Com'è
cambiata la mia vita, e tuttavia come non è, in fondo, cambiata! Se
con il pensiero vado indietro e mi rifaccio ai tempi in cui ancora
vivevo nella comunità dei cani, partecipavo a tutto quello che di
essa è rattristante, cane tra cani, trovo però guardando meglio che
da sempre qualcosa non tornava, lì, c'era una piccola frattura, un
lieve disagio mi toccava nel corso delle solenni manifestazioni
popolari, anzi, anche in cerchie intime talvolta, no, non talvolta,
ma assai spesso, la mera vista d'un confratello a me caro, la mera
vista in qualche modo guardata di nuovo, mi dava imbarazzo, spavento,
impotenza, anzi disperazione. Cercai per dir così di migliorarmi,
amici che di ciò feci partecipi mi furono utili, di nuovo vennero
tempi più sereni, tempi nei quali certamente quel tipo di sorprese
non mancarono, ma furono prese con imperturbabilità,
imperturbabilmente divennero parti della vita, forse tristi e
faticose, tuttavia a parte ciò esse lasciarono che io esistessi come
un cane certo un po' freddo, riservato, timido, calcolatore, ma
accolto nel complesso come uno a posto. Come avrei, senza queste
pause distensive, potuto raggiungere l'età di cui oggi mi
compiaccio, come avrei potuto farmi strada in direzione di quella
serenità con cui contemplo le paure della mia gioventù e tollero le
paure della vecchiaia, come avrei potuto arrivare a tirar le
conclusioni circa la mia tendenza, lo confesso, all'infelicità o,
per esprimersi con maggior cautela, alla scarsa felicità, e vivere
in modo quasi del tutto conforme ad essa? Ritirato, in solitudine,
occupato solo dalle mie modeste ricerche, senza speranza eppure a me
indispensabili, vivo così, ma con ciò non ho smarrito la visione
complessiva del mio popolo, spesso mi arrivano notizie ed ogni tanto
anche io sto ad ascoltarle. Mi si tratta con attenzione, non si
capisce il mio modo di vivere, ma ciò non mi nuoce, ed anche i
giovani cani che talvolta vedo da lontano correre, una nuova
generazione della cui fanciullezza a mala pena oscuramente mi
rammento, non rifiutano di salutarmi con rispetto. Non è possibile
trascurare il fatto che io, nonostante le mie particolarità oggi
evidenti, non traligno completamente. Riflettendoci, e ne ho il
tempo, il piacere e la capacità, ciò è anzi in armonia con la
comunità dei cani. Vi sono, a parte noi cani, una quantità di
specie di creature, in giro, povere, misere, mute, esseri limitati a
certe loro grida, tra noi cani molti le studiano, han dato loro
denominazioni, cercano di essere loro utili, di ingentilirli, cose
del genere, a me sono indifferenti, a meno che non tentino di
disturbarmi, all'incirca; li confondo, guardo oltre, ma anche uno
solo, tra loro, dà troppo nell'occhio per sfuggirmi; in altri
termini essi, confrontati a noi cani, sono davvero poco uniti,
davvero passano reciprocamente estranei, davvero non li unisce né un
interesse alto né uno infimo, davvero ogni interesse li tiene
reciprocamente lontani assai di più di quanto già la normalità non
comporti! Noi cani, al contrario! Si può ben dire che noi tutti
viviamo proprio in un unico mucchio, tutti, quantunque siamo diversi,
per il resto, a causa delle innumerevoli e profonde differenze che
nel corso dei tempi sono emerse. Tutti in un mucchio! Ci accalchiamo
reciprocamente e nulla può impedirci di compiacerci d'un simile
pigia pigia, tutte le nostre leggi ed istituzioni, le poche che
ancora conosco e le innumerevoli che ho dimenticato, sono riferite a
questa grandissima fortuna cui siamo soggetti, il caldo stare uniti.
Ma vediamo il reciproco di ciò, ora. Nessuna creatura vive a quanto
ne so così estesamente sparpagliata come noi cani, nessuna possiede
tanta ad occhio assolutamente incalcolabile distinzione di classe, di
natura, di attività, noi che vogliamo tenerci uniti – e ci riesce
sempre, nonostante tutto, nei momenti di entusiasmo – viviamo
separati assai largamente l'un dall'altro in mestieri particolari
spesso incomprensibili anche al cane accanto, stando alla regola,
mestieri non da cani, anzi orientati contro i cani. Cose difficili,
di quelle che si preferisce non toccare – lo capisco, tale punto di
vista, anche meglio del mio – eppure sono cose nelle quali sono
caduto ben bene. Perché non faccio come gli altri, perché non vivo
in concordia con il mio popolo, perché non accolgo in silenzio ciò
che turba la concordia, perché non lo trascuro come un piccolo
errore nella somma generale, perché non resto sempre orientato verso
ciò che felicemente lega, e non verso ciò che continua a trarci
irresistibilmente fuori dalla cerchia del popolo? Ricordo un episodio
della mia fanciullezza, mi trovavo allora in uno di quegli stati
felici di esaltazione che forse ogni fanciullo prova, ero ancora
assolutamente un cucciolo, mi piaceva tutto, tutto mi riguardava,
credevo che attorno a me accadessero grandi cose, con me al centro,
cui dovessi dar voce, cose che, se io non fossi loro andato in
soccorso agitandomi a destra e a manca, sarebbero rimaste in uno
stato misero, fantasie da fanciullo, dunque, che si dileguarono con
gli anni, eppure ancora assai potenti, talvolta, ero del tutto in
loro potere, e poi successe però qualcosa di straordinario che parve
dar ragione alle sfrenate aspettative. Nulla di eccezionale in sé,
in seguito ho visto abbastanza spesso cose del genere, ed anche più
particolari, ma quella volta rimasi colpito fortemente in confronto
alle successive. Incontrai dunque una piccola compagnia di
cani,
anzi, non la incontrai, mi venne incontro. Ero allora corso a lungo
nel buio con il presentimento di grandi cose, un presentimento che
però era facilmente ingannevole perché lo avevo sempre, ero corso a
lungo nel buio, a destra e a sinistra, condotto da null'altro che
dall'incerto desiderio, di colpo mi fermai sentendo che lì ero nel
posto giusto, alzai gli occhi ed era giorno più che luminoso, solo
un po' caliginoso, salutai il mattino con grida disordinate, là –
come se li avessi evocati – spuntarono da una qualche tenebra
facendo un frastuono spaventoso, come mai l'avevo udito, sette cani.
Se non avessi visto con chiarezza che si trattava di cani e che quel
frastuono era di loro pertinenza, per quanto non potessi capire in
qual modo lo facevano, sarei scappato subito, ma stando così le cose
rimasi. Ai tempi non sapevo quasi niente della musicalità di cui la
specie canina è tipicamente dotata, essa era sfuggita alla mia
nascente attenzione, soltanto per accenni si era tentato di farmela
notare, e tanto più sorprendenti, addirittura soverchianti, furono
per me quei sette musici. Non parlavano, non cantavano, diciamo che
tacevano quasi con una certa ostinazione, tuttavia dallo spazio vuoto
producevano per incanto la musica. Tutto era musica, il su e giù
operato dai loro piedi, la precisa rotazione delle teste, mosse e poi
bloccate, le posizioni che essi assumevano reciprocamente mentre per
esempio uno appoggiava le gambe anteriori sulla groppa dell'altro,
tutti e sette ciò facendo in modo che il primo portasse il peso di
tutti gli altri, oppure era musica il loro strisciare la pancia a un
pelo dal suolo dando luogo a figure intrecciate e mai sbagliandosi,
neanche l'ultimo, ancora un po' incerto, mancava mai di congiungersi
all'altro, a momenti vacillava, per dir così, mentre la melodia
veniva abbaiata, eppure era incerto solo in confronto alla gran
sicurezza degli altri, e neanche con molto maggiore incertezza, anzi,
neanche con la più compiuta incertezza lui avrebbe potuto guastare
alcunché, dato che gli altri, grandi maestri, tenevano il tempo
imperturbabili. E tuttavia innegabilmente costoro si vedevano a mala
pena, tutti e sette si vedevano a mala pena. Erano spuntati,
interiormente li avevi salutati come cani, certo eri assai confuso
dal frastuono che li accompagnava, ma si trattava di cani, cani come
tu ed io ne vedevamo normalmente, cani di quelli che s'incontrano per
la via, ti volevi avvicinare a loro, scambiare saluti, erano
vicinissimi, cani certo assai più vecchi di me e non di pelo lungo e
lanoso come il mio, ma non del tutto diversi in fatto di taglia e
fattezze, molti uguali o simili ne conoscevo ben più intimamente, ma
intanto che eri nell'imbarazzo di simili riflessioni la musica
cresceva, ti afferrava sul serio, ti spingeva via molto di
contraggenio da questi cani davvero piccoli, si alzava a tutta forza,
urlava come se fosse stato procurato del dolore, di nient'altro ti
potevi occupare se non della musica proveniente dall'alto, dal
profondo, da ogni dove, afferrava l'uditore, lo riempiva, lo
soverchiava, così prossima, al di là del suo affievolirsi, mentre
invece già era in lontananza appena udibile, ed ancora risuonante di
fanfare. Ed avevi di nuovo la libertà, poiché eri già troppo
stanco, troppo annientato, troppo debole per continuare ad ascoltare,
la libertà di vedere i sette piccoli cani condurre la loro
processione, fare i loro salti, volevi chiamarli, così poco parevano
propensi, chieder loro informazioni, domandare che cosa ci facevano,
lì – io ero un fanciullo e credevo di poter fare domande a tutti
–, ma non appena mi accinsi a ciò, non appena provai il buon
intimo legame canino con i sette, la loro musica fu di nuovo lì
facendomi ammattire, costringendomi a girare su me stesso in cerchio
come se fossi anch'io uno dei musici, invece ero soltanto una
vittima; mi volsi qua e là, tanto chiedevo grazia, ed infine mi
salvai dinnanzi a quella potenza per il fatto che la musica mi
strinse all'interno di un intrigo boschivo che da ogni lato si levava
attorno senza che fin lì io lo avessi notato, ora mi circondava
strettamente e mi spingeva il capo in basso fornendomi la possibilità
di riprendere un po' di fiato, poteva rimbombare là fuori, la
musica. Per la verità mi meravigliavo, più che della bravura dei
sette cani – inafferrabile, assolutamente scollegata dalle mie
facoltà -, del loro coraggio di esporsi a quello che essi
producevano in modo pieno e aperto, e della loro forza di sopportarlo
tranquilli senza spezzarsi la schiena. Ora però, dal mio
nascondiglio, ad una osservazione più rigorosa riconobbi che non
c'era tanta tranquillità quanto lo sforzo massimo che loro mettevano
in atto, quelle gambe mosse con tanta sicurezza tremavano ad ogni
passo con incessante meticoloso spasimo, l'uno guardava l'altro come
irrigidito nella disperazione, la loro lingua, sempre ritirata
dentro, tornava a pendere molle fuori dalle bocche. Non poteva essere
ansia di ben riuscire, quello che tanto li agitava; chi tanto osava,
tanto realizzava, non poteva più angosciarsi, e per che cosa? Chi li
costringeva a fare quel che facevano lì? E non riuscii a trattenermi
più, in particolare perché essi ora mi sembravano tanto
misteriosamente bisognosi d'aiuto, così gridai al di là di tutto il
frastuono le mie domande, chiaro e sollecito. Tuttavia loro –
incomprensibile, incomprensibile! - non risposero, fecero come se io
non ci fossi, cani che al richiamo canino non danno risposta, una
mancanza di buone maniere che mai viene perdonata né al più piccolo
né al più grosso cane. Non si trattava invece di qualcosa
all'incirca di non canino? Ma come poteva non trattarsi di cani? Ora
però udii, stando ad ascoltare meglio, perfino lievi richiami con
cui essi si bersagliavano per richiamare l'attenzione alle
difficoltà, si mettevano in guardia dagli errori, mentre vidi
l'ultimo e più piccolo dei cani, al quale toccava la maggior parte
dei richiami, sbirciare spesso verso di me come se avesse molta
voglia di rispondermi, ma si contenne, infatti ciò non era lecito
che avvenisse. Ma perché non era lecito, perché stavolta non era
lecito ciò che sempre senza riserve le nostre leggi esigono? Il mio
cuore provò indignazione, quasi dimenticai la musica. Quei cani lì
trasgredivano la legge. Per quanto potessero essere dei grandi maghi
la legge valeva anche per loro, lo capivo con assoluta precisione
anch'io, che ero un fanciullo. Ed ancor di più ci feci maggior caso
per questa ragione. Avevano davvero ragione di tacere, se lo facevano
per senso di colpa. Al modo come essi si comportavano non avevo fatto
caso finora a causa dell'elevato frastuono, avevano scacciato da sé
proprio ogni pudore, quei miserabili si davano sia ad assurdità che
ad indecenze, si muovevano ritti sulle gambe posteriori, che schifo!
Si scoprivano mettendo in mostra la loro vistosa nudità; se la
godevano, e se per un attimo ascoltavano i buoni impulsi ed
abbassavano le gambe anteriori, si spaventavano addirittura come se
fosse una colpa, come se la naturalezza fosse una colpa, rialzavano
svelti le gambe ed il loro sguardo pareva chiedere perdono perché
avevano dovuto interrompersi un poco nella loro peccaminosità. Era
il mondo alla rovescia? Dove mi trovavo? Che cosa era successo? Per
amore della mia stabilità personale non potevo più indugiare, mi
liberai degli sterpi che mi avvolgevano, con un balzo saltai fuori e
mi diressi verso i cani, io, semplice scolaro, dovevo essere maestro,
dovevo far loro capire ciò che facevano, dovevo tenerli lontani dal
persistente peccato. “Cani tanto anziani, tanto anziani!”, andavo
ripetendo. Ma non appena fui libero e solo due o tre salti mi
separavano dai cani, di nuovo fu il frastuono ad avermi in suo
potere. Probabilmente con il mio ardore avrei perfino resistito al
frastuono che a questo punto mi era noto, se, attraverso tutta la sua
pienezza spaventosa, ma forse contrastabile, una tonalità netta e
forte che giungeva sempre uguale da grande distanza, magari la
melodia vera e propria interna al frastuono, non fosse risuonata e mi
avesse costretto ad inginocchiarmi. Accidenti che razza di musica
incantatrice facevano quei cani! Non ce la facevo più, non volevo
più ammaestrarli, potevano seguitare ad allargar le gambe, a peccare
e ad attrarre altri al peccato di guardare inertemente, ero un cane
così piccolo, io, chi poteva caricarmi di un tale onere, e mi
facevo anche più piccolo di quanto non fossi, guaivo, se a quel
punto i cani mi avessero chiesto la mia opinione, forse avrei dato
loro ragione. Del resto non durò a lungo, ed essi sparirono, insieme
a tutto il frastuono ed a tutta la luce, nella tenebra da cui erano
venuti.
L'ho
già detto: tutto questo caso non ha niente di straordinario, nel
corso di una lunga vita te ne capitano di vario genere, di cose che
fuori dal loro contesto e viste con occhi di fanciullo sarebbero
ancora assai sorprendenti. Inoltre su queste cose si può – come
felicemente indica il modo di dire - “stare a veglia” come su
tutto, e poi salta fuori che sette cani erano convenuti lì per far
della musica nel silenzio del mattino, che un piccolo cane si era
smarrito, un ascoltatore molesto che essi, purtroppo invano,
tentarono di scacciare con un musica particolarmente paurosa o
sublime. Che li disturbò con le sue domande, e loro avrebbero
dovuto, già abbastanza disturbati dalla mera presenza dell'estraneo,
prestarsi a quella molestia ed aumentarla rispondendo? Ed anche se la
legge comanda di rispondere a tutti, la venuta di un simile cagnolino
è poi degna di nota? E magari non lo compresero affatto, forse lui
balbettò le sue domande in modo davvero incomprensibile. O invece lo
capirono bene e risposero, facendosi forza, ma lui, il piccino,
quello non avvezzo alla musica, non seppe discernere la risposta
dalla musica. E per quel che riguarda le gambe posteriori, forse
eccezionalmente, esse andavano da sé, nient'altro, non va bene,
certo! Ma loro erano soli, sette amici tra di loro, in compagnia e
confidenza, per dir così tra le loro quattro pareti, per dir così
soli soli, amici dunque senza pubblico, e dove non c'è pubblico non
lo porta neanche un piccolo curioso cane di strada, e dunque in
questo caso non è come se non fosse successo niente? Non è proprio
proprio così, ma quasi, ed i genitori dovrebbero insegnare ai loro
piccoli a gironzolare poco, a stare zitti, piuttosto, ed a tener
conto dell'età altrui.
A
posto, il caso è chiuso. Tuttavia quel che è chiuso per i grandi
non lo è ancora per i piccoli. Io gironzolai, raccontai e domandai,
accusai e indagai e mi impegnai a far venire ognuno là dove era
accaduto tutto per indicargli la mia posizione e quella dei cani e
dove e come avevano danzato e fatto musica, e, se qualcuno fosse
venuto, invece di liberarsi di me deridendomi, avrei certo rinunciato
alla mia innocenza e provato a stare sulle gambe posteriori allo
scopo di illustrare il tutto esattamente. Ora, un fanciullo non se la
prende a male di tutto, ma tutto perdona, davvero. Tuttavia io ho
serbato questo modo di fare immaturo, e sono divenuto nel frattempo
un cane anziano. Così come all'epoca non chiusi quel caso, che del
resto oggi sottovaluto molto, e ne parlai apertamente, lo analizzai
nelle sue parti, lo descrissi ai presenti senza riguardo alla
compagnia in cui mi trovavo, impegnato solo e sempre con la cosa che
io trovavo come ogni altro perfettamente noiosa, ma che – questa la
differenza – intendevo risolvere da ricercatore in modo appunto
integrale per questo motivo, per liberare di nuovo infine lo sguardo
verso la solita tranquilla felice vita di ogni giorno, proprio come
all'epoca ho fatto in seguito ed anche oggi non smetto di fare, per
quanto con mezzi meno giovanili – ma la differenza non è molto
grande.
La
cosa tuttavia iniziò con quel concerto. Nessun rammarico, nel caso
in questione agisce il mio carattere innato che certo, senza il
concerto, avrebbe avuto un'altra occasione per manifestarsi, solo che
la cosa avvenne così presto, talvolta mi fece soffrire prima del
dovuto, mi ha tolto una gran parte della mia fanciullezza, la vita
beata dei cuccioli, che di per sé può durare molti anni, per me è
durata solo pochi mesi. E sia! Ci sono cose più importanti della
fanciullezza. E forse mi aspetta, in una vecchiaia conseguita per
mezzo d'una dura vita, una felicità più fanciullesca di quanto un
vero fanciullo avrebbe la forza di tollerare, e che invece io avrò.
Allora
iniziai le mie investigazioni sulle cose più semplici, la materia
non mancava, ve n'è purtroppo in sovrabbondanza, ed in ore oscure mi
fa disperare. Iniziai ad investigare in merito all'origine del
nutrimento della comunità dei cani. Ora, non si tratta affatto,
naturalmente, volendo, di una questione semplice, essa ci impegna dai
primordi, è la materia principale della nostra riflessione,
innumerevoli sono le osservazioni, i tentativi e le opinioni in tale
campo, ne è derivata una scienza che, con le sue enormi dimensioni,
nel complesso esorbita non solo l'intelligenza del singolo, ma anche
quella di tutti gli eruditi, e non può essere fatta avanzare se non
dall'intera comunità dei cani e soltanto con sofferenza e parziale
completezza, di continuo essa seguita a frammentarsi in vetuste
ossessive aree e deve essere ricompattata con fatica, tacendo del
tutto delle sciocchezzuole e delle ipotesi nuove di ricerca che è
difficile che si realizzino. Tutto questo non mi viene obbiettato, io
tutto questo lo so come lo sa anche un qualsiasi normale cane, non mi
viene in mente di ingerirmi nella scienza vera, al suo cospetto ho
tutto il timore reverenziale che le spetta, ma mi manca il carattere
e l'assiduità e la serenità per incrementarla, e l'appetito – non
per ultimo, in specie da alcuni anni. Il cibo lo butto giù, se lo
trovo, ma non mi sembra all'altezza della più modesta casuale
osservazione d'un ordinato paesaggio rurale. Mi è sufficiente,
riguardo alla scienza tutta, il suo estratto, la piccola regola con
cui la madre libera alla vita i suoi piccoli: “Bagna tutto per
quanto puoi.” E non è davvero compreso tutto, qui? Che cos'ha la
ricerca iniziata dai nostri avi da aggiungere a ciò, di decisivo ed
essenziale? Dettagli, dettagli, e com'è incerto l'insieme, invece
questa regola resisterà finché esisteremo noi cani. Essa concerne
il nostro nutrimento principale, certamente disponiamo anche di altri
mezzi, ma nell'urgenza, e quando gli anni non sono troppo cattivi,
potremmo vivere di tale nutrimento principale, lo troviamo nella
terra, che però necessita della nostra orina, si nutre di essa e
soltanto a questo prezzo ci dà il nostro nutrimento il cui spuntare
si può del resto accelerare, non bisogna dimenticarsi di questo,
tramite precisi motti, canti e gesti. Da questo lato su ciò non c'è
da dire qualcosa di più essenziale, dopotutto però si tratta della
mia opinione. Anche qui sono d'accordo con la maggioranza della
comunità dei cani e mi allontano con osservanza da tutte le teorie
eretiche sulla questione. Davvero, non mi piacciono le stranezze,
l'arroganza, sono contento quando posso concordare con i
connazionali, e questo è il caso. Le mie personali investigazioni
vanno tuttavia in altra direzione. Ciò che verifico mi indica che la
terra, quando viene spruzzata e lavorata secondo le regole
scientifiche, rende il nutrimento ed esattamente in tale quantità,
massa, modo, luogo ed in tali ore, secondo quel che richiedono le
leggi scientifiche verificate del tutto o in parte. Lo ammetto, ma la
questione che pongo è: “questo nutrimento la terra da dove lo
prende?” Si tratta di una domanda che di solito si dà ad intendere
di non capire ed a cui nel migliore dei casi si risponde: “se non
hai abbastanza da mangiare, te ne daremo del nostro.” Si faccia
caso a questa risposta. Lo so: non fa parte delle preferenze canine,
che noi spartiamo i cibi una volta che ce li siamo procurati. La
vita è difficile, la terra arida, la scienza è ricca di conoscenze,
ma piuttosto povera di effetti pratici; chi ha cibo, se lo tiene; non
è egoismo, è il contrario, è legge canina e concorde decisione
popolare, risultanti dal superamento dell'egoismo, infatti gli agiati
sono certo una minoranza. Ecco dunque la risposta: “se non hai
abbastanza da mangiare, te ne daremo del nostro”, modo di dire
fisso, facezia, canzonatura. Non l'ho scordato. Ma un significato
tanto più grande per me fu che si cessasse di burlarsi di me, non
appena iniziai ad andare in giro nel mondo con le mie questioni; non
mi si dette di certo alcunché da mangiare – dove mai lo si sarebbe
potuto prendere? Ed anche nel caso che lo si fosse avuto, si
dimenticò naturalmente, nella frenesia della fame, ogni altra
considerazione, seppur parlando seriamente di offrirne, e qua e là
ne ebbi poi davvero un minimo, se fui svelto abbastanza, però, ad
impadronirmene. Come fu che ci si comportasse con me in modo tanto
speciale? Mi si risparmiò, mi si favorì. Perché ero un cane
debole, magro, malnutrito e troppo trascurato in fatto di cibo? Ma in
giro di cani malnutriti ce ne sono, ed anche a quelli si leva di
bocca perfino il cibo più misero, se capita, spesso non per
cupidigia, ma nella maggioranza dei casi per principio. Invece mi si
favorì, non potevo spiegarlo con la casualità, infatti avevo la
precisa impressione che mi si favorisse. Era per questioni che
ponevo, di cui ci si compiaceva, cui si guardava come fossero
specialmente intelligenti? No, non ci si compiaceva, e le si
ritenevano tutte sciocche. Eppure potevano essere soltanto le mie
questioni, a guadagnarmi l'attenzione. Era come se si preferisse
compiere l'enormità di riempirmi la bocca di cibo – non lo si
faceva, ma se ne aveva l'intenzione – piuttosto che tollerare le
questioni che ponevo. Anche se, meglio, si sarebbe potuto scacciarmi
e non consentirle. No, non si voleva udirle, certo che non si voleva,
ma proprio a causa di esse non si voleva scacciarmi. Fu, tanto venivo
deriso, trattato da stupida bestiola, preso in giro, veramente il
periodo del mio massimo credito, qualcosa di simile in seguitò non
si ripeté mai, ebbi accesso in ogni dove, nulla mi fu vietato, con
il pretesto di un trattamento più scortese mi si lusingò in modo
speciale. Tutto dunque a causa delle mie questioni, della mia
impazienza, della mia brama di ricercatore. Mi si voleva con ciò
addormentare senza violenza, sviarmi quasi piacevolmente da una
strada erronea, da una strada la cui erroneità tuttavia non stava
così al di sopra di ogni dubbio da rendere impossibile l'uso della
violenza, inoltre c'era anche un certo rispetto ed una certa paura a
trattenere dalla violenza. Indovinavo già allora qualcosa del
genere, oggi lo so con precisione, con molta più precisione di chi
allora lo faceva, sì, con lusinghe si è voluto che io mi
distogliessi dalla mia strada. La cosa non ebbe successo, si ottenne
l'opposto, la mia attenzione si acuì. Mi si rivelò addirittura che
ero io a voler attrarre gli altri, e che di fatto mi riusciva fino ad
un certo punto, la seduzione. Fu proprio con l'aiuto della comunità
dei cani che iniziai a comprendere le mie proprie questioni. Quando
per esempio domandavo da dove la terra prenda il nostro nutrimento,
questo m'interessava, come potesse la terra averne dato
l'impressione, non m'interessavano, per dire, le preoccupazioni della
terra. Per nulla m'interessavano, ero ben lungi da ciò, come presto
riconobbi a me interessavano soltanto i cani, quasi nient'altro. Che
cosa c'è, infatti, a parte i cani? Chi altri si può invocare nel
vasto vuoto mondo? Ogni sapere, la totalità di tutte le domande e di
tutte le risposte, i cani la hanno in sé. Se soltanto si potesse con
efficacia portare alla luce del giorno tale sapere, se soltanto si
potesse, se essi non sapessero infinitamente di più di quanto
ammettono, di quanto si concedono. Anche il cane più loquace è più
riservato di quanto sogliano esserlo i luoghi dove si trovano i cibi
migliori. Ci si aggira furtivamente intorno al confratello, si sbava
dalla brama, ci si colpisce anche con la propria coda, si domanda, si
prega, si ulula, si morde e si ottiene – quello che si otterrebbe
anche senza ogni sforzo, si ottiene: ascolto affettuoso, cortesia,
falso rispetto, abbracci fervidi, il tuo ed il mio ululato si
mescolano insieme, tutto è regolato allo scopo di trovare
nell'incanto l'oblio, ma l'unica cosa che si voleva ottenere prima di
tutte, che si confessasse il sapere, quella rimane negata, a quella
preghiera, che sia espressa a voce o che sia muta, rispondono nei
casi migliori, se si è spinto l'allettamento all'estremo, solo
espressioni ottuse, occhiate oblique, chiuse, torbide. Non è molto
diverso da quando, giovinetto, chiamai i musici e loro tacquero. Ora
si potrebbe dire: “ti lamenti dei tuoi confratelli, del loro tacere
in merito alle cose decisive, sostieni che sappiano più di quanto
ammettano, più di quanto essi vogliano che nella vita valga, e che
questa segretezza, la cui ragione e il cui mistero essi naturalmente
tacciono, avveleni la vita, te la renda insopportabile, tu questa
cosa dovresti cambiarla oppure trascurarla, forse, però sei un cane,
possiedi anche tu il sapere canino, dunque tiralo fuori non solo in
forma di domanda, ma come risposta. Se lo tiri fuori, chi ti
resisterà? Il gran coro della comunità dei cani avrà inizio come
fosse in attesa. Ed avrai verità, chiarezza e confessione, quante ne
vuoi. Si scoperchierà la volta di questa bassa vita di cui parli
tanto male, e noi tutti, cane dopo cane, ci leveremo nell'alto della
libertà. E se ciò non dovesse riuscire, se dovesse essere peggio di
quel che è stato finora, se la verità intera dovesse essere più
insopportabile della verità a metà, se dovesse emergere che i
conservatori taciti della vita sono nel giusto, se dovesse sortire,
dalla speranza sommessa che ancora oggi abbiamo, la disperazione
piena, parlare è ancora un degno tentativo, poiché tu non vuoi
vivere come ti è permesso. Ordunque, perché rimproveri agli altri
il loro silenzio e tu stesso taci?” La risposta è facile: perché
io sono un cane, in sostanza molto riservato, proprio come gli altri,
e restio con ostinato timore alle questioni particolari. Chiedo forse
alla comunità dei cani, da quando sono diventato grande, in senso
stretto, che mi risponda? Ho speranze così folli? Vedo i fondamenti
della nostra vita, indovino la loro profondità, ne vedo gli
edificatori oscuramente all'opera, e continuo ad attendere che tutto
ciò termini con le mie questioni, si annulli, venga dimenticato? No,
davvero non me lo aspetto più.
<Nelle
traduzioni italiane che conosco, la prima di Anita Rho (Il messaggio
dell'imperatore,Torino 1958), la seconda di Ervino Pocar (Tutti i
racconti, Milano 1970), da questo punto in avanti si leggono una
ventina di righe che mancano nell'edizione da cui traduco, Die
Erzaehlungen, Frankfurt am Mein 2010 – n.d.t.>
Continuo
ad affannarmi a domandare, nient'altro, io mi sprono per mezzo del
silenzio che, esso solo, attorno a me ancora mi risponde. Quanto a
lungo sopporterai che la comunità dei cani taccia e continui a
tacere, cosa di cui con le tue ricerche divieni sempre più
consapevole? Quanto a lungo sopporterai, questo è l'urlo che la mia
questione vitale leva al di sopra di tutte le questione di dettaglio;
me la pongo io, e non dà fastidio a nessun altro. Sfortunatamente so
rispondere meglio ad essa che non alle questioni di dettaglio: lo
sopporterò, è probabile, fino alla mia fine naturale, la quiete
dell'anzianità resiste sempre di più alle questioni inquietanti. E'
probabile che io, tacendo, circondato dal silenzio, morirò felice, a
ciò sono abbastanza preparato. E' quasi una cattiveria, che noi cani
siamo dotati di cuore prodigiosamente robusto e di polmoni che non si
logorano in modo prematuro, noi opponiamo resistenza a tutte le
domande, perfino alle nostre, noi siamo il baluardo del silenzio.
Di
recente penso sempre di più alla mia vita, cerco lo sbaglio
decisivo, la causa di tutto, che forse ho commesso, e non riesco a
trovarlo. Devo averlo commesso, però, se non l'avessi commesso e
nonostante questo avessi raggiunto, per mezzo di onesto impegno, una
lunga vita, ciò che non desideravo, sarebbe provato che quel che io
volevo era impossibile, e ne conseguirebbe la disperazione totale.
Guarda l'opera della tua vita! Per prima cosa le investigazioni
inerenti alla questione: da dove la terra prende il nutrimento per
noi. Da cucciolo, com'è naturale fondamentalmente avido e contento
della vita, rinunciai ad ogni piacere, scansai ogni divertimento,
affondai il capo tra le gambe dinnanzi ad ogni tentazione, e mi misi
all'opera. Non fu un lavoro da eruditi né in fatto di dottrina, né
di metodo, né di scopo. Erano difetti, certo, ma non decisivi. Ho
appreso poco, infatti mi allontanai presto dalla madre e mi abituai
all'autonomia, condussi una vita libera, e un'autonomia precoce
confligge con l'apprendimento sistematico. Tuttavia ho visto molte
cose, udito, parlato con molti cani di genere e di varia professione,
tutto, credo, capendo non male né mal collegando le osservazioni
particolari, ciò ha un po' sostituito la dottrina, ma in più
l'autonomia, per quanto svantaggiosa ai fini dell'apprendimento, è
un gran vantaggio ai fini d'una ricerca personale. Tanto più
necessaria, nel mio caso, dal momento che non potevo attenermi al
particolare metodo scientifico, cioè trar profitto dell'opera dei
predecessori ed associarmi con gli studiosi contemporanei. Mi istruii
completamente da solo, iniziai con i primissimi rudimenti avendo la
consapevolezza, felice in gioventù tuttavia in sommo grado avvilente
nella vecchiaia, che l'ipotetico punto cui sarei pervenuto avrebbe
dovuto essere anche quello definitivo. Davvero fui sempre così solo
con le mie ricerche? Sì e no. Non è possibile che cani isolati, ora
e sempre, non si trovino e non si siano trovati nella mia situazione.
Non posso essere così sfortunato. La mia natura è totalmente
canina, ogni cane ha il mio stesso impulso a porre domande ed io ho
come ogni cane l'impulso a tacere. Ognuno ha l'impulso a porre
domande. Come, sennò, avrei potuto con le mie domande provocare le
sia pur lievi reazioni emotive che spesso ebbi il piacere di scorgere
incantato, del resto esageratamente. E del fatto che ho l'impulso a
tacere non ho bisogno purtroppo bisogno di alcuna prova particolare.
Dunque, io non sono in linea di massima diverso da ogni altro cane,
ognuno in fondo me lo riconoscerà, a parte le differenze d'opinione
e le antipatie, ed io farò con ogni cane la stessa cosa. Soltanto la
mescolanza degli elementi è diversa, assai incisiva sul piano
personale, molto meno sul piano collettivo. E dunque, non potrebbe la
mescolanza di questi eterni elementi esser riuscita nel passato e nel
presente mai simile alla mia e, se si vuol dire la mia mescolanza
infelice, anche molto più infelice? Ciò sarebbe contrario ad ogni
altra esperienza. Noi cani siamo alle prese con le professioni più
particolari, attività cui non si darebbe alcun credito se non se ne
avessero le notizie più degne di fiducia. Penso ora in special modo
all'esempio degli aerocani. Quando ne sentii parlare per la prima
volta, risi, non si riuscì davvero a farmici credere. Suvvia! Poteva
darsi che un cane della specie più piccola, non tanto più grosso,
anche da adulto, del mio capo, che questo cane deboluccio di natura,
creatura artificiosa, immatura, accuratissimamente pettinata, inabile
a fare un vero e proprio balzo, potesse, come si raccontava, saper
procedere nell'aria eppure inattivo, nulla facendo di visibile? Via,
mi si prendeva in giro, questo vuol dire approfittarsi un po' troppo
della mancanza di pregiudizi d'un cucciolo, credo. Tuttavia poco
tempo dopo da altra fonte sentii raccontare d'un altro cane aereo. Ci
si era messi d'accordo per prendersi gioco di me? In seguito però
vidi i cani musici e da allora ritenni tutto possibile, nessun
ripudio limitò la mia capacità di comprensione, presi in
considerazione le dicerie più insensate, le seguii fin dove potevo,
l'insensatezza massima mi parve in questa vita insensata più
probabile della piena sensatezza e proficua in particolare per la mia
ricerca. E così anche gli aerocani. In proposito imparai molte cose,
certo fino ad oggi non mi è riuscito di vederne alcuno, ma già da
molto tempo sono assolutamente convinto della loro esistenza e nella
mia immagine del mondo essi hanno il loro posto importante. Come
nella maggior parte dei casi, anche in questo com'è naturale non è
la maestria che mi dà maggiormente da pensare. E' straordinario, chi
può negarlo, che questi cani siano capaci di librarsi nell'aria, su
questa meraviglia concordo con la comunità dei cani. Ma assai più
straordinaria è per il mio sentire l'insensatezza, la silente
insensatezza di queste esistenze. In genere essa non viene motivata
quasi per niente, essi si librano nell'aria e la cosa finisce lì, la
vita continua, a tratti si parla della maestria di questi artisti,
tutto qui. Ma perché, o fondamentalmente benigna comunità dei cani,
perché mai questi cani si librano? Che senso ha la loro professione?
Perché non ci danno alcuna parola di spiegazione? Perché si librano
lassù facendo atrofizzare la gambe, orgoglio canino, separati dalla
terra che nutre, non seminando eppur raccogliendo, nutriti a quel che
si dice addirittura in modo particolarmente buono a spese della
comunità dei cani? Posso illudermi tuttavia che le mie domande
abbiano portato in quest'ambito un po' di movimento. S'inizia a
motivare, a impapocchiare un tipo di spiegazione, s'inizia, però
quest'inizio non si oltrepassa. Ma è già qualcosa. Senza certamente
che appaia la verità – mai ci si arriva – mentre appare il
profondo radicamento della menzogna. Tutte le insensate apparenze
della nostra vita, e le più insensate in modo del tutto particolare,
si lasciano per dir così motivare. Non in modo completo,
naturalmente – tale è il diabolico scherzo – ma al massimo con
il fine di proteggersi dalle domande spiacevoli. Prendiamo ancora ad
esempio gli aerocani. Non sono superbi come si potrebbe credere,
tanto per cominciare, hanno bisogni particolari assai di più del
cane medio, si provi a mettersi al loro posto e lo si capirà. Invece
devono, anche se non possono farlo apertamente – significherebbe
violare l'obbligo di mantenere il segreto – tentare di farsi
perdonare per come vivono od allontanarsi da tal modo, almeno, farlo
dimenticare, ed attuano ciò, a quanto mi si dice, con una loquacità
pressoché insopportabile. Senza tregua devono render conto in parte
delle riflessioni filosofiche che li occupano di continuo in ragione
del fatto che essi hanno rinunciato completamente alle fatiche
fisiche, in parte delle osservazioni che essi fanno dal loro elevato
punto di vista. E nonostante questo non si distinguono molto in fatto
di forza intellettuale, il che è evidente data una siffatta
scioperataggine, la loro filosofia vale poco come le loro
osservazioni, la scienza può a mala pena farne qualcosa e
soprattutto non dipende da un fattore di sostegno tanto misero,
eppure se si domanda a che cosa servono in modo particolare gli
aerocani, si continua ad avere la risposta che essi contribuiscono
molto alla scienza. “Va bene”, si replica, “ma i loro
contributi sono privi di valore e noiosi.” Un'alzata di spalle è
la risposta che segue, si cambia discorso, ci si risente o si ride, e
dopo un attimo, se si domanda ancora, si viene a sapere che essi
contribuiscono alla scienza, infine, se alla prima occasione si pone
la domanda, non riuscendo a dominarsi, la risposta è la stessa. E
forse va anche bene non ostinarsi troppo e sottomettersi, soffrire in
silenzio, senza riconoscere i suddetti aerocani nel loro diritto di
vivere, ciò che è impossibile. Di più non è consentito
pretendere, la cosa è andata troppo oltre, e tuttavia si pretende
che si tollerino sempre i nuovi aerocani che spuntano. Non si sa per
niente bene da dove vengano. Si riproducono? Ne hanno poi l'energia,
ma: se non possiedono molto più di un bel pelame, che cosa mai deve
riprodursi, in questo caso? E se fosse possibile l'inverosimile,
quand'è che dovrebbe accadere? Li si vede sempre soli, sempre
autosufficienti su nell'aria, e quando calano giù e corrono ciò
avviene solo per brevi attimi, pochi passi frettolosi e sempre
rigorosamente in solitudine, tra pretese cogitazioni da cui loro, per
quanto si sforzino, non sanno staccarsi, almeno è questo che
sostengono. Ma, se non si riproducono, sarebbe concepibile che si
trovino cani che rinunciano volontariamente alla vita a terra, che
diventano volontariamente aerocani e scelgono, in nome della facilità
e d'una certa destrezza, la monotona vita di lassù, sui cuscini
dell'aria? Non è concepibile, né è la riproduzione né l'adesione
volontaria. Eppure la realtà indica che continuano ad esserci nuovi
aerocani; se ne conclude che, per quanto invincibili possano sembrare
al nostro intelletto gli ostacoli, stranamente ancora non s'è
estinta una antica razza canina, almeno non s'è estinta con
facilità, almeno in tale razza c'era un qualcosa di vittoriosamente
combattivo nel tempo. Se questo vale per una razza così
particolarmente insensata, che sembra la più strana di tutte, com'è
quella degli aerocani, non devo accettarlo anche per la mia? Però io
non appaio affatto strano, sono un cane come ce ne sono tanti, qui,
non mi distinguo in nulla, in nulla sono spregevole, da giovane e
parzialmente durante la maturità, fin quando non mi trascurai e
molto mi mossi, fui un cane perfino grazioso, davvero, in particolare
si lodava il mio aspetto, le gambe slanciate, la bella postura del
capo, ed anche il mio pelo, grigio bianco e giallo, era assai
gradevole, riccio solo in punta, tutto ciò non è particolare,
particolare è solo il mio carattere, ma anch'esso è ben tipico del
generale carattere canino, come mai ho potuto evitare di prendere in
considerazione. Orbene, se neppure l'aerocane resta in solitudine,
qua e là se ne continua a trovare nel mondo dei cani sempre uno e
loro, gli aerocani, vanno a cavar nuove leve addirittura dal nulla,
allora anch'io posso aver fiducia di non essere lasciato solo. Certo,
quelli come me sono costretti ad una sorte particolare e la loro
esistenza già per questo mai mi sarà utile in modo chiaro, non
perché è con difficoltà che saprò sempre distinguerli. Noi siamo
gli oppressi dal silenzio, noi vogliamo romperlo proprio per bisogno
d'aria fresca, agli altri sembra di star bene, nel silenzio, certo è
solo apparenza come fu nel caso dei cani musici, che apparentemente
facevano musica sereni mentre invece erano assai agitati, tale
apparenza tuttavia è potente, si prova ad afferrarla, ma essa se la
ride di ogni assalto. Ora, come si arrangiano quelli come me? Come si
riconoscono i loro tentativi di vivere a dispetto ciò? Dipende. Io
ho tentato, fintanto che ero giovane. Potrei dunque pormi tra coloro
che fanno molte domande, ed in ciò poi li avrei come compagni. C'è
stato un periodo in cui mi sono sforzato di dominarmi, a me
interessano tuttavia coloro che sono in grado di rispondere, quelli
che seguitano ad immischiarsi con me, a suon di domande che il più
delle volte non posso soddisfare rispondendo, mi disgustano. E poi,
chi non fa volentieri domande quando è giovane? Come faccio a
scoprire tra i molti interroganti quelli giusti? Una domanda suona
come l'altra, dipende dall'intenzione, che tuttavia è nascosta
spesso anche a chi la pone. E soprattutto, domandare è certo una
particolarità canina, tutti si fanno domande a vicenda, è come se
con ciò le tracce dell'interrogante potessero esser cancellate. No,
tra gli interroganti, i giovani, non trovo quelli come me, e tra i
taciti, i vecchi, di cui ora faccio parte, li trovo ugualmente poco.
Ma a che cosa servono le domande, io certo ho fallito con le domande,
probabilmente quelli come me sono più astuti e si servono di
tutt'altri ed ottimi mezzi per sopportare questa vita, mezzi che, mi
permetto di aggiungere, magari all'occasione servono loro, li
placano, li assopiscono, agiscono in modo trasformativo sulla loro
natura, che in genere sono deboli come i miei, infatti per quanto io
vado investigando non vedo un risultato. Credo che riconoscerò
quelli come me, prima che nel risultato, in tutt'altro. Dove si
trovano poi quelli come me? Proprio questo è in questione, proprio
questo. Dove sono? Ovunque ed in nessun luogo. Forse il mio vicino è
del mio genere, a tre balzi da me, magari rumoreggiamo l'un con
l'altro, lui viene magari dalla mia parte, io dalla sua no. E' uno
come me? Non so, in lui non riconosco nulla di simile, ma può
essere. Può essere, ma niente è più improbabile; se si trova
lontano, per gioco posso scoprire, ricorrendo a tutta la mia
fantasia, numerose familiarità indiziarie, ma se poi si trova
davanti a me tutte le mie elucubrazioni fanno ridere. Un vecchio cane
anche più piccolo di me, che sono di taglia media, marrone, corto di
pelo, capo stanco e ciondolante, passi strascicati, in più trascina
la gamba posteriore sinistra a causa di una malattia che ha avuto.
Così da vicino come lui non frequento già da molto più nessuno, mi
piace tuttavia di sopportarlo abbastanza, e quando si allontana gli
grido dietro le cose più benevole, ma non per affetto, invece
arrabbiato con me stesso, infatti quando lo seguo con lo sguardo
trovo del tutto disgustoso come lui va di soppiatto con il piede che
strascica e con il posteriore troppo abbassata. A volte è come se
volessi burlarmi di me stesso, quando nel pensiero lo chiamo mio
simile. Anche nelle nostre conversazioni lui non manifesta alcuna
colleganza, certo è intelligente e, nei limiti dei nostri rapporti,
abbastanza colto, da lui potrei imparare molto, ma io sono alla
ricerca di intelligenza e di cultura? Di solito c'intratteniamo su
questioni locali ed io mi stupisco, con la perspicacia che mi deriva
dall'isolamento, di quanto spirito serva anche ad un cane normale,
anche in situazioni ordinariamente non troppo sfavorevoli, per
vivacchiare e proteggersi dai maggiori consueti pericoli. La scienza
certo fornisce regole, ma non è affatto facile capirle anche alla
lontana ed in modo grossolano, e, quando le si sono capite, subito
arriva il difficile, quello vero, vale a dire applicarle alle
situazioni locali, in questo caso pochi possono essere all'altezza
del compito, quasi ogni ora propone nuove incombenze ed ogni nuovo
pezzetto di terra le sue particolari; che uno possegga una qualche
organizzazione ai fini della sopravvivenza e che la sua vita scorra
per dir così da sola, nessuno può affermarlo di sé, neanch'io che
ho bisogni che calano addirittura da un giorno all'altro. E tutte
queste inique fatiche, a qual fine? Solo per continuare a seppellirsi
nel silenzio e per esserne estratti mai più e da nessuno. Spesso si
decanta il progresso generale della comunità dei cani nel tempo e
ciò facendo ci si riferisce in primissimo luogo al progresso della
scienza. Certo, la scienza progredisce, è inarrestabile, progredisce
addirittura acquistando velocità, sempre di più, ma che cosa c'è
da decantare? E' come se si volesse decantare qualcuno perché
invecchia di un numero crescente di anni e perciò si avvicina sempre
più velocemente alla morte. E' un progresso naturale ed anche
malvagio in cui io non trovo niente da decantare. Vedo soltanto
decadenza, con ciò non intendo dire che le generazioni precedenti
fossero migliori, quanto all'indole, erano solo più giovani, questo
era il loro gran vantaggio, la loro memoria non era ancora tanto
sovraccarica come l'odierna, era anche più facile indurle a parlare,
ed anche se a nessuno è riuscito, la possibilità era maggiore, tale
maggior possibilità era anzi quella che ci eccita tanto quando
ascoltiamo quelle vecchie storie davvero semplici, del resto. Capita
che udiamo un'allusione e quasi ci piacerebbe sobbalzare, non
sentissimo il peso dei secoli su di noi. No, che cosa ho da
rimproverare alla mia epoca, le generazioni precedenti non erano
migliori della nuova, anzi, in un certo senso erano assai peggiori e
meno forti. I casi eccezionali naturalmente neanche allora
sfuggivano, li si poteva cogliere, ma i cani non erano ancora così
canini come lo sono oggi, non posso dirlo che in questo modo, la
compagine canina era ancora indefinita, la parola autentica ai tempi
avrebbe potuto ancora entrare in azione, stabilire la struttura,
rimodularla, mutarla secondo ogni voglia, volgerla nel suo contrario,
la parola era lì, almeno, era vicina, si librava sulla punta della
lingua, tutti potevano impararla, dov'è finita oggi non si
troverebbe neppure frugando nella pancia. La nostra generazione forse
è perduta, ma non ha più colpe della generazione passata. Posso
capire la titubanza della mia generazione, anzi, non c'è alcuna
titubanza, si tratta della perdita della memoria di un sogno sognato
da mille notti e mille volte dimenticato, chi vuole avercela con noi
proprio per la millesima dimenticanza? Tuttavia io credo di capire
anche la titubanza dei nostri avi, forse noi non avremmo agito in
modo diverso, fortunati noi, vorrei quasi dire, che non dovemmo
addossarcene la colpa, che abbiamo la assai maggiore possibilità di
affrettarci verso la morte in un silenzio quasi incolpevole, in un
mondo già oscurato da altri. Quando i nostri avi deviarono, è
difficile che pensassero ad una deviazione duratura, anzi, loro
vedevano ancora in effetti il bivio, era facile tornare indietro in
qualsiasi momento, e se esitarono a tornare indietro fu solo perché
desideravano godersi un poco la vita canina, essa non era ancora
affatto proprio una vita canina, ed a loro pareva bella in modo
esaltante come più tardi doveva diventare, almeno ancora un
momentino d'indugio e continuarono nella deviazione. Non sapevano
quello che noi possiamo indovinare osservando il corso della storia,
che l'anima muta prima della vita, e che loro, quando cominciarono a
godersi la vita canina già dovevano avere un'anima canina vecchia
come si deve e che non si trovavano più tanto vicino al punto di
partenza come a loro pareva, o come voleva far loro credere il loro
sguardo gaudente d'ogni piacere canino. Oggi, chi può parlare di
giovinezza? Loro erano i veri giovani, tuttavia la loro unica
ambizione purtroppo fu quella di diventare in seguito vecchi,
qualcosa cioè d'immancabile, come tutte le successive generazioni e
la nostra, l'ultima, dimostrano al meglio. - di tutte queste cose non
parlo con il mio vicino, ma spesso sono costretto a pensarci, quando
gli sto davanti, a questo tipico vecchio cane, o quando gli affondo
il muso nel pelo che già sente di quell'odore che hanno le pellicce
dopo che sono state scuoiate. Sarebbe sciocco parlare di quelle cose
sia con lui, sia con ogni altro. Lo so, come andrebbe il discorso.
Lui solleverebbe alcune piccole obbiezioni qua e là, alla fine
acconsentirebbe – il consenso è l'arma migliore, e la cosa
verrebbe seppellita, perché dunque scomodarla dalla sua fossa? E
nonostante tutto con il mio vicino c'è forse una concordanza più
profonda che oltrepassa le mere parole. Non riesco a smettere di
sostenere ciò, eppure non ne ho alcuna prova e forse a questo
riguardo io soggiaccio ad una semplice illusione, poiché lui da
molto tempo è l'unico purtroppo con cui ho a che fare e dunque è a
lui che mi devo attenere. “Sei forse uno come me, a modo tuo? Ti
vergogni di aver fatto fiasco totale? Guarda, a me è andata nello
stesso modo. Quando sono solo mi viene da ululare, vieni, in due è
meno amaro.” Penso così, talvolta, e lo guardo dappresso. Lui non
abbassa lo sguardo, ma non c'è da cavarne nulla, mi guarda ottuso e
si meraviglia che io taccia ed abbia interrotto la conversazione. Ma
forse tale sguardo è proprio il suo modo di por domande ed io lo
deludo tanto quanto lui delude me. Da giovane, se non avessi avuto
altre domande importanti e fossi stato capace di accontentarmi quanto
bastava, forse gli avrei fatto domande a voce alta, avrei ricevuto un
debole consenso, meno di oggi, dunque, che lui tace. Ma non tacciono
forse tutti così? Che cosa m'impedisce di credere che tutti sono
come me, che io ebbi qua e là un collega ricercatore che, insieme ai
suoi minimi risultati, è sprofondato e dimenticato ed al quale non
posso più in alcun modo arrivare attraversando il buio del tempo o
la calca del presente, che da sempre e ben di più ho dei simili che,
tutti, si sforzano a modo loro, tutti infruttuosamente a modo loro,
tutti tacendo o cicalando maliziosi a modo loro, così come questa
disperata ricerca comporta. Inoltre non avrei dovuto affatto
isolarmi, però, avrei potuto restare in pace tra gli altri, non
avrei dovuto spingermi avanti come un giovinetto maleducato tra i
ranghi degli adulti, che tanto quanto me certo lo vogliono, ed
accanto ai quali basta a confondermi la loro intelligenza, la quale
dice loro che nessuno esce dai ranghi ed ogni spinta è stolta.
Considerazioni
simili sono del resto chiaramente provocate dal mio vicino, egli mi
sconcerta, mi mette nella malinconia completa; e pensare che è
piuttosto allegro, di per sé, almeno, io lo sento, quando si trova
nella sua cerchia, gridare e cantare al punto di darmi noia. Sarebbe
bene rinunciare anche a questa relazione, non inseguire vane
fantasticherie quali ogni relazione canina, eppure ritenuta
temperata,fa inevitabilmente sorgere, ed utilizzare il poco tempo che
mi resta soltanto per le mie ricerche. La prossima volta che viene mi
nasconderò e fingerò di dormire, e lo rifarò fino a quando lui non
smetterà.
Veramente,
nelle mie ricerche è intervenuto del disordine, cedo, mi stanco,
trotterello ancora soltanto meccanicamente, laddove correvo con
entusiasmo. Ripenso a quando iniziai ad esplorare la questione “da
dove la terra prende il nostro nutrimento?”. Allora vivevo in mezzo
al popolo, si capisce, mi spingevo là dove esso era più fitto,
volevo render tutti testimoni delle mie fatiche, tale testimonianza
per me era anche più importante del mio lavoro, poiché anzi mi
aspettavo ancora qualche risultato d'interesse generale. Da ciò
ricavavo naturalmente un gran calore che ora, nella mia solitudine, è
finito. Allora però ero così forte da compiere qualcosa
d'incredibile, che si opponeva ad ogni nostro principio, ed ogni
testimone oculare dell'epoca certo lo ricorda come qualcosa di poco
rassicurante. Nella scienza, che per altro tende ad una
specializzazione senza limiti, trovai in un certo senso una notevole
semplificazione. Essa insegna essenzialmente che la terra fornisce il
nostro nutrimento e, con tale premessa, indica i metodi secondo i
quali si fanno cogliere i vari cibi nel modo migliore e con la
massima abbondanza. Ora, certo è esatto che la terra fornisce il
nutrimento, non può esserci dubbio, ma non è così semplice come di
solito viene descritto senza ulteriore indagine. Si prendano però i
casi anche più semplici che si ripetono ogni giorno. Se fossimo del
tutto inoperosi come ormai lo sono quasi io, se ci acciambellassimo
dopo aver lavorato un poco la terra ed aspettassimo quel che viene,
in quel caso, ammesso che un qualcosa spuntasse, lo troveremmo, il
nutrimento nella terra? Questo tuttavia di regola non avviene. Chi
solo ha mostrato solo un po' di spregiudicatezza nei confronti della
scienza – e di costoro ce ne sono pochi, si capisce, infatti la
scienza attira cerchie sempre più larghe – facilmente riconoscerà,
anche se non si prefigge particolari osservazioni, che la maggior
parte del nutrimento che finisce col trovarsi sulla terra scende
dall'alto, anzi, mai una volta che noi lo s'intercetti, secondo
destrezza e bramosia, prima che tocchi terra. Con ciò ancora non
dico alcunché contro la scienza, è anche la terra, naturalmente, a
recare questo nutrimento, sia quello che trae da sé sia quello che
chiama giù, forse non c'è alcuna differenza, per la scienza,
appurato che in entrambi i casi il lavoro della terra è necessario,
essa forse non deve curarsi di questa differenza, ma ciò vuol dire:
“se ci hai in bocca il cibo, allora per questa volta hai risolto
ogni questione.” Solo che a me pare che la scienza si occupi di
queste cose almeno in parte in forma meno chiara, dato che essa
conosce invece due metodi principali di provvista di nutrimento,
quello della lavorazione vera e propria del suolo e quello di
integrazione e perfezionamento nella forma di formule magiche, danza
e canto. La trovo una bipartizione certo incompleta, eppure
abbastanza chiara ed adeguata alla mia differenziazione. Secondo la
mia opinione la lavorazione del suolo serve alla produzione del
nutrimento che viene dall'alto e di quello che viene dal suolo e
rimane sempre indispensabile, formule magiche, danza e canto
riguardano invece in modo più limitato il nutrimento che viene dal
suolo, e servono soprattutto a trarlo dall'alto. Mi rinforza in tal
concezione la tradizione. Qui il popolo sembra correggere la scienza
senza saperlo e senza che la scienza osi difendersi. Se, come vuole
la scienza, quelle cerimonie potessero servire solo al suolo per
dargli all'incirca la forza di cogliere il nutrimento dall'alto, esse
dovrebbero di conseguenza compiersi tutte per terra, tutto il suolo
dovrebbe essere oggetto di sussurri, di canti e danze. La scienza non
richiede altro, per quanto ne so. E dunque è curioso che il popolo
con tutte le sue cerimonie si rivolga verso l'alto. Ciò non offende
affatto la scienza, essa non lo vieta, all'agricoltore ne lascia la
libertà, dal punto di vista dottrinario prende in considerazione
solo il suolo, e se l'agricoltore mette in pratica le di lei dottrine
che fanno riferimento al suolo, è soddisfatta, ma secondo la mia
opinione il di lei ragionamento dovrebbe veramente richiedere di più.
Ed io che mai sono stato con maggiore profondità iniziato alla
scienza, non riesco proprio ad immaginarmi come gli eruditi possano
tollerare che il nostro popolo, passionale com'è, invochi l'alto con
formule magiche, faccia echeggiare le nostre vecchie canzoni popolari
e compia passi di danza come se, scordandosi in modo definitivo il
suolo, volesse lanciarsi all'insù. Evitai di rilevare queste
contraddizioni, mi trattenni, dinnanzi al totale farsi prossimo al
suolo del raccolto, sempre secondo le dottrine scientifiche lo
razzolai danzando, torsi il capo giusto per essere il più possibile
vicino al suolo, mi feci poi una buca per il muso e cantai, declamai
in modo che solo il suolo, e nessun altro intorno o sopra a me,
udisse. I risultati della ricerca furono scarsi, spesso non ebbi cibo
e già ero sul punto di esultare per la mia scoperta, ma poi il cibo
venne di nuovo come se prima fosse stata fatta della confusione
tramite la mia particolare esecuzione, ma a questo punto riconobbi il
vantaggio che essa induce e rinunciai volentieri al mio gridare e
saltare, spesso il cibo venne anche più abbondante di prima,
tuttavia in seguito venne di nuovo a mancare del tutto. Con una
diligenza che fin lì al cane giovinetto era stata ignota feci
minuziosi elenchi di tutti i miei tentativi, a tratti ebbi
l'impressione di trovare una traccia che potesse farmi progredire, ma
dopo essa si perse ancora nell'indistinto. In quest'occasione mi
ostacolò incontestabilmente anche la mia insufficiente preparazione
scientifica. Chi mi garantiva per esempio che la mancanza di cibo non
fosse causata dal mio esperimento bensì da una lavorazione del suolo
non scientificamente corretta e che la mancanza di cibo non ne fosse
il risultato, quindi tutte le mie deduzioni erano inconsistenti. In
certe circostanze avrei potuto pervenire ad un esperimento quasi del
tutto preciso, se cioè mi fosse riuscito, senza alcuna lavorazione
del suolo, di arrivare una volta sola per mezzo di cerimonie rivolte
verso l'alto, alla venuta in basso del cibo. Feci tentativi del
genere, ma senza solida fede e senza condizioni sperimentali
perfette, infatti secondo la mia salda opinione almeno una certa
lavorazione del suolo è sempre utile, ed anche se gli eretici, che
non lo credono, avessero ragione, ciò tuttavia non sarebbe
prevedibile poiché lo spruzzare di liquido sul suolo avviene a causa
di un bisogno ed entro certi limiti è inevitabile. D'altra parte un
altro esperimento un po' singolare mi riuscì meglio e fece qualche
scalpore. Successivamente all'usuale attesa del nutrimento dall'aria
decisi cioè di non far cadere giù il nutrimento né di aspettarlo.
A tale scopo spiccai sempre, quando veniva il nutrimento, un piccolo
salto tuttavia tanto calcolato che non fu sufficiente; nella
maggioranza dei casi il nutrimento cadde anzi al suolo alla stanca ed
io mi ci gettai sopra furente, non solo con la furia della fame,
bensì con quella anche della delusione. In casi isolati accadde
tuttavia qualcosa di diverso, qualcosa di particolarmente
straordinario, il cibo non cadde, ma mi seguì in aria, il nutrimento
dette la caccia all'affamato. Avvenne per breve tratto, non a lungo,
poi esso cadde, o scomparve del tutto, o – più frequentemente –
la mia brama esaurì l'esperimento ed io mangiai tutto quanto. Fui
pur sempre fortunato, allora, attorno a me si bisbigliò, si fu
inquieti, e trovai i miei conoscenti, diventati guardinghi,
disponibili alle mie domande, nei loro occhi vidi farsi luce un
qualche sostegno, ciò poteva essere anche solo il riflesso del mio
sguardo, mi bastò, fui contento. Finché poi venni a sapere – e
gli altri con me – che questo esperimento da lungo tempo è
descritto dalla scienza, che è riuscito già molto meglio che non a
me, ma che da molto non è stato compiuto a causa della difficoltà
dell'autocontrollo che esso richiede, e neanche deve essere ripetuto
a causa della sua pretesa irrilevanza scientifica. Appariva solo
quello che si sapeva già, che il suolo non coglie il nutrimento
proprio esattamente dall'alto, ma di sbieco, anzi, addirittura a
guisa di spirale. Ci rimasi, dunque, ma non scoraggiato, ero ancora
troppo giovane, al contrario, fui incitato alla prestazione forse più
grande della mia vita. Alla svalutazione scientifica del mio
esperimento non credevo, ma in ciò non mi sosteneva alcuna fede,
bensì soltanto la dimostrazione, e volli intraprenderla con
l'intenzione di mettere per mezzo di tale dimostrazione in piena luce
al centro della ricerca anche il seguente esperimento un po'
particolare. Intendevo dimostrare che quando io indietreggiavo al
cospetto del cibo il suolo non lo attirava di sbieco, bensì ero io
che me lo attiravo dietro. Del resto l'esperimento non potei portarlo
avanti, vedere la pappatoria davanti a sé e sperimentarci sopra
scientificamente, non si riusciva a sopportarlo a lungo; tuttavia
intesi di far qualcos'altro, fin quando resistetti alla totale fame
volli evitare ogni allettamento del cibo ed insieme ogni vista.
Quando mi abbandonai così, ad occhi chiusi giorno e notte rimanendo
disteso non curandomi di raccogliere il nutrimento né di aspettarlo,
io non osavo sostenere tuttavia speravo sommessamente questo, che, in
assenza di tutte le usuali misure, a parte l'inevitabile irrazionale
innaffiatura del suolo, ed in presenza della recitazione segreta
delle formule e delle canzoni (volli omettere la danza per non
affaticarmi), ugualmente il nutrimento venisse giù e, trascurando il
suolo, bussasse alla porta dei miei denti per esser fatto entrare –
se accadeva ciò la scienza mica era confutata, essa possiede
sufficiente elasticità in rapporto ad eccezioni e casi particolari,
ma il popolo, che tanta elasticità per fortuna non possiede, che
cosa avrebbe detto? Non sarebbe stato proprio un caso eccezionale
rispetto a come si tramanda nella storia che, per dire, un tizio a
causa di malattia fisica o per sua tetraggine si rifiuta di preparare
il nutrimento, di cercarlo, di accoglierlo, e allora la comunità dei
cani si raduna, formula suppliche ed ottiene che il nutrimento devii
dal suo normale percorso diritto in bocca al malato. Io che invece
ero pieno di forza e di salute, che avevo un appetito così
meraviglioso da impedirmi di pensare ad altro durante la giornata, mi
sottoposi, lo si voglia credere o no, volontariamente alla fame, ero
pure in grado di preoccuparmi della discesa del nutrimento e ne avevo
l'intenzione, non necessitavo dunque di alcun aiuto della comunità
dei cani ed essa nel modo più deciso me lo sconsigliava. Mi cercai
un posto adeguato all'interno d'una boscaglia appartata dove non
avrei udito in alcun modo parlare di cibo, né masticare né
sgranocchiare ossi, mi riempii ancora una volta per bene e poi mi
sdraiai. Avevo intenzione di trascorrere se possibile tutto il tempo
con gli occhi chiusi; per tutta la durata della fame sarebbe stata
per me notte ininterrotta, durasse giorni o settimane. Mi riuscì
poco però, grave difficoltà aggiuntiva, di dormire, quasi per nulla
magari, infatti non solo dovevo implorare la discesa del nutrimento,
ma anche stare in guardia allo scopo di non distrarmi dormendo, per
dir così, d'altro canto dormire era ottimale, perché dormendo avrei
potuto sopportare la fame molto più a lungo che da sveglio. Perciò
decisi di frazionare con cura il tempo e di dormire molto, ma ogni
volta per brevissimi tratti. Ci riuscii in questo modo, dormendo
appoggiavo sempre il capo ad un ramo sottile che presto si piegava,
con ciò svegliandomi. Giacqui così, dormii o vegliai, sognai o
cantai muto per me stesso. Il tempo dapprima trascorse senza che
avvenisse alcunché, forse là da dove perviene il nutrimento non era
stato notato che io mi opponevo al corso normale delle cose, e così
tutto restò tranquillo. Un poco nella mia fatica mi disturbò il
timore che i cani si accorgessero che non c'ero, che presto mi
rintracciassero ed intraprendessero qualcosa contro di me. Un altro
timore era che semplicemente annaffiandolo lì, il suolo, per quanto
infecondo fosse stando alla scienza, fornisse il cosiddetto
nutrimento fortuito il cui odore mi avrebbe attirato. Non accadde
tuttavia per il momento niente del genere ed io potei continuare il
digiuno. A prescindere da questi timori io fui per il momento calmo
come mai prima in me era stato osservabile. Per quanto io stessi
lavorando all'abrogazione della scienza, ero colmo dell'agio e quasi
della proverbiale serenità degli operatori scientifici. Fantasticai
di esser perdonato dalla scienza, nel suo ambito c'era uno spazio
anche per le mie ricerche, nelle orecchie mi risuonò consolante che,
anche nel caso che le mie ricerche avessero successo, non solo, ma
successo particolarmente grande, io non ero perduto alla vita canina,
la scienza stava dalla mia, essa stessa avrebbe interpretato i miei
risultati, e tale promessa significava di per sé la realizzazione,
sarei, mentre fin lì interiormente mi sentivo escluso ed assalivo
selvaggiamente le mura del mio popolo, stato elevato a grandi onori,
il bramato calore dell'adunato corpo canino sarebbe confluito su di
me, premiatissimo avrei sobbalzato sulle spalle del mio popolo.
L'inizio della fame genera quest'effetto particolare. La mia
prestazione mi pareva tanto grande che cominciai a piangere di
commozione e di autoindulgenza lì, nella silente boscaglia, cosa del
resto non tanto comprensibile, se aspettavo il meritato premio,
infatti, perché poi piangevo? Solo perché mi faceva comodo. Non mi
era mai andato a genio il mio pianto. Sempre e solo se mi faceva
comodo, piuttosto di rado, ho pianto. Però quella volta finì alla
svelta. Le belle immagini si volatilizzarono gradualmente con
autol'acuirsi della fame, non durarono, ed io restai solo, dopo
veloce congedo di tutte le fantasie e d'ogni commozione, con la fame
che mi bruciava le viscere. “E' la fame”, mi dissi allora mille
volte come se volessi convincermi che io e la fame fossimo ancor
sempre due cose distinte ed io potessi liberarmene come d'una amante
noiosa, ma in realtà noi eravamo dolorosissimamente una cosa sola, e
se mi spiegavo che “era la fame” parlava la fame stessa e con ciò
si prendeva gioco di me. Brutto momento, brutto! Se ci penso mi
vengono i brividi, non solo però per la pena dentro cui sono
passato, ma prima di tutto perché non l'avevo spuntata, perché in
tale pena avrei dovuto passare ancora se volevo ottenere qualcosa,
ancor oggi digiunare io lo considero infatti come il definitivo e più
potente mezzo della mia ricerca. Dalla fame passa la via, il massimo
non è altro che la più alta prestazione raggiungibile, se
raggiungibile, e tale prestazione più alta è tra noi cani il
digiuno volontario. Se approfondisco dunque quei tempi – e vado
rivangandoli molto volentieri – approfondisco anche i tempi che su
di me incombono. Sembra che si debba lasciar passare quasi una vita
prima di rimettersi ad una prova del genere, tutti gli anni della mia
maturità mi separano da quel digiuno, ma ancora non mi sono ripreso.
Se prossimamente inizio a digiunare, forse avrò più saldezza di
allora come effetto della mia maggiore esperienza e del miglior
discernimento della necessità della prova, ma le mie forze sono più
scarse di allora, per lo meno, mi esaurirò già nella mera attesa
dei noti timori. Il mio appetito più debole non mi gioverà,
scredita solo un poco la prova e forse mi costringerà a digiunare
più a lungo di quanto sia stato capace quella volta. Di tali
presupposti e di altri credo di rendermi conto, certo in questo lungo
intervallo di tempo non sono mancati esperimenti preliminari,
abbastanza spesso nella fame vera e propria ci sono cascato, ma non
fui forte al massimo, e la spregiudicata aggressività giovanile
naturalmente è svanita per sempre. Già allora scemava, nel corso
della fame. Mi tormentavano riflessioni varie. I nostri avi mi
sembravano minacciosi. Certo, io li considero, anche se non oso dirlo
pubblicamente, responsabili di tutto, hanno colpa della vita canina
ed io potrei rispondere facilmente alla loro minaccia con una
contro-minaccia, ma mi inchino al cospetto della loro dottrina, essa
ebbe origine dal tormento di cui noi non siamo più consapevoli,
perciò, anche se sono spinto a battermi contro di loro, mai
trasgredirei manifestamente le loro leggi, mi limito a sfuggire
attraverso le smagliature della legge, per cui possiedo un naso
particolare. In merito al digiuno mi appello al celebre dialogo nel
cui corso uno dei nostri saggi espresse l'intenzione di proibirlo,
ciò di cui un secondo lo sconsigliò domandando: “Ma chi vuoi che
digiuni?”, ed il primo rimase persuaso ritirando la proibizione.
Ora si ripropone la questione: “Allora, il digiuno non è
propriamente proibito?” La maggior parte degli esegeti la rigetta e
ritiene consentito il digiuno, è dell'opinione del secondo saggio e
per questo non teme alcuna spiacevole conseguenza d'una esegesi
erronea. Me ne sono accertato bene prima di iniziare il digiuno.
Però, quando mi contorsi dalla fame ed in preda alla confusione
mentale cercai senza tregua scampo nelle mie gambe posteriori
leccandole disperato, masticandole, succhiandole fino all'ano,
l'interpretazione generale di quel dialogo mi parve del tutto falsa,
maledissi la dottrina esegetica, maledissi me stesso che da tal
dottrina mi ero fatto ingannare, anzi, come un giovinetto doveva, in
particolare uno che aveva fame, compresi il dialogo come un tutt'uno
che proibiva il digiuno, il primo saggio intendeva proibirlo, ciò
che una persona assennata vuole è già cosa fatta, il digiuno dunque
era vietato, il secondo saggio non solo approvava, ma riteneva il
digiuno addirittura impossibile, dunque scorreva nel primo divieto
anche un secondo divieto, quello naturale canino, il primo lo
apprezzava e poneva un freno al divieto formale, in altri termini
comandava ai cani, tutto ciò esposto, di esercitare saggezza e di
vietarsi il digiuno. Un divieto triplo, invece che l'unico abituale,
ed io lo avevo violato. Avrei dunque a questo punto obbedito, certo,
in ritardo, e smesso il digiuno, ma oltre che tormentato venni
sedotto dalla continuazione del digiuno, e, lascivo come un qualsiasi
cane, cedetti. Non riuscii a smettere, forse ero anche già troppo
fiaccato per tirarmi su e mettermi in salvo nella contrada
circostante. Mi rotolai qua e là nello strame fogliaceo, dormire non
potevo più, udivo in particolar modo dello strepito, con la mia fame
pareva essersi destato il mondo che durante la mia vita fino a quel
momento aveva dormito, mi immaginai che mai più sarei stato
autorizzato a mangiare, mangiando dovevo infatti riportare al
silenzio il mondo lasciato libero di strepitare e non ne sarei stato
capace, del resto il maggior strepito me lo sentivo nella pancia, ci
mettevo l'orecchio sopra e devo aver avuto l'orrore nello sguardo,
perché facevo fatica a credere a quel che udivo. Ed allorquando ciò
si aggravò, sembrò che anche la vertigine s'impadronisse della mia
fisicità che compì insensati tentativi di salvezza, cominciai a
sentire odore di cibo, cibo squisito che da tanto tempo non avevo più
mangiato, gioie della mia infanzia, anzi, sentii l'odore del seno di
mia madre; dimenticai la mia decisione di voler resistere agli odori,
o meglio non la dimenticai, me la trascinai dietro da ogni parte come
se si trattasse di una decisione necessaria, pochi passi soltanto ed
annusavo come se cercassi unicamente il cibo allo scopo di
guardarmene. Di non trovare niente non mi scoraggiai, i cibi erano
erano lì, solo pochi passi oltre, mi si piegavano prima le gambe.
Sapevo però insieme che non c'era alcunché, che facevo quei piccoli
movimenti solo per via dell'angoscia in vista del fallimento
definitivo in un posto che non avrei più lasciato. Svanirono le
ultime speranze, gli ultimi allettamenti, in questo posto sarei
andato miseramente in rovina, che significato avevano le mie
ricerche, tentativi infantili del tempo infantile più felice, qui ed
ora la cosa era seria, la ricerca era qui che avrebbe potuto
dimostrare il suo valore, ma lei dov'era? Qui c'era solo un cane che
impotente cercava di addentare a vuoto, che ancora, anzi, in modo
spasmodicamente frettoloso continuava ad innaffiare il suolo, ma
dall'intero guazzabuglio delle formule magiche non riusciva a farsi
venire in mente più nemmeno quella più misera, neppure la strofetta
dei neonati che si rannicchiano sotto la loro madre. Era come se
fossi separato dai fratelli non di pochi balzi, ma infinitamente
fossi lontano da tutti, come se mica crepassi di fame vera e propria,
bensì in conseguenza del mio stato di abbandono. Era però evidente
che a nessuno importava di me, a nessuno sotto terra, a nessuno
sopra, a nessuno in alto, andavo in rovina nella loro indifferenza,
che diceva: lui crepa, cose che capitano. E io, non sono d'accordo?
Non ho detto la stessa cosa? Non l'ho voluta, questa solitudine?
Certo, cani, ma non per arrivare a questo punto, per giungere invece
alla verità via da questo mondo di menzogna dove non si trova
nessuno da cui si possa venire a sapere la verità, neanche da me,
nato cittadino della menzogna. Forse la verità non si trovava
affatto lontana, solo che lo era per me, che fallivo e crepavo. Non
si muore tuttavia tanto alla svelta come crede un cane nevrotico.
Caddi solo nell'impotenza, e quando mi destai ed aprii gli occhi, lì
davanti c'era una cane sconosciuto. Non sentivo nessuna fame, ero
molto in forze, mi pareva che nelle giunture vi fosse elasticità,
per quanto non facessi alcun tentativo di verificarlo mettendomi in
piedi. Guardai senza particolare attenzione, davanti a me c'era un
cane, bello, ma non in modo insolito, vidi questo e nient'altro, ma
ritenendo di guardarlo attentamente. Sotto di me c'era sangue, alla
prima occhiata pensai che fosse cibo, ma poi riconobbi che si
trattava di sangue che avevo vomitato io. Mi volsi dal sangue verso
il cane sconosciuto. Magro, di gamba lunga, marrone, qua e là
chiazzato di bianco, aveva un bello sguardo, forte, indagatore. “Che
cosa ci fai, qui?”, disse, “devi andartene.” “Ora non riesco
ad andarmene”, dissi senza altre spiegazioni, come avrei infatti
potuto spiegargli tutto, inoltre sembrava che avesse fretta. “Per
favore, vattene”, disse, ed irrequieto sollevò una gamba dopo
l'altra. “Lasciami perdere”, dissi, “va', e non ti preoccupare
per me, gli altri non se ne preoccupano.” “Te ne prego, per il
tuo bene”, disse. “Prega per quello che vuoi”, dissi, “anche
se volessi, io non posso.” “Ci manca solo questo”, disse
sorridendo. “Tu puoi farcela. Appunto perché sei debole ti prego
di andartene piano piano, se esiti poi dovrai correre.” “Lascia
che ad occuparmene sia io”, dissi. “E' anche affar mio”, disse
contristato dalla mia caparbietà, e visibilmente stava già per
lasciarmi lì in via provvisoria, ma anche per approfittare
dell'occasione di avvicinarsi a me amorevolmente. In un altro momento
volentieri avrei lasciato correre la cosa con indulgenza, ma in quel
caso non la capivo e mi fece orrore, “Via”, gridai più alto di
quanto del resto fosse giustificato. “Sì sì, ti lascio”. Disse
arretrando lentamente. “Sei strano. Non ti piaccio?” “Tu mi
piacerai se te ne vai e mi lasci in pace”, dissi, ma non ero più
tanto sicuro di me come volevo far credere. Un qualcosa lo vedevo, in
lui, con la mia sensibilità acuita dalla fame, era all'inizio,
cresceva, si approssimava, ed io già lo sapevo: questo cane è in
possesso della forza di cacciarti da qui, per quanto tu non possa
immaginarti come potresti mai alzarti. E lo guardai con brama
crescente, lui che aveva scosso solo un poco il capo davanti alla mia
grossolana risposta. “Chi sei?”, domandai. “Sono un
cacciatore”, disse. “E perché non vuoi lasciarmi qui?”,
domandai. “Mi disturbi”, disse, “non posso cacciare se tu sei
qui.” “Provaci”, dissi, “forse ci riuscirai, a cacciare.
“No”, disse, “mi rincresce, ma devi andartene.” “Non
cacciare, oggi!”, lo pregai. “No”, disse, “Devo.” “Io
devo andarmene, tu devi cacciare, dissi, “non c'è che il dovere.
Lo capisci, tu, perché noi dobbiamo?” “No”, disse, “ma non
c'è nulla da capire, sono cose naturali ed evidenti”. “Eh no”,
dissi, “ti rincresce di dover mandarmi via e ciò nonostante lo
fai.”E' così”, disse. “E' così”, ribattei io contrariato,
“non è una risposta. Qual rinuncia ti è più agevole, quella a
cacciare o quella a mandarmi via?” “La rinuncia alla caccia”,
disse senza indugio. “Ordunque, c'è una contraddizione.” “Quale
contraddizione?”, disse. “Tu, caro cagnolino, davvero non lo
capisci che io devo? Non capisci quel che è evidente?” Cessai di
replicare perché mi accorsi – e nuova vita perciò mi attraversò,
vita come ne dà il terrore – mi accorsi da impercettibili dettagli
che nessuno tranne me forse avrebbe potuto notare, che il cane dal
profondo del suo petto dava inizio ad un canto. “Tu canterai”,
dissi. “Sì”, disse serio, “presto canterò, ma non ancora.”
“Tu stai iniziando”, dissi. “No”, disse, “ancora no. Ma
tienti pronto.” “Lo sento già, anche se tu neghi”, dissi
tremando. Tacque. Ed allora credetti di riconoscere qualcosa di cui
nessun cane prima di me mai è venuto a conoscenza, almeno, non se ne
trova nella tradizione il minimo accenno, ed affondai svelto con
infinita ansia e vergogna la faccia nella pozza di sangue davanti a
me. In altri termini ritenni di riconoscere che il cane già stava
cantando senza saperlo, anzi di più, che la melodia si staccava da
lui librandosi via nell'aria secondo una propria legge, come se lui
non ne fosse partecipe, tendendo verso di me, solo verso di me. Oggi
nego naturalmente qualsiasi riconoscimento del genere e ne
attribuisco la responsabilità alla mia sovreccitazione del momento,
ma, per quanto la cosa fosse un errore, un errore di una certa
grandiosità, si tratta dell'unica per quanto apparente realtà che
ne ho conservato ed indica almeno quanto lontano noi possiamo
arrivare per mezzo dell'essere forsennati. Ed io lo ero veramente. In
circostanze normali sarei stato profondamente invalido, incapace di
muovermi, ma non riuscii a resistere alla melodia che il cane presto
sembrò adottare come fosse sua. Essa si faceva sempre più poderosa;
la sua espansione forse non aveva limiti, e già stava quasi
facendomi scoppiare l'udito. Il peggio era però che sembrava fatta
per me, questa voce davanti alla cui solennità il bosco ammutolì,
soltanto per me, chi ero io che osavo restare ancora lì adagiato al
suo cospetto nel mio sudiciume sanguinolento? Tremante mi sollevai e
mi guardai sotto, “questa roba qui non correrà”, pensai, ma già
fuggivo con i più magnifici balzi scacciato dalla melodia. Ai miei
amici non raccontai nulla, probabilmente al mio arrivo avrei
raccontato ogni cosa, forse, ma dopo tornò a sembrarmi in
comunicabile, ero troppo stanco. Parlando, irreprimibili allusioni si
persero senza lasciare traccia. Del resto mi rimisi in poche ore,
fisicamente, spiritualmente ne sopporto ancora le conseguenze.
Estesi
tuttavia le mie ricerche sulla musica dei cani. Anche in questo caso
ebbe a che farci certo la scienza, la musicologia è, se sono ben
informato, ancora più vasta della scienza nutrizionale e comunque
fondata in modo più rigoroso. Ciò è spiegabile con il fatto che in
quest'ambito si può lavorare più spassionatamente che in quello, e
che in musicologia sono più in questione osservazioni pure e
sistematizzazioni, nella scienza nutrizionale al contrario sono in
questione conseguenze pratiche. Ne deriva che il rispetto per la
musicologia è maggiore di quello per la scienza nutrizionale, la
prima tuttavia non poté mai penetrare in seno al popolo così
profondamente come la seconda. Anch'io nei confronti della
musicologia mi posi più da estraneo che nei confronti d'una qualche
altra scienza, prima di aver udito la voce nel bosco. Certamente già
l'esperienza dei cani musici aveva attirato la mia attenzione sulla
musicologia, ma allora ero ancor troppo giovane, inoltre a questa
scienza non è facile anche soltanto accostarsi, è considerata
difficile in modo particolare e resta segregata preziosamente
rispetto alla massa. Nel caso di quei cani la musica era stata
davvero la cosa più notevole, ma a me sembrò più importante della
musica la di lei segreta essenza, forse e soprattutto non si trova
alcunché di simile a quella musica orrifica, altrove, dapprima ce la
feci a trascurarla, ma quell'essenza ovunque, in ogni cane, poi mi
colpì. Al fine di penetrare nella natura canina mi sembrarono
tuttavia, le ricerche in merito al nutrimento, conducenti alla meta
nel modo più appropriato e privo di lungaggini. Forse in questo mi
sbagliavo. Sospettavo già allora che tra le due scienze vi fosse
un'intersezione. Si tratta della nozione per cui il canto attira in
basso il nutrimento. Ancora, in questo caso, per me è assai
disturbante che anche in musicologia io non sia mai penetrato
seriamente e che a tal riguardo assolutamente mai riesca a contare su
quella mezza cultura sempre particolarmente disdegnata dalla scienza.
Al cospetto d'un erudito reggerei molto male, purtroppo ne sono
consapevole, anche nella più semplice verifica scientifica. Ciò
dipende com'è naturale, in rapporto alle già menzionate circostanze
della mia vita, per prima cosa dalla mia inabilità scientifica,
dalla modestissima potenza di pensiero, dalla cattiva memoria, e
soprattutto dall'incapacità di mantenermi davanti agli occhi la meta
scientifica. Ammetto tutto ciò, anche con una certa gioia. Infatti
la ragione più profonda della mia inabilità scientifica a me pare
risiedere in un istinto, e però non negativo. Se volessi darmi arie
potrei dire che proprio questo istinto ha distrutto la mia abilità
scientifica, infatti sarebbe per lo meno un fatto assai notevole che
io, che mostro nelle normali cose quotidiane della vita, che certo
non sono le più semplici, un discreto ingegno e che soprattutto, se
non la scienza, comprendo molto bene gli eruditi, come si verifica
dai miei risultati, a priori dovessi essere stato inabile a sollevare
la zampa anche soltanto fino al primo gradino della scienza. Fu
l'istinto che proprio per amor della scienza, ma di un'altra scienza
rispetto a quella praticata oggi, una scienza nuovissima, che mi fece
stimare più di tutto il resto la libertà! La libertà beninteso che
oggi è possibile, una pianta modesta. Ma pur sempre libertà, pur
sempre un bene.
(Dedico questa traduzione a Anita Rho e a Ervino Pocar (N.S.))
(Dedico questa traduzione a Anita Rho e a Ervino Pocar (N.S.))
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