esaminò
l'affilatura alla luce. Ricominciarono le stomachevoli forme di
cortesia, l'uno porgeva al di sopra di K il coltello all'altro, che a
sua volta glielo riporgeva. Ben sapeva ora, K, che sarebbe stato suo
dovere afferrare lui il coltello che gli passava sopra da una mano
all'altra, e infilzarsi. Tuttavia non lo fece, invece girò il collo
ancor libero e guardò in giro. Non seppe privare del tutto le
autorità del loro lavoro, di quest'ultima pecca portò la
responsabilità chi gli aveva negato quel rimasuglio di forza
necessaria. I suoi sguardi caddero sull'ultimo piano dell'edificio
confinante con la cava. Le imposte d'una finestra, là, si
scambiavano come una luce sfolgorante reciproca, un uomo, debole,
minuto, lontano lassù, si sporse parecchio in avanti e stese ancor
di più le braccia. Chi era? Un amico? Un brav'uomo? Uno che
simpatizzava? Uno che intendeva esser d'aiuto? Era una persona isolata? Lo
erano tutti? C'era ancora possibilità d'aiuto? C'erano obbiezioni di
cui ci si era dimenticati? Certo ve n'erano. La logica è sì salda,
ma a un uomo che vuol vivere, essa non si oppone. Dov'era il giudice
che lui non aveva mai visto? Dov'era l'alta corte cui lui mai era
arrivato? Alzò le mani e divaricò le dita.
Le
mani di uno dei due signori furono sulla gola di K, l'altro gli
piantò il coltello nel cuore e ce lo rigirò dentro due volte.
Mentre gli occhi gli si spegnevano K vide ancora come prossimi al suo
volto quei due, guancia a guancia, controllavano la corretta esecuzione del
verdetto. “Come un cane!”, lui disse, come se la vergogna dovesse
sopravvivergli.
Franz Kafka: Il processo - 9
Nel duomo
K
fu incaricato di mostrare alcuni monumenti a un corrispondente
d'affari italiano molto importante per la banca, il quale soggiornava
per la prima volta in città. Era un incarico che in altri tempi lui
avrebbe ritenuto assai degno, ma, proprio ora che con molti sforzi
riusciva a conservare la sua reputazione in banca, vi si sottomise
controvoglia. Ogni ora che lui sottraeva all'ufficio gli procurava
ansia; certo non riusciva più, di gran lunga, a sfruttare l'orario
di lavoro come prima, trascorreva parecchie ore unicamente
mostrandosi massimamente bisognoso di lavorare davvero, ma se non si
trovava in ufficio maggiori diventavano le sue preoccupazioni.
Credeva poi di vedere che il vice direttore, il quale del resto era
stato sempre all'erta, di tanto in tanto veniva nel suo ufficio, si
sedeva alla sua scrivania, rovistava tra le sue carte, riceveva
clienti con i quali da anni K era quasi in amicizia e glieli portava
via, anzi forse scopriva perfino errori dai quali K si vedeva sempre
minacciato durante il lavoro da ogni parte, e non riusciva più a
evitare. Se lui veniva perciò incaricato in modo ancora così
lusinghiero sia di procedere a un affare sia di un piccolo viaggio –
simili incarichi si erano accumulati ultimamente del tutto a caso –
era ovvio in ogni caso supporre che lo si allontanasse per un po'
dall'ufficio e si volesse verificare il suo lavoro, o almeno che lo
si ritenesse facilmente sostituibile in ufficio. La maggior parte di
questi incarichi lui avrebbe potuto senza difficoltà scansarli, ma
non osava, infatti, se il suo timore era anche minimamente fondato,
evitare l'incarico significava ammettere la sua paura. Per cui li
assumeva con apparente tranquillità e arrivò a nascondere perfino,
dovendo fare un faticoso viaggio di 2 giorni, un brutto raffreddore,
solo per non esporsi al pericolo, se lui si fosse richiamato alla già
dominante stagione autunnale, piovosa, di venir trattenuto dal
viaggio. Quando con un mal di testa tremendo tornò da questo viaggio
seppe che per il giorno dopo era destinato ad accompagnare il
corrispondente d'affari italiano. Era assai sedotto dalla prospettiva
di rifiutarsi, almeno stavolta, prima di tutto ciò che gli era stato
destinato proprio non aveva connessione immediata con gli affari; il
compimento di questo dovere di tipo mondano nei confronti del
corrispondente d'affari in sé era senza dubbio abbastanza
importante, non solo per K, che pure lo sapeva di poter restare a
galla solo con dei successi professionali e, qualora ciò non gli
fosse riuscito, sapeva che era del tutto inutile che lui magari a
sorpresa incantasse quest'italiano; non voleva nemmeno per un giorno
venir spostato dall'ambito lavorativo, infatti il timore di non venir
più richiamato era troppo grande, era un timore che lui riconosceva
molto bene come esagerato, ma che però lo opprimeva. In questo caso
certamente era quasi impossibile escogitare un'obbiezione
accettabile, la conoscenza della lingua italiana da parte di K non
era certo molto grande, ma pur sempre sufficiente; decisivo era però
che K da anni possedesse delle conoscenze in storia dell'arte, cosa
che in banca era diventato esageratamente nota dal momento che K per
un periodo, del resto per motivi di lavoro, era stato membro della
Associazione per la Conservazione dei Monumenti Cittadini. Ora,
l'italiano, come si era saputo da voci, aveva la passione per l'arte,
e la scelta di K a suo accompagnatore fu per ciò scontata.
Era
una mattina molto piovosa e burrascosa quando K, irritatissimo a
causa della giornata che aveva davanti, fu in ufficio già attorno
alle sette per ultimare almeno un po' di lavoro prima che la visita
lo sottraesse a tutto. Era molto stanco, difatti aveva trascorso metà
della nottata a studiare una grammatica italiana per prepararsi un
po'; la finestra presso cui ultimamente troppo spesso sedeva lo
attirava più della scrivania, ma resisté e si mise al lavoro.
Purtroppo entrò l'usciere e annunciò che il signor direttore lo
aveva mandato a controllare se il signor procuratore era già in
sede; se era presente allora volesse essere così gentile di recarsi
nella sala di ricevimento, il signore dall'Italia era già là.
“Vengo subito”, disse K, ficcò in tasca un dizionarietto, prese
sotto braccio un album di Cose Cittadine Notevoli da Vedere che aveva
preparato per lo straniero e, attraversando l'ufficio del vice
direttore, andò in direzione. Era fortunato a esser venuto in
ufficio tanto presto e a poter essere a disposizione subito, ciò che
nessuno seriamente si era aspettato. L'ufficio del vice direttore era
com'è naturale ancora vuoto come in piena notte, probabilmente
l'usciere aveva dovuto chiamare anche lui nella sala di ricevimento,
ma a vuoto. Quando K entrò nella sala di ricevimento i due signori
si alzarono dalle loro profonde poltrone. Il direttore sorrise
gentile, chiaro che era molto soddisfatto della venuta di K, si
dedicò subito alle presentazioni, l'italiano scosse vigorosamente la
mano a K e nominò ridendo un certo personaggio mattiniero, K non
capì bene chi, si trattava inoltre di una parola particolare il cui
significato K indovinò solo dopo un certo tempo. Rispose con alcune
frasi forbite che l'italiano di nuovo accolse ridendo mentre più
volte nervoso si passava una mano sul pizzo grigio azzurro. Il pizzo
era certamente profumato, quasi si era tentati di avvicinarsi e di
annusarlo. Quando tutti si furono seduti, iniziando un discorsetto
preliminare, K si accorse con gran disagio di capire l'italiano solo
in modo frammentario. Quando parlava lentamente lui capiva quasi
tutto, erano però solo rare eccezioni, per lo più gli zampillavano
davvero le parole dalla bocca e scuoteva la testa, come godendone.
Quel che diceva s'imbrogliava regolarmente in un dialetto che per K
non aveva più nulla della lingua italiana, e che il direttore però
non solo capiva, ma anche parlava, ciò che K d'altra parte avrebbe
potuto prevedere, infatti l'italiano era originario del sud Italia,
dove anche il direttore era stato qualche anno. Comunque K riconobbe
che la possibilità d'intendersi con l'italiano era in gran parte
esclusa, difatti anche il francese che quello parlava era difficile
da capire, inoltre la barba gli nascondeva i movimenti delle labbra,
la cui vista forse sarebbe servita a capire. K iniziò a prevedere
molte noie, intanto rinunciò a voler capire l'italiano – in
presenza del direttore, che lo capiva tanto facilmente, sarebbe stato
uno sforzo inutile. Pur sprofondato in poltrona, si muoveva con
facilità, l'italiano, continuava a tirarsi la corta e attillata
giacchetta e, in un caso, le braccia sollevate, scioltamente muovendo
le mani sui polsi, cercò di descrivere qualcosa che K non riuscì a
capire - si limitò, piegato in avanti, pur senza togliersi le mani
che teneva davanti agli occhi, a osservare l'italiano. Infine
prevalse in K, che senza far altro si limitava a seguire
meccanicamente l'andamento del discorso, la stanchezza mattutina, e
spaventato in un caso si accorse del fatto che, per fortuna a tempo,
distrattamente stava per alzarsi, girarsi e andar via. Finalmente
l'italiano guardò l'orologio e saltò su. Congedatosi dal direttore,
si accostò tanto a K che questi fu costretto a spostare indietro la
sua poltrona per potersi muovere. Il direttore, che certo leggeva
negli occhi di K l'imbarazzo in cui si trovava nei confronti di
quell'italiano, s'infilò in ciò che questi diceva, ma con tanta
abilità e grazia che dette l'impressione di aggiungere solo modesti
consigli, mentre in realtà rendeva comprensibile in sintesi a K
tutto quello che l'italiano diceva, interrompendolo senza tregua. K
seppe così che l'italiano aveva per il momento ancora da curarsi di
certi affari, che avrebbe avuto solo poco tempo in tutto, che inoltre
proprio non intendeva fare in furia il giro di tutte le cose notevoli
da vedere, che invece – certo solo se K era d'accordo, a lui stava
decidere – aveva deciso di visitare unicamente il duomo, ma per
bene. Immensamente lieto di poter fare tale visita in compagnia di un
uomo tanto colto e amabile – così fu definito K, impegnato solo a
evitare l'eloquio dell'italiano per afferrare alla svelta le parole
del direttore – lo pregò, se gli andava bene, di trovarsi entro
due ore, circa alle 10, nel duomo. Quanto a lui sperava di poter
esserci con certezza, a quell'ora. K rispose a modino, l'italiano
strinse la mano prima al direttore, poi a K, poi di nuovo al
direttore e andò verso la porta, seguito da entrambi, voltato solo a
metà verso di loro, ma senza smettere di parlare. K rimase ancora un
poco insieme al direttore che quel giorno pareva davvero star poco
bene. Ritenne di doversi scusare con K e disse – stavano in piedi
confidenzialmente vicini – che dapprima aveva pensato di andarci
lui con l'italiano, ma poi – non spiegò perché – aveva
preferito mandarci K. Se all'inizio non lo capiva subito, non doveva
farsi confondere, molto presto si arrivava a capire, e poi,
nell'ipotesi di capir poco in genere, non era tutto questo male,
difatti per l'italiano non era mica tanto importante venir capito.
Del resto la conoscenza della lingua italiana di K era
sorprendentemente buona e lui si sarebbe adattato magnificamente alla
faccenda. Con ciò K fu congedato. Impiegò il tempo che gli rimaneva
a trascrivere dal dizionario vocaboli non comuni utili a far la guida
nel duomo. Lavoro faticoso assai: gli uscieri portarono la posta, gli
impiegati vennero a domandare cose varie e vedendo K impegnato
restarono sulla porta senza però andarsene fino a quando lui non
dette loro relazione, il vice direttore non mancò di dargli noia,
entrò e rientrò, gli prese il dizionario di mano e lo sfogliò
senza capirci nulla, chiaro, aprendosi la porta nella penombra
dell'anticamera dei clienti fecero capolino inchinandosi incerti,
volevano farsi vedere ma non erano sicuri di esser visti – tutto
questo si muoveva attorno a K come attorno al proprio centro, mentre
lui metteva insieme le parole che gli servivano, le cercava nel
dizionario, poi le trascriveva, si esercitava a pronunciarle e infine
si sforzava di impararle a memoria. La sua buona memoria di una volta
gli pareva di averla completamente perduta, a tratti s'infuriò
talmente con l'italiano, causa di quella sua fatica, che seppellì il
dizionario sotto le carte con la ferma intenzione di non prepararsi
più, poi però capì che non poteva passare di fronte alle opere
d'arte nel duomo senza dir nulla e ritirò fuori il dizionario con
rabbia accresciuta.
Proprio
attorno alle nove e mezzo, quando stava per andare, ci fu una
chiamata telefonica, Leni gli augurò il buongiorno e gli chiese come
stava, K ringraziò in fretta facendo notare che ora non poteva
mettersi a discorrere, perché doveva andare in duomo. “In duomo?”
- chiese Leni. K cercò di spiegarglielo in breve, ma aveva appena
iniziato a farlo che Leni disse di colpo: “ti stanno addosso.” K
non ebbe la pazienza di deplorare il fatto di non esserselo voluto
lui né aspettato, si congedò con due parole, ma mentre riattaccava
disse un po' a se stesso, un po' alla ragazza lontana, che non lo
sentiva più: “sì, mi stanno addosso.”
Però
s'era fatto tardi, quasi c'era il rischio di non arrivare puntuale.
Andò in automobile, all'ultimo momento s'era ricordato anche
dell'album che prima non aveva trovato occasione di proporre e che
per questo prese con sé. Se lo tenne sulle ginocchia e ci tamburellò
sopra per tutto il tragitto. La pioggia era diminuita, ma faceva
freddo, era scuro e umido, in duomo si sarebbe visto poco, però lì
a forza di stare sulle mattonelle gelide il raffreddore di K sarebbe
peggiorato molto.
La
piazza del duomo era completamente vuota, K si rammentò che già da
bambino lo aveva sorpreso il fatto che in quella stretta piazza quasi
tutte le imposte alle finestre delle case fossero abbassate. Col
tempo di oggi era del resto più comprensibile del solito. Anche
dentro il duomo pareva vuoto, naturalmente a nessuno veniva in mente
di venirci, ora. K percorse entrambe le navate laterali, incontrò
solo una vecchia avvolta in un caldo scialle inginocchiata dinnanzi a
un'immagine di Maria, e la guardò. Da lontano vide poi sparire in
una porta un sagrestano zoppo. K era arrivato puntuale, proprio al
suo ingresso erano suonate le 11, ma ancora l'italiano non c'era. K
tornò all'ingresso principale, vi restò per un po' indeciso e fece
poi un giro attorno al duomo, sotto la pioggia, per vedere se
l'italiano non fosse in attesa magari a una delle porte laterali. Non
trovò nessuno. Che il direttore avesse capito male l'ora? Come si
faceva del resto a capir bene quell'uomo? Fosse come fosse, K doveva
aspettarlo almeno ½ ora. Dato che era stanco si volle mettere a
sedere, tornò nel duomo, su un gradino trovò una specie di straccio
di tappeto, lo tirò con la punta di un piede davanti a un banco
vicino, si strinse di più nel cappotto, tirò su il bavero e si mise
seduto. Per distrarsi aprì l'album, lo sfogliò un poco, ma fu
costretto a smettere presto, difatti era talmente scuro che, quando
alzò lo sguardo, nella vicina navata laterale si distingueva appena
un dettaglio.
In
lontananza scintillava sull'altar maggiore un grande triangolo di
luci di candela, K non avrebbe potuto dire con precisione se le
avesse già viste prima. Forse erano state accese solo ora. I
sagrestani sono sornioni professionali, non li si nota. Nel voltarsi
per caso K vide non lontano dietro di sé un lungo e grosso cero
fissato su una colonna bruciare anch'esso. Per quanto donasse
all'illuminazione delle immagini presenti sull'altare, in maggioranza
esse si trovavano nella tenebra degli altari laterali, il cero non
bastava affatto, anzi accresceva la tenebra. Da parte dell'italiano
era stato tanto ragionevole quanto scortese non esser venuto, non ci
sarebbe stato nulla da vedere, accontentandosi della lampadina
elettrica tascabile di K per ispezionare, a mo' di doganieri, qualche
immagine. Per individuare che cosa ci si potesse aspettare K andò in
una piccola cappella laterale, salì pochi gradini fino a un basso
parapetto di marmo e chinato sopra illuminò con la lampadina
l'immagine sull'altare. Importuno, il lumino votivo vi pendeva
davanti. La prima cosa che vide e in parte indovinò K era un grosso
cavaliere in corazza rappresentato al margine estremo del quadro. Si
appoggiava a una spada che aveva spinto nel suolo ghiacciato davanti
a sé – spuntavano solo alcuni fili d'erba qua e là. Pareva
osservare attento un evento che gli si svolgeva davanti. Strano che
restasse fermo e non si avvicinasse. Forse aveva l'ordine di far la
guardia. K, che già da molto non aveva visto alcun quadro, esaminò
meglio il cavaliere nonostante che a causa della luce verde della
lampadina, che non sopportava, fosse costretto a stringere gli occhi.
Quando passò con la luce sul resto del quadro trovò una sepoltura
di Cristo di usuale concezione - per altro il quadro era nuovo. Mise
in tasca la lampadina e tornò al suo posto.
Probabilmente
era già inutile, ora, aspettare l'italiano, fuori però pioveva a
dirotto e dato che lì non era così freddo come lui si era
aspettato, decise di restare, per il momento. Vicino a lui si trovava
il pulpito maggiore sul cui tettuccio tondo erano fissate due croci
dorate vuote semi orizzontali, i cui vertici s'incrociavano. La
parete esterna del parapetto fino alla colonna portante era formata
da un fogliame verde nel quale mettevano le mani angioletti sia
vivaci sia placidi. K andò davanti al pulpito e lo esaminò da tutti
i lati, la lavorazione della pietra era estremamente accurata, la
profonda oscurità tra le foglie e dietro di esse gli parve come
fosse intrappolata e trattenuta, mise una mano in uno di quei varchi
tra le foglie e saggiò cauto la pietra, fin lì non era affatto
stato a conoscenza di quel pulpito. In quella scorse per caso dietro
la fila più vicina di banchi un sagrestano che stava lì con addosso
un abito nero a pieghe cadenti, nella mano sinistra teneva una
scatola di tabacco da fiuto e scrutava K. “Ma cosa vuole?” pensò
K. “Mi vede come un tipo sospetto? Vuole una mancia?” Quando però
il sagrestano vide che K lo aveva notato, con la destra indicò una
direzione vaga, tra due dita ancora tenendo una presa di tabacco. La
sua condotta era quasi incomprensibile, K attese ancora un po', ma il
sagrestano non smetteva di indicare qualcosa sottolineando il gesto
con dei cenni del capo. “Ma cosa vuole?”, chiese a bassa voce K,
non osando chiamarlo, in quel luogo; poi però estrasse il borsellino
e s'infilò tra i banchi per raggiungerlo. Quello fece subito un
movimento di ripulsa con una mano, scosse le spalle e alla zoppa se
ne andò. Con un simile frettoloso zoppicare K da bambino aveva
cercato di imitare l'andare a cavallo. “Un vecchio puerile”,
pensò K, “ha comprendonio bastante a fare il sagrestano, guarda
come si ferma se mi fermo io e come sta in agguato a vedere se voglio
andar oltre.” Con un risolino K seguì il vecchio attraverso
l'intera navata laterale quasi fino all'altezza dell' altar maggiore,
senza che quello smettesse di indicare qualcosa, tuttavia a bella
posta K non si voltò, il gesto non aveva altra meta che distoglierlo
dall'inseguimento. Infine rinunciò, non voleva impaurirlo troppo né
intendeva scacciar del tutto quell'apparizione, nel caso che
l'italiano dovesse ancora venire.
Entrato
nella navata centrale per cercare il posto dove aveva lasciato
l'album, notò una colonna quasi al limite dei banchi del coro presso
l'altare, che su un fianco aveva un piccolo pulpito di semplicissima
pietra, sbiadita e spoglia. Era così piccolo che da lontano pareva
una nicchia ancora vuota destinata a includere una statua. Il
predicatore certo non poteva retrocedere dal parapetto di un passo
completo. Oltre a ciò la curvatura della volta del pulpito, fatta in
pietra, iniziava insolitamente in basso e - sì - saliva del tutto
disadorna, tuttavia al vertice era talmente acuta che un uomo di
taglia normale non poteva starci in piedi, ma era costretto a
piegarsi costantemente sul parapetto. L'insieme era destinato come a
tormentare il predicatore, era incomprensibile la finalità di quel
pulpito dal momento che ce n'era un altro grande e artisticamente
ornato a disposizione.
A
K certo questo piccolo pulpito non avrebbe dato nell'occhio, se non
vi fosse stata messa una lampada, in alto, come si usa disporne
subito prima di una predica. Doveva, per dire, averne luogo una ora?
Con la chiesa vuota? K guardò la scala che addossata alla colonna
portava al pulpito, stretta come se non dovesse servire a delle
persone, ma solo come ornamento. Tuttavia sotto il pulpito, e K fece
un risolino di stupore, c'era davvero il prete, aveva una mano sulla
balaustra, pronto a salire, e guardava verso K. Poi annuì
leggermente, per cui K si fece il segno della croce e s'inchinò,
come avrebbe già dovuto fare. Il prete si dette un po' di slancio e
salì a passi brevi e svelti al pulpito. Davvero doveva iniziare una
predica? Forse il sagrestano non era poi tanto insensato e aveva
inteso spingere K dal predicatore, cosa certo, stante la vuotezza
della chiesa, necessaria. Per altro da qualche parte c'era ancora
davanti a un'immagine di Maria una vecchia che anche lei avrebbe
dovuto venire. E nel caso che già dovesse esserci una predica,
perché non veniva introdotta dall'organo? Invece la sua alta mole
taceva brillando debolmente.
K
pensò se non dovesse allontanarsi in fretta, ora, se non lo faceva
subito non c'era alcuna probabilità che potesse farlo durante la
predica, quindi era costretto a restare finché durava, in ufficio
perdeva tanto di quel tempo, non era più di gran lunga tenuto ad
aspettare l'italiano, guardò l'orologio, erano le 11. Ma davvero
poteva esserci una predica? K da solo poteva rappresentare la
comunità religiosa? E come, dal momento che era un estraneo che
voleva solo visitare la chiesa? In fondo era solo questo. Era una
stupidaggine pensare che dovesse aver luogo una predica ora, alle 11,
in una giornata lavorativa e con un tempo orribile. Il prete – lo
era indubbiamente, era un giovane dal volto scuro e liscio –
certamente andava su per spegnere la lampada, accesa per errore.
Non
fu così, però, il prete esaminò anzi la lampada e ne aumentò la
luce ancora un po', poi si volse lento verso il parapetto e lo
afferrò con entrambe le mani sul davanti del bordo spigoloso. Stette
così per un po' e, la testa immobile, guardò attorno. K era
arretrato di un bel pezzo e con i gomiti si appoggiò al banco più
prossimo. Incerto vide da qualche parte, senza ben distinguere dove,
il sagrestano che si accovacciava sghembo, tranquillo come dopo aver
finito quel che doveva fare. Ma che silenzio, ora, nel duomo! Però K
era costretto a turbarlo, non aveva intenzione di restare; se era
dovere del prete predicare a una certa ora senza considerare
l'uditorio, che lo facesse, ciò sarebbe riuscito anche senza che ci
fosse lì K, inoltre la presenza di K non ne avrebbe di certo
accresciuto l'effetto. Per cui K si mosse, in punta di piedi annaspò
lungo il banco, pervenne nel largo passaggio centrale e lo percorse
del tutto indisturbato, peccato che il pavimento di pietra risuonasse
anche al passo più leggero e le volte riecheggiassero, debolmente ma
senza interruzione, quel regolarissimo procedere. K si sentì un po'
smarrito nell'avanzare in solitudine, forse osservato dal prete, tra
i banchi vuoti, e la grandezza del duomo gli parve stare al limite di
ciò che umanamente era ancora sopportabile. Arrivato al suo posto di
prima, cercò davvero al volo, senza fermarsi, l'album che aveva
lasciato lì e lo prese con sé. Aveva già quasi lasciato la zona
dei banchi e si avvicinava all'area libera tra essi e l'uscita quando
udì per la prima volta la voce del prete. Voce poderosa, esercitata.
Come si diffuse, nel duomo preparato ad accoglierla! Tuttavia non
alla comunità religiosa si rivolgeva il prete, in tutta evidenza e
senza scappatoie egli chiamava “Joseph K!”
K
s'arrestò e guardò il suolo davanti a sé. Per il momento era
ancora libero, poteva ancora procedere e attraversare una delle tre
porticine di legno scuro, che non erano lontane. Ciò avrebbe
significato che non aveva capito o che, sì, aveva capito, ma non ne
voleva sapere. Nel caso che si voltasse era preso, difatti avrebbe
confessato di aver capito bene, di essere davvero la persona chiamata
e di voler inoltre obbedire. Se il prete avesse chiamato ancora una
volta certo K sarebbe andato oltre, ma poiché tutto tacque intanto
che K aspettava, voltò un po' la testa, difatti voleva vedere che
cosa ora facesse il prete. Stava sul pulpito tranquillo come prima,
ma era evidente che aveva notato il movimento della testa fatto da K.
Sarebbe stato un gioco infantile a nascondino se ora lui non si fosse
girato del tutto. Lo fece e venne chiamato dal prete, col cenno di un
dito, ad avvicinarsi. Poiché ora tutto poteva avvenire apertamente,
lui si affrettò – tanto per curiosità quanto per abbreviare la
cosa – verso il pulpito a passi lunghi e rapidi. Si fermò presso i
primi banchi, ma al prete la distanza pareva ancora troppo grande,
protese una mano e con l'indice energicamente abbassato indicò un
punto vicinissimo al pulpito. K ubbidì, in quel punto doveva
piegare la testa parecchio indietro per vedere ancora il prete. “Tu
sei Joseph K”, disse questi alzando una mano sul parapetto con un
movimento incerto. “Sì”, disse K pensando a quanto apertamente,
prima, lui avesse sempre detto il suo nome, mentre da un po' di tempo
gli faceva fatica, e ora il suo nome era noto anche a gente che lui
incontrava per la prima volta - com'era bello presentarsi da
principio e solo dopo venir conosciuto! “Tu sei imputato”, disse
il prete assai a bassa voce. “Sì”, disse K, “mi hanno
informato di ciò.” “Allora sei la persona che cerco”, disse il
prete. “Sono il cappellano del carcere.” “Ah, ecco”, disse K.
“Ti ho fatto chiamare qui “, disse il prete, “per parlare con
te.” “Non lo sapevo”, disse K. “Sono venuto qui per mostrare
il duomo a un italiano.” “Lascia perdere le cose secondarie”,
disse il prete. “Cosa tieni in mano? Un libro di preghiere?”
“No”, rispose K, “è un album di cose cittadine notevoli da
vedere” “Toglitelo di mano”, disse il prete. K lo gettò via
con tanta energia che l'album si aprì e scivolò per un pezzo sul
pavimento con le pagine spiegazzate. “Lo sai che il tuo processo va
male?” “Pare anche a me”, disse K. “Mi sono affaticato in
ogni modo, ma finora senza successo. D'altra parte non ho ancora
l'istanza pronta.” “Come t'immagini che finisca?” - chiese il
prete. “Prima pensavo che dovesse finir bene”, disse K, “ora ne
dubito molto anch'io, a volte. Non so come finirà. Tu lo sai?”
“No”, disse il prete, “ma temo che finirà male. Ti si ritiene
colpevole. Il tuo processo forse non perverrà nemmeno oltre un
tribunale di basso grado. Almeno per il momento si ritiene la tua
colpa come dimostrata.” “Io però non sono colpevole”, disse K.
“Si tratta di un errore. Ma come può, in genere, un uomo essere
colpevole? Siamo tutti uomini, qui, uno come l'altro.” “E'
giusto”, disse il prete, “ma così parlano di solito i
colpevoli.” “Anche tu hai un pregiudizio contro di me?” -
chiese K. “Nessun pregiudizio contro di te”, disse il prete. “Ti
ringrazio”, disse K. “Ma tutti gli altri che partecipano al
procedimento hanno un pregiudizio contro di me. Lo infondono anche in
coloro che non ne fanno parte. La mia posizione diventa sempre più
difficile.” “Tu fraintendi le cose”, disse il prete. “Il
verdetto non arriva in una volta sola, è il procedimento che un po'
alla volta si trasforma in verdetto.” “Dunque è così”, disse
K e abbassò il capo. “Che cosa vuoi fare prossimamente con la tua
causa?” - chiese il prete. “Intendo cercare ancora aiuto”,
disse K sollevando il capo per vedere come il prete valutava ciò.
“Ci sono ancora certe possibilità che non ho sfruttato.” “Tu
cerchi troppi aiuti estranei”, disse con tono di biasimo il prete,
“specie tra le donne. Ma non ti accorgi che non è vero aiuto?”
“Talvolta, anche spesso, potrei darti ragione”, disse K, “ma
non sempre. Le donne hanno un gran potere. Se alcune donne che
conosco potessi portarle a lavorare per me tutte insieme, mi
imporrei. In particolare presso questo tribunale, che consiste quasi
solo di donnaioli. Indica al giudice istruttore una donna da lontano
e lui solo per arrivarci in tempo rovescia il tavolo del tribunale e
l'imputato.” Il prete abbassò il capo verso il parapetto, solo ora
la copertura del pulpito parve opprimerlo. Ma che razza di tempaccio
doveva esserci fuori! Non era più una giornata fosca, era già notte
fonda. Nessuna delle vetrocromie delle grandi finestre era in grado
di interrompere il buio delle pareti anche solo con un bagliore. E
proprio ora il sagrestano iniziava a spegnere una dopo l'altra le
candele sull' altar maggiore. “Ce l'hai con me?” - chiese K al
prete. “Forse non sai di che razza di tribunale sei al servizio.”
Non ebbe alcuna risposta.” “Si tratta solo di esperienze mie”,
disse K. In alto non vi fu parola. “Non volevo offenderti”, disse
K. In quella il prete urlò verso K: “Ma non ce la fai a vedere più
in là di due passi?” Urlata rabbiosa, ma insieme come di chi veda
qualcuno cadere e senza volere urli perché è spaventato lui stesso.
Tacquero
entrambi, ora, a lungo. Certo il prete non poteva vedere bene K nel
buio che in basso dominava, mentre K, alla luce della piccola
lampada, lo vedeva con chiarezza. Perché non scendeva, il prete? Non
aveva tenuto mica una predica, aveva comunicato a K solo delle cose
che, se lui ci avesse fatto attenzione per bene, probabilmente gli
avrebbero fatto più danno che servirgli. Eppure a K pareva, quella
del prete, senza dubbio un'intenzione buona, non era impossibile che
il prete si unisse a lui, se scendeva, non era impossibile che lui ne
ricevesse un decisivo e accettabile consiglio che, per esempio,
indicasse non come si poteva influire sul processo, per dire, ma come
sfuggirgli, come eluderlo, come poter vivere al di fuori di esso.
Doveva esserci questa possibilità, negli ultimi tempi K ci aveva
pensato più volte. Se però il prete conosceva una tale possibilità
forse, se glielo si chiedeva, l'avrebbe rivelata nonostante che anche
lui facesse parte del tribunale e nonostante che, quando K aveva
criticato il tribunale, lui avesse represso la sua natura placida e
addirittura si fosse messo a urlargli contro.
“Non
vuoi scendere?” - disse K. “Mica c'è da fare una predica. Vieni
giù da me.” “Ora posso venire”, disse il prete, forse pentito
della sua urlata. Mentre toglieva la lampada dal gancio, disse:
“dapprima fui costretto a parlarti da lontano. Altrimenti mi lascio
influenzare facilmente e dimentico il mio compito.”
K
lo attese in fondo alla scala. Il prete gli tese la mano già da un
gradino sopra, mentre scendeva. “Hai un po' di tempo per me?” -
chiese K. “Quanto te ne serve”, disse il prete porgendo la
piccola lampada a K perché la portasse. Anche da vicino non andava
perduta una certa solennità del suo essere. “Sei molto gentile con
me”, disse K. Camminavano su e giù uno accanto all'altro nella
buia navata laterale. “Sei un'eccezione tra tutti quelli che fanno
parte del tribunale. Mi fido più di te che di ogni altro di quelli
che già conosco. Con te posso parlar chiaro.” “Non ti illudere”,
disse il prete. “Ma illudermi a proposito di che?” - chiese K.
“Ti fai illusioni sul tribunale”, disse il prete, “negli
scritti introduttivi alla Legge è trattata tale illusione: davanti
alla Legge sta un guardiano della porta. Da lui arriva un uomo dalla
campagna e lo prega di farlo accedere alla Legge. Tuttavia il
guardiano dice che subito non può concedergli l'accesso. L'uomo
riflette e poi chiede se più tardi potrà accedervi. 'E' possibile',
dice il guardiano, 'ma ora no.' Dato che il portone d'accesso alla
Legge è libero come sempre e il guardiano si pone a lato, l'uomo si
sporge a guardare dentro attraverso il portone. Quando il guardiano
se ne accorge, ride e dice: 'se tanto ti attira, prova a entrare,
nonostante il mio divieto. Ma attento: io sono potente. E sono solo
il guardiano di più basso grado. Di aula in aula ci sono però
uscieri uno più potente dell'altro. Già la vista del terzo nemmeno
io posso tollerarla.' L'uomo di campagna non si è aspettato simili
difficoltà, la Legge dev'essere a tutti e sempre accessibile, lui
pensa, ma ora che guarda meglio il guardiano, il suo cappotto di
pelliccia, il suo nasone a punta, la lunga e sottile barba nera alla
tartara, decide che è meglio aspettare fino a quando non riceverà
il permesso di accedere. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo
lascia sedere di lato alla porta. Lì siede giorni e anni. Fa
svariati tentativi di venir ammesso e stanca il guardiano con le sue
preghiere. Il guardiano più volte dà luogo a modeste
interrogazioni, gli chiede del suo luogo natio e di molto altro, ma
si tratta di domande prive di partecipazione come quelle che fanno i
gran signori, e in conclusione continua a ridirgli che ancora non può
ammetterlo. L'uomo, che per il suo viaggio si è ben provvisto,
adopera tutto, per quanto si tratti anche di valori, allo scopo di
conquistare il guardiano. Questi accetta sì tutto, ma insieme dice:
'lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.'
Durante quei molti anni l'uomo osserva il guardiano quasi
ininterrottamente. Dimentica gli altri uscieri e questo, il primo,
gli sembra l'unico ostacolo per accedere alla Legge. Maledice lo
sfortunato caso, nei primi anni a voce alta, più tardi, quando
invecchia, brontola soltanto, senza guardare il guardiano.
Rimbambisce e poiché nello studiare per lunghi anni il guardiano ha
acquisito la conoscenza anche delle pulci presenti nel bavero della
sua pelliccia, prega anche le pulci di aiutarlo e di far cambiare
idea al guardiano. Infine gli s'indebolisce la vista né sa se
attorno a lui si fa veramente più buio o se gli occhi lo ingannano.
Però è capace di riconoscere ora nel buio un brillio che
inestinguibile proviene dalla porta della Legge. Non vive più a
lungo, ora. Prima di morire nella sua testa tutte le esperienze di
tutto quanto il tempo si riassumono in una domanda che ancora lui non
ha posto al guardiano. Gli fa un cenno, dato che non riesce più ad
alzarsi con il suo corpo irrigidito. Il guardiano è costretto a
chinarsi profondamente, difatti la differenza di taglia tra loro è
cambiata molto a sfavore dell'uomo. 'Ma che cosa vuoi ancora sapere?'
- chiede il guardiano, 'sei insaziabile.' 'Tutti mirano alla Legge',
dice l'uomo, ' ma com'è che in tanti anni nessuno, oltre a me, ha
chiesto di essere ammesso?' Il guardiano comprende che l'uomo è già
arrivato alla fine e, per riuscire a farsi sentire da quelle orecchie
morenti, gli grida: 'qui nessun altro poteva ottenere di essere
ammesso, quest'entrata era destinata solo a te. Ora vado a
chiuderla.' “
“Dunque
il guardiano ha ingannato l'uomo”, disse subito K, tutto preso
dalla storia. “Non aver troppa fretta”, disse il prete, “non
accettare l'opinione di estranei senza metterla alla prova. Ti ho
riferito la storia testualmente. Non v'è niente che parli
d'inganno.” “Invece è chiaro”, disse K, “e la tua prima
lettura era giustissima. Il guardiano ha fatto la comunicazione
liberatoria solo allorquando essa non poteva più aiutare l'uomo.”
“Non venne interrogato, prima”, disse il prete, “considera che
era solo un guardiano e come tale ha fatto il suo dovere.” “Perché
dici che ha fatto il suo dovere?” - chiese K, “non l'ha fatto. Il
suo dovere forse era respingere tutti gli estranei, ma quell'uomo era
destinato all'accesso, lui avrebbe dovuto farlo passare.” “Non
sei stato abbastanza attento al testo e cambi la storia”, disse il
prete. “La storia contiene in merito all'accesso alla Legge due
spiegazioni importanti da parte del guardiano, una all'inizio, una
alla fine. Nell'una dice 'che non poteva subito concedergli
l'accesso', e nell'altra: 'questo accesso era destinato solo a te.'
Se ci fosse tra queste due spiegazioni una contraddizione allora
avresti ragione tu e il guardiano avrebbe ingannato l'uomo. Orbene,
non c'è però alcuna contraddizione. Al contrario, la prima
spiegazione accenna alla seconda, perfino. Il guardiano andò oltre
il suo dovere, si potrebbe dire, nel prospettare all'uomo la futura
possibilità di essere ammesso. In quel momento sembra essere stato
suo dovere solo respingere l'uomo. E in effetti molti esegeti si
meravigliano del fatto che il guardiano abbia fatto quell'accenno,
difatti egli pare amar la correttezza e veglia severo sul suo
ufficio. Per molti anni non lascia il suo posto e chiude il portone
solo all'ultimo, è assai consapevole dell'importanza del suo
servizio, difatti dice: 'io sono potente', ha rispetto per i
superiori, difatti dice 'sono solo l'ultimo degli uscieri'; com'è
suo dovere lui non si fa commuovere né esasperare, difatti dell'uomo
si dice che 'stanca il guardiano con le sue preghiere'; non è
ciarliero, difatti durante molti anni pone solo domande, sta scritto,
'senza partecipazione'; non è corruttibile, difatti in merito a un
dono dice di prenderlo 'solo perché' l'uomo 'non creda di aver
trascurato qualcosa'; infine anche il suo aspetto esteriore, il
nasone a punta e la lunga barba sottile alla tartara, indica un
carattere pedante. Può esserci un guardiano più ligio al dovere?
Orbene, però in lui sono commisti anche altri tratti caratteriali
che, per chi desidera l'ammissione alla Legge, sono assai positivi e
rendono pur sempre comprensibile che lui in quell'accenno a una
futura possibilità potesse essere andato un po' oltre il suo dovere.
Voglio dire che è innegabile che lui sia un po' semplicista e, in
rapporto a ciò, un po' presuntuoso. Anche se le sue affermazioni
circa il suo potere, circa il potere degli altri guardiani e circa la
loro vista perfino a lui intollerabile – dico, anche se tutte
queste affermazioni dovessero essere corrette, il modo in cui lui le
formula indica però che il suo comprendonio è offuscato
dall'ingenuità e dalla superbia. Gli esegeti dicono: comprensione
corretta di una cosa e comprensione scorretta della medesima cosa non
si escludono a vicenda del tutto. Comunque si deve ammettere però
che ogni ingenuità e presunzione, per quanto si mostrino forse al
minimo, indeboliscono la sorveglianza dell'accesso, si tratta di
lacune nella fermezza del guardiano. Inoltre il guardiano sembra
essere per natura gentile, non è assolutamente sempre un uomo
d'ufficio. Fin dai primi momenti per scherzo nonostante il vigente
divieto di ingresso invita l'uomo, poi non lo manda via, diciamo
così, ma gli dà uno sgabello, come sta scritto, e lo fa sedere da
una parte davanti alla porta. La pazienza con cui per anni e anni
tollera le preghiere dell'uomo, i brevi colloqui, l'accettazione dei
doni, l'eleganza con cui ammette che l'uomo lì a due passi deprechi
a voce alta l'infelice caso che ha messo sul posto il guardiano –
tutto questo lascia concludere che in lui vi siano sentimenti
compassionevoli. Non tutti i guardiani avrebbero agito così. E da
ultimo basta un cenno perché lui si chini tutto verso l'uomo per
dargli l'opportunità della domanda finale. Appena un po'
d'impazienza – il guardiano sa che è davvero la fine – si
esprime nelle parole 'sei insaziabile'. Diversi esegeti vanno oltre,
con tale modalità esplicativa, e opinano che le parole 'sei
insaziabile' esprimano una sorta di amichevole stupore del resto non
privo di simpatia. Comunque così la figura del guardiano si
definisce diversamente da come tu ritieni.” “Tu credi dunque che
l'uomo non venne ingannato?” “Non equivocare le mie parole”,
disse il prete, “ti segnalo solo le opinioni che ci sono in merito.
Non devi badare troppo alle opinioni. Il testo è immutabile e
sovente le opinioni sono soltanto un'espressione di disperazione ad
esso riferita. In questo caso c'è perfino un'opinione secondo cui
proprio il guardiano è la persona ingannata.” “E' un'opinione
estensiva”, disse K, “che fondamento ha?” “Il fondamento”,
rispose il prete, “sta l'ingenuità del guardiano. Si dice che egli
non conosce l'interno della Legge, ma solo il percorso che davanti
all'ingresso lui deve sempre ripercorrere. Ciò che egli s'immagina
dell'interno viene ritenuto infantile e si suppone che lui stesso
tema l'oggetto della paura che vuol incutere all'uomo. Anzi lo teme
più dell'uomo, difatti questi non vuole nient'altro che entrare,
anche quando è venuto a sapere dei terribili guardiani che ci sono
all'interno, al contrario il guardiano non vuole entrare, almeno,
nulla se ne sa. Altri dicono, è vero, che in precedenza nell'interno
dev'esserci stato, il guardiano, difatti un tempo è stato assunto al
servizio della Legge, cosa che può avvenire solo nell'interno. A ciò
si può rispondere che lui potrebbe esser stato fatto guardiano
tramite una nomina dall'interno, ma all'interno potrebbe non esserci
stato, per lo meno non molto all'interno, dato che non riesce a
tollerare già la vista del terzo guardiano. A parte ciò, tuttavia,
non si dice che in tanti anni egli abbia riferito qualcosa
dell'interno, a parte quel che disse circa i guardiani. Potrebbe
esser stato proibito farlo, ma neppure della proibizione egli
riferisce qualcosa. Da ciò si conclude che lui non sa nulla di come
si presenta e di quale sia il significato dell'interno, per questo
s'inganna. Tuttavia lui forse s'inganna anche sull'uomo di campagna,
difatti gli è subordinato, e non lo sa. Che lui tratti l'uomo come
un subordinato si capisce da molte cose, non te ne scordare. Che
però di fatto gli sia subordinato deve risultare, secondo tale
opinione, altrettanto chiaramente. Prima di tutto il libero cittadino
è anteposto al cittadino soggetto a controllo. Orbene, l'uomo è di
fatto libero, può andare dove vuole, solo l'accesso alla Legge gli è
proibito e inoltre solo da un singolo, dal guardiano. Se si siede di
lato al portone sullo sgabello e ci resta per tutta la vita, ciò
avviene per sua libera volontà, la storia non riferisce di alcuna
costrizione. Al contrario il guardiano è legato dal suo ufficio al
suo posto, non ha il permesso di allontanarsi, ma stando
all'apparenza non può neanche andare nell'interno, anche volendo.
Oltre a ciò lui è sì al servizio della Legge, ma nei limiti di
questo ingresso, dunque anche solo per quest'uomo al quale soltanto è
destinato quest'ingresso. Anche per questo motivo il guardiano gli è
subordinato. E' ipotizzabile che per anni e anni, durante l'età
virile, egli abbia prestato un servizio privo di scopo, difatti viene
detto che viene un uomo, dunque qualcuno di età virile, che dunque
il guardiano dovette attendere a lungo prima che il suo compito si
realizzasse, così a lungo quanto all'uomo aggradava, il quale venne
tuttavia di sua volontà. Tuttavia anche il termine del servizio
viene determinato dal termine della vita dell'uomo, fino al termine
il guardiano gli rimane subordinato. E continua a essere sottolineato
che di tutto questo il guardiano non sembra sapere nulla. In ciò non
viene visto però nulla di scandaloso, difatti stando a
quest'opinione il guardiano si ritrova in un più grave inganno, che
riguarda il suo servizio. Da ultimo, mi spiego, egli parla dell'
entrata e dice 'ora vado e la chiudo', ma all'inizio sta scritto che
il portone alla Legge è libero come sempre, ma se è libero come
sempre, vale a dire sempre, indipendentemente dalla durata della vita
dell'uomo cui è destinato, allora nemmeno il guardiano lo potrà
chiudere. Su questo le opinioni si dividono: annunciando che chiuderà
il portone il guardiano vuol dare solo una risposta, o vuol rimarcare
il suo dovere, oppure all'ultimo momento vuol far pentire l'uomo e
rattristarlo? In molti però concordano su fatto che lui il portone
non potrà chiuderlo. Addirittura ritengono che alla fine egli sia
subordinato all'uomo anche in quel che lui sa, difatti l'uomo vede il
brillio che viene fuori dall'ingresso della Legge, mentre il
guardiano, come tale, sta con le spalle al portone e in nessun modo
mostra di aver notato un cambiamento.” “E' ben fondata
quest'opinione”, disse K, che sottovoce aveva ricapitolato per sé
, della spiegazione del prete, i singoli punti. “Ben fondata, ora
credo che anche il guardiano s'inganni. Con ciò non ho abbandonato
la mia opinione di prima, difatti entrambe in parte coincidono. Non è
determinante che il guardiano abbia le idee chiare o invece
s'inganni. L'uomo viene ingannato, dissi. Se il guardiano ha le idee
chiare si potrebbe avere il dubbio se l'uomo venga, o non venga,
ingannato; ma se il guardiano s'inganna, allora il suo essere
ingannato necessariamente deve trasferirsi sull'uomo. Il guardiano
no, non è affatto un impostore, ma allora è così ingenuo che
dovrebbe subito essere cacciato dal suo servizio. Puoi però
considerare che l'inganno in cui si trova il guardiano non lo
danneggia per niente, mentre danneggia l'uomo millanta volte.” “Qui
incorri in una opinione contraria”, disse il prete. “Voglio dire,
molti dicono che la storia non dà ad alcuno il diritto di giudicare
in merito al guardiano. A parte il modo come egli ci appare, è un
servitore della Legge, dunque le appartiene, dunque è distolto dal
giudizio umano. Si può poi anche non credere che il guardiano sia
subordinato all'uomo. Esser legato dal suo servizio, anche solo
all'accesso alla Legge, è incomparabilmente di più che non vivere
liberi nel mondo. L'uomo alla Legge viene e basta, il guardiano c'è
già. Dalla Legge è destinato al servizio, dubitare del suo esserne
degno, significa dubitare della Legge.” “Con tale opinione non
sono d'accordo”, disse K scuotendo la testa, “difatti se si
aderisce a essa, si deve ritenere vero tutto quel che il guardiano
dice. Che però ciò non sia possibile, tu stesso lo hai
dettagliatamente motivato.” “No”, disse il prete, “non si
deve ritenere tutto vero, si deve solo ritenerlo necessario.”
“Opinione triste”, disse K. “La menzogna viene trasformata in
ordinatrice del mondo.”
K
lo disse a mo' di conclusione, ma non era il suo un giudizio
definitivo. Era troppo stanco per poter tener d'occhio tutte le
conseguenze argomentative della storia, inoltre i ragionamenti a cui
essa lo portava erano insoliti, astrazioni più adatte alle
discussioni della compagnia dei funzionari del tribunale che a lui.
Quella semplice storia era diventata un qualcosa d'informe, lui
voleva sbarazzarsene e il prete, ora dimostrando un gran tatto, fu
tollerante e tacque all'osservazione di K, nonostante che certo non
coincidesse con la sua propria.
Continuarono
per un po' a camminare in silenzio, K tenendosi stretto al prete
senza sapere, nella tenebra, dove si trovasse. La lampada che aveva
in mano s'era da molto spenta. A un tratto proprio davanti a lui
luccicò la statua argentea d'un santo solo per il brillare
dell'argento, e subito risparì nel buio. Per non abbandonarsi del
tutto al prete, K gli chiese: “Non siamo nelle vicinanze
dell'ingresso principale?” “No”, disse il prete, “ne siamo
lontani. Vuoi già andartene?” Nonostante che in quel momento K non
ci pensasse, disse subito: “Certo, devo andare. Sono procuratore in
una banca, mi aspettano, sono venuto solo per mostrare a un collega
straniero il duomo.” “Be'”, disse il prete porgendogli la mano,
“allora va'.” “Ma non riesco da solo a orientarmi nel buio”,
disse K. “Tieniti a sinistra alla parete”, disse il prete, “poi
seguila senza lasciarla e troverai un'uscita.” S'era allontanato di
pochi passi, il prete, e già K lo chiamava a voce altissima: “per
favore, aspetta.” “Aspetto”, disse il prete. “Non vuoi
ancora qualcosa da me?”, chiese K. “No”, disse il prete. “Fosti
così gentile con me, poco fa”, disse K, “mi hai spiegato tutto,
ora invece mi abbandoni come se non t'importasse nulla di me.” “Ma
devi andare”, disse il prete. “Sì, certo”, disse K, però abbi
considerazione.” “Abbine tu, prima, di chi sono io”, disse il
prete. “Sei il cappellano del carcere”, disse K e gli si
avvicinò, il suo immediato ritorno in banca non era così necessario
come l'aveva presentato, poteva ben restare ancora lì. “E faccio
parte del tribunale”, disse il prete. “Perché dunque dovrei
voler qualcosa da te. Il tribunale da te non vuole nulla. Ti riceve
quando vieni, e ti lascia quando vai.”
venerdì 12 giugno 2020
Franz Kafka: Il processo - 8
Block, commerciante
Licenziamento
dell'avvocato
Alla
fine K aveva deciso di ritirare la procura all'avvocato. Non
mancavano certo dubbi circa la giustezza di agire in quel modo, ma
prevalse la costrizione della necessità. La decisione lo aveva
privato, il giorno in cui si dispose ad andare dall'avvocato, di
molta energia lavorativa, lavorò in modo particolarmente lento, dové
restare molto a lungo in ufficio ed erano già passate le 10 quando
finalmente fu davanti alla porta dell'avvocato. Ancor prima di
suonare rifletté se non fosse meglio licenziare l'avvocato per
telefono o con una lettera, parlarci di persona sarebbe stato certo
molto spiacevole. Nonostante ciò K in definitiva non voleva
rinunciare al colloquio, con ogni altra modalità il licenziamento
sarebbe stata accolto in silenzio o con poche parole formali, né K
avrebbe mai saputo, se non avesse potuto diciamo sondare Leni, come
l'avvocato l'avesse presa e qual mai conseguenza per K potesse avere
questo licenziamento secondo l'opinione non irrilevante
dell'avvocato. Nel caso invece che, seduto davanti a K, l'avvocato
fosse rimasto sorpreso dal licenziamento, K avrebbe potuto facilmente
apprendere dalla sua faccia e dal suo atteggiamento tutto quel che
voleva, anche se l'avvocato non si fosse fatto strappare granché.
Addirittura non era escluso che K venisse convinto del fatto che
invece era bene lasciare la difesa all'avvocato, e ritirasse il
licenziamento.
La
prima scampanellata fu come al solito a vuoto. “Leni potrebbe
essere più svelta”, pensò K. Era tuttavia già un vantaggio se il
resto dei pigionali non s'immischiavano come al solito, che si
trattasse dell'uomo in vestaglia o di qualche altro scocciatore.
Mentre K premeva per la seconda volta il pulsante guardò dietro di
sé l'altra porta, ma stavolta anch'essa restò chiusa. Finalmente
apparvero allo spioncino della porta dell'avvocato due occhi, ma non
erano quelli di Leni. Qualcuno aprì la porta, ma vi si appoggiò
ancora contro, per il momento, e gridò “è lui” in direzione
dell'appartamento; solo allora aprì del tutto. K s'era addossato
alla porta, difatti già sentiva che dietro di sé alla porta
dell'altro appartamento la chiave veniva girata in fretta nella
serratura. Per cui quando finalmente gli si aprì davanti la porta
lui addirittura si precipitò nell'anticamera riuscendo a vedere che
nell'andito divisorio tra le stanze Leni, la destinataria del grido
di avviso, scappava in camicia. La guardò per un attimo e poi si
voltò verso chi aveva aperto. Era un omino secco con la barba, e
reggeva una candela. “Lavorate qui?” chiese K. “No”, rispose
quell'uomo, “non sono di casa, l'avvocato è solo mio difensore, mi
trovo qui per motivi legali.” “Senza giacca?” chiese K muovendo
una mano a indicare l'inadeguato abbigliamento di quell'uomo. “Oh,
perdonatemi”, disse quello facendo luce con la candela su di sé,
come se vedesse solo ora il proprio stato. “Leni è la vostra
amante?” chiese sintetico K. Aveva le gambe un po' divaricate,
febbrili le mani con cui teneva il cappello, dietro di sé. Si
sentiva molto superiore a quel magrolino già per il fatto di
possedere un bel soprabito. “Dio mio”, disse quello alzando le
mani davanti alla faccia a mo' di atterrita protezione, “no, no, ma
cosa vi viene in mente?” “Sembrate credibile”, disse K
sorridendo, “comunque – venite.” Con il cappello gli fece un
cenno e lo fece andare avanti. “Ma come vi chiamate?” chiese K
mentre procedevano. “Block, sono Block, commerciante”, disse il
piccoletto voltandosi verso K mentre si presentava, ma K non gli
permise di fermarsi. “E' il vostro vero nome?” chiese K. “Certo”,
fu la risposta, “ma perché ne dubitate?” “Pensavo che poteste
aver motivo di nasconderlo”, disse K. Si sentiva libero come
avviene quando all'estero si parla con gente umile, tutto quel che ci
riguarda lo si tiene per sé, si parla degli interessi altrui solo
con indifferenza, si dà loro importanza ai nostri occhi, ma si può
anche lasciarli perdere, a piacimento. Presso l'uscio dello studio
dell'avvocato K si fermò, aprì e gridò al commerciante, che
obbediente era andato oltre: “non così in fretta! Fatemi luce.”
K pensava che Leni potesse essersi rimpiattata lì, fece in modo che
il commerciante cercasse in ogni angolo, ma la stanza era vuota.
Dinnanzi al ritratto del giudice K trattenne il commerciante per le
bretelle. “Lo conoscete?” chiese indicando il quadro. Il
commerciante alzò la candela, guardò ammiccando e disse: “è un
giudice.” “Di grado elevato?” chiese K mettendosi di fianco al
commerciante per osservare l'impressione che il quadro gli faceva.
Questi guardò in su stupito e disse: “si tratta di un alto
giudice.” “Non avete mica molto occhio”, disse K, “tra i
giudici istruttori di basso grado lui è quello di grado più basso.”
“Ora ricordo”, disse il commerciante abbassando la candela, “già
l'ho sentito dire.” “E' naturale”, esclamò K, “stavo
dimenticandomi che naturalmente dovete già averlo sentito dire.”
“E perché poi, perché?” chiese il commerciante, intanto che
spronato dalle mani di K si muoveva verso la porta. Oltre la quale,
nell'andito, K disse: “ma lo sapete dove s'è nascosta Leni?”
“Nascosta?” disse il commerciante, “no, potrebbe essere in
cucina a preparare la minestra all'avvocato.” “Perché non lo
avete detto prima?” chiese K. “Anzi, stavo per condurvici, ma mi
avete richiamato indietro”, rispose il commerciante, come confuso
da quegli ordini contraddittorii. “Credete davvero di essere molto
furbo”, disse K, “conducetemi dunque!” Nella cucina K non era
ancora mai stato, era sorprendentemente grande e riccamente
attrezzata. Solo il fornello era grande il triplo dei normali
fornelli, per altro non se ne vedevano punto i dettagli, difatti la
cucina era illuminata solo da una piccola lampada appesa presso
l'entrata. Al fornello c'era Leni in grembiule bianco come sempre,
che svuotava delle uova in una pentola posta su un fuoco a spirito.
“Buona sera Joseph”, disse, laterale il suo sguardo. “Buona
sera”, disse K indicando con una mano una sedia, da una parte, su
cui doveva sedersi il commerciante, cosa che questi fece. K invece si
avvicinò tutto alla schiena di Leni, le si piegò su una spalla e
chiese: “chi è quest'uomo?” Leni con una mano lo strinse mentre
con l'altra rigirava la minestra, se lo attirò davanti e disse: “è
un uomo da compiangere, un povero commerciante, un certo Block. Ti
basta guardarlo.” Entrambi dettero un'occhiata. Il commerciante
stava sulla sedia indicatagli da K, aveva la candela di cui la luce,
che ora non serviva, era stata spenta con un soffio, e con un dito
premeva lo stoppino per impedire che fumasse. “Tu eri in camicia”,
disse K voltandole di nuovo la testa verso il fornello. Lei taceva.
“E' il tuo amante?” chiese K. Lei stava allungando una mano verso
la pentola, invece K gliele prese entrambe, le mani, e disse:
“rispondi dunque!” lei disse: “vieni nello studio, ti spiegherò
tutto.” “No”, disse K, “voglio che lo spieghi qui.” Gli si
attaccò e voleva baciarlo, ma K se ne distolse e disse: “non
voglio che tu ora mi baci.” “Joseph”, disse Leni in tono di
preghiera eppur tuttavia guardandolo fermamente negli occhi, “non
sarai geloso del signor Block?” “Rudi”, disse poi, rivolta al
commerciante, “dammi una mano, lo vedi che mi s'incolpa, lascia
perdere la candela.” Si sarebbe potuto pensare che lui non ci
avesse badato, ma seguiva tutto. “Non saprei perché dovreste
essere geloso”, disse, un po' riluttante. “Non lo so, in
effetti”, disse K e guardò il commerciante con un risolino. Leni
rise forte, approfittò della disattenzione di K per mettersi tra le
sue braccia e mormorò: “Ora basta, lo vedi che razza di uomo è.
Me lo sono preso un po' a cuore perché è un grosso cliente
dell'avvocato, per nessun altra ragione. E tu? Vuoi parlare anche
oggi con l'avvocato? Oggi sta molto male, ma se vuoi ti annuncio lo
stesso. Tu resti con me stanotte, però, senza alcun dubbio. Non sei
stato più da molto tempo qui, anche l'avvocato ha chiesto di te. Non
trascurare il processo! Anch'io ho da comunicarti svariate cose che
ho saputo. Ora però per prima cosa togliti il cappotto!” Lo aiutò
a toglierselo, gli prese il cappello, corse in anticamera per
appenderli, poi tornò e controllò la minestra. “Devo annunciarti
prima, o prima devo portargli la minestra?” “Annunciami, prima”,
disse K. Era irritato, aveva avuto inizialmente intenzione di
discutere bene con Leni del suo caso, in particolare dell'intenzione
di licenziare l'avvocato, ma la presenza del commerciante gliene
aveva tolto la voglia. Ora però considerò la sua cosa troppo
importante perché questo commerciante da quattro soldi dovesse
intervenirvi in modo magari decisivo, per cui richiamò Leni, che già
era nell'andito. “Portagli prima la minestra”, disse, “bisogna
che si rimetta in forze per parlare con me, ne avrà bisogno.”
“Anche voi siete un cliente dell'avvocato”, disse piano dal suo
angolo il commerciante, come volesse fare una verifica. Che però non
venne accolta bene. “E cosa ve ne importa?” disse K, e a Leni: “E
tu, zitta.” “Allora gli porto prima la minestra”, disse Leni a
K e versò la minestra in un piatto. “C'è da temere solo che si
addormenti alla svelta, dopo mangiato si addormenta presto.” “Quel
che gli dirò lo terrà sveglio”, disse K, aveva perdurante
l'intenzione di lasciar intuire che lui progettava di discutere
qualcosa d'importante con l'avvocato, voleva che Leni gli chiedesse
cos'era e solo dopo intendeva chiederle un consiglio. Lei invece
eseguì alla lettera gli ordini, e basta. Passandogli vicino con la
scodella intenzionalmente lo urtò con delicatezza e mormorò:
“quando avrà mangiato la minestra ti annuncio subito in modo che
io possa averti di nuovo prima possibile.” “Vai, vai”, disse K.
“Sii più gentile però”, disse lei e si diresse alla porta con
la scodella.
K
la seguì con lo sguardo; era dunque deciso definitivamente che
l'avvocato sarebbe stato lasciato, davvero era meglio che lui prima
non ne potesse parlare con Leni, che non aveva abbastanza presente
l'insieme della faccenda e certo lo avrebbe sconsigliato; se stavolta
gli avesse impedito di licenziare l'avvocato lui sarebbe rimasto
inquieto e dubbioso e alla fine, dopo un certo tempo, avrebbe messo
in atto la sua risoluzione, difatti essa era troppo stringente.
Quanto prima l'avesse messa in atto tanto più danno sarebbe stato
evitato. Forse però il commerciante aveva qualcosa da dire, in
merito.
K
si voltò, il commerciante non appena se ne accorse voleva alzarsi
subito. “Restate seduto”, disse K spostando una sedia dov'era
l'altro. “Siete un vecchio cliente dell'avvocato?” chiese K.
“Sì”, disse il commerciante, “molto vecchio.” “Ma da
quanti anni vi rappresenta?” chiese K. “Non so in che senso
dite”, disse il commerciante, “nelle cause di diritto commerciale
– io commercio cereali – l'avvocato mi rappresenta da quando ho
iniziato, quindi da 20 anni; nel mio processo, cui probabilmente vi
riferite, da più di 5 anni.” “Sì, da più di 5 anni”,
proseguì, tirando fuori un vecchio portafogli, “qui ho annotato
tutto, se volete vi dico la data precisa. E' difficile tenere a mente
tutto. Il mio processo probabilmente è iniziato prima, iniziò poco
dopo la morte di mia moglie, e lei è morta da più di 5 anni e
mezzo.” K gli si avvicinò. “E così l'avvocato s'incarica anche
di cause normali?” chiese. Il collegamento dei tribunali con le
scienze giuridiche pareva a K tranquillante in modo straordinario.
“Certo”, disse il commerciante e poi mormorò a K: “si dice
addirittura che in queste cause legali egli sia più capace che nelle
altre.” Poi però parve pentirsi di quello che aveva detto, mise
una mano sulle spalle a K e disse: “vi prego, non mi tradite.” K
gli dette un colpetto su una coscia per tranquillizzarlo e disse:
“no, io non sono davvero un traditore.” “Mi spiego, è
vendicativo”, disse il commerciante. “Non farà certo nulla
contro un cliente tanto fedele”, disse. “Eh no”, fece il
commerciante, ”quando gli gira male non fa nessuna differenza,
comunque non è che io gli sia fedele, in effetti.” “E come?”
chiese K. “Ve lo devo confessare?” chiese dubbioso il
commerciante. “Penso che possiate permettervelo”, disse K.
“Dunque”, disse il commerciante, “ve lo confesserò in parte,
ma anche voi dovete dirmi un segreto, in modo che nei confronti
dell'avvocato siamo pari.” “Siete molto cauto”, disse K, “ma
io vi dirò un segreto che vi tranquillizzerà in pieno. In cosa
consiste dunque la vostra infedeltà nei confronti dell'avvocato?”
Il commerciante, incerto e in un tono come se confessasse qualcosa
di disonesto, disse:”ci ho un altro avvocato, oltre a lui.” “Non
è mica una cosa tanto malvagia”, disse K un po' deluso. “In
questa sede sì”, disse il commerciante - per via della sua
confessione respirava ancora a fatica, ma dopo l'osservazione di K
riacquistò fiducia. “Non è consentito. E assolutamente non è
consentito assumere oltre a un avvocato, diciamo così, anche uno
pseudoavvocato. E io ho fatto proprio questo, ne ho 5 di
pseudoavvocati.” “Cinque!” esclamò K, stupefatto dal numero,
“cinque oltre a questo?” Il commerciante annuì: “e sono in
trattativa anche con un 6°.” “Ma che ve ne fate di tutti questi
avvocati?” chiese K. “Mi servono tutti”, disse il commerciante.
“Non volete spiegarmelo?” chiese K. “Volentieri”, disse il
commerciante. “Prima cosa non voglio perdere il mio processo, il
che è evidente. Di conseguenza non mi posso permettere di trascurare
nulla che potrebbe essermi utile; anche se la speranza di una
utilità, in un certo caso, è minima, non posso rifiutarla. Ecco
perché ho investito tutto quello che possiedo nel processo. Così ho
disinvestito tutti i soldi dal mio commercio, per esempio; prima i
miei uffici riempivano quasi un piano, oggi basta una stanzetta sul
retro dove lavoro con un apprendista. Tale arretramento ha causato
com'è naturale non solo il disinvestimento dei soldi, ma anche
quello della mia energia dal lavoro. Se si vuol fare qualcosa per il
proprio processo, ci si può occupare del resto solo poco.” “Dunque
anche voi avete da penare col tribunale?” chiese K. “E' proprio
quello su cui mi piacerebbe sapere qualcosa.” “Ne so ben poco”,
disse il commerciante, “all'inizio ci ho anche provato, a
informarmi, ma presto ci ho rinunciato. E' troppo faticoso e non ha
successo. Darsi da fare e negoziare, anche sul posto, almeno per me
si è dimostrato come assolutamente impossibile. Già il puro e
semplice star seduti in attesa sfinisce. Certo lo sapete che aria
pesante c'è negli uffici di cancelleria.” “Ma come lo sapete che
io ci sono stato?” chiese K. “Per l'appunto mi trovavo nella
stanza di attesa quando voi siete passato di lì.” “Ma che
combinazione!” esclamò K, tutto preso e dimentico della precedente
ridicolezza del commerciante, “dunque mi avete visto. Eravate nella
stanza di attesa quando ci sono passato. Certo che ci sono passato,
una volta.” “Non è una combinazione così notevole”, disse il
commerciante, “ci sono quasi ogni giorno, lì.” “Io ora dovrò
andarci, è probabile anche più volte”, disse K, “solo che sarà
difficile che io venga ricevuto con tutti gli onori come allora.
Tutti si alzarono. Si pensava certo che fossi un giudice.” “No”,
disse il commerciante, “quella volta si salutò l'usciere. Lo
sapevamo che voi eravate un imputato. Notizie simili fanno molto
presto a diffondersi.” “Dunque già lo sapevate”, disse K,
“allora però la mia condotta forse vi sembrò arrogante. Lo si
disse?” “No”, disse il commerciante, “al contrario. Ma si
tratta di sciocchezze.” “Sciocchezze in che senso?”, chiese K.
“Perché lo volete sapere?” disse il commerciante seccato, “pare
che ancora non conosciate quella gente lì, e magari finireste per
non capire. Dovete tener presente che in questo tipo di procedimenti
non si smette mai di parlare di molte cose cui la capacità di
comprensione non arriva, si è semplicemente troppo stanchi e
distratti per capirle, tutte quelle cose, e al posto loro ci si
applica alla superstizione. Parlo degli altri, ma anch'io non sono
affatto migliore. Una superstizione del genere è per esempio voler
cogliere il genere di conclusione del processo dal viso
dell'imputato, in particolare dal disegno delle labbra. Quella gente
dunque ha ritenuto di concludere dalle vostre labbra che sareste
stato di certo condannato, e presto. E' una ridicola superstizione,
ripeto, e nella maggioranza dei casi anche completamente contraddetta
dai fatti, ma quando si vive in quella compagnia di persone è
difficile sottrarsi a simili opinioni. Considerate solo quanto
fortemente possa agire questa superstizione: avete parlato a uno lì,
no? E quello riuscì a rispondervi a mala pena. Ci sono naturalmente
molti motivi per essere confusi, in quel luogo, ma uno di questi
motivi fu la vista delle vostre labbra. Più tardi quello ha riferito
che lui aveva creduto di vedere sulle vostre labbra anche il segno
della sua propria condanna.” “Le mie labbra?” chiese K, tirò
fuori uno specchietto tascabile e vi si guardò. “Dalle mie labbra
non riesco a riconoscere nulla di particolare. E voi?” “Nemmeno
io”, disse il commerciante, “assolutamente.” “Quant'è
superstiziosa quella gente!” esclamò K. “Non ve lo dissi io?”
chiese il commerciante. “Si frequentano tanto tra di loro per cui
si scambiano le loro opinioni?” disse K. “Io finora mi sono
tenuto del tutto in disparte.” “In generale non si frequentano
tra loro”, disse il commerciante, “non sarebbe possibile, sono
talmente numerosi. E ci sono anche pochi interessi in comune. Se
talvolta in un gruppo emerge la credenza circa un interesse comune
ciò presto si dimostra un errore. Nulla in comune ha luogo a
dispetto del tribunale. Ogni caso viene istruito separatamente, si
tratta davvero del tribunale più accurato. Nulla in comune dunque ha
luogo a dispetto del tribunale, solo un singolo ottiene talvolta
qualcosa, in segreto; lo vengono a sapere gli altri solo in seguito;
nessuno sa com'è successo. Non v'è dunque alcuna comunanza, certo,
di tanto in tanto ci si raduna nelle stanze d'attesa, ma lì si
conversa poco. Le opinioni superstiziose esistono già dai tempi
antichi e si moltiplicano da sé, in pratica.” “Vidi quei signori
nella stanza d'attesa”, disse K, “ebbi l'impressione che
attendessero così invano.” “Non è vana l'attesa”, disse il
commerciante. “Vano è solo intervenire in modo indipendente. Già
dissi che ora oltre a questo ho altri 5 avvocati. Se ne dovrebbe
concludere – io stesso all'inizio lo feci – che io ora dovrei
lasciar loro la causa, interamente. Tuttavia ciò sarebbe falso. Io
posso delegare loro meno che se ne avessi uno solo. Lo capite bene,
no?” “No”, disse K, e per frenare il troppo rapido discorso del
commerciante, gli mise una mano su una mano, per placarlo, “vorrei
pregarvi di parlare più lentamente, si tratta di cose molto
importanti per me, è chiaro, e non riesco a seguire com'è giusto.”
“E' bene che voi me lo ricordiate”, disse il commerciante, “certo
siete un novizio, un giovane. Il vostro processo risale a mezzo anno
fa, nevvero? Ne ho già sentito parlare. Un processo talmente
giovane! E invece io a queste cose ci ho pensato innumerevoli volte,
sono quanto di più evidente ci sia al mondo.” “Vi fa piacere che
il vostro processo sia in tale stato di avanzamento?” chiese K, che
non voleva arrivare a chiedere come stessero le cose del
commerciante. Non ebbe però alcuna chiara risposta. “Sì, tiro la
carretta del mio processo da 5 anni”, disse il commerciante e
abbassò la testa, “non è mica un'impresa da poco.” Poi fece una
pausa in silenzio. K allungò le orecchie, tante volte non arrivasse
Leni. Non voleva che venisse, da una parte, difatti aveva molte
domande da fare, né desiderava venir trovato da Leni in quel
colloquio confidenziale con il commerciante, d'altra parte era
seccato per il fatto che lei, nonostante la sua presenza, restava
tanto a lungo presso l'avvocato, molto più di quanto servisse a
servirgli la minestra. “Mi ricordo ancora bene”, ricominciò il
commerciate subito ricatturando l'attenzione di K “dell'epoca in
cui il mio processo aveva all'incirca l'età che ha ora il vostro.
Allora avevo solo quest'avvocato, ma non ero molto soddisfatto di
lui.” “Ora io imparo ogni cosa, qui”, pensò K annuendo
vivacemente come se in quel modo potesse incoraggiare il commerciante
a dire tutto quel che contava. “Il mio processo”, seguitò il
commerciante, “non procedeva, certo avevano luogo assise
istruttorie, io ero presente a tutte, raccoglievo materiale, tenevo
in regola tutta la mia contabilità presso il tribunale, cosa che
come più tardi appresi non era nemmeno necessaria, non facevo che
correre dall'avvocato e lui presentava svariate istanze ...”
“Svariate istanze?” chiese K. “Sì, certo”, disse il
commerciante. “Questo per me è molto importante”, disse K, “nel
mio caso lui sta ancora lavorando alla prima istanza. Ancora non ha
fatto niente. Mi trascura in modo vergognoso.” “Che l'istanza non
sia ancora pronta, può avere diversi giustificati motivi”, disse
il commerciante. “Del resto più tardi si è dimostrato che erano
del tutto senza valore. Ne ho addirittura letta io stesso una per la
compiacenza di un funzionario del tribunale. Era certo erudita, ma in
effetti priva di contenuto. Prima di tutto moltissimo latino, che io
non capisco, poi paginate di generici appelli al tribunale, poi
lusinghe rivolte a singoli funzionari, certo non nominati, ma che
comunque un iniziato era costretto a indovinare, poi
autoglorificazione dell'avvocato, laddove egli si umiliava in modo
addirittura canino al cospetto del tribunale, infine riferimenti a
casi giuridici del passato che dovevano essere simili al mio. Certo
erano riferimenti, nei limiti in cui riuscivo a seguirli, eseguiti
con grande accuratezza. Con tutto ciò non voglio giudicare affatto
il lavoro dell'avvocato, del resto l'istanza che ho letto era solo
una tra diverse altre, comunque, e di questo intendo parlare ora, io
allora non riuscii a vedere alcun passo avanti nel mio processo.”
“Ma quale passo avanti volevate vedere?” chiese K. “Domanda
ragionevole, la vostra”, disse il commerciante con un risolino, “in
questo tipo di procedimenti si riescono a vedere solo rari passi
avanti. Allora però non lo sapevo. Sono un commerciante e ai tempi
lo ero più di ora, volevo progressi tangibili, il tutto doveva da sé
volgere alla fine o almeno procedere in modo regolare. E invece
c'erano solo udienze che per lo più avevano lo stesso contenuto; le
risposte le avevo già pronte, a litania; più volte ogni settimana
messi del tribunale venivano nel mio ufficio, nella mia abitazione o
dove riuscivano a incontrarmi, ciò com'è naturale era seccante
(oggi almeno da questo punto di vista va molto meglio, la chiamata
telefonica disturba molto meno), anche tra i miei colleghi in affari,
e in special modo tra i miei parenti cominciarono a diffondersi voci
in merito al mio processo, ciò provocò danni molteplici, tuttavia
non v'era il minimo indizio che indicasse che avrebbe avuto luogo
prossimamente anche soltanto il primo dibattimento in tribunale.
Andai quindi dall'avvocato e mi lamentai. Certo mi dette lunghe
spiegazioni, ma si rifiutò deciso di far qualcosa secondo quel che
pensavo io, nessuno poteva influire sulla data del dibattimento,
inserire in un'istanza tale questione – come desideravo – era
semplicemente inaudito e avrebbe rovinato me e lui. Pensai: ciò che
questo avvocato non vuole o non può, lo vorrà o potrà un altro.
Cercai dunque un altro avvocato. Voglio subito anticiparlo: nessuno
ha chiesto od ottenuto che fosse stabilito l'inizio del dibattimento,
ciò è, certo con una eccezione di cui ancora parlerò, davvero
impossibile, in relazione a ciò dunque questo avvocato non mi ha
deluso; del resto tuttavia non ebbi da rammaricarmi di essermi
rivolto anche a un altro avvocato. E' possibile che abbiate sentito
parlare parecchio, da parte del dottor Huld, degli pseudoavvocati,
probabile che ve li abbia descritti come molto spregevoli, e
veramente essi lo sono. Tuttavia gli sfugge sempre, quando ne parla e
paragona a loro sé e i suoi colleghi, un piccolo errore su cui
voglio attirare, di passaggio, anche la vostra attenzione. Lui
definisce gli avvocati della sua cerchia, per distinguerli, i 'grandi
avvocati'. Ciò è falso. Com'è naturale ognuno può definirsi
'grande', se gli garba, ma in questo caso decide soltanto l'usanza
del tribunale. Stando a essa, mi spiego, ci sono, a parte gli
pseudoavvocati, anche i piccoli e i grandi avvocati. Quest'avvocato
qui e i suoi colleghi sono però solo piccoli avvocati, i grandi
avvocati, di cui ho solo sentito parlare e che mai ho visto, hanno un
rango senza confronti più alto, rispetto ai piccoli avvocati, di
quanto i piccoli avvocati lo abbiano rispetto ai disprezzati
pseudoavvocati.” “I grandi avvocati?” chiese K. “E chi
sarebbero? Come ci si arriva?” “Voi dunque non ne avete mai
sentito parlare”, disse il commerciante. “A mala pena c'è un
imputato che, dopo esserne stato informato, non se li sogni per un
po' di tempo. Meglio che non vi facciate sedurre da ciò. Chi siano i
grandi avvocati non lo so, né ci si può neppure arrivare. Non
conosco alcun caso in cui si possa dire che essi siano intervenuti.
Difendono parecchia gente, ma di propria volontà non ci si perviene,
essi difendono solo chi vogliono difendere. La causa che si assumono
deve tuttavia risultare di livello superiore al tribunale di basso
grado. Per il resto è meglio non pensare a loro, altrimenti i
colloqui con gli altri avvocati, i loro consigli e la loro
assistenza, a uno appaiono talmente stomachevoli e inutili, io l'ho
imparato da solo, che quando va bene si vorrebbe buttar via tutto,
mettersi a letto e non sentirne più. Ciò com'è naturale sarebbe di
nuovo la cosa più stupida, neppure a letto si riposerebbe a lungo.”
“Dunque non pensaste, ai tempi, ai grandi avvocati?” chiese K.
“Non a lungo”, disse il commerciante facendo un nuovo risolino,
“dimenticarseli completamente purtroppo non si può, specie di
notte pensarci rinfranca. Tuttavia ai tempi io desideravo un
risultato immediato, per cui andai dagli pseudoavvocati.”
“Ma
come state seduti vicini!” esclamò Leni, che era tornata con la
scodella e sostava sulla porta. In effetti sedevano vicinissimi, al
minimo movimento erano costretti a urtarsi con le teste, il
commerciante che, a parte la sua piccolezza, teneva anche le palle
curve, aveva costretto anche K a chinarsi parecchio, se voleva
sentire ogni parola. “Ancora un momento”, gridò K per fermare
Leni e mosse con impazienza la mano che aveva continuato a tenere su
una mano del commerciante. “Voleva che gli riferissi del mio
processo”, disse il commerciante a Leni. “Riferisci pure,
riferisci”, disse lei. Parlava con affetto al commerciante, eppur
tuttavia con degnazione, a K questo dispiacque; come ora aveva
capito, quell'uomo non mancava di un certo valore, per lo meno aveva
esperienze che sapeva comunicare bene. Leni probabilmente lo
giudicava male. La guardò seccato per come gli levava la candela che
il commerciante aveva tenuto stretta per tutto il tempo, gli puliva
col grembiule la mano e gli s'inginocchiava accanto per grattar via
un po' di cera che gli era sgocciolata sui calzoni. “Mi stavate
raccontando degli pseudoavvocati”, disse K levando la mano di Leni
risoluto. “Ma che vuoi?” chiese Leni tentando di colpire
leggermente K e continuando quel che faceva. “Certo, degli
pseudoavvocati”, disse il commerciante e si passò una mano sulla
fronte, come per riflettere. K gli venne in aiuto e disse: “volevate
un successo rapido per cui andaste dagli pseudoavvocati.” “Proprio
così”, disse il commerciante, ma non continuò. “Forse non vuole
parlarne davanti a Leni”, pensò K, represse la sua impazienza di
sentire subito il resto e non insisté oltre.
“Mi
hai annunciato?” chiese a Leni. “Certo”, disse lei, “ti
aspetta. Ora lascia stare Block, ci puoi parlare dopo, lui rimane
qui.” K indugiava ancora. “Restate qui?” chiese al
commerciante, voleva aver risposta da lui, non voleva che Leni ne
parlasse come di un assente, oggi verso di lei era pieno di una
rabbia segreta. Di nuovo, però, rispose solo Leni: “dorme spesso
qui.” “Dorme qui?” esclamò K, aveva pensato che il
commerciante sarebbe stato ad aspettare solo lui mentre avrebbe alla
svelta finito di parlare con l'avvocato, poi però sarebbero andati
via insieme e avrebbero parlato a fondo e indisturbati di tutto.
“Sì”, disse Leni, “non è che tutti come te, Joseph, vengono
fatti passare dall'avvocato quando vogliono. Non sembri proprio
stupito del fatto che l'avvocato nonostante che stia male ti riceva
alle 11 di sera. Dai quello che i tuoi amici fanno per te troppo per
scontato. Ora, i tuoi amici lo fanno, o almeno io lo faccio
volentieri. Non voglio alcun altro grazie, né mi serve, se non che
tu mi abbia a cuore.” “Avere a cuore te?” si chiese lì per lì
K, poi ci pensò meglio, “ma sì, la ho a cuore.” Tuttavia disse,
trascurando il resto: “mi riceve perché sono suo cliente. Se anche
per camminare servisse l'aiuto altrui, a ogni passo si dovrebbe
insieme pregare e dir grazie.” “E' davvero cattivo oggi,
nevvero?” chiese Leni al commerciante. “Ora sono io l'assente”,
pensò K e s'incattivì quasi con il commerciante quando questi,
adottando la scortesia di Leni, disse: “l'avvocato lo riceve anche
per altri motivi. Voglio dire, il suo caso è più interessante del
mio. Inoltre il suo processo è all'inizio, dunque probabilmente
ancora non molto imbrogliato, per cui l'avvocato ci s'impegna ancora
volentieri. Più avanti cambierà.” “Sì sì”, disse Leni e
guardò con un sorrisetto il commerciante, “quanto chiacchiera lui.
Guarda”, disse rivolgendosi a K, “non gli credere proprio. Tanto
è caro, quanto è chiacchierone. Forse per questo l'avvocato non lo
può soffrire. Comunque lo riceve solo se ne ha voglia. Mi sono
sforzata tanto per cambiare questa cosa, ma è impossibile. Pensa,
capita che io annunci Block, e lui lo riceve solo dopo 3 giorni. Ma
se Block nel momento in cui viene chiamato non è presente tutto è
perduto e lui deve di nuovo essere annunciato. Ecco perché gli ho
dato il permesso di dormire qui, è già successo che l'avvocato
abbia suonato per lui durante la notte. Dunque Block è pronto, ora,
anche di notte. Per dir la verità ora capita di nuovo che
l'avvocato, se risulta che Block sia qui, talvolta non confermi
l'ordine di farlo passare.” K guardò interrogativo il
commerciante. Questi annuì e, chiaro come aveva parlato prima con K,
disse, forse distratto a causa della vergogna: “sì, col tempo si
diventa molto dipendenti dal proprio avvocato.” “Si rammarica
solo in apparenza”, disse Leni. “Dorme qui molto volentieri, come
già spesso mi ha confessato.” Andò a una porticina e la spinse.
“Vuoi vedere la sua stanza da letto?” chiese. K ci andò e dalla
soglia guardò l'interno di un locale basso privo di finestra
completamente occupato da un lettino su cui si era costretti a salire
scavalcandone la spalliera. Dalla parte della testiera c'era una
rientranza nel muro in cui, meticolosamente ordinati, si trovavano
una candela, penna e calamaio, e un fascio di carte, probabili
scritti processuali. “Dormite nella camera da letto della ragazza
di servizio?” chiese K voltandosi verso il commerciante. “Leni me
l'ha ceduta”, rispose il commerciante, “è molto comoda.” K lo
guardò a lungo; la prima impressione che il commerciante gli aveva
fatto era dopotutto stata giusta; aveva esperienza per il fatto che
il suo processo durava già da molto tempo, ma l'aveva pagata cara.
D'improvviso K non resse più la vista del commerciante. “E portalo
a letto”, gridò a Leni, che non sembrò neppure capire. Lui però
intendeva andare dall'avvocato per licenziarlo e liberarsi non solo
di lui, ma anche di Leni e del commerciante. Ancor prima che fosse
arrivato alla porta, il commerciante gli si rivolse a voce bassa:
“signor procuratore.” K si girò incattivito. “Vi siete
dimenticato la vostra promessa”, disse il commerciante proteso
verso K, da dov'era seduto, con aria supplicante, “mi volevate dire
un segreto.” “E' vero”, disse K sfiorando con uno sguardo Leni,
che attenta lo guardava, “ascoltate dunque, e quasi non si tratta
più affatto di un segreto. Ora vado dall'avvocato per licenziarlo.”
“Lo licenzia, lui!”, esclamò il commerciante, saltò giù dalla
sedia e corse in giro nella cucina, le mani sollevate. Seguitava e
gridare: “licenzia l'avvocato!” Leni intendeva buttarsi subito su
K, ma il commerciante le andò tra i piedi, per cui si prese un
pugno. Ancora con le mani strette a pugno Leni si buttò poi dietro a
K, che però era già balzato molto oltre. Quasi entrato nella camera
dell'avvocato, Leni andò a riprenderlo. Lui aveva quasi chiuso la
porta dietro di sé, ma Leni, tenendo uno spiraglio aperto con un
piede, lo prese per un braccio e voleva tirarlo indietro. Lui però
le strinse il polso con tanta forza che lei fu costretta a lasciarlo,
gemendo. Né osò entrare subito nella camera, e K chiuse la porta a
chiave.
“Vi
attendo già da molto”, disse l'avvocato dal letto, appoggiò sul
tavolino da notte un documento che aveva letto alla luce di una
candela, e si mise gli occhiali con cui guardò severo K. Invece di
scusarsi K disse: “me ne vado via presto.” Senza fare attenzione
a quel che aveva detto K, che non era affatto una giustificazione,
egli disse: “non vi farò più passare in futuro a un'ora così
tarda.” “Ciò si accorda con quel che desidero”, disse K.
L'avvocato lo guardò interrogativo. “Sedetevi”, disse. “Se
volete”, disse K, spinse una sedia vicina al tavolino da notte e si
accomodò. “Mi sembra che abbiate chiuso la porta a chiave”,
disse l'avvocato. “Sì”, disse K, “per via di Leni”. Pareva
intenzionato a non fare sconti. L'avvocato tuttavia chiese: “E'
stata di nuovo invadente?” “Invadente?” chiese K. “Sì”,
disse l'avvocato, rise, ebbe un accesso di tosse e, finito di
tossire, ricominciò a ridere. “Ma non ci avete già fatto caso
alla sua invadenza?” chiese, e dette un colpetto sulla mano che K,
perplesso, aveva appoggiato sul tavolino da notte e che ora svelto
tirò indietro. “Non date molta importanza alla cosa”, disse
l'avvocato, visto che K taceva, “tanto meglio. Altrimenti avrei
forse dovuto scusarmi con voi. Si tratta di una particolarità di
Leni, del resto è tanto che la vizio, non ne parlerei se proprio ora
voi non aveste chiuso la porta a chiave. Certo questa particolarità
dovrei spiegarla a voi meno che a tutti, ma mi guardate così
costernato per cui lo faccio, questa particolarità consiste nel
fatto che Leni trova belli quasi tutti gli imputati. Si affeziona a
tutti, ama tutti e comunque pare che da tutti venga amata; per
intrattenermi poi capita spesso che me ne faccia il resoconto, se
glielo permetto. Non sono stupito dall'intera cosa come sembrate
esserlo voi. A ben guardare spesso troviamo gli imputati davvero
belli. Si tratta certo di uno strano fenomeno della scienza naturale,
diciamo. All'incirca sopravviene, come conseguenza dell'accusa, è
ovvio, non proprio un mutamento chiaro dell'aspetto, preciso. Non è
però come nelle altre faccende del tribunale: i più restano nel
loro abituale modo di vivere e, se hanno un bravo avvocato che si
preoccupa di loro, non vengono molto impediti dal processo. Ciò
nonostante coloro che hanno esperienza in materia sono in grado di
riconoscere nella più gran massa i singoli imputati, uno per uno. Da
cosa? - voi chiederete. La mia risposta non vi soddisferà. Gli
imputati sono per l'appunto i più belli. Non può esser la colpa che
li rende belli, difatti – così devo dire, almeno, come avvocato –
non sono tutti colpevoli, non può essere nemmeno la futura pena a
renderli belli, ora, difatti non divengono tutti oggetto di pena,
dunque ciò può risiedere solo nel procedimento contro di loro
intentato, che in qualche modo gli resta addosso. Certo tra i belli
ve n'è di belli in particolare. Tuttavia tutti sono belli, anche
Block, questo misero verme.”
K
era, quando l'avvocato ebbe finito, completamente preso, aveva
perfino annuito in modo vistoso alle ultime parole e aveva messo in
dubbio anche la sua vecchia opinione, che l'avvocato cercava sempre,
anche stavolta, con discorsi generali che non c'entravano con la
causa, di distrarlo e di distoglierlo dalla questione principale, ciò
che lui aveva fatto davvero per la causa di K. L'avvocato vide bene
che stavolta K gli opponeva più resistenza del solito, difatti
tacque per dare a K la possibilità di parlare anche lui, poi, dato
che non diceva nulla, gli chiese: “oggi siete venuto da me con
un'intenzione precisa?” “Sì”, disse K e mise una mano davanti
alla candela per vedere meglio l'avvocato, “volevo dirvi che con
oggi vi ritiro il patrocinio.” “Sto capendovi bene?”, chiese
l'avvocato, si sollevò a metà sul letto appoggiandosi con una mano
ai cuscini. “M'immagino di sì”, disse K che stava seduto
rigidamente eretto e come all'erta. “Ora, noi possiamo discutere
anche di questo progetto”, disse l'avvocato dopo una pausa. “Non
è più assolutamente un progetto”, disse K. “Può essere”,
disse l'avvocato, “non precipitiamo, però.” Usava la parola
“noi” come se non avesse intenzione di liberare K e come se
volesse, anche non essendo più suo difensore, almeno restare suo
consigliere. “Non precipitiamo affatto”, disse K, lentamente si
alzò e passò dietro la sua sedia, “ci ho riflettuto bene e forse
perfino troppo a lungo. La decisione è definitiva.” “Allora
consentitemi solo qualche altra parola”, disse l'avvocato, tolse
via il piumino e si mise sulla sponda del letto. Le gambe nude dai
peli bianchi tremavano di freddo. Pregò K di prendergli una coperta
dal canapè. K la prese e disse: “vi esponete a raffreddarvi senza
alcuna necessità.” “La ragione è abbastanza importante”,
disse l'avvocato ricoprendosi la parte superiore del corpo con il
piumino e avviluppandosi le gambe nella coperta. “Vostro zio è mio
amico e anche voi col tempo mi siete divenuto caro. Lo ammetto
sinceramente. Non ho bisogno di vergognarmene. “ Tali parole
sentimentali di quel vecchio furono assai moleste per K, difatti lo
costringevano a una spiegazione estesa che volentieri avrebbe evitato
e inoltre lo mettevano in imbarazzo, come sinceramente ammise con se
stesso, anche se certo non potevano mai farlo retrocedere dalla
decisione presa. “Vi ringrazio della vostra gentile disposizione
d'animo”, disse, “riconosco anche che voi vi siete assunto la mia
causa tanto quanto vi è possibile e a mio vantaggio, come a voi
sembra. Io però da ultimo mi sono convinto che ciò non basta. Com'è
naturale non cercherò mai di mettermi a convincere della mia
opinione un uomo tanto anziano ed esperto; se talvolta senza volerlo
ci ho provato, perdonatemi, la causa però, come voi stesso vi
esprimeste, è abbastanza importante e, secondo la mia convinzione, è
necessario intervenire nel processo con molta più energia di quanto
è avvenuto fin qui.” “Capisco”, disse l'avvocato, “siete
impaziente.” “Non sono impaziente”, disse K leggermente
risentito e senza badare più tanto a quel che diceva. “In
occasione della mia prima visita, quando venni insieme a mio zio,
forse avete notato che del processo non m'importava molto; se non me
lo ricordavano per forza, io me lo dimenticavo completamente.
Tuttavia lo zio insisteva che vi affidassi il mio patrocinio, e lo
feci per essergli ben accetto. Ci si sarebbe ora aspettati che il
processo si facesse più facile di prima, per me, difatti si affida
il patrocinio all'avvocato per liberarsi un po' del peso del
processo. Ma è avvenuto l'opposto. Mai prima io ebbi tanto grandi
preoccupazioni a causa del processo come da quando mi rappresentate
voi. Quand'ero da solo non prendevo alcuna iniziativa circa la mia
causa, ma a mala pena me ne accorgevo, ora invece avevo un
patrocinatore, tutto era indirizzato al fine che avvenisse qualcosa,
di continuo e sempre con maggior tensione aspettavo che voi
interveniste, ma ciò tardava. Ricevetti certo da voi svariate
comunicazioni sul tribunale che forse da nessun altro avrei potuto
ricevere. Tuttavia ciò non può bastarmi quando ora il processo,
praticamente in segreto, mi si accosta sempre più.” K s'era
liberato della sedia e stava lì con le mani nelle tasche della
giacca. “Da un certo momento dell'azione in poi”, disse piano e
tranquillo l'avvocato, “non avviene più nulla di essenzialmente
nuovo. Quante parti si sono, come voi, in simili stadi del processo
presentate davanti a me ed hanno parlato come voi!” “E hanno,
tutte queste parti, avuto ragione”, disse K, “come me. Ciò non
mi confuta.” “Non volevo confutarvi”, disse l'avvocato,
“intendevo aggiungere che da voi mi sarei atteso più capacità di
giudizio che da altri, specie perché vi ho spiegato il carattere del
tribunale e della mia pratica più di quanto altrimenti faccio con le
parti. E ora sono costretto a vedere che nonostante tutto non vi
fidate abbastanza di me. Non mi venite incontro.” Come si umiliava
l'avvocato davanti a K! Non aveva alcun riguardo per l'onore della
categoria che, certo in questi momenti, è il più sensibile. E
perché lo faceva? In apparenza era un avvocato con molto lavoro e
inoltre un uomo ricco, non poteva importargli molto in sé e per sé
né del danno economico né della perdita di un cliente. Inoltre era
di salute cagionevole e avrebbe dovuto tenere in buona considerazione
il fatto che gli fosse risparmiato del lavoro. Eppure si teneva
stretto K. Perché? Si trattava di partecipazione personale nei
confronti dello zio, o davvero lui vedeva il processo di K come
veramente tanto straordinario e sperava di segnalarsi, a K o –
possibilità quasi mai da escludere – agli amici presso il
tribunale? Impossibile indovinare qualcosa guardandolo, anche nel
modo sfacciatamente inquisitorio di K. Si sarebbe potuto quasi
supporre che l'avvocato aspettasse l'effetto delle sue parole con una
faccia intenzionalmente inespressiva. Tuttavia era chiaro che
interpretava il silenzio di K in modo troppo positivo, ai suoi fini,
quando riprese a parlare: “avrete notato che ho certo un grosso
ufficio, ma che non ho assistenti. Prima era diverso, una volta
alcuni giovani laureati in giurisprudenza lavoravano per me, oggi
lavoro da solo. Ciò dipende in parte dal cambiamento del mio
operare, limitato sempre più a questioni giuridiche del tipo della
vostra, in parte dalla conoscenza sempre più approfondita tratta da
tali questioni giuridiche. Trovai che non mi era lecito lasciare tale
lavoro a nessuno se non intendevo mancare nei confronti dei miei
clienti e alla funzione che mi ero assunto. La decisione però di
adempiere di persona a tutto il lavoro ebbe le naturali conseguenze:
fui costretto a rifiutare quasi tutte le richieste di patrocinio e
potei cedere solo a quelle che mi premevano specialmente – e c'è
gente da poco, perfino vicino a me, che si precipita su ogni briciola
che io butti via. Senza contare che l'eccesso di fatica mi rese
ammalato. Ciò nonostante non mi pento della mia decisione, forse
avrei dovuto rifiutare più patrocini di quel che ho fatto, che però
io mi sia dato completamente ai processi assunti è divenuto con
assoluta necessità evidente ed è stato ripagato dai successi. Una
volta in uno scritto ho trovato assai ben espressa la differenza che
c'è tra il patrocino nelle questioni giuridiche normali e il
patrocinio in questioni giuridiche come quelle che ho scelto. Eccola:
l'un avvocato trae il suo cliente, con un filo di refe, fino alla
sentenza, l'altro subito se lo mette sulle spalle e lo porta fino
alla sentenza, e oltre, senza deporlo. E' così. Tuttavia non era del
tutto giusto quando dicevo che non mi pento mai di questa gran
fatica. Quando essa, com'è nel vostro caso, viene così
completamente disconosciuta, be', allora quasi mi pento.” K venne
reso da quel discorso più impaziente che non convinto. In qualche
modo ritenne di individuare, udendo la cadenza del tono
dell'avvocato, che cosa lo aspettava se avesse ceduto: sarebbero
ricominciate le promesse, i riferimenti ai progressi dell'istanza,
alla migliore disposizione d'animo dei funzionari del tribunale, ma
anche alle grandi difficoltà che si opponevano al lavoro – in
breve sarebbe stato tirato in ballo tutto ciò che era noto fino alla
nausea allo scopo di illudere ancora K con imprecisate speranze e
tormentarlo con imprecisate minacce. Ciò doveva venir impedito in
modo definitivo, per cui K disse: “Che cosa intendete intraprendere
in merito alla mia causa, qualora conserviate il patrocino?”
L'avvocato si rassegnò perfino a quella offensiva domanda e rispose:
“andare avanti in ciò che ho già cominciato a fare per voi.”
“Lo sapevo”, disse K, “ma ora parlarne ancora è inutile.”
“Farò ancora un tentativo”, disse l'avvocato, quasi che quello
che irritava K non avvenisse a K, ma a lui. “Mi spiego, ho
l'impressione che voi veniate indotto dal fatto che vi si tratta,
nonostante che siate imputato, troppo bene, o per meglio dire in modo
negligente, con apparente negligenza, a giudizi sbagliati in merito
non solo alla mia assistenza legale, ma anche in merito alla vostra
condotta in genere. Ha un motivo anche il fatto che vi si tratti con
negligenza; spesso è meglio essere in catene che liberi. Mi
piacerebbe però mostrarvi come vengono trattati altri imputati,
forse vi riesce trarne un insegnamento. Mi spiego, ora farò venire
Block, aprite la porta e sedetevi qui presso il tavolino da notte. “
“Volentieri”, disse K facendo quel che aveva chiesto l'avvocato;
a imparare era sempre pronto. Per sicurezza, caso mai, chiese: “avete
però capito che vi ritiro la rappresentanza?” “Sì”, disse
l'avvocato, “ma potete anche revocare tale atto oggi stesso.” Si
rimise a letto, si tirò la trapunta fino al mento e si girò verso
la parete. Quindi suonò.
Quasi
insieme alla scampanellata apparve Leni, che cercò di capire con
rapide occhiate che cosa fosse successo; che K sedesse tranquillo
presso il letto dell'avvocato, parve placarne l'ansia. Annuì
sorridendo a K, che la guardava fisso. “Va' a prendere Block”,
disse l'avvocato. Invece di andarci Leni si mise davanti alla porta e
chiamò: “Block! Dall'avvocato!” e sgattaiolò, forse perché
l'avvocato restava voltato verso la parete disinteressandosi a tutto,
dietro la sedia di K, iniziando a dargli noia; si protese oltre la
spalliera della sedia, e gli passò le mani, d'altronde molto cauta e
delicata, tra i capelli o sulle guance. Infine K cercò di
impedirglielo, le afferrò una mano, e lei gliela abbandonò dopo un
po' di resistenza.
Block
era arrivato subito, al richiamo, ma restò sulla porta e parve che
riflettesse, entrare o non entrare? Alzò le sopracciglia e piegò la
testa come se stesse in attesa che venisse ripetuto il comando di
venire dall'avvocato. K avrebbe potuto incoraggiarlo a entrare, ma si
era proposto la rottura definitiva non solo con l'avvocato, ma con
tutto ciò che era in quell'appartamento, di conseguenza restò
immobile. Anche Leni taceva. Block vide che, almeno, nessuno lo
cacciava via e in punta di piedi entrò, la faccia tesa, le mani
contratte dietro la schiena. Aveva lasciato aperta la porta per
magari ritirarsi. Non guardò affatto K, ma solo il piumino erto
sull'avvocato che, spintosii vicinissimo alla parete, neppure era
visibile. In quella se ne udì però la voce: “Block, sei qui?”
chiese l'avvocato. La domanda di fatto fu per Block, che già era di
nuovo retrocesso di un bel pezzo, una stoccata al petto e poi sulla
schiena; vacillò, si fermò profondamente inchinato e disse: “a
disposizione.” ”Cosa vuoi?” chiese l'avvocato, “vieni a
sproposito.” “Non venni chiamato?” chiese Block più rivolto a
se stesso che non all'avvocato, mise le mani avanti a mo' di difesa e
fu pronto a squagliarsela. “Venisti chiamato”, disse l'avvocato,
“ciò nonostante vieni a sproposito.” E dopo una pausa riprese:
“vieni sempre a sproposito.” Dopo che l'avvocato aveva iniziato a
parlare Block non guardava verso il letto, fissava invece lo sguardo
verso un angolo, a caso, e si limitava a stare in ascolto, quasi che
vedere chi parlava fosse troppo accecante per poterlo sopportare. Era
dura anche stare in ascolto, difatti l'avvocato parlava rivolto al
muro, non solo, ma a voce bassa e svelto. “Desiderate che me ne
vada?” chiese Block. “Visto che sei qui”, disse l'avvocato,
“resta!” Si sarebbe potuto credere che l'avvocato non avesse
esaudito il desiderio di Block, ma che lo avesse minacciato con un
bastone, infatti ora Block iniziò davvero a tremare. “Ieri fui”,
disse l'avvocato, “dal terzo giudice, mio amico, e pian piano ho
portato il discorso su di te. Vuoi sapere che cosa disse?” “Oh,
ve ne prego”, disse Block. Poiché l'avvocato non rispose subito,
Block ripeté la richiesta abbassandosi come per inginocchiarsi.
Allora K lo investì: “cosa fai?” gridò. Dal momento che Leni
aveva voluto impedire tale richiamo di K, lui le afferrò anche
l'altra mano. Non era la pressione dell'amore, quella con cui la
strinse, e lei gemé a più riprese cercando di strappar le mani da
lui. Tuttavia Block fu punito per il richiamo di K, infatti
l'avvocato gli chiese: “ma chi è il tuo avvocato?” “Voi, lo
siete”, disse Block. “E a parte me?” chiese l'avvocato.
“Nessuno, a parte voi”, disse Block. “Allora non seguire nessun
altro”, disse l'avvocato. Block approvò in pieno squadrando ostile
K e scuotendo con violenza il capo al suo indirizzo. Traducendo tale
condotta in parole, sarebbero state offese grossolane. E con un tipo
simile K aveva voluto parlare amichevolmente della sua causa! “Non
ti darò più noia”, disse K accomodatosi sulla sua sedia.
“Inginocchiati, mettiti a quattro zampe, fa' quel che vuoi, a me
non importa.” Tuttavia Block, almeno nei confronti di K, conservava
la sua dignità, difatti andò verso di lui agitando i pugni e
dichiarando a voce alta quanto la vicinanza dell'avvocato glielo
permetteva: “Non potete permettervi di parlarmi così, non è
consentito. Perché mi offendete, per di più qui davanti al signor
avvocato, dove entrambi, voi e io, siamo tollerati per compassione?
Non siete migliore di me, perché anche voi siete imputato e avete un
processo. Se però, ciò nonostante, siete ancora un signore, lo sono
anch'io, se non anche più importante. E voglio che mi si parli come
a un signore, per l'appunto da parte vostra. Se però ritenete
preferibile sedere tranquillo qui e permettervi di stare a sentire
tranquillo, mentre io , come vi esprimeste, mi metto a quattro zampe,
allora vi ricordo il vecchio detto: chi sotto accusa è meglio si
muova e non stia quieto, perché chi sta quieto può sempre, senza
saperlo, esser su un piatto della bilancia e venir pesato con la sua
colpa.” K non disse nulla, limitandosi a guardare meravigliato,
senza batter ciglio, quell'uomo confuso. Che razza di cambiamenti
s'erano prodotti in lui, Block, già nelle ultime ore! Ciò dipendeva
dal processo, che lo sbatteva da una parte all'altra e non gli
permetteva di capire dov'era l'amico e dove il nemico? Non vedeva
infatti che l'avvocato lo umiliava intenzionalmente e stavolta non
mirava ad altro che a darsi delle arie davanti a K con il suo potere,
e forse ad assoggettare anche K? Se Block però non era capace di
capirlo, oppure se temeva l'avvocato al punto che capire non poteva
servirgli, com'era possibile che fosse tanto scaltrito o tanto
intrepido da ingannare l'avvocato tacendogli che lui faceva lavorare
per sé altri avvocati a parte lui? E perché osava assalire K, dal
momento che K poteva subito tradire quel segreto? Ma osò anche di
più, andò al letto dell'avvocato e cominciò anche lì a reclamare
in merito a K: “signor avvocato”, disse, “avete sentito come mi
ha parlato quest'uomo. Si possono ancora contare le ore del suo
processo e già vuol dare lezioni a chi è sotto processo da 5 anni.
Addirittura mi ingiuria. Non sa nulla e ingiuria me, che nei limiti
delle mie deboli forze ho studiato bene ciò che serve in fatto di
buona creanza, di responsabilità e di regole tribunalizie.” “Non
ti curare di nessuno”, disse l'avvocato, “e fa' ciò che ti pare
giusto.” “Certo”, disse Block, come dandosi coraggio, e
s'inginocchiò, dando una breve occhiata di lato, vicinissimo al
letto.” “Sono in ginocchio, avvocato mio”, disse. Tuttavia
l'avvocato taceva. Block sfiorò cauto con una mano il piumino. Nel
silenzio ora dominante, Leni disse, mentre si liberava dalle mani di
K: “mi fai male. Lasciami andare da Block.” Ci andò e si sedette
sulla sponda del letto. Block fu molto contento del suo arrivo,
subito la pregò a segni vivaci, ma muti, di perorare la sua causa
con l'avvocato. Aveva chiaramente bisogno molto urgente delle
informazioni dell'avvocato, ma forse per farle sfruttare dai suoi
altri avvocati. Probabile che Leni sapesse bene come poter avvicinare
l'avvocato, ne indicò una mano e appuntò le labbra a mo' di bacio.
Subito Block, infatti, eseguì il baciamano e, su invito di Leni, lo
ripeté una seconda volta. Però l'avvocato seguitava a tacere.
Allora Leni si chinò su di lui mostrando, nell'allungarsi, la grazia
della sua figura, e, piegata profondamente sul viso di lui, gli
sfiorò i lunghi capelli bianchi. Questo gli strappò una risposta.
“Esito a confidarglielo”, disse l'avvocato, e si vide che
scrollava un po' il capo, forse per partecipare di più al tocco
della mano di Leni. Block ascoltava a testa china, quasi trasgredisse
un ordine stando in ascolto. “Ma perché esiti?” chiese Leni. K
ebbe la sensazione come di udire un colloquio preparato, che già si
era spesso ripetuto, che si sarebbe ripetuto spesso, e che non
riusciva a perdere la sua originalità solo per Block. “Come si è
comportato oggi?” chiese l'avvocato invece di rispondere. Prima che
Leni si pronunciasse in merito guardò Block osservando per un poco
come sollevava le mani verso di lei e pregandola le sfregava l'una
con l'altra. Infine annuì seria, si volse all'avvocato e disse:
“Tranquillo e diligente.” Un anziano commerciante, un uomo dalla
lunga barba, implorava da una ragazzina un giudizio favorevole.
Magari aveva anche retropensieri, tuttavia nulla poteva giustificarlo
agli occhi di un suo simile. Egli degradava chi lo stava a guardare.
K non capiva come l'avvocato avesse potuto pensare di conquistarlo
con quell'esibizione. Se già non lo avesse liquidato, con quella
scena l'avvocato avrebbe raggiunto lo scopo. Dunque agiva così il
suo metodo, al quale per fortuna K non era stato esposto abbastanza a
lungo: il cliente finiva con lo scordare il mondo intero e sperava
solo di trascinarsi su tale via, sbagliata, verso il termine del
processo. Né era più un cliente, era il cane dell'avvocato. Gli
avesse ordinato di strisciare sotto il letto come in un casotto per
cani e da lì di abbaiare, lo avrebbe fatto con piacere. Quasi K
fosse incaricato di prender buona nota di tutto ciò che veniva detto
lì, di renderne conto in più alto loco facendone rapporto, stette a
sentire con meditata puntigliosità. “Che hai fatto tutto il
giorno?” chiese l'avvocato. “L'ho chiuso nella stanza della donna
di servizio, dove lui si trattiene di solito, perché non mi desse
noia durante il lavoro” disse Leni. “Dal buco della serratura di
tanto in tanto potevo controllare quel che faceva. Stava sempre in
ginocchio sul letto, aveva aperto le carte che gli hai messo a
disposizione sul davanzale e leggeva. Ciò mi ha bene impressionata;
mi spiego, la finestra porta solo a un pozzo di ventilazione e quasi
non fa nessuna luce. Che Block ciò nonostante leggesse mi mostrò
quanto sia diligente.” “Mi rallegra sentirlo”, disse
l'avvocato. “Ha anche apprezzato quanto letto?” Block durante
tale scambio muoveva le labbra di continuo, chiaramente formulava le
risposte che speranzoso si aspettava da Leni. “Non posso rispondere
con precisione su questo, naturalmente”, disse Leni, “in ogni
modo ho visto che leggeva con scrupolo. Ha letto per tutto il giorno
la stessa pagina e mentre leggeva muoveva il dito sotto le righe.
Quando lo guardavo ha sempre sospirato come se leggere gli facesse
assai fatica. Le carte che gli hai messo a disposizione probabilmente
sono difficili da capire.” “Sì”, disse l'avvocato, “lo sono
certamente. E non credo che lui ci capisca qualcosa. Devono dargli
solo un sentore di quanto sia difficile la battaglia che io conduco
in sua difesa. E per chi la conduco, questa difficile battaglia? Per
Block – è quasi da ridere dirlo - per Block. Anche quel che
significa questo lui deve imparare a capire. Ha studiato
ininterrottamente?” “Quasi”, rispose Leni, “solo una volta mi
ha chiesto dell'acqua da bere. Allora gli ho porto un bicchiere
dall'abbaino. Circa alle otto l'ho fatto uscire e gli ho dato
qualcosa da mangiare.” Block sfiorò K con un'occhiata di sbieco
quasi che venisse riferito di lui qualcosa di lodevole che doveva
fare impressione anche a K. Parve ora che avesse buone speranze, si
muoveva con più libertà e si spostò un poco sulle ginocchia. Tanto
più chiaro fu come lui rimase di gelo alle parole dell'avvocato: “lo
elogi”, disse. “Tuttavia proprio questo mi rende difficile
parlare. Il giudice, mi spiego, non si è espresso in modo positivo ,
né su Block né sul suo processo.” “Non positivo?” - chiese
Leni. “Com'è possibile?” Block la guardò in un modo carico di
tensione, sembrava che le confidasse la capacità di trasformare,
ora, a pro suo le parole da lungo tempo profferite dal giudice. “Non
positivo”, disse l'avvocato. “Fu addirittura colpito
sgradevolmente quando iniziai a parlare di Block. 'Non parlate di
Block', disse. 'E' mio cliente', dissi. 'Voi vi lasciate manipolare',
disse. 'Non ritengo la sua causa perduta', dissi. 'Voi vi lasciate
manipolare', ripeté lui. 'Non credo', dissi. 'Block sta nel processo
con diligenza e segue sempre la sua causa. Abita quasi presso di me
per essere sempre al corrente. Non si trova sempre uno zelo simile.
Certo personalmente è spiacevole, ha modi importuni ed è sporco, ma
dal punto di vista del processo è inappuntabile.' Dissi
inappuntabile, esagerai a bella posta. E lui disse: 'Block è scaltro
e basta. Ha accumulato molta esperienza e sa differire il processo.
Ma la sua insipienza è ancora più grande della sua scaltrezza. Che
cosa direbbe, se venisse a sapere che il suo processo nemmeno è
iniziato, se gli si dicesse che ancora non è suonato il campanello
di inizio del processo?' Calma, Bolck”, disse l'avvocato, infatti
Block stava levandosi incerte sulle ginocchia e chiaramente chiedeva
di avere una spiegazione. Era la prima volta, in quel momento, che
l'avvocato si rivolgeva a Block espressamente. Con gli occhi stanchi
guardò metà nel nulla, metà verso Block, che a tale sguardo si
rimise pian piano in ginocchio. “Quanto ha detto il giudice non ha
alcun significato per te”, disse l'avvocato. “Non ti spaventare
per ogni parola. Se ciò si ripete non ti dirò più proprio niente.
Non si riesce a iniziare una frase senza che tu stia a guardare chi
parla come se fosse in questione la tua sentenza definitiva.
Vergognati, davanti al mio cliente! La fai vacillare anche tu la
fiducia che egli ha in me. Ma che cosa vuoi? Sei ancora vivo, ancora
sei sotto la mia protezione. Timore insensato! Hai letto da qualche
parte che la sentenza definitiva in molti casi viene all'improvviso
da una bocca qualsiasi, in un momento qualsiasi. Certamente ciò è
vero, con molte riserve, ma è altrettanto vero però che la tua
paura mi offende e che io vi vedo una mancanza della necessaria
fiducia. Che ho mai detto? Ho riferito le parole di un giudice. Lo
sai che diversi pareri si accumulano attorno al procedimento fino
alla impenetrabilità. Questo giudice per esempio assume che il
procedimento inizi in un momento diverso da quanto faccio io. Una
differenza di opinioni, niente di più. In un certo stadio del
processo si ha, stando a un uso antico, la scampanellata. Secondo il
parere di questo giudice è allora che inizia il processo. Ora non
posso dirti tutto quello che contraddice tale parere, non lo
capiresti neppure, ti basti che è molto, a contraddirlo.” Confuso,
Block passava le dita giù sulla pelliccia dello scendiletto, la
paura causata dalle parole del giudice gli faceva dimenticare
temporaneamente la propria sudditanza nei confronti dell'avvocato,
non pensava che a sé e rigirava da ogni parte le parole del giudice.
“Block”, disse Leni in tono di ammonizione tirandolo un po' su
per il colletto. “Lascia perdere la pelliccia e sta' ad ascoltare
l'avvocato.”
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