Illustri Signori dell'Accademia!
Loro mi fanno l'onore di invitarmi a
presentare all'Accademia un rapporto sui miei trascorsi scimmieschi.
Purtroppo non sono in grado di
soddisfare in tal senso l'invito. Quasi cinque anni mi separano dal
mio stato scimmiesco, un tempo forse breve se calcolato sul
calendario, ma lungo infinitamente da attraversare al galoppo come ho
fatto io, a tratti accompagnato da persone squisite, da consigli,
applausi e musica orchestrale, tuttavia in fondo da solo, perché
l'intera compagnia si mantenne, per restare all'interno della
metafora, distante dalla barriera. Questa prova sarebbe stata
impossibile se avessi voluto caparbiamente restare fedele alla mia
origine, ai ricordi della giovinezza. Completa rinuncia ad ogni tipo
di caparbietà, era l'ordine supremo che mi ero imposto; io, libera
scimmia, mi sottomisi a questa servitù. Ma con ciò i ricordi per
parte loro mi si occlusero sempre di più. Prima il ritorno, qualora
gli uomini avessero voluto, mi fu lasciato libero, era infatti
attraversabile l'intera porta che il cielo forma al di sopra della
terra, nello stesso tempo essa, con la mia ulteriore fustigata
evoluzione, si fece sempre più bassa e più stretta; mi sentii
meglio e maggiormente incluso nel mondo umano; la tempesta che
soffiava su di me dal mio passato si attenuò; oggi essa è solo uno
spiffero che mi raffredda i talloni; il pertugio lontano da cui esso
proviene ed attraverso cui un tempo venni io è diventato tanto
piccolo che per passarci, ammesso che ci fossero le energie e la
volontà per retrocedere fin lì, dovrei strapparmi la pelle dal
corpo. Detto con franchezza, per quanto io sia disposto a scelte
immagini per questa cosa, detto con franchezza: il Loro stato
scimmiesco, signori miei, se Loro ne hanno qualcosa alle spalle, non
può essere più lontano da Loro di quanto il mio lo sia da me.
Tuttavia lo stato scimmiesco sfiora il tallone di colui che cammina
sulla terra: del piccolo scimpanzé come del grande Achille.
Posso tuttavia rispondere forse in
senso più circoscritto alla Loro proposta, e lo faccio anche con
gioia. La prima cosa che imparai fu dar la mano; la stretta di mano
segnala schiettezza; oggi dunque, che mi trovo al vertice della mia
carriera, conviene aggiungere a quella prima stretta di mano anche un
parlar schietto. Esso non apporterà all'Accademia essenzialmente
alcuna novità, sarà molto distante da ciò che da me si è preteso
e che io con la volontà migliore non posso dire – e pur sempre ha
da indicare la linea generale con cui una ex scimmia è penetrata nel
mondo umano e vi ha preso dimora. Non potrei comunque dire
l'insignificante che segue se non fossi del tutto sicuro di me e se
il mio rango non si fosse consolidato in ogni gran teatro del mondo
civile al punto di essere incrollabile.
Provengo dalla Costa d'oro. In merito
alle modalità della mia cattura non possiedo che referti esterni.
Una spedizione di caccia dell'impresa Hagenbeck – con il cui capo
(si tratta certo di Carl Hagenbeck (1844-1913) – n.d.t.) ho tra
l'altro vuotato da allora già svariate bottiglie di rosso – era
appostata nella boscaglia lungo la riva di un fiume quando io corsi
insieme al branco ad abbeverarmi. Si sparò; fui l'unico ad essere
colpito; ricevetti due colpi.
Uno alla guancia; lieve; si lasciò
dietro tuttavia una grande, nuda, cicatrice rossa che mi ha fruttato
il nome odioso, assolutamente inappropriato per quel che riguarda in
particolare una scimmia, di Rotpeter, così mi distinsi solo per via
della chiazza rossa sulla guancia dalle scimmie ammaestrate rimaste
animalesche chiamate Peter, qua e là note e recentemente crepate.
Sia detto per inciso.
Il secondo colpo mi prese al di sotto
delle anche. Fu serio, per questo ancora oggi zoppico un poco. Di
recente lessi, nel saggio di uno dei diecimila fresconi che si
dilungarono su di me nel tempo, che la mia natura di scimmia non è
ancora del tutto repressa; prova ne sia che se vengono visitatori mi
compiaccio di levarmi le brache per mostrare dove fui colpito. A
costui si dovrebbero far saltare via uno ad uno tutti i ditini della
mano che scrive. Io ho il diritto di levarmi le brache davanti a chi
mi pare; non c'è altro che una ben curata pelliccia, lì, e la
cicatrice - con uno scopo preciso a questo punto cerchiamo una
parola precisa che non sia esposta a fraintendimenti – la cicatrice
conseguente ad un colpo scellerato. Tutto evidente; nulla da
nascondere; ognuno che sia magnanimo si scrolla di dosso ogni
smanceria, questo è importante per la verità. Se invece quello
scrittore si sfilasse le brache in occasione d'una visita, ciò a
dire il vero sarebbe da considerare diversamente, e che lui non lo
faccia lo voglio far valere come segno di discernimento. Poi però
con la sua tenera sensibilità si compiaccia di togliermisi di
torno!
Dopo quei colpi mi svegliai – qui
cominciano poco a poco i miei veri ricordi – dentro una gabbia
nell'interponte del piroscafo hagenbeckiano. Non era una gabbia a
sbarre con quattro pareti, le pareti erano solo tre, fissate ad una
cassa che formava dunque la quarta. L'insieme era troppo basso per
stare in piedi e troppo stretto per sedere. Mi accovacciavo perciò
con le ginocchia ripiegate in un continuo tremito e stavo girato
verso la cassa, in realtà è probabile che volessi in primo luogo
non veder nessuno e stare sempre al buio, e le sbarre intanto mi
incidevano solchi nella carne. Una custodia siffatta degli animali
selvatici è ritenuta all'inizio vantaggiosa, ed io oggi non posso
negare che dal punto di vista umano nel caso mio è stato così.
Non pensavo tuttavia a questo, allora.
Ero per la prima volta in vita mia privo di vie d'uscita; almeno, non
ce ne erano davanti; davanti a me c'era la cassa, le assi saldamente
connesse. In realtà tra loro c'era una fessura continua che, quando
la scoprii, salutai contento con il beato urlo della stoltezza, ma
questa fessura non servì neppure ad infilarci la coda e pur con
tutta la forza d'una scimmia non ci fu verso di allargarla.
Devo aver fatto, come poi mi si disse,
particolarmente poco strepito, ciò da cui si concluse che dovevo
morire presto oppure, se mi riusciva di sopravvivere, che mi sarei
fatto assai addomesticabile. Sopravvissi a questo periodo. Singhiozzi
cupi, spulciarsi dolente, leccar svogliato di noci di cocco, urti
della zucca contro la parete della cassa, linguacce a chi mi si
avvicinava – queste furono le prime incombenze della vita nuova. E
però in tutto questo il sentimento dominante di non avere alcuna via
d'uscita. Naturale, oggi posso indicare solo con parole umane i
sentimenti scimmieschi di allora, perciò distorcendoli, ma per
quanto non possa più pervenire alla vecchia verità scimmiesca,
almeno essa risiede nel significato della mia descrizione, su questo
non c'è dubbio.
Fino allora avevo avuto così tante vie
d'uscita, invece adesso più nessuna. Ero stato un ottimo corridore.
Mi avessero inchiodato, con questo la mia potenzialità di transito
non sarebbe diminuita. Perché? Scòrticati le carni in uno spazio di
dieci piedi quadrati, non troverai il perché. Premiti indietro
contro le sbarre dell'inferriata finché quasi non ti rompe in due,
non troverai il perché. Non avevo alcuna via d'uscita, ma dovevo
procurarmela, perché senza non potevo vivere. Ne sarei morto senza
meno, di questa sempiterna parete della cassa. Le scimmie tuttavia,
presso Hagenbeck, devono starsene addossate a una parete – e così
cessai di essere scimmia. Ragionamento bello chiaro che devo aver
concepito non so come visceralmente, infatti è con le viscere che le
scimmie pensano.
Temo che non si comprenda a sufficienza
che cosa intendo per via d'uscita. Uso l'espressione nel suo
significato più normale e pieno. E' intenzionalmente che non dico
libertà. Non mi riferisco a tale gran sentimento di libertà in ogni
direzione. In quanto scimmia forse lo conoscevo, ed ho imparato a
conoscere uomini che ne hanno il desiderio. Per quanto riguarda me,
non esigevo libertà né allora né oggi. Detto per inciso: della
libertà tra gli uomini ci si illude troppo di frequente. E come la
libertà ha i sentimenti più elevati, anche la relativa illusione ne
ha. Spesso nel varietà mi è avvenuto di vedere, nel far la mia
entrata, qualche coppia di virtuosi affaccendarsi dalle parti del
soffitto con il trapezio. S'agitavano, dondolavano, saltavano, si
libravano l'uno nelle braccia dell'altro, l'uno reggeva l'altro a
puntino con i denti. “Anche questo è umana libertà”, pensavo,
“movimento dispotico.” Tu, derisione della natura sacra! Nessun
edificio resterebbe in piedi davanti alla risata del mondo scimmiesco
al tal vista.
No, non volevo la libertà. Solo una
via d'uscita, a destra, a sinistra, ovunque, senza tregua; non avevo
altro da chiedere; poteva essere anche solo un'illusione, la via
d'uscita; l'esigenza era modesta, la delusione non sarebbe stata più
che modesta. Avanzare, avanzare! Pur di non restar fermo a braccia in
alto contro la parete d'una cassa.
Oggi vedo chiaro: senza la massima
calma interiore non avrei potuto fuggire. Ed in realtà devo forse
tutto quel che sono diventato alla calma che dopo i primi giorni
sulla nave s'impadronì di me. D'altra parte ne fui ben debitore a
quelli della nave.
Brava gente, nonostante tutto. Ancor
oggi mi rammento del rumore dei loro passi pesanti che talvolta
risuonavano nel mio dormiveglia. Avevano l'abitudine di por mano a
tutto con la massima lentezza. Uno che voleva stropicciarsi gli occhi
sollevava la mano come fosse un carico sospeso. Gli scherzi loro
erano rozzi, ma cordiali. Le risate sempre si mescolavano ad una
tosse squillante in modo sinistro, ma affatto trascurata. Avevano in
bocca sempre qualcosa da sputare, dove, era loro indifferente. Si
lamentavano sempre del fatto che le mie pulci saltavan loro addosso;
ma non per questo erano proprio cattivi con me; lo sapevano, che nel
mio pelame crescono le pulci, e che le pulci saltano; perciò ci si
rassegnavano. Quando erano liberi dal servizio, alcuni si sedevano
attorno a me in semicerchio, a volte; parlavano appena, piuttosto si
limitavano ad accostarsi l'un l'altro; fumavano la pipa stando sulla
cassa; si davan colpi sulle ginocchia fino a che io non facevo un
minimo di movimento; e alle volte uno prendeva un bastone e mi
solleticava dove mi piaceva. Mi capitasse oggi di essere invitato a
partecipare ad un viaggio su quella nave, declinerei, ma lo stesso è
sicuro che non ci sono soltanto brutti ricordi a cui potrei
abbandonarmi lì nell'interponte.
La calma che io acquisii nella cerchia
di quella gente mi tenne fuori da ogni tentativo di fuga. Oggi mi par
di vedere come almeno io avessi indovinato che dovevo trovare una via
d'uscita, se volevo vivere, ma che tale via d'uscita non era
ottenibile con la fuga. Non so più se fuggire era possibile, credo
di sì; ad una scimmia la fuga era sempre possibile. Con la mia
dentatura odierna devo stare attento perfino al banale schiacciar
noci, ma allora avrebbe ben dovuto riuscirmi di rompere un po' alla
volta la serratura con i denti. Non lo feci. Che cosa ci avrei
guadagnato? Appena messa fuori la testa mi si sarebbe riacchiappato e
chiuso in una gabbia anche peggiore; o avrei potuto senza volere
trovar rifugio presso animali come i serpenti boa che si trovavano
davanti a me, soffocando nelle loro spire; o mi sarebbe riuscito di
sbucare sul ponte e di balzare fuori bordo, per poi annegare dopo
aver dondolato per un po' nell'oceano. Atti disperati. Non feci
calcoli così umani, ma nei limiti della mia condizione mi comportai
come se li avessi fatti.
Non facevo calcoli, ma in tutta calma
stavo ad osservare, all'incirca. Vedevo quegli uomini andare di qua e
di là, sempre le stesse facce, gli stessi movimenti, spesso mi
facevano l'effetto di essere un uomo solo. Costui o costoro
camminavano dunque indisturbati. Una meta elevata emergeva. Nessuno
mi promise che se io fossi diventato come loro la grata sarebbe stata
tirata su. Promesse del genere apparentemente irrealizzabili non
furono fatte. Si raggiungono però risultati ed in un secondo tempo
appaiono corrette le promesse che prima si sono cercate invano. In
quegli uomini come tali nulla mi attirava. Fossi stato un seguace di
quella menzionata libertà, certo avrei preferito l'oceano alla via
d'uscita che mi si mostrava nello sguardo spento di quegli uomini.
Del resto li osservavo già da tempo, prima di pensare cose del
genere, anzi, l'accumulo di osservazioni fu il primo che mi condusse
nella direzione stabilita.
Era tanto facile imitarli. Già nei
primi giorni ero in grado di sputare. Ci sputavamo reciprocamente in
faccia; unica differenza, io dopo mi pulivo leccandomi la faccia,
loro no. Fumai la pipa ben presto come un veterano; poi pressai il
pollice nel fornello, e tutto l'interponte esultò; solo che per
parecchio tempo non compresi la differenza tra pipa vuota e piena.
Lo stento maggiore me lo causò la
fiasca d'acquavite. L'odore era tormentoso. Con tutte le forze mi
costrinsi; ma passarono settimane prima che riuscissi a dominarmi.
Lotte interiori che loro presero nettamente più sul serio di ogni
altra cosa. Nel ricordo non li distinguo nemmeno, ma uno continuava a
tornare, da solo o con i camerati, di giorno, di notte, alle ore più
svariate; mi si piazzava davanti con la fiasca e m'impartiva lezioni.
Non mi capiva, voleva risolvere l'enigma del mio essere. Sturava la
fiasca lento e mi guardava per accertarsi che avessi compreso; lo
confesso, stavo a guardarlo con attenzione sollecita, sfrenata;
nessun maestro umano trovò uno scolaro umano simile nell'intero
pianeta; dopo stappata la fiasca, lui la portava alla bocca; io ne
seguivo il movimento con lo sguardo fino alla gola; annuisce,
contento di me, e si mette la fiasca alle labbra; io, estasiato dalla
graduale cognizione, mi gratto dappertutto strillando; lui se ne
rallegra, si accosta la fiasca alle labbra e prende un sorso; io,
disperatamente impaziente di emularlo, me la faccio addosso nella
gabbia, cosa che lo compiace parecchio; ed ora, alzando lontano da sé
la fiasca e con slancio riportandola su, la vuota in un colpo solo
piegato indietro in modo esageratamente didattico. Io, sfinito
dall'eccesso di pretese, non so più imitare e sto appeso alle sbarre
fiacco, intanto che lui termina l'insegnamento teorico al punto di
accarezzarsi il ventre sogghignante.
Inizia dunque la pratica. Non sono già
troppo sfinito dalla teoria? Ebbene, sì. E' il mio destino. Ciò
nonostante allungo la mano, tanto sono bravo, sulla fiasca che mi si
porge; la stappo tremante; dato il buon esito a poco a poco mi
nascono nuove energie; alzo la fiasca quasi come ha fatto lui, me
l'appoggio e – e la butto schifato, schifato, anche se è vuota e
piena solo dell'odore, la butto schifato al suolo. Con dolore del
mio maestro, con mio più grande dolore, e non mi rimetto in pace con
lui o con me stesso per il fatto che, dopo aver buttato via la
fiasca, non dimentico di accarezzarmi la pancia soddisfattissimo e
poi di sogghignare.
La lezione troppo spesso trascorreva
così. E, sia detto ad onore del mio maestro, lui non era malvagio;
sì, certe volte mi tenne la pipa accesa sulla pelliccia finché, in
un qualche posto dove solo con difficoltà ero disponibile, non
cominciava a bruciare, ma poi era lui a spegnere con la sua buona
manona; non era malvagio con me, si rendeva conto che eravamo in
lotta contro la natura scimmiesca e che la mia parte era la più
ardua.
Quale vittoria invece dopo, per lui e
per me, quando una sera davanti ad un gran cerchio di spettatori –
una festa, forse, suonava un grammofono, tra loro circolava un
ufficiale – in quell'istante, non visto, afferrai una fiasca
d'acquavite senza volere lasciata lì, la stappai da bravo scolaro
mentre nella combriccola cresceva l'attenzione, la portai alla bocca
e senza indugio, senza smorfie, a mo' di bevitore professionista, gli
occhi ben rovesciati indietro, la vuotai davvero a garganella; e non
come un disperato, bensì da virtuoso la buttai in terra; è vero,
scordai di accarezzarmi il ventre, invece, dato che non potevo fare
altro e che ne sentivo l'urgenza, ed i sensi erano in fregola, gridai
breve e come si deve: “Ehilà!”, esplosi con voce umana, e balzai
con quel grido nella comunità degli uomini la cui eco, “Sentite!
Parla!”, io la sentii come un bacio su tutto il mio corpo sudato.
Lo feci ancora: non mi piaceva imitare
gli uomini; mi andava perché era un tentativo di via d'uscita, non
per altro. E con quella vittoria ancora era fatto poco. Subito la
voce mi venne meno di nuovo; ritornò dopo mesi; la ripugnanza per la
fiasca d'acquavite crebbe addirittura. La mia strada però era senza
dubbio aperta per sempre.
Quando ad Amburgo fui consegnato al
primo addomesticatore, seppi presto le due possibilità che mi si
aprivano: o giardino zoologico o varietà. Non indugiai. Mi dissi:
sforzati bene di entrare nel varietà; è quella la via d'uscita; il
giardino zoologico è solo un'altra gabbia; ci entri e sei perduto.
Ed imparai, signori miei. Oh, s'impara,
quando si desidera una via d'uscita; s'impara con spietatezza; ci si
contiene anche in presenza della frusta; ci si tormenta anche per la
minima resistenza. La natura scimmiesca, rovesciandosi, se ne andava
via da me, tanto che il mio primo maestro quasi divenne scimmiesco,
presto fu costretto ad abbandonare le lezioni e fu portato in
manicomio. Per fortuna ne uscì in breve.
Di maestri però ne consumai molti,
anzi, addirittura più di uno nello stesso tempo. Divenuto già più
certo del mio talento, io, fu il pubblico a seguire i miei progressi,
il mio avvenire cominciò a splendere, presi io stesso dei maestri,
li feci sistemare in cinque stanze contigue ed imparai da tutti
contemporaneamente saltando senza sosta da una stanza all'altra.
Quei progressi! Quella penetrazione da
ogni parte, nel mio cervello risvegliato, dei raggi del sapere! Non
lo nego: ne fui contento. Ma confesso di non averli sopravvalutati
allora, ed ancor meno oggi. Con uno sforzo finora senza paragoni
sulla terra sono pervenuto alla cultura media di un europeo. Nulla in
sé, ma ben qualcosa, dal momento che mi servì ad uscire dalla
gabbia e mi procurò questa particolare via d'uscita, questa via
d'uscita umana. In tedesco c'è un noto modo di dire: svignarsela
(sich in die Buesche schlagen – battersela, svignarsela -
n.d.t.); ecco che cosa ho
fatto, me la sono svignata. Non avevo nessuna altra via, posto sempre
che non potevo scegliere la libertà.
Valuto la mia evoluzione fin qui e la
sua meta non mi lamento né sono soddisfatto. Le mani in tasca, la
fiasca di vino sul tavolo, un poco sto disteso, un poco siedo sul
dondolo e guardo fuori dalla finestra. Capita una visita, l'accolgo
come si conviene. Il mio impresario (in italiano nel testo –
n.d.t.) siede in anticamera; quando suono viene a sentire che cosa ho
da dire. La sera c'è quasi sempre spettacolo e non credo di avere
più troppi margini di crescita in fatto di successo. La notte tardi
torno a casa da qualche banchetto, da occasioni scientifiche, da
piacevoli riunioni, mi aspetta una piccola scimpanzé semiaddestrata,
e me la spasso con lei a mo' di scimmia. Di giorno non desidero
vederla; infatti ha nello sguardo quella follia delle bestie
perturbate dall'addestramento che solo io riconosco e che non so
tollerare.
Insomma ho conseguito comunque quel che
volevo. Non si dica che non ne è valsa la pena. Del resto non voglio
nessun giudizio umano, voglio solo allargare le conoscenze, mi
limitai a riferire, anche a voi, illustri signori dell'Accademia, ho
solo riferito.
Altri testi sul tema Rotpeter.
Tutti conosciamo il Rotpeter, così
come lo conosce mezzo mondo. Quando però lui venne nella nostra
città per un'esibizione straordinaria, decisi di farne personalmente
la conoscenza più da vicino. Nelle città grandi, dove regna
l'esigenza smaliziata di veder respirare dalla minima distanza le
celebrità, ciò può essere certo difficile, ma nella nostra ci si
accontenta di osservare dal parterre con meraviglia quello che la
merita, ragion per cui io ero, come mi disse il facchino
dell'albergo, fin lì l'unico ad aver annunciato la sua visita. Il
signor Busenau, l'impresario, mi accolse molto cortesemente. Non mi
aspettavo di incontrare in lui un uomo così alla buona, un uomo anzi
quasi timido. Sedeva nell'anticamera dell'appartamento di Rotpeter e
mangiava un piatto di uova. Nonostante che fosse mattina lui sedeva
in abito da sera, come si mostrava nelle esibizioni. Non appena
scorse me, insignificante ospite estraneo, saltò su, lui, possessore
delle maggiori onorificenze, re dell'addestramento, laureato ad
honorem nelle grandi università – saltò su, mi strinse la mano,
mi pregò di sedere, nettò il suo cucchiaio alla tovaglia ed
amichevolmente me lo offrì perché finissi di mangiare il piatto di
uova. Non fece caso al mio no grazie e cominciò ad imboccarmi lui
stesso. Feci fatica a placarlo ed a respingerlo con il cucchiaio ed
il piatto. “Assai amabile, che siate venuto”, disse con forte
accento straniero, “davvero amabile. Ed anche all'ora migliore,
Rotpeter non sempre, purtroppo non sempre è in grado di ricevere,
spesso è nauseato dalla vista degli uomini; inoltre nessuno è
ammesso, chiunque sia, anch'io, anch'io ho il permesso per dir così
professionale di averci a che fare solo sulla scena. Ma appena finita
l'esibizione devo sparire, lui va a casa da solo, si sbarra nella sua
stanza e rimane per lo più così fino alla sera dopo. Tiene sempre
in stanza da letto una gran cesta da viaggio piena di frutta di cui
si nutre in questi casi. Io però, che naturalmente non posso
lasciarlo insorvegliato, prendo sempre l'appartamento di fronte e lo
tengo d'occhio da dietro le tende.”
“Quando siedo davanti a voi,
Rotpeter, e vi sento parlare, bevo alla vostra salute – che lo
prendiate o meno per un complimento, si tratta solo della verità –
dimentico del tutto che siete uno scimpanzé. Soltanto un po' alla
volta, quando mi costringo ad allontanarmi dal pensiero e ad
avvicinarmi alla realtà, gli occhi mi indicano di nuovo di chi sono
ospite.”
“Certo.”
“Vi siete fatto così silenzioso, ma
perché? Mi avete espresso da un attimo opinioni così
straordinariamente esatte sulla nostra città, ed ora siete tanto
silenzioso.”
“Silenzioso?”
“Vi serve qualcosa? Devo chiamare
l'addestratore? Siete forse abituato a mangiare, a quest'ora?”
“No no. Va bene. Posso anche dirvelo,
che cos'era. Talvolta mi sopravviene un tale disgusto davanti agli
uomini che trattengo appena il vomito. Naturalmente ciò non ha nulla
a che fare con il singolo, nulla con la vostra amabile presenza.
Riguarda gli uomini tutti. Non è neanche degno di nota, voi dovreste
per esempio vivere di continuo insieme alle scimmie, ed avreste di
certo attacchi simili, anche con ogni autocontrollo. Non è del resto
in particolare neppure l'odore del prossimo, a disgustarmi tanto, ma
l'odore umano che io ho assunto e che si mescola con l'odore della
mia patria originaria. Prego, annusate voi stesso! Qui sul petto!
Affondate il naso nella pelliccia! Affondatelo, dico!”
“Sfortunatamente non so sentire nulla
di particolare. Il solito odore di un corpo curato, quanto al resto
nulla. Per altro il naso delle persone di città su questo è
autorevole. Com'è naturale esse annusano quello che in mille modi
alita loro addosso.”
“Una volta, signor mio, una volta.
Ora non più.”
“Dato che voi stesso la prendete da
questo punto di vista m'arrischio a domandare: da quanto vivete tra
noi, di fatto?”
“Cinque anni, il cinque di agosto
sono cinque anni.”
“prestazione inaudita. In cinque anni
liberarsi dello stato scimmiesco e correre al galoppo l'intero
sviluppo dell'umano. Nessuno in verità ancora lo ha fatto. Su tal
percorso voi siete assolutamente solo.”
“Lo so, è molto, e talvolta
oltrepassa la mia capacità di comprensione. Nelle ore di quiete non
ho tuttavia una opinione tanto entusiastica. Lo sapete come fui
catturato?”
“Ho letto ogni pubblicazione su di
voi.”
“Certo, presi due colpi, uno qui
nella guancia, la ferita naturalmente era molto più grande della
cicatrice attuale, ed uno sotto le anche. Mi leverò i calzoni perché
vediate anche questa cicatrice. Dunque, era qui il foro d'entrata,
ferita decisamente profonda, caddi dall'albero e quando mi svegliai
ero in una gabbia nell'interponte.”
“In gabbia! Nell'interponte! E'
diverso leggerlo e pensarlo sentendovelo narrare.”
“Ed ancor diverso se lo si è vissuto
di persona, signor mio. Fino a quel momento non avevo avuto contezza
di ciò che significa non avere alcuna via d'uscita. Mica era una
gabbia di quattro pareti, erano tre sole, attaccate ad una cassa, la
quarta parete. Il tutto era tanto basso che non riuscivo a stare in
piedi, e tanto stretto che non potevo neanche star seduto. Ero in
gardo dunque di accoccolarmi con le ginocchia piegate. Dalla rabbia
non volevo vedere nessuno e rimanevo perciò girato verso la cassa,
così me ne stavo lì in attesa giorno e notte, mentre le sbarre
dietro mi tagliavano. Si ritiene una simile custodia degli animali
selvatici nel primissimo periodo vantaggiosa, e non posso negare,
dopo la mia esperienza, che ciò in senso umano è vero. Allora però
del punto di vista umano non era nella mia disponibilità ancora
alcunché. Ci avevo la cassa davanti. Allarga l'assito, rodici un
buco, pigiati nel buco che in realtà permette appena di
traguardarci, mentre tu la prima volta che lo scopri lo saluti con
l'urlo felice della stoltezza. Dove vuoi andare? Dietro l'assito c'è
ancora legno, (interrotto – n.d.t.)
Stimatissimo signor Rotpeter,
Ho letto il rapporto da voi scritto per
la nostra accademia delle scienze con grande interesse, anzi, con il
batticuore. Non c'è da stupirsene, sono il vostro primo lettore, e
voi avete trovato termini così gentili, ricordandovi di me. Forse
riflettendoci un poco si sarebbe potuta evitare la menzione del mio
soggiorno in manicomio, ma apprezzo il fatto che l'intero vostro
rapporto, con la franchezza che lo caratterizza, se guarda caso vi
era venuto in mente questo dettaglio nello scrivere, non abbia potuto
ometterlo, ancorché un poco esso mi comprometta. Ma non di questo
avevo qui intenzione di parlare, è altro che mi va.
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