lunedì 17 dicembre 2012

F.Kafka: Abiti


Spesso quando vedo abiti tutti a pieghe, gale e ornamenti, che vestono a meraviglia dei bei corpi, penso che non dureranno tanto, che faranno grinze difficili da stirare, che s’impolvereranno senza rimedio. Indossare lo stesso pregiato abito la mattina, toglierselo di sera, che ridicolezza, che grigiore!Eppure vedo ragazze bellissime che esibiscono caviglie tornite, pelle tesa e masse di capelli lisci, ogni giorno escono con questo loro abito di natura e appoggiano sempre sulla stessa palma della mano il medesimo viso: allo specchio. Soltanto di sera, qualche volta, quando tornano da una festa, il viso sembra loro gonfio, sciupato, passato di moda, visto da tutti e ormai a mala pena sopportabile.






lunedì 26 novembre 2012

F.Kafka: Favoletta.


Ah!”, diceva il topo, “il mondo diventa ogni 

giorno più stretto. Prima era così largo da far 

paura, correvo in giro ed ero contento di 

vedere lontano all’infinito, a destra e a 

sinistra, ma questi lunghi muri incombono 

così rapidamente uno davanti all’altro che io 

mi trovo appunto nell’ultima stanza, e lì in un 

angolo c’è la trappola dentro cui corro.” “Hai 

solo da cambiare la direzione della corsa”, 

disse il gatto, e lo divorò.






lunedì 19 novembre 2012

F.Kafka: Convivenza


Siamo cinque amici usciti da una casa uno dopo l’altro. Il primo si mise sulla porta, poi, lieve come una sferetta di mercurio, scivolò fino alla porta il secondo, vicino al primo, poi il terzo, il quarto e il quinto. Tutti in fila, infine. La gente ci notava, c’indicava e disse: eccoli i cinque, fuori da casa. Da quando stiamo insieme la vita sarebbe felice, se un sesto non continuasse ad intromettersi. Non è che ci faccia qualcosa di male, ma è spiacevole, e tanto basta, infatti lui si intromette dove non si vuole che stia. Noi non possiamo e non vogliamo accoglierlo. E’ vero che noi cinque insieme neanche prima abbiamo potuto starci, e , se si vuole, neppure ora, ma ciò che per noi cinque è possibile e sopportabile non lo è con quel sesto. Siamo cinque e non vogliamo essere sei, tutto qui. E quel che può avere più senso per uno, in questa continua convivenza, veramente presso di noi cinque insieme non ne ha affatto, ma in definitiva noi siamo già insieme e ci restiamo, e non vogliamo una convivenza nuova, ad imporlo è la nostra esperienza. E significherebbe già quasi una sorta di accettazione nel nostro circolo, dilungarsi in chiarimenti allo scopo di far capire tutto quanto al sesto, meglio non spiegare nulla, e non accoglierlo. Faccia pure la bocca storta quanto vuole, noi gli diamo una gomitata. Eppure, nonostante che si continui a scacciarlo, lui ritorna sempre.



lunedì 12 novembre 2012

F.Kafka: La questione delle leggi


Sfortunatamente le nostre leggi non sono conosciute da tutti, esse sono il segreto del piccolo gruppo di aristocratici che ci governa. Siamo convinti che queste vecchie leggi vengano rispettate, tuttavia esser governati secondo leggi che non si conoscono è molto angoscioso. Non penso, a questo proposito, alle differenti possibilità d’interpretazione ed agli svantaggi che comporta il fatto che solo il singolo, e non tutto il popolo, può partecipare all’interpretazione. Tali svantaggi forse non sono davvero molto grandi. Le leggi sono in fin dei conti così vecchie, centinaia di anni sono serviti alla loro interpretazione, pure quest’interpretazione è divenuta legge, le possibili libertà d'interpretazione certo rimangono sempre, ma sono molto circoscritte. Inoltre l’aristocrazia non ha certamente alcuna ragione di farsi influenzare dal suo proprio interesse a nostro svantaggio per mezzo dell’interpretazione, dato che le leggi, certo, dal loro inizio in poi sono fissate a vantaggio dell’aristocrazia, l’aristocrazia sta fuori dalla legge, e per questo la legge sembra già essere esclusivamente in mano all’aristocrazia. In questo c’è saggezza – chi dubita della saggezza delle vecchie leggi? – per quanto penoso, ciò è necessario.
Del resto quest’apparenza di leggi è solo oggetto di congettura. E’ una tradizione che esse esistano e siano affidate come un segreto all’aristocrazia, ma perché sono antiche, e la loro antichità non è del tutto una tradizione degna di credito, e non può esserlo, poiché la natura di queste leggi esige anche la segretezza della loro esistenza. Per cui, se noi del popolo dai tempi più antichi seguiamo attentamente l’agire dell’aristocrazia, se disponiamo dei commentarii eseguiti dai nostri progenitori e li abbiamo scrupolosamente seguiti, e se pensiamo di riconoscere negli innumerevoli fatti certe linee generali che permettono di concludere su questa o quella determinazione legale, e se noi tentiamo, dopo queste conclusioni scrupolosamente vagliate ed ordinate, di prepararci al presente ed al futuro – ecco, tutto è altamente incerto e forse è soltanto un gioco dell’intelligenza, poiché forse queste leggi che noi tentiamo di indovinare dopotutto non esistono. C’è un piccolo partito che è davvero di quest’opinione e tenta di dimostrare che, se una legge esiste, essa può soltanto recitare: quel che fa l’aristocrazia è legge. Questo partito vede solo atti arbitrari dell’aristocrazia e rifiuta la tradizione popolare, che secondo la sua opinione porta soltanto vantaggi minimi casuali mentre provoca soprattutto grave danno in quanto dà al popolo, di fronte agli eventi futuri, una falsa sicurezza che induce troppo alla noncuranza. Questo danno è innegabile, ma la maggioranza di gran lunga preponderante del nostro popolo ne vede le cause nel fatto che di tradizione ancora non ce n’è assolutamente abbastanza, che dunque ancora molto in essa si deve ricercare, e che la sua materia, per quanto ci sembri colossale, è ancora scarsa, e che devono trascorrere ancora secoli prima che basti. Per il presente l’opacità di questa prospettiva ravviva solo la fede che verrà una buona volta un tempo in cui la tradizione ed il suo studio, per così dire con un sospiro di sollievo, si arresti, tutto sia diventato chiaro, la legge appartenga al popolo e l’aristocrazia scompaia. Questo non è detto con odio verso l’aristocrazia, no davvero e da nessuno, piuttosto noi odiamo noi stessi perché ancora non sappiamo diventare degni della legge. Ecco la ragione per cui quel partito, certo molto allettante, che non crede ad alcuna legge, è rimasto così piccolo: perché anch’esso riconosce in pieno l’aristocrazia e il suo diritto a durare. Ciò si può esprimere in una sorta di contraddizione: un partito che rifiutasse, accanto alla fede nelle leggi, anche l’aristocrazia, avrebbe immediatamente l’intero popolo dietro di sé, ma un simile partito non può formarsi perché nessuno osa rifiutare l’aristocrazia. Noi viviamo sul filo di un coltello simile. Uno scrittore ha una volta riassunto la cosa in questo modo: l’unica evidente indubitabile legge che ci viene imposta è l’aristocrazia, e noi dovremmo volerci privare di quest’unica legge?



martedì 30 ottobre 2012

F.Kafka:Il tacere* delle Sirene


Può servire come mezzo d’aiuto, per quanto insufficiente e puerile, questa ne è la prova:
per proteggersi di fronte alle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si fece incatenare saldamente all’albero. Lo stesso avrebbero potuto fare naturalmente da tempo immemorabile tutti i viaggiatori (salvo i sedotti già da lontano), ma, risaputo nel mondo intero, ciò era impossibile che servisse. Il canto delle Sirene penetrava ogni cosa, perfino attraverso la cera, e l’entusiasmo dei sedotti avrebbe spezzato ben altro che catene ed albero. Tuttavia Odisseo, quantunque avesse udito la cosa, non ci pensò, si fidò pienamente del grumo di cera e del rotolo di catena e si diresse incontro alle Sirene ingenuamente contento dei suoi espedienti.
Ora, tuttavia, le Sirene hanno un’arma ancora più spaventevole del loro canto, vale a dire il loro tacere. Non è davvero successo, ma è concepibile forse che qualcuno si sia salvato dal loro canto; certo, non dal loro ammutolire. Niente di terreno può resistere al senso di aver vinto da soli su di loro, alla conseguente superbia trascinante.
E in realtà quando Odisseo arriva  non cantano, queste impetuose incantatrici, sia che credano che possa avere la meglio su quest’avversario soltanto il tacere, sia che la vista della beatitudine sul viso di Odisseo, di null’altro pensieroso che della cera e delle catene, faccia loro scordare il canto.
Tuttavia Odisseo, per dir così, non ode il loro tacere, cantano, pensa, solo che lui è al riparo dall’udirle, di sfuggita vede anzitutto il moto delle loro gole, il respirare animalesco, gli occhi colmi di lacrime, la bocca dischiusa, ma pensa che ciò appartenga alle arie che, inascoltate, risuonano attorno a lui. Presto però tutto scorre in lontananza alla sua vista attenta, le Sirene di fatto scompaiono e, proprio quando lui è loro più vicino, ne ignora tutto.
Le Sirene però, più belle che mai, si distendono e si girano, lasciano fluire libere nel vento le sinistre capigliature, abbrancano lascive gli scogli, non vogliono più sedurre, soltanto carpire, finché è possibile, il riflesso dei grandi occhi di Odisseo.
Avessero avuto coscienza, sarebbero state, quella volta, annientate, tuttavia non si mossero, solo che Odisseo è loro sfuggito.
D’altra parte si tramanda anche una chiosa. Odisseo, si dice, era così astuto, una tale volpe, che nemmeno la dea della Fortuna poteva penetrare nel suo cuore, forse lui ha veramente notato il tacere delle Sirene, per quanto ciò sia oscuro da comprendere umanamente, ed ha in certo modo opposto come scudo a loro e agli Dei la summenzionata messinscena.

* Altri traduce con "silenzio", che è più semplice.



martedì 23 ottobre 2012

F.Kafka: Una normale confusione


Un episodio comune; sopportarlo è da eroi comuni; A. deve concludere un affare importante con B., del villaggio vicino, H. Per una discussione dei preliminari si reca alla volta di H., percorre la strada in dieci minuti alla volta, andata e ritorno, e a casa si vanta di questa notevole velocità. Il giorno dopo si reca di nuovo alla volta di H., per concludere l’affare; richiedendo la cosa presumibilmente diverse ore, A. esce già di buon mattino; tuttavia, nonostante che ogni dettaglio circostanziale, almeno secondo A.,sia del tutto uguale al giorno prima, stavolta egli impiega dieci ore a percorrere la via per H. Quando arriva stanco, a sera, gli si dice che B., irritato dall’assenza di A., dopo mezz’ora circa si è mosso verso A. e il villaggio di A.; avrebbero dovuto incontrarsi, in effetti. Sarebbe consigliabile che A. aspettasse B., che dovrebbe ritornare proprio tra poco. Tuttavia A., in ansia per l’affare, parte subito verso casa. Stavolta rifà la strada, senza farci molto caso, addirittura in un batter d’occhio. A casa viene a sapere che B. è arrivato presto, ancor prima che A. partisse, che ha incontrato A. proprio sulla porta di casa, che gli ha ricordato l’affare, ma che A. gli ha detto di non averne assolutamente tempo, che doveva partire in gran fretta. Che, nonostante questa incomprensibile condotta di A., B. è rimasto ad aspettare A. Che ha, certo, molte volte chiesto se A. fosse tornato, o se invece si trovasse ancora in camera sua. Fortunatamente A., intanto, sale di corsa le scale per poter parlare con B. e spiegargli tutto. E’ già di sopra, inciampa, si stira un tendine e presto, reso inerme dal dolore, incapace perfino di gridare, limitandosi a piagnucolare nel buio sente e vede che B., non si distingue se in gran lontananza o vicino, infuriato scende le scale e scompare definitivamente.









lunedì 15 ottobre 2012

F.Kafka: Il villaggio vicino


Mio nonno usava dire: “La vita è sorprendentemente breve. Ora si comprime così tanto nella mia memoria, che per esempio capisco a mala pena come un giovane possa decidere di recarsi a cavallo fino al villaggio vicino senza temere che –  tralasciando ogni coincidenza sfortunata – non basti affatto, per una gita del genere, il tempo della normale vita già felicemente trascorsa”.


lunedì 8 ottobre 2012

F.Kafka: Undici figli


Ho undici figli.
Il primo, esteriormente molto misero, è tuttavia serio e intelligente; ciò nondimeno non lo stimo, sebbene lo ami assai come figlio, al pari di tutti gli altri. Non guarda né a sinistra né a destra, e neppure in prospettiva; continua a ripercorrere il breve giro delle sue idee, oppure fa dietrofront.
Il secondo è bello, slanciato, ben fatto; incantevole, vederlo nella posizione dello schermitore. Anche lui è intelligente, ma anche uomo di esperienza; ha visto molte cose eppure  sembra che in lui il carattere del suo paese si esprima non meno ristrettamente di come si esprime in chi non si è mai mosso da casa. Tale pregio tuttavia non dipende in definitiva soltanto dall’aver lui viaggiato, ma riguarda molto di più l’inimitabilità di questo ragazzo, che per esempio viene apprezzato da chiunque voglia, dopo i suoi, rifarne i tuffi in acqua, le molteplici capriole, impetuose eppure controllate. L’imitatore esibisce fino in fondo all’asse del trampolino gioia e coraggio, ma a quel punto invece di saltare d’improvviso si pianta lì ed alza le braccia per giustificarsi. – Ciò nonostante (dovrei bearmi di un ragazzo simile) il mio rapporto con lui non è sereno. Ha l’occhio sinistro un po’ più piccolo del destro e lo stringe con un tic; solo un piccolo difetto, sicuro, che rende la sua faccia ancora più sfacciata di quel che altrimenti sarebbe, e nessuno biasimerà, di fronte all’inaccessibile indipendenza del suo carattere, quest’occhio più piccolo ammiccante. Io, il padre, lo faccio. Non è questo difetto fisico a darmi pena, ma una certa quale sregolatezza spirituale, un certo veleno che vaga nel suo sangue, una certa incapacità, che, a me solo visibili, danno in modo decisamente eccessivo l’impostazione alla sua vita. Proprio questo d’altra parte fa di lui, anche troppo, il mio vero figlio, infatti tale suo difetto è allo stesso tempo il difetto di tutta la nostra famiglia, in questo figlio solo più evidente.
Anche il terzo figlio è bello, ma la sua non è una bellezza che mi va a genio. Si tratta della bellezza del cantante: bocca tremula, occhi sognanti; la testa ha bisogno, per agire, dello sfondo di un drappeggio; il torace è troppo tondo; le mani si sollevano lievi, e troppo lievi si abbassano; le gambe, poiché non sanno portarlo, fan le leziose. E soprattutto: la tonalità della voce non è piena; per un attimo inganna, attira l’attenzione dell’intenditore; ma poi è corta di respiro. – Nonostante che tutto spinga a mettere in mostra questo figlio, io lo tengo più di tutto segreto; lui stesso non si fa largo, ma forse non perché sa la sua insufficienza, piuttosto per ingenuità. Si sente inoltre estraneo a quest’epoca; spesso è malinconico, come se appartenesse anche ad un’altra famiglia, non solo alla mia, e niente riesce a rasserenarlo.
Il mio quarto figlio è forse il più affabile di tutti. Un vero ragazzo del suo tempo, tutti lo capiscono, il suo terreno è quello comune a tutti e tutti hanno la tentazione di fargli un cenno di saluto. Forse da quest’approvazione generale il suo contegno trae un che di leggero, i suoi movimenti qualcosa di sciolto, i suoi giudizi qualcosa di spensierato. Qualcuna delle sue uscite sarebbe da riportare, solo qualcuna però, infatti in genere lui patisce di un’eccessiva leggerezza. Assomiglia a uno che abbia un ammirevole slancio, solchi l’aria lieve come una rondine, ma sconsolatamente finisca nella solitudine della polvere, annientato. Questi pensieri mi rendono amara la vista di questo ragazzo.
Il quinto figlio è buono e caro; prometteva assai meno di quel che faceva; era tanto insignificante che in presenza sua ci si sentiva davvero soli; ma ciò ha indotto alcuni a stimarlo. Mi si domandasse com’è successo, saprei rispondere con difficoltà. Innocente s’infila senza sforzo nell’infuriare degli elementi della vita, ed è innocente. Forse troppo. Benevolo con tutti. Forse troppo. Confesso: non mi sta bene, se lui mi viene lodato in faccia. Cioè, se si loda uno così evidentemente degno di lode com’è mio figlio, è una lode fatta troppo alla leggera.
Il mio sesto figlio sembra, almeno a prima vista, il più malinconico di tutti. Avvilito e tuttavia ciarliero. E’ per questo che non gli si sta facilmente vicino. E’ soggetto alla sconfitta, così s’abbandona ad un’invincibile afflizione. Va in sovrappeso e ci resta a forza di ciarle. Non gli nego una certa quale svagata passione; nel pieno del giorno si fa combattivamente strada tra i pensieri come in sogno. Senza esser malato – per lo più gode di un’ottima salute – talvolta barcolla, soprattutto all’imbrunire, ma non gli serve aiuto alcuno, non cade. Forse in quest’apparenza fisica risiede l’autentica spiegazione, lui è troppo grosso per la sua età. Ciò lo rende nel complesso non bello, nonostante certi dettagli visibilmente belli, per esempio le mani ed i piedi. Non bella del resto anche la fronte, la cui pelle, a causa della conformazione ossea, è grinzosa.
Il settimo figlio m’appartiene forse più di tutti gli altri. Il mondo non lo apprezza troppo; non capisce la sua particolare indole arguta. Non lo sopravvaluto; lo so che è piuttosto insignificante; se il mondo non avesse alcun altro difetto a parte quello di non saperlo apprezzare, sarebbe ancora perfetto. Ma non vorrei fare a meno di questo figlio nella mia famiglia. Porta dello sconvolgimento quanto del rispetto profondo, della tradizione, e li congiunge, secondo me, in un insieme incontestabile. Di quest’insieme certo lui sa fare, per quanto minimamente, qualcosa; non metterà in movimento la ruota del futuro, ma questa sua disposizione è così incoraggiante, così ricca di speranza; vorrei che avesse figli, e questi, di nuovo, figli. Sfortunatamente questo desiderio non sembra aver la prospettiva di essere esaudito. A causa di un certo comprensibile, ma non meno indesiderato amor proprio soddisfatto, che tuttavia è contraddetto con forza dal giudizio del suo ambiente, si muove da solitario, non si occupa delle ragazze, ciò nonostante non perderà mai il suo buon umore.
Il mio ottavo figlio è di quei ragazzi che danno molte preoccupazioni, ed io non ne so davvero la ragione. Mi guarda come un estraneo, eppure io mi sento, come padre, assai legato a lui. Il tempo ha lavorato molto bene; prima però, se pensavo a lui, ero assalito dal tremito. Percorre la sua strada; ha rotto tutti i legami con me e certamente, con la sua testa dura, il suo corpicino atletico – solo le gambe, da giovane, aveva piuttosto esili, ma nel frattempo deve averle sviluppate – se la caverà ovunque. Avevo spesso voglia di fargli un fischio, di chiedergli come stava, perché si isolava così dal padre e che cosa davvero voleva fare, ma ora tutto resta com’è. Sento dire che lui, solo tra i mei figli, porta un gran barba; in un uomo così piccolo naturalmente non va bene.
Il mio nono figlio è molto elegante ed ha secondo le signore uno sguardo decisamente dolce. Tanto dolce che capita anche a me di esserne sedotto, per quanto io sappia che, a cancellare tale sublime splendore, basta una spugna umida. Quel che è speciale in questo giovane, tuttavia, è che in pratica non cerca di sedurre; gli sarebbe sufficiente passar la vita sdraiato sul divano e vagare con lo sguardo al soffitto, o anche, molto meglio, tenerlo a riposo sotto le palpebre. In tale posizione a lui diletta parla, e non male; chiaro e conciso; tuttavia entro limiti stretti; se li varca, e ciò è inevitabile data la loro ristrettezza, lui discorre in modo assolutamente vacuo. Gli si farebbe capire a cenni che non va, se si sperasse che tale sguardo assonnato potesse farci caso.
Il mio decimo figlio è considerato una persona insincera. Non intendo contestare interamente questa pecca, né confermarla. Certo, chi lo vede avvicinarsi con quella compostezza assai incongrua con la sua età, sempre in finanziera ben abbottonata, con un cappello nero, vecchio, ma tenuto anche troppo pulito, impassibile il volto, mento sporgente, palpebre inarcate con gravità, le due dita portate alla bocca – chi lo vede così pensa: è un simulatore senza limiti. Ma lo si senta parlare! Assennato; cauto; di poche parole; vivacemente cattivo in risposta alle domande; in sorprendentemente spontanea e felice concordanza con il mondo intero; una concordanza che produce collo rigido e  testa alta. Molti, che si credono assai intelligenti e perciò, secondo loro, si sentivano staccati dal loro ambiente, lui li ha sedotti assai con le sue parole. Ora, tuttavia, pare che esistano persone indifferenti al loro ambiente alle quali le parole di lui sembrano ipocrite. Io, come padre, qui non voglio tuttavia giudicare, e devo riconoscere che questi ultimi censori in ogni caso sono degni di essere ascoltati come i primi.
Il mio undicesimo figlio è debole, davvero il più fragile tra i miei figli; ma d’ingannevole fragilità; sa essere infatti a tratti forte e deciso, forse però la fragilità in certo qual modo resta fondamentale. Non si tratta tuttavia di una imbarazzante fragilità, invece di qualcosa che solo nel nostro mondo sembra tale. Per esempio non si tratta neppure di fragilità in fatto di prontezza a prendere il volo - è tentennamento e indecisione? Mio figlio mostra qualcosa del genere. Simili caratteristiche naturalmente non rallegrano il padre; concorrono certo evidentemente alla distruzione della famiglia. Capita che mi guardi come se volesse dirmi: „Padre, io ti porto via con me.“ Io penso: “Saresti l’ultimo di cui mi fiderei.“ E il suo sguardo sembra aggiungere:“ Ed io voglio essere, almeno, l’ultimo.“
Ecco gli undici figli.



lunedì 1 ottobre 2012

F.Kafka:Il messaggio imperiale


A te l’imperatore, proprio a te, un privato misero suddito, ombra minuscola sfuggita nella lontananza più remota al sole imperiale, a te, dicono, ha appena inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha sussurrato di far inginocchiare il messaggero vicino al letto e gli ha parlato all’orecchio; gli premeva tanto il messaggio, che se lo è fatto ripetere di nuovo, all’orecchio. Con cenni del capo ha approvato la conformità del detto. E davanti a tutti quanti i testimoni della sua morte – abbattute tutte le pareti che erano d’ostacolo, stava la cerchia dei grandi dell’impero sulle alte armoniose scalinate – davanti a tutto questo egli ha dato il via al messaggio.
Il messo parte subito per il suo viaggio, forte, instancabile, si fa largo nella folla ora con un braccio, ora con l’altro, trova resistenza, mostra il petto con su il simbolo del sole, procede con gran facilità, come nessun altro farebbe, tuttavia la folla, i cui alloggiamenti non accennano a terminare, è così grande.
Il messaggero si aprirà svelto la strada, volando, e presto udrai il colpo magnifico dei suoi pugni sulla tua porta. No, invece lui incontra difficoltà snervanti, attraversa le stanze del palazzo interno sempre più a fatica, non le oltrepassa mai, e se gli riuscisse non avrebbe ottenuto niente, dovrebbe lottare per scendere le scalinate, e se gli riuscisse non basterebbe, ci sarebbero i cortili, il secondo palazzo che circonda il primo, e ancora scalinate e cortili, e ancora un palazzo, e così via per un migliaio di anni. Infine il messaggero cadrebbe proprio davanti alla porta esterna, ma la cosa non potrebbe mai, mai succedere; prima, davanti a lui, si allargherebbe la città, che è il centro del mondo, piena della sua feccia, dove nessuno può farcela, men che meno con il messaggio di un morto.
Eppure tu siedi alla finestra e desideri che arrivi, quando viene la sera.


martedì 25 settembre 2012

F.Kafka: Un fratricidio *


E’ dimostrato che l’omicidio ebbe luogo nel seguente modo: Schmar, l’assassino, verso le nove di una sera rischiarata dalla luna si mise all’angolo in cui Wese, la vittima, doveva svoltare dalla via dove aveva l’ufficio in quella dove abitava.
Freddo, aria notturna che fa rabbrividire chiunque. Eppure Schmar aveva soltanto un leggero abito azzurro; inoltre la giacca era sbottonata. Non sentiva alcun freddo, ma continuava a tremare. Teneva fermamente stretta in pugno, sfoderata, l’arma del delitto, una via di mezzo tra la baionetta e il coltello da cucina. Alla luce della luna la esaminò, il taglio luccicava; non abbastanza, per Schmar; l’arrotò provocando scintille sui mattoni del fondo stradale; forse se ne pentì; e per rimediare all’errore strofinò il coltello, a mo’ di violinista, sulla suola dello stivale, mentre, chinato in avanti su una gamba, ascoltava il rumore del coltello sullo stivale e contemporaneamente tutto quel che poteva succedere nella strada accanto, colma di fato.
Perché il pensionato Pallas, che dalla sua finestra a un secondo piano stava in osservazione, non alzò un dito? Vai a sapere, la natura umana! Guardò in basso, il bavero della vestaglia sollevato, e scosse la testa.
Cinque edifici oltre, davanti a lui, di lato, la signora Wese, pelliccia di volpe sulla camicia da notte, controllava, guardava se stesse arrivando suo marito, oggi insolitamente molto in ritardo.
Ultimo, si sentì il suono del campanello posto sulla porta dell’ufficio di Wese, troppo forte per un campanello, sulla città, fino al cielo, e Wese, l’indefesso lavoratore serale, uscì in strada, ancora non visibile, segnalato soltanto dal suono del campanello; e subito il pavimento stradale contò i suoi passi tranquilli.
Pallas si sporge; non può lasciarsi sfuggire niente. La signora Wese, tranquillizzata dal suono del campanello, chiude rumorosamente la finestra.
Schmar continua a inginocchiarsi, ad appoggiare il viso e le mani, tutto quel che visibilmente ha di scoperto, sulla pietra; dove tutto è gelo, lui brucia.
Wese si trova fermo proprio sull’angolo tra la strada dov’è il suo ufficio e quella di casa, è soltanto il suo bastone che tocca la seconda. Un capriccio. L’ha attratto il cielo serale, il cupo azzurro, lo splendore. Ignaro guarda, ignaro infila una mano sotto il cappello e si gratta tra i capelli; niente, lassù, che lo informi del suo prossimo futuro; tutto insondabile, insensato, al suo posto. E’ di per sé molto razionale che Wese riprenda il cammino, sennonché finisce sul coltello di Schmar.
Wese!”, grida Schmar, ritto sulle punte dei piedi, il braccio levato, il coltello puntato con forza, “Wese! E’ inutile che Julia ti aspetti!” E lo pugnala alla gola, due colpi, a sinistra, a destra, e un terzo affondo nel ventre. Sbudellate, le talpe emettono un suono simile a quello di Wese.
Fatto”, dice Schmar, e scaglia il coltello, zavorra insanguinata, contro la facciata dell’edificio più vicino. ”Beatitudine dell’assassinio! Che sfogo, che sollievo dà il sangue altrui che scorre! Wese, vecchia ombra notturna, amico, compagno di bevute, il fondo della strada ti beve. Perché non sei solo una vescica gonfia di sangue, che io mi ci piazzi sopra per farti sparire completamente? Non si può avere tutto, non s’avvera ogni sogno di sangue, le tue pesanti spoglie già sono di ostacolo a qualunque passo. Quale domanda muta puoi tu porre su questo?”
Pallas, sconvolto, inghiottendo veleno, ora si affaccia alla sua porta. “Schmar, Schmar! Visto tutto, nulla è sfuggito”. I due si scrutano a vicenda. A Pallas basta questo, Schmar non ne trae niente di conclusivo.
La signora Wese, intorno a lei una folla di persone, corre sul posto, lo spavento le ha invecchiato il volto. Cade sopra Wese, e il suo corpo rivestito dalla camicia da notte appartiene a lui; la pelliccia, aperta sui coniugi, come erba tombale, appartiene alla folla.
Schmar, lui reprime a fatica l’estrema nausea premendo la bocca sulla spalla della guardia che lesta lo porta via.

*Nel testo non si accenna alla parentela tra l'omicida e la vittima.

giovedì 13 settembre 2012

F.Kafka: Un giovane studente ambizioso *


Un giovane studente ambizioso, che si era molto interessato al caso dei cavalli di Elberfeld ** ed aveva accuratamente letto e meditato tutto ciò che sull’argomento era apparso sulla stampa, decise di avviare di propria iniziativa il tentativo in questa direzione e di affrontare la cosa fin da principio in modo tutto nuovo e a suo parere incomparabilmente più accurato dei suoi predecessori. A dire il vero i suoi mezzi economici in sé non bastavano a rendergli fattibile in grande stile il tentativo, e nel caso che il primo cavallo che intendeva comprare per tale tentativo si mostrasse ostinato, ciò che può anche essere stabilito solo dopo settimane di faticosissimo lavoro, lo studente non avrebbe avuto, per un tempo piuttosto lungo, alcuna prospettiva di iniziare un nuovo tentativo. Tuttavia non se ne preoccupò troppo, perché con il suo metodo probabilmente poteva esser vinta ogni ostinazione. In ogni caso lui si portò avanti, in modo corrispondente alla sua indole, già con il calcolo delle spese che gli sarebbero toccate e con il metodo che avrebbe adottato, del tutto sistematicamente. Alla somma che gli occorreva per le strette necessità dello studio, fino a quel momento speditagli regolarmente ogni mese dai suoi genitori, poveri bottegai della provincia, a tale sostegno lui pensò di non rinunciare neppure in seguito, per quanto com’è ovvio lui dovesse abbandonare del tutto gli studi che i genitori seguivano a distanza con grandi speranze, se voleva conseguire gli attesi grandi risultati nel campo in cui ora sarebbe entrato. Che loro avessero comprensione per questi sforzi, o che magari lo incoraggiassero in tale direzione, era impensabile, lui doveva dunque tener loro segreti i suoi propositi, per quanto fosse doloroso, e mantenerli nella convinzione che lui stesse procedendo con regolarità nello studio seguito fino a quel momento. Quest’impostura ai danni dei genitori era solo uno dei sacrifici che lui aveva intenzione di imporsi per il bene della cosa. Il contributo dei genitori non poteva bastare alla copertura dei costi, prevedibilmente alti, che sarebbero stati necessari ai suoi sforzi. Lo studente perciò decise da ora d’impiegare in lezioni private la maggior parte della giornata, che fin lì era servita allo studio. La maggior parte della notte, tuttavia, doveva servire al lavoro vero e proprio. Lo studente scelse le ore notturne per l’addestramento dei cavalli non solo perché nel corso delle sue non propizie relazioni esterne era, per di più, impacciato, anche le nuove regole che lui aveva intenzione d’introdurre nell’addestramento dei cavalli lo rimandavano per vari motivi alla notte. Anche la più breve distrazione dalla vigilanza esercitata sul cavallo, secondo la sua opinione, comportava un danno irreparabile all’addestramento, perciò durante la notte lui era il più possibile sicuro. L’eccitabilità della persona e del cavallo, se durante la notte essi sono svegli e al lavoro, risulta catturata, nel suo piano si prevedeva esplicitamente. Non temeva, come altri esperti, la natura selvaggia dei cavalli, ne pretendeva di più, anzi aveva intenzione di generarla, certo non con la frusta, ma per mezzo della stimolazione causata dalla sua incessante presenza e dall’incessante addestramento. Sosteneva che nell’addestramento dei cavalli non era possibile avere alcun progresso isolato, i progressi isolati di cui si vantavano troppo, ultimamente, svariati dilettanti, non erano altro che o prodotti dell’immaginazione dell’istruttore od invece il segnale chiarissimo che mai stava per sopraggiungere un progresso complessivo, ciò che era anche peggio. Lui stesso da null’altro desiderava astenersi di più che dal conseguimento di progressi isolati, la moderazione dei suoi predecessori, che credevano, con il buon esito del calcolo dei piccoli passi, di aver già raggiunto qualcosa, gli pareva incomprensibile, in questo modo era come quando s’intendeva stabilire, nell’educazione dei bambini, che al bambino s’inculcassero isolatamente le tabelline, senza considerare che lui, cieco in paragone al mondo umano, era sordo ed insensibile. Era così completamente assurdo, gli errori degli altri istruttori di cavalli talvolta gli sembravano così spaventosamente netti che lui maturò dei sospetti perfino su se stesso, infatti era quasi impossibile che uno solo, per giunta inesperto, spinto unicamente da una sicurezza profonda e senz’altro indomabile, ma priva di verifiche, potesse aver ragione contro tutti gli intenditori.


** Cittadina non lontana da Düsseldorf. Nei primi anni del Novecento un insegnante di matematica aveva addestrato un cavallo di nome Hans a risolvere calcoli. Hans passò poi ad un abitante di Elberfeld, che fece il tentativo con altri cavalli, muli, ponies eccetera.

lunedì 3 settembre 2012

F.Kafka:Il maestro di scuola di villaggio


Coloro che come me trovano ripugnante perfino una talpa piccola, sarebbero morti di ripugnanza, probabilmente, se avessero visto la talpa gigantesca osservata anni or sono nei pressi di un villaggio, che per questa ragione ha raggiunto una certa effimera notorietà. Oggi del resto già da tempo è ricaduto nell’oblio e partecipa perciò all’oscurità dell’intero fatto, rimasto del tutto senza spiegazioni, che tuttavia non ci si è sforzati neanche molto di spiegare e che, a seguito di un’incomprensibile negligenza di alcuni circoli che avrebbero dovuto occuparsene, e che si occupano con effettiva concentrazione di molte cose insignificanti, è stato dimenticato, senza ricerche ulteriori. Non se ne riesce a trovare alcuna giustificazione con l’argomento che il villaggio è assai distante dalla ferrovia, molta gente venne per curiosità da lontano, perfino dall’estero, soltanto coloro che avrebbero dovuto mostrare qualcosa di più della curiosità non vennero. Certo, se non si fosse curata dell’evento la gente semplice del tutto isolatamente, la gente il cui lavoro quotidiano le permetteva appena di respirare, se non se ne fosse curata in modo disinteressato, la fama del fatto avrebbe appena varcato il circondario immediato. Si deve aggiungere che la fama, in altri casi inarrestabile, stavolta fu francamente lenta, se non la si fosse addirittura promossa, non si sarebbe propagata. Tuttavia anche questo non costituiva davvero una ragione per non occuparsi dell’evento, al contrario, anche questo fatto avrebbe dovuto essere studiato meglio. Invece se ne lasciò l’unica cura scritta al vecchio maestro del villaggio, certo nel suo ufficio un uomo notevole, ma dotato di capacità ed insieme di preparazione poco adatte a produrre un’approfondita ed in seguito utilizzabile descrizione, ed ancor meno poi una spiegazione. Lo scrittarello fu stampato e numerosamente venduto ai visitatori di allora, ebbe anche qualche riconoscimento, ma il maestro era abbastanza saggio da rendersi conto che le sue isolate fatiche, senza alcun sostegno, erano in fondo inutili. Se lui nonostante ciò non desisté da esse e rese l’evento, nonostante che esso per sua natura, anno dopo anno, divenisse sempre più senza speranza, il compito della sua vita, ciò prova quanto grande era l’effetto che l’evento era in grado di fare e d’altra parte quanta perseveranza e fedeltà alle proprie convinzioni si possono trovare in un vecchio ignorato maestro di villaggio. Che lui tuttavia abbia molto sofferto a causa degli atteggiamenti di rifiuto delle personalità dotate d’influenza, lo prova una postilla che lui aggiunse al suo scritto, del resto la prima dopo diversi anni, cioè in un’epoca nella quale giusto qualcuno poteva ricordarsi di che cosa si fosse trattato. In tale postilla egli protesta persuasivamente, forse non da storico, ma con schiettezza, per l’incomprensione che gli è toccata da parte della gente, laddove se ne sarebbe dovuta aspettare di meno. Di tale gente egli dice, in modo giusto: “Non sono io, ma loro, a parlare come fanno i vecchi maestri di villaggio.” E tra le altre cita l’osservazione di uno scienziato da cui si è recato appositamente per la sua cosa. Il nome dello scienziato è omesso, ma da svariate circostanze si può indovinare di chi si tratti. Dopo che il maestro aveva superato grandi difficoltà per ottenere d’essere ricevuto dallo scienziato, cui si era annunciato con settimane d’anticipo, già dall'accoglienza fu chiaro che lo scienziato era, riguardo all’evento, preda di un invincibile pregiudizio. Con quale distrazione lo scienziato stette a sentire il lungo resoconto del maestro, fatto sulla base del suo scritto, ciò si manifestò nell’osservazione che costui fece dopo alcune riflessioni simulate. “Certo ci sono svariate talpe, piccole e grandi. Nella vostra regione il terreno è particolarmente duro e scuro. Ora, esso per questa ragione dà alle talpe un’alimentazione particolarmente grassa, ed esse diventano insolitamente grandi in modo.” “Sì’, ma mica grandi così”, esclamò il maestro, e misurò, con il suo accanimento un po' eccessivo, due metri dalla parete.”Sì, sì”, rispose lo scienziato, cui l’intera faccenda pareva evidentemente molto spassosa, “perché no, in fondo?” Il maestro tornò a casa con questa risposta. Racconta come di sera, sotto una nevicata, lungo la strada provinciale sua moglie e i suoi sei figli l’avessero atteso, e come lui dovette confessare loro il fallimento completo delle sue speranze.
Quando io lessi del contegno tenuto dallo scienziato nei confronti del maestro, non conoscevo ancora per niente il suo scritto. Ma senza indugio presi la decisione sia di raccogliere sia di confrontare tutto quel che potevo apprendere sul caso. Poiché non potevo misurare un pugno in faccia allo scienziato, almeno il mio scritto doveva difendere il maestro, o, per dir meglio, non tanto il maestro, quanto le buone intenzioni di un uomo onesto privo di autorità. Lo ammetto, mi pentii presto di tale decisione, dato che alla svelta mi resi conto che la sua messa in atto doveva portarmi in una strana posizione. Da un lato anche la mia influenza era largamente insufficiente a portare gli scienziati e perfino l’opinione pubblica dalla parte del maestro, dall’altro il maestro doveva capire che a me il suo proposito principale, dimostrare l’apparizione della grande talpa, premeva meno della difesa della sua onestà, che a lui sembrava del resto ovvia e non bisognosa di alcuna difesa. Si doveva arrivare dunque al punto che io, che pure intendevo unirmi al maestro, non trovai da lui alcuna comprensione, probabilmente invece, per giovargli, mi sarebbe servito un aiuto diverso, era davvero incredibile il contegno del maestro. Oltre a ciò mi addossai, con la mia decisione, una gran fatica. Avevo intenzione di essere convincente, dunque non potevo richiamarmi al maestro, che certo non era riuscito ad esserlo. La conoscenza del suo scritto mi avrebbe soltanto fuorviato, ed evitai perciò di leggerlo prima di eseguire il mio proprio lavoro. Certo, non entrai neppure una volta in contatto con il maestro. Tuttavia tramite intermediari lui venne a sapere delle mie ricerche, ma ignorava se lavoravo secondo la sua idea o contro. Certo, sospettava quest’ultima possibilità, per quanto lo negasse, ma ho la prova che lui mi ha messo nel frattempo diversi ostacoli sulla via. Poteva farlo molto facilmente, perché ero costretto, certo, a ricominciare tutte le ricerche che lui aveva già condotto, e per questo lui poteva sempre precedermi. Tale obbiezione era l’unica che a ragione si poteva fare al mio metodo, obbiezione del resto inevitabile, che però, certo poteva essere molto indebolita tramite la cautela e la dissimulazione dei miei fini. A parte ciò, tuttavia, il mio scritto era libero da ogni influsso del maestro, forse su questo punto avevo dato prova di perfino troppa meticolosità, era davvero come se nessuno avesse finora studiato il caso, come se io fossi il primo ad interrogare i testimoni che avevano visto e quelli che avevano sentito dire, il primo che confrontasse tra loro le dichiarazioni, il primo che traesse conclusioni. Quando, successivamente, lessi lo scritto del maestro – aveva un titolo assai prolisso: Una talpa così grande come ancora nessuno l’ha vista - di fatto trovai che noi su punti essenziali non concordavamo, anche se entrambi credevamo di aver provato la cosa principale, cioè l’esistenza della talpa. Quelle divergenze sì erano singole, ma ostacolarono la nascita di un rapporto amichevole con il maestro che io veramente mi ero aspettato. Da parte sua si sviluppò quasi dell’ostilità. Restava certo sempre misurato e ossequioso con me, ma il suo stato d’animo autentico si poteva notare tanto più distintamente. Era dell’opinione che io avessi danneggiato lui e, completamente, la cosa, e che la mia fiducia di aver giovato o di poter giovare ad essa fosse nel caso migliore dabbenaggine, ma verosimilmente presunzione o perfidia. Per prima cosa indicava a tale proposito che tutti i suoi oppositori finora non avevano mostrato assolutamente la loro avversione, magari solo a quattr’occhi o almeno soltanto a parole, mentre io avevo ritenuto necessario far pesare subito tutte le mie critiche. Che inoltre i pochi oppositori che si erano occupati sul serio dell’evento, anche se solo superficialmente, avevano ascoltato, prima di pronunciarsi, la sua opinione, l’opinione del maestro, cioè quella nella fattispecie decisiva, che io invece avevo prodotto risultati, sulla base di testimonianze raccolte in modo non sistematico e in parte interpretate male, essenzialmente esatti, ma che dovevano certo sembrare, tanto alla massa quanto alle persone istruite, inattendibili. La più tenue apparenza d’inattendibilità era tuttavia il peggio che in questo caso poteva darsi. In merito a tali obbiezioni, quand’anche copertamente avanzate, avrei potuto rispondergli facilmente – per esempio che proprio il suo scritto rappresentava il vertice dell’inattendibilità – ma meno facile tuttavia era combattere il suo ulteriore sospetto, e questa era la ragione per cui mi limitavo molto in genere nei suoi confronti. Egli, cioè, credeva segretamente che io avessi voluto togliergli la gloria di essere il primo patrocinatore pubblico della talpa. Ora, sì, la sua persona non era toccata quasi da nessuna gloria, ma piuttosto dal ridicolo, del resto limitato ad una sempre più ristretta cerchia, al quale ridicolo io certo non desideravo aspirare. Inoltre io avevo spiegato con chiarezza, nell’introduzione al mio scritto, che il maestro doveva per sempre essere considerato lo scopritore della talpa – eppure non lo era - e che soltanto il senso di partecipazione alla sorte del maestro mi aveva spinto alla stesura dello scritto. “Il fine di questo scritto è” – così concludevo in modo troppo patetico, ma corrispondente alla mia passione di allora – “giovare alla meritata diffusione dello scritto del maestro. Ciò fatto, il mio nome, che è intrecciato alla presente vicenda in modo solo transitorio ed esterno, poi deve senza indugio essere da essa cancellato.” In questo modo respinsi apertamente ogni maggior partecipazione alla cosa; era quasi come se avessi in qualche modo presentito l’incredibile rimprovero del maestro. Ciò nonostante lui trovò in questa presa di posizione il pretesto contro di me, e non nego che una traccia di giustificazione, in quel che disse o forse accennò, era insita, così come mi accorsi, soprattutto in certi casi, che lui sotto alcuni aspetti mostrava nei miei confronti più acume che non nel suo scritto. Affermava, cioè, che la mia introduzione era ipocrita. Se veramente tenevo alla diffusione del suo scritto, perché non mi occupavo esclusivamente di lui e del suo scritto, perché non indicavo la sua priorità, la sua inconfutabilità, perché non mi limitavo a mettere in rilievo l’importanza della scoperta ed a renderla comprensibile, perché insistevo molto di più sulla scoperta e trascuravo completamente il libro? Non era già stata fatta, la scoperta? Restava forse, stando a tale sospetto, ancora qualcosa da fare? Ma, se io veramente ritenevo che la scoperta fosse da fare di nuovo, perché nell’introduzione mi dichiaravo così solennemente slegato dalla scoperta? Ciò avrebbe potuto essere ipocrita modestia, ma era alquanto irritante. Mettevo fuori corso la scoperta, richiamavo su di essa l’attenzione soltanto per annientarne il senso, l’avevo esaminata ed accantonata, forse intorno a quest’evento si era fatto un po’ più silenzio, io ora facevo di nuovo del chiasso, ma nello stesso tempo rendevo la situazione del maestro più difficile di quel che era mai stata. Al maestro premeva soltanto ciò che significava per lui la difesa della reputazione dell’evento, soltanto quello. Tuttavia io la tradivo perché non lo capivo, perché non ne davo la giusta valutazione, perché non ero sensibile ad esso. Superava altissima il mio intelletto. Sedeva davanti a me e mi guardava calmo con la sua vecchia faccia rugosa, ma la sua opinione era solo questa. Per altro non era esatto che gli premesse solo l’evento, egli era addirittura famelico di onori e desiderava anche guadagnare del denaro, ciò che, stando alla sua numerosa famiglia, era comprensibilissimo, eppure il mio interesse all’evento, in confronto al suo, gli sembrava così piccolo, che credeva di poter passare per disinteressato senza dire una menzogna troppo grande. In realtà non era sufficiente a soddisfarmi, neppure intimamente, dire a me stesso che i suoi rimproveri in fondo risalivano al fatto che lui aveva diciamo toccato con mano la sua talpa e voleva che chiunque le si avvicinasse anche solo con un dito fosse definito traditore. Non era così, la sua condotta non era spiegabile facendo riferimento all’avarizia, almeno non solo all’avarizia, ma più facilmente facendo riferimento alla rabbia che le sue grandi fatiche prive totalmente di successo avevano suscitato in lui. Ma neppure la rabbia spiegava tutto. Forse il mio interesse all’evento era davvero troppo scarso, il disinteresse del mondo esterno nei confronti del maestro era già un’abitudine per lui, che nel complesso soffriva meno, e non soffriva più di pene particolari, tuttavia a questo punto aveva trovato uno che s’interessava all’evento in modo non comune, eppure non lo capiva. Una volta, messo alle corde in tal senso, non volli negare. Non sono mica uno zoologo, forse me ne sarei dato l’aria, tutto infervorato per questo caso, se avessi fatto la scoperta, ma non ho fatto la scoperta. Una talpa così enorme è certo una curiosità, ma non si può pretendere l’attenzione ininterrotta del mondo intero sulla talpa, specie se la sua esistenza non è del tutto ineccepibilmente accertata e non si può esibire. E io garantii inoltre che mai, anche nel caso che ne fossi stato lo scopritore, mi sarei tanto impegnato in merito alla talpa quanto volontariamente m’impegnavo di buon grado per il maestro.
Ora, il disaccordo tra me e il maestro forse si sarebbe risolto presto se il mio scritto avesse avuto successo. Ma tale successo mancò. Forse non era buono, non era scritto in modo abbastanza persuasivo, io sono un commerciante, la stesura di uno scritto del genere eccede il mio settore abituale più estesamente di quanto non fosse il caso del maestro, nonostante che io fossi superiore a lui in ogni conoscenza necessaria a tal fine. L’insuccesso poteva spiegarsi anche diversamente, il momento dell’uscita forse era sfavorevole. La scoperta della talpa, incapace di imporsi, da un lato non era così lontana nel tempo da esser del tutto dimenticata e dunque riproponibile come cosa straordinaria con il mio scritto, dall’altro era trascorso abbastanza tempo da esaurire completamente quel po’ d’interesse che c’era stato all’inizio. Coloro che, d’altronde, si accostarono al mio scritto, si dissero, con quello sconforto già da anni dominante in questa discussione, che ora le vane fatiche su questo noioso evento obbligatoriamente sarebbero certo riprese un’altra volta, e alcuni addirittura confusero il mio scritto con quello del maestro. In un importante periodico di economia agraria si leggeva la seguente nota, per fortuna stampata in piccoli caratteri e nell'ultima pagina: “Ci è stato inviato di nuovo lo scritto sulla talpa gigante. Ce ne ricordiamo, già una volta anni or sono ne abbiamo riso di cuore. Da allora non è divenuto più ragionevole, né noi più stupidi. Semplicemente, non riusciamo a riderne per la seconda volta. Piuttosto domandiamo alle nostre associazioni d’insegnanti se un maestro di villaggio non possa trovare un’occupazione più utile che non andare a caccia di talpe giganti.” Un’imperdonabile confusione! Non si era letto né il primo né il secondo scritto, e le due insufficienti parole acchiappate in fretta, talpa gigante e maestro di villaggio, bastarono a quei signori per supplire alla manifestazione di più validi interessi. Fosse andata diversamente, varie cose si sarebbero potuto tentare con successo, ma la scarsità di riconoscimento me ne tenne lontano, alla pari del maestro. Tentai bensì di tenergli nascosto il periodico per quel che potevo. Lui tuttavia lo scoprì ben presto, lo capii già da un’osservazione contenuta in una sua lettera con cui mi prospettava la sua visita durante le vacanze natalizie. Scriveva: “Il mondo è malvagio e ladro”, dove voleva dire che io sono una parte del mondo malvagio, ma non mi accontento della cattiveria insita in me, invece rubo, cioè sono indaffarato a carpire la cattiveria generale ed a procacciarle la vittoria. Ora, io avevo già preso le necessarie decisioni, potevo tranquillamente aspettarlo e stare a vedere come veniva da me, lui salutò in modo meno cortese del solito, si sedette muto davanti a me, estrasse con cura il periodico dalla tasca interna della sua caratteristica giacca imbottita di bambagia e me lo spinse davanti senza parole, aperto. “Lo conosco”, dissi e respinsi il periodico senza leggere. “Lo conoscete”, disse lui sospirando, aveva l’abitudine dei vecchi maestri di ripetere le risposte altrui. “Naturalmente non accetterò questo senza difendermi”, continuò picchiettando inquieto un dito sul periodico, e mi guardò con aria severa come se io fossi dell’opinione contraria; aveva il giusto presentimento di quel che volevo dire; ho ritenuto di far notare che lui, non tanto da quel che diceva, quanto dagli altri segni, possedeva una sensibilità molto giusta circa i miei propositi, ma ad essa io non cedetti e la lasciai deviare. Ecco che cosa dissi allora, posso riprodurlo quasi alla lettera perché lo annotai poco dopo il colloquio.”Fate quel che volete”, dissi, “da oggi le nostre strade si dividono. Credo che questo non vi risulti né inatteso né spiacevole. La nota qui sul periodico non è la causa della mia decisione, essa l’ha consolidata definitivamente. La vera ragione sta nel fatto che io all’inizio credevo con la mia entrata in scena di potervi giovare, mentre ora sono costretto a vedere che vi ho nociuto in ogni senso. Perché sia andata così, non lo so, le ragioni del successo e dell’insuccesso sono sempre ambigue da spiegare, non mi riferisco soltanto alle spiegazioni che mi accusano. Ricordatevi, anche voi avevate le migliori intenzioni, e tuttavia vi è andata male, parlando in generale. Non sto scherzando, va contro di me se dico che anche il rapporto con me contribuisce al vostro insuccesso; che io ora mi ritiri non è né viltà né tradimento. Avviene addirittura con sforzo di autocontrollo; come stimi la vostra persona risulta già nel mio scritto, mi siete divenuto, da un certo punto di vista, maestro e perfino la talpa mi è divenuta cara. Nonostante questo mi faccio da parte, voi siete lo scopritore e, mentre desideravo impegnarmi anch’io, v’impedisco sempre d’incontrare la probabile gloria, attiro l’insuccesso e ve lo trasmetto. Basta così. Per ammenda posso solo chiedervi perdono e, se volete, la confessione fatta qui la ricapitolo pubblicamente, per esempio, su questo periodico.” Queste furono allora le mie parole, non erano del tutto sincere, ma la sincerità era facilmente deducibile da esse. In lui ciò agì come più o meno avevo previsto. La maggior parte delle persone anziane hanno caratterialmente qualcosa d’ingannevole nei confronti dei giovani, qualcosa di falso, si continua a vivere tranquillamente accanto a loro, si ritiene consolidato il rapporto, si conoscono le opinioni prevalenti, si ricevono continue attestazioni d’armonia, tutto si considera certo, e all’improvviso, se avviene qualcosa di decisivo, mentre la calma fin lì predisposta doveva funzionare, queste persone anziane insorgono come estranee, hanno opinioni più nette, più impetuose, ora dispiegano la loro bandiera per la prima volta e vi si legge con sgomento il nuovo motto. Principalmente tutto questo sgomento deriva dal fatto che ciò che dicono ora gli anziani veramente è molto giustificato, sensato e, come se la certezza fosse aumentata, è anche più certo. La falsità ineguagliabile tuttavia è che quel che dicono ora essi in fondo lo hanno sempre detto, eppure non era in genere prevedibile. Dovevo aver approfondito molto questo maestro di villaggio, infatti ora non mi sorprese affatto. “Ragazzo”, disse, appoggiò la mano sulla mia e amichevolmente la strofinò, “come vi venne in mente di aver a che fare con questa cosa? Quando mi giunse all’orecchio la prima volta, ne parlai con mia moglie.” Si spostò dal tavolo, allargò le braccia e guardò in basso, come se lì sotto, piccolissima, ci fosse sua moglie: “ ‘Così tanti anni’, le dissi, ‘che noi combattiamo in solitudine, e ora invece sembra sopraggiunto in città un protettore di rango più elevato, un commerciante del posto, che si chiama così e così. Ora dovremmo essere assai felici, no? Un commerciante in città non vuol dire poco, se un miserabile contadino crede in noi e lo manifesta, questo non può giovarci, infatti quel che fa un contadino è sempre volgare, sia che dica che il vecchio insegnante del villaggio ha ragione, sia che sputi in modo sconveniente, entrambe le cose fanno lo stesso effetto. Se invece di un contadino insorgono diecimila contadini, l’effetto se possibile è anche peggiore. Un commerciante di città è al contrario qualcosa di diverso, un uomo del genere ha delle relazioni, perfino quel che dice solo per caso si diffonde in cerchie più larghe, nuovi protettori s’interessano all’evento, per esempio uno dice che anche da un maestro di villaggio si può imparare, ciò che il giorno dopo va mormorandosi una quantità di persone dalle quali, a giudicare dalle apparenze, mai si sarebbe supposto di dedurlo. Ora si trovano risorse in denaro per la cosa, uno raccoglie e gli altri gli contano il denaro in mano, si ritiene che il maestro del villaggio debba essere portato via di lì, si arriva, non ci si cura del suo aspetto, lo si prende con sé e, poiché la moglie e i figli dipendono da lui, si prendono anche loro. L’hai vista la gente di città? Cinguettano senza tregua. Sono una fila intera e il cinguettìo va da destra a sinistra e viceversa, e su e giù. Così ci issano cinguettando in carrozza, c’è appena il tempo di accennare un saluto. Il signore a cassetta si sistema gli occhiali, brandisce la frusta e partiamo. Tutti accennano un saluto per congedarsi dal villaggio, come noi fossimo ancora lì e non sedessimo tra loro. Dalla città ci vengono incontro alcune carrozze di persone particolarmente impazienti. Appena ci avviciniamo si alzano dai loro sedili e si allungano per vederci. Colui che ha raccolto il denaro fa ordine ed esorta alla calma. Quando entriamo in città la fila delle carrozze è già lunga. Abbiamo creduto che i saluti fossero già terminati, ma ora davanti all’albergo essi riprendono. Nella città si riuniscono, come a un appello, molte persone. A ciò cui s’interessa l’uno, s’interessa anche l’altro. Ci si strappano, insieme al respiro, le opinioni e le si fanno proprie. Non tutte queste persone possono viaggiare in carrozza, aspettano davanti all’albergo. Altre possono, ma deliberatamente non lo fanno. Aspettano anche loro. E’ incredibile come colui che ha raccolto il denaro abbracci con lo sguardo tutti quanti.’ “
Lo avevo ascoltato tranquillamente e mi ero fatto sempre più tranquillo durante il suo discorso. Sul tavolo avevo accumulato tutte le copie disponibili del mio scritto. Ne mancavano solo pochissime, perché negli ultimi tempi per mezzo di una lettera circolare avevo chiesto la restituzione di tutte le copie inviate, e la maggior parte le avevo ricevute. Da molte parti mi era stato scritto, del resto molto cortesemente, che non ci si ricordava affatto di aver ricevuto uno scritto come il mio, e che sfortunatamente si doveva averlo perduto, se pure era arrivato. Anche così andava bene, in fondo non desideravo altro. Solo uno mi pregava di poter tenere lo scritto come curiosità e si impegnava, ai sensi della mia circolare, a non mostrarlo ad alcuno per i prossimi venti anni. Il maestro del villaggio ancora non aveva visto questa circolare, mi rallegrai che le sue parole mi rendessero tanto agevole mostrargliela. Potevo farlo, ma, in caso contrario, tranquillamente, dato che nel redigerla avevo usato molta cautela e mai avevo trascurato gl’interessi del maestro del villaggio e della sua cosa. Il tema centrale della circolare suonava così: “Non chiedo la restituzione perché mi sia in certo modo allontanato dalle opinioni sostenute nello scritto o perché in alcune parti le consideri erronee o anche solo indimostrabili. La mia richiesta ha ragioni solo personali, per quanto plausibili, essa non consente tuttavia, circa la mia posizione in merito all’evento, le minime illazioni, sono a pregarvi di prender nota particolare di questo e, se vi piace, anche di darne diffusione.”
Questa circolare per il momento la tenni ancora coperta dalle mie mani e dissi: “Volete rimproverarmi perché non è andata così? Perché volete far ciò? Non amareggiamoci il distacco. E infine, provate a riconoscere che voi avete certo fatto una scoperta, che però essa non oltrepassa tutto il resto e che, a causa di ciò, neanche l’ingiustizia che vi tocca è un’ingiustizia che oltrepassa tutte le altre. Non conosco le regole delle società scientifiche, ma non credo che vi sarebbe stata predisposta un’accoglienza, anche nel caso più favorevole, solo approssimativamente paragonabile ad una come quella che avete descritto alla vostra povera moglie. Se io stesso speravo qualcosa dallo scritto, credevo che magari potesse attirare sulla nostra cosa l’attenzione di un professore, il quale avrebbe incaricato un giovane studente di seguirla, che questo studente sarebbe venuto da voi e avrebbe controllato ancora una volta a modo suo le vostre e le mie ricerche, e che alla fine, se l’esito gli fosse sembrato degno di menzione - qui va ricordato che tutti i giovani studenti dubitano molto -, avrebbe pubblicato un suo scritto nel quale ciò che voi avete riferito sarebbe stato scientificamente giustificato. Tuttavia, anche nel caso che tale speranza fosse stata soddisfatta, non molto sarebbe stato ancora ottenuto. Lo scritto dello studente che avesse giustificato un caso così particolare forse sarebbe stato messo in ridicolo. Guardate qui, come esempio, nel periodico di economia agraria, come ciò accada facilmente, e i periodici scientifici sono da questo punto di vista ancora più spietati. E’ anche comprensibile, i professori hanno molte responsabilità nei confronti di se stessi, della scienza, delle generazioni future, non possono vantarsi ad ogni nuova scoperta. Noialtri siamo in confronto a loro in vantaggio. Ma io ci rinuncio e voglio ora ammettere che lo scritto dello studente si fosse imposto. Che cosa sarebbe successo, allora? Il vostro nome sarebbe stato fatto qualche volta con rispetto, probabilmente avrebbe giovato alla vostra posizione, si sarebbe detto: “I nostri maestri di villaggio tengono gli occhi aperti”, e questo periodico di economia agraria avrebbe dovuto chiedere scusa, se i periodici avessero memoria e coscienza, si sarebbe trovato quindi anche un professore di buona volontà allo scopo di favi ottenere uno stipendio, è anche possibile che si sarebbe tentato di spostarvi in città, di procurarvi un posto in una scuola elementare cittadina e di darvi occasione di utilizzare i sussidi scientifici che la città offre per la vostra ulteriore formazione. Se devo esser franco bisogna che dica che ciò si sarebbe soltanto tentato. Nel caso che voi foste chiamato, che voi foste anche venuto, e certo come postulante al pari delle centinaia che ce ne sono, senza tutta quell’accoglienza grandiosa, che si fosse parlato con voi, che si fosse riconosciuta la vostra ambizione, tuttavia si sarebbe visto allo stesso tempo che siete un uomo anziano, che a quest’età iniziare studi scientifici è inutile, che voi per prima cosa siete arrivato alla vostra scoperta più per caso che secondo un programma, e che, a parte questo caso particolare, non vi si prevede di nuovo operativo. Per queste ragioni vi si sarebbe lasciato certamente nel villaggio. La vostra scoperta d’altra parte sarebbe stata portata avanti, perché non è così modesta da esser dimenticata, una volta riconosciuta. Ma voi non sareste venuto a saperne più molto, e ciò che avreste saputo lo avreste capito appena. Ad ogni scoperta tocca di essere incanalata nella totalità delle scienze e cessa per così dire di essere una scoperta, essa cresce nell’insieme e sparisce, è necessario possedere un occhio scientificamente educato per riconoscerla dopo. Viene connessa a princìpi di cui noi non sappiamo niente, e, nel corso delle dispute scientifiche, sulla base di tali princìpi viene sollevata in alto fino alle nuvole. Vogliamo capirlo? Se udissimo una disputa del genere, crederemmo magari che sia in questione la scoperta della talpa, ma invece è in questione tutt’altra cosa.”
Bene”, disse il maestro del villaggio, prese la sua pipa e cominciò a riempirla del tabacco che portava con sé sciolto in tutte le tasche, “voi volontariamente vi siete preso cura dello spiacevole evento ed ora lo stesso volontariamente vi ritirate. E’ tutto assolutamente giusto.” “Non sono ostinato”, dissi io. “Trovate nella mia iniziativa forse qualcosa da criticare?” “No, niente affatto”, disse il maestro, e la sua pipa già sbuffava. Non ne sopportavo il puzzo e perciò mi alzai e mi mossi in giro nella stanza. Già da precedenti conversazioni ero abituato al fatto che il maestro con me era assai di poche parole e che, però, una volta venuto, non voleva andarsene. La cosa mi aveva colpito, talvolta, avevo sempre pensato, di conseguenza, che volesse qualcosa da me, e gli avevo offerto del denaro, che di regola lui accettava. Ma era sempre andato via quando gli era garbato. Abituale era quindi finir di fumare la pipa, girarsi sulla sedia, riaccostarla rispettosamente al tavolo, afferrare il bastone nodoso appoggiato da una parte, tendermi la mano con zelo, e andarsene. Oggi però il suo starsene lì seduto senza parole mi dava noia. Se una buona volta a uno si propone il congedo definitivo, come avevo fatto io, e tal congedo dall’altro è considerato del tutto giusto, e poi si fa il poco che c’è da sbrigare insieme il più possibile alla svelta, non si opprime l’altro con la propria presenza silenziosa. Se da dietro si osservava come sedeva al mio tavolo, il tenace vecchietto, si poteva credere che fosse assolutamente impossibile cacciarlo dalla stanza.






martedì 28 agosto 2012

F.Kafka: Davanti alla legge


Davanti alla legge si trova un guardiano. Un campagnolo chiede di essere ammesso al cospetto della legge, ma il guardiano gli dice che adesso non può concedergli l’ammissione. Il campagnolo ci pensa, e poi chiede se, di conseguenza, potrà entrare più tardi. “Forse”, fa il guardiano,”ma non adesso”. Dato che il portone della legge è aperto come sempre e il guardiano traccheggia da una parte, il campagnolo tenta di guardare dentro. Non appena il guardiano se ne accorge, ride e fa:”Se vuoi, provaci, ad entrare nonostante il mio divieto; ma attento: io sono un’autorità, pur essendo solo il guardiano di grado minimo. Da una sala all’altra troveresti guardiani sempre più influenti. Già la vista del terzo per me è insostenibile per più di una volta.” Il campagnolo è impreparato a una simile difficoltà, eppure la legge dovrebbe essere sempre accessibile a tutti, pensa, tuttavia, non appena guarda bene il guardiano con quel soprabito di pelliccia, con quel po’po’ di naso, con quella lunga barba da tartaro, cambia opinione: meglio aspettare il permesso, per entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere da una parte. Giorni e anni il campagnolo resta lì seduto, fa molti tentativi di venir ammesso, disturbando con le sue suppliche il guardiano. Costui quasi sempre gli dà un po’ di spago, gli chiede del paese e di molte altre cose, ma sono domande piene d’indifferenza, come le fanno i gran signori, e in conclusione gli ripete che ancora non può farlo entrare. Il campagnolo, che in vista del suo viaggio si è ben rifornito, impiega tutto quel che ha, valori inclusi, allo scopo di ungere il guardiano. Costui accetta tutto, ma ciò nonostante dice: “Accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.” Il campagnolo lo tiene d’occhio ininterrottamente per molti anni. Dimentica gli altri guardiani, e questo primo gli appare come l’unico ostacolo al suo ingresso al cospetto della legge. Maledice il suo caso infelice, nei primi anni a voce alta e senza riguardi, più tardi, invecchiando, bofonchia tra sé e sé. Diventa puerile, e poiché durante l'attenzione dedicata al guardiano, anni e anni, ha individuato anche le pulci della sua pelliccia, prega perfino le pulci di aiutarlo a far cambiare opinione al guardiano. Da ultimo la vista gli s’indebolisce, e non si rende conto se è buio o se ad ingannarlo sono i suoi occhi. Ma ora riconosce bene nell’oscurità un luccichìo ininterrotto che proviene dalla porta della legge. E’ alla fine. Prima di morire nella sua testa tutte le esperienze di tutto il tempo trascorso si aggrumano in una domanda fin qui mai posta al guardiano. Gli fa un cenno, dato che non riesce più a sollevare il suo corpo irrigidito. Il guardiano è costretto ad abbassarsi parecchio verso di lui, infatti la differenza di statura è cambiata molto a sfavore del campagnolo. “Che cosa vuoi sapere ancora?”, domanda, “sei insaziabile”. “Tutti anelano alla legge”, dice il campagnolo, “e allora com’è che in tanti anni nessuno ha chiesto il permesso di entrare, all’infuori di me?” Il guardiano capisce che il campagnolo è alla fine, e per toccarne l’udito morente gli grida: “Qui nessun altro poteva avere il permesso, perché quest’ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo.”

lunedì 27 agosto 2012

F.Kafka: Infelicità dello scapolo


Sembra davvero una brutta cosa restare scapolo, supplicare come un vecchio, a rischio della propria dignità, di essere accolti, quando si vuol passare una serata con qualcuno, essere ammalati e restare a guardare da un cantuccio del letto la stanza vuota, accettare sempre di lasciarsi davanti al portone di casa, non salire le scale accanto alla propria moglie, avere nella camera soltanto porte che danno in appartamenti sconosciuti, tornare a casa con la cena in mano, dover osservare con stupefazione sconosciuti bambini, non poterne più di ripetere ogni volta “io non ne ho”, esercitarsi ad avere l’aspetto e il comportamento giusto sulla base dei ricordi giovanili di un paio di scapoli.
Così avviene, peccato che in realtà oggi o domani ci si trovi a percuotersi il petto con una mano, e la testa, e poi la fronte.







mercoledì 22 agosto 2012

F.Kafka:Vita in città.


Oskar M. uno studente fuori corso – a guardarlo da vicino ci si spaventava – rimase un pomeriggio d’inverno nel pieno d’una nevicata in una piazza vuota in piedi vestito da inverno la giacca invernale sopra uno scialle al collo e in testa un berretto di pelliccia *. Riflettere gli faceva stringere gli occhi. Tanto si era perso nel pensare che si tolse il berretto e si passò sulla faccia la pelliccia increspata. Infine parve arrivato ad una conclusione e si girò con un volteggio verso la via di casa. Come aprì la porta del soggiorno della casa dei suoi genitori vide suo padre un uomo ben rasato dal volto pesantemente carnoso seduto davanti a un tavolo vuoto le spalle rivolte alla porta. “Era ora” ** disse il padre non appena Oskar ebbe messo piede nella stanza fammi il piacere di restare sulla porta perché ce l'ho talmente con te che non mi fido di me stesso. Ma padre disse Oskar accorgendosi da come parlava quanto si era affannato. Silenziò gridò il padre e si alzò con il che nascose la finestra alla vista. Silenzio ti ordino. E smettila con i tuoi ma tienilo a mente. Nel dir così afferrò con entrambe le mani il tavolo e lo spostò di un passo verso Oskar. La tua vita da scioperato non la sopporto semplicemente più. Sono vecchio. In te credevo di avere una consolazione per la vecchiaia invece sei per me peggio di ogni malattia. Vergogna un figlio del genere che a forza di pigrizia dissipazione malvagità e stupidità porta il suo vecchio padre nella fossa. A questo punto il padre tacque ma il viso gli tremava come se parlasse ancora. Caro padre disse Oskar e cautamente si avvicinò al tavolo, calmati andrà tutto bene. Oggi m’è venuta un’ispirazione che farà di me un uomo tanto operoso quanto puoi augurarti. Sarebbe? Domandò il padre guardando da una parte. Fidati di me e basta a cena ti spiegherò tutto. Dentro di me sono sempre stato un bravo figlio solo che non riuscivo a farlo vedere mi amareggiavo tanto perché non ero capace di onorarti invece ti facevo arrabbiare. Ma ora lasciami andare un po’ a camminare perché si sviluppino con più chiarezza i miei pensieri. Il padre che facendosi dapprima attento si era seduto al tavolo si alzò: non credo che le cose che hai detto or ora significhino molto, al contrario le considero chiacchiere. Ma in fin dei conti sei mio figlio – vieni a casa per tempo ceneremo e dopo puoi esporre la tua cosa. Questo po’ di fiducia mi basta, te ne sono grato di cuore. Non dovrò mica accorgermi di aver preso con te un impegno gravoso? Ora non vedo niente disse il padre ma può essere anche colpa mia perché sono fuori esercizio in particolare nel giudicarti. Intanto secondo la sua abitudine dava meticolosi colpi ritmati sul piano del tavolo come segnasse lo scorrere del tempo. La cosa più importante tuttavia è che non ho più nessuna fiducia in te Oskar. Quando qualche volta ti sgrido – appena sei arrivato del resto ti ho sgridato, no? – non lo faccio nella speranza di migliorarti ma perché penso alla tua povera madre che in questo preciso momento forse non prova alcun dispiacere a causa tua però lentamente va in rovina sforzandosi di prevenirne uno in arrivo perché pensa con questo di aiutarti in qualche modo. Infine sono cose che sai molto bene ed io per quanto mi riguarda non le avrei ricordate se tu non mi ci avessi stuzzicato con le tue promesse. Nel bel mezzo di queste ultime parole entrò la servetta per dare un’occhiata al fuoco nella stufa. Appena ebbe lasciato la stanza Oskar protestò: ma padre! Non me lo sarei aspettato. Se mi fosse venuta diciamo solo una modesta ispirazione per la mia tesi di laurea che sì riposa nel cassetto già da 10 *** anni e manca di mordente è possibile anche se improbabile che io come è successo oggi sarei corso a casa dopo la passeggiata e avrei detto: padre per fortuna mi è venuta questa e quest’altra ispirazione. Se tu poi mi avessi gettato in faccia i tuoi rimproveri con la tua venerabile voce allora la mia ispirazione sarebbe stata semplicemente spazzata via e avrei subito dovuto con o senza qualche scusa mettermi in marcia. Ora al contrario! Tutto quel che dici contro di me è d’aiuto alle mie idee, esse non stanno a sentire, fortificandosi mi riempiono la testa. Andrò  perché soltanto stando da solo posso metterci ordine. Nel calore della stanza lui trasse un respiro. Può darsi anche che tu abbia in testa una sciocchezza disse il padre sgranando gli occhi infatti io credo che sia quel che ti si addice. Se pure qualcosa di buono si è disperso in te ti sfugge via durante la notte. Ti conosco. Oskar storse la testa come se lo tenessero per il collo. Fammi andare ora. Stai tormentandomi troppo. La semplice possibilità che tu sappia prevedere giusto come mi va a finire non dovrebbe davvero indurti ad interrompere la mia buona riflessione. Forse il mio passato te ne dà il motivo ma non dovresti approfittartene. Considera meglio quanto dev’esser grande la tua mancanza di sicurezza se ti costringe a parlare così contro di me. Niente mi costringe disse Oskar e di colpo tese la nuca. Si avvicinò moltissimo al tavolo così che non si seppe più chi dei due ne fosse il padrone. Quel che dicevo lo dicevo con rispetto e perfino con amore per te come del resto vedrai tra poco perché nelle mie decisioni il rispetto per te e mamma ha la parte maggiore. Te ne sono grato già da ora disse il padre perché è molto improbabile che tua madre ed io ne saremo capaci al momento giusto. Per favore però padre lascia che il futuro continui a dormire come merita. Infatti se lo svegliamo in anticipo, poi abbiamo un presente assonnato. Tuo figlio deve per prima cosa dirti questo. Non volevo certamente convincerti subito ma annunciarti solo la novità. E almeno questo mi è riuscito come devi ammettere. Ora Oskar mi stupisci veramente ancora: perché non sei già venuto altre volte da me come oggi con una faccenda così secondo il tuo solito carattere? No davvero si tratta della mia serietà.
Di sicuro invece di ascoltarmi mi avresti interrotto. Sono venuto di corsa lo sa Dio per darti velocemente una gioia. Ma non posso rivelarti niente fino a quando il mio piano non è completo. Perché mi rimproveri in questo modo per una mia buona idea e vuoi avere chiarimenti che però ora potrebbero danneggiare l’attuazione del mio piano?
Taci perché non voglio sapere nulla. Ma devo risponderti subito perché ti avvicini di nuovo alla porta ed è chiaro che hai in testa qualcosa di urgente: hai placato con il tuo gioco di prestigio la mia nascente rabbia solo che ora sono più triste di prima per la mamma e perciò per favore – se insisti posso anche pregarti – almeno non dirle nulla delle tue idee. Mi basta questo.
Non è certo mio padre che parla in questo modo esclamò Oskar che già si era appoggiato con il braccio alla maniglia della porta. Questo pomeriggio ti è successo qualcosa o sei una persona estranea che ora incontro per la prima volta nel soggiorno di mio padre. Il mio padre vero – Oskar tacque un momento tenendo aperta la bocca – avrebbe dovuto abbracciarmi e avrebbe chiamato la madre. Cos’hai padre?
Faresti meglio a cenare con il tuo vero padre secondo me. Sarebbe più allegro.
Verrà subito. In fondo non può restare assente. E dev’esserci la madre. E Franz che adesso vado a chiamare. Tutti. Dopodiché Oskar spinse la porta che pure si muoveva morbida come se avesse intenzione di sfondarla con la spalla.
Arrivato all’abitazione di Franz si chinò sulla padroncina di casa con queste parole: il signor ingegnere so che dorme non importa e senza badare alla signora che scontenta della visita si aggirava a vuoto nell’anticamera aprì la porta a vetri che tremò nelle sue mani come se fosse costretta a un lavoro indelicato e gridò senza garbo in direzione della camera ancora invisibile: Franz alzati. Ho bisogno del tuo consiglio speciale. Però qui no dobbiamo andare un po’ a passeggio devi anche venire a cena da noi. Dunque sbrigati. Molto volentieri ma qui disse l’ingegnere dal suo divano di pelle cos’è mai quest’ alzarsi di colpo cenare andare a passeggio dar consigli? Non avrò capito qualcosa. Soprattutto Franz niente scherzi. E' la cosa più importante. Ti faccio immediatamente il favore. Ma alzati – per te cenerei magari due volte piuttosto che alzarmi una volta sola. Dunque ora su! Niente obbiezioni. Oskar prese il pigrone per la giacca e lo tirò su. Però lo sai che sei brutale. Ci facciano tutti attenzione. Si nettò con i mignoli gli occhi chiusi. Parla. Ti ho già strappato in questo modo una volta dal divano. Ma Franz disse Oskar facendo una smorfia vestiti una buona volta. Mica sono il matto che ti sveglia per un nulla. – E così per un nulla io non ho dormito. Ieri ho avuto il turno di notte, dopodiché finalmente sono venuto a fare il mio sonnellino pomeridiano; è colpa tua – perché? Ma  mi fa arrabbiare sul serio la poca considerazione che hai per me. Non è la prima volta. Certo tu come studente universitario sei più libero e puoi fare quel che vuoi. C’è chi non ha tale fortuna. Ci vuole riguardo porca miseria. Certo sono amico tuo ma per questo non è che son dispensato dal lavoro. – Esponeva la cosa agitando qua e là pigramente le mani. Come faccio a non pensare data la tua presente parlantina che tu abbia dormito più che a sufficienza disse Franz che si era appoggiato a una colonna del letto da dove osservava l’ingegnere come se ora avesse più tempo. Allora che cosa vuoi di preciso da me? O per meglio dire perché mi hai svegliato domandò l’ingegnere e si grattò energicamente la gola sotto la sua barba caprina con quella dimestichezza che si ha con il proprio corpo dopo aver dormito. Che cosa voglio da te disse Oskar piano dando di tacco un colpo al letto. Pochissimo. Te l’ho già detto dall’anticamera. Che ti vesta. Se con ciò Oskar mi vuoi segnalare che m’interessa pochissimo la tua novità hai perfettamente ragione. Va bene così certo così la tortura che i genitori t'infliggeranno sarà tutta colpa loro senza che la nostra amicizia ci vada di mezzo. Anche la spiegazione sarà più chiara è di chiarezza che ho bisogno non dimenticarlo. Se però stai magari cercando colletto e cravatta sono lì sulla poltrona. Grazie disse l’ingegnere e cominciò a mettersi colletto e cravatta su te si può davvero contare.

* Il testo presenta una notevole assenza d'interpunzione. Ciò rende incerto, a momenti, capire chi ha la parola. 
** Le frasi pronunciate dai personaggi mancano tutte di virgolette, tranne questa.
*** “10” nel testo.


giovedì 16 agosto 2012

F.Kafka:Fanciulli sulla strada maestra


Sentivo avanzare lungo la cancellata del giardino i carri, a tratti li vedevo attraverso gli esigui pertugi del fogliame. Come scricchiolava, nel gran caldo dell’estate, il legno dei raggi e dei timoni! Lavoratori venivano dai campi ridendo oltraggiosamente.
Stavo seduto sulla nostra piccola altalena, mi riposavo tra gli alberi nel giardino dei miei genitori.
Davanti alla cancellata continuavano a passare in un baleno fanciulli di corsa; carri di grano, sui covoni uomini e donne, oscuravano tutt'intorno le aiole fiorite; verso sera vedevo un signore con il bastone passeggiare lento e alcune ragazze che a braccetto gli venivano incontro, salutavano e si spostavano sull’erba di lato.
Uccelli spiccavano il volo come guizzando, li seguivo con lo sguardo, vedevo come salivano nel tempo d’un respiro fino a dove non pensavo che arrivassero, mentre credendo di cadere cominciavo a dondolarmi un po' tenendomi saldo alle corde. Prima debolmente, ma presto dondolavo con più energia, l'aria si faceva fresca, e gli uccelli in volo  mi sembravano invece stelle tremanti.
Mi facevano cenare al lume di candela. Spesso tenevo entrambe le braccia appoggiate al piano del tavolo e, già stanco, sbocconcellavo il mio pane imburrato. Spalancate con forza, le cortine si gonfiavano nel vento caldo e, a tratti, qualcuno di passaggio le teneva ferme con le mani da fuori, se desiderava vedermi meglio e parlare con me. Il più delle volte la candela si consumava presto e vagavano ancora per un poco certe  bizzarre combinazioni nel suo fumo oscuro. Dalla finestra qualcuno m’intratteneva, così lo contemplavo come si trovasse sulla montagna o davvero per aria, e nemmeno a lui premeva molto una risposta.
Spuntava quindi qualcuno al davanzale ed annunciava che gli altri si trovavano già davanti alla casa, così mi alzavo, tuttavia sospirando.
No, perché sospiri così? Cos’è successo, in fondo? 
E’ un tipo speciale, lui, mai capace di smetterla con l’infelicità? 
Sapremo mai tirarcene fuori? 
Davvero tutto è perduto?”
Nulla era perduto. Correvamo davanti alla casa. 
“Grazie a Dio, finalmente ci siete!” – “Tu vieni sempre in ritardo!” – “ Io?” – “Sì, proprio tu, resta a casa, se non vuoi venire con noi” – “Siete spietati!” – “Che cosa? Spietati? Ma come parli?”
Non avevamo altro che la sera per la testa. Non il giorno – e neanche la notte. Presto i bottoni dei panciotti di ognuno si strofinavano con quelli degli altri, come fossero denti*, e subito ci trovavamo a correre distanziati, le bocche brucianti, come belve tropicali. Come avessimo la corazza, da guerrieri antichi, scalpitando e a gran salti, ci buttavamo nella breve stradina in discesa e, con tale slancio nelle gambe, di nuovo in salita sulla strada maestra. Alcuni di noi ne fuoruscivano, bastava che sparissero sullo sfondo scuro della scarpata per trasformarsi in estranei, e da lì scrutavano in basso.
“Forza, venite giù!” – “ Venite prima voi quassù!” – “Così poi ci buttate di sotto, non ci pensiamo nemmeno, non siamo mica scemi.” – “ Non ne avete il coraggio, ecco cos’è. Venite, venite e basta!” – “Ma davvero? Voi? Ci farete davvero volar giù? Pensate di esserne capaci?”
Partivamo all’assalto, venivamo spintonati e finivamo nell’erba della discesa cadendovi apposta. Tutta l’erba era uniformemente calda, non ne sentivamo il calore, non ne sentivamo il freddo, eravamo solo stanchi.
Se ci si girava sul fianco destro, si infilava la mano sotto l’orecchio, veniva voglia di addormentarsi sul posto. C’era certo la voglia di balzare su ancora fieramente, ma anche l’altra, di cadere più in basso. Si continuava poi a saltare nell’aria, braccia in avanti, gambe indietro, e di nuovo a cadere ancora più giù E non si voleva smettere.
Non appena però si pensava a come ci saremmo, da ultimo, distesi giù in fondo proprio a dormire in stato d'impotenza**, giacevamo sulla schiena come malati, sul punto di piangere. Si ammiccava se, qualche volta, un giovane, le braccia piegate sui fianchi, spuntava dalla scarpata, con le suole scure, sopra di noi.
Si vedeva già ad una certa altezza la luna alla cui luce avanzava una carrozza postale. Un vento delicato si alzava ovunque, lo si sentiva anche dal basso, e la foresta vicina cominciava a rumoreggiava. Restare lì da soli non piaceva più tanto.
Dove siete?” – “Venite qui!” – “Tutti insieme!” – “Che cosa c’è sotto, basta sciocchezze!” – “ Non lo sapete che c’è già la posta?” – “Ma no! Già ?” – “Certo, è passata mentre dormivi.” –“Ho dormito? Solo un pochino!” – “Taci, che ti teniamo d’occhio.” – “Ma ti prego.”- “Venite!”.
Si correva meno distanziati, alcuni tenendosi per la mano, poiché andavamo in discesa non si poteva tenere la testa abbastanza alta. Qualcuno lanciava un grido di guerra indiano, le gambe si mettevano più che mai al galoppo, i nostri balzi ci facevano vento sui fianchi. Niente avrebbe potuto fermarci; eravamo così in gara che nel sorpassarci incrociavamo le braccia e potevamo guardarci senza fatica.
Arrivati al ponte sul torrente ci fermavamo; quelli che erano corsi avanti tornavano indietro. L’acqua sottostante urtava sulle pietre e le radici, come se non fosse già tarda sera. Non ve n’era ragione, nessuno si sporgeva dal parapetto.
Oltre la boscaglia in lontananza transitava un convoglio ferroviario, tutti gli scompartimenti illuminati, certamente i finestrini aperti. Uno di noi cominciava a cantare una canzonetta alla moda, ma tutti ne avevamo voglia. Cantavamo molto più svelti al passaggio del treno, facevamo oscillare le braccia, perché le voci non bastavano, creavamo un’intensità vocale in cui stavamo bene. Se la nostra voce si confonde con un’altra, è come esser presi all’amo.
Cantavamo dunque da dietro la foresta nelle orecchie dei viaggiatori lontani. Gli adulti nel villaggio erano ancora svegli, le madri preparavano i letti per la notte.
Era già il momento. Baciavo quello che mi era vicino, porgevo soltanto la mano ai tre meno distanti, cominciavo a fare il percorso di ritorno correndo, nessuno mi chiamava. Al primo incrocio, là dove non potevano più vedermi, voltavo e correvo di nuovo sul viottolo verso la foresta. La mia meta era la città a sud, di cui nel nostro villaggio si diceva:
Là sì che c’è gente! Pensate, non dormono!”
E perché non dormono?”
Perché non si stancano.”
E perché non si stancano?”
Perché sono matti”
I matti non si stancano?”
Come potrebbero stancarsi, i matti!”


**Lottando i fanciulli si stringono e sfregano reciprocamente i bottoni dei loro panciotti, come denti (n.d.t).
***Allusione probabile al giacere definitivo dei morti (n.d.t.)