giovedì 16 agosto 2012

F.Kafka:Fanciulli sulla strada maestra


Sentivo avanzare lungo la cancellata del giardino i carri, a tratti li vedevo attraverso gli esigui pertugi del fogliame. Come scricchiolava, nel gran caldo dell’estate, il legno dei raggi e dei timoni! Lavoratori venivano dai campi ridendo oltraggiosamente.
Stavo seduto sulla nostra piccola altalena, mi riposavo tra gli alberi nel giardino dei miei genitori.
Davanti alla cancellata continuavano a passare in un baleno fanciulli di corsa; carri di grano, sui covoni uomini e donne, oscuravano tutt'intorno le aiole fiorite; verso sera vedevo un signore con il bastone passeggiare lento e alcune ragazze che a braccetto gli venivano incontro, salutavano e si spostavano sull’erba di lato.
Uccelli spiccavano il volo come guizzando, li seguivo con lo sguardo, vedevo come salivano nel tempo d’un respiro fino a dove non pensavo che arrivassero, mentre credendo di cadere cominciavo a dondolarmi un po' tenendomi saldo alle corde. Prima debolmente, ma presto dondolavo con più energia, l'aria si faceva fresca, e gli uccelli in volo  mi sembravano invece stelle tremanti.
Mi facevano cenare al lume di candela. Spesso tenevo entrambe le braccia appoggiate al piano del tavolo e, già stanco, sbocconcellavo il mio pane imburrato. Spalancate con forza, le cortine si gonfiavano nel vento caldo e, a tratti, qualcuno di passaggio le teneva ferme con le mani da fuori, se desiderava vedermi meglio e parlare con me. Il più delle volte la candela si consumava presto e vagavano ancora per un poco certe  bizzarre combinazioni nel suo fumo oscuro. Dalla finestra qualcuno m’intratteneva, così lo contemplavo come si trovasse sulla montagna o davvero per aria, e nemmeno a lui premeva molto una risposta.
Spuntava quindi qualcuno al davanzale ed annunciava che gli altri si trovavano già davanti alla casa, così mi alzavo, tuttavia sospirando.
No, perché sospiri così? Cos’è successo, in fondo? 
E’ un tipo speciale, lui, mai capace di smetterla con l’infelicità? 
Sapremo mai tirarcene fuori? 
Davvero tutto è perduto?”
Nulla era perduto. Correvamo davanti alla casa. 
“Grazie a Dio, finalmente ci siete!” – “Tu vieni sempre in ritardo!” – “ Io?” – “Sì, proprio tu, resta a casa, se non vuoi venire con noi” – “Siete spietati!” – “Che cosa? Spietati? Ma come parli?”
Non avevamo altro che la sera per la testa. Non il giorno – e neanche la notte. Presto i bottoni dei panciotti di ognuno si strofinavano con quelli degli altri, come fossero denti*, e subito ci trovavamo a correre distanziati, le bocche brucianti, come belve tropicali. Come avessimo la corazza, da guerrieri antichi, scalpitando e a gran salti, ci buttavamo nella breve stradina in discesa e, con tale slancio nelle gambe, di nuovo in salita sulla strada maestra. Alcuni di noi ne fuoruscivano, bastava che sparissero sullo sfondo scuro della scarpata per trasformarsi in estranei, e da lì scrutavano in basso.
“Forza, venite giù!” – “ Venite prima voi quassù!” – “Così poi ci buttate di sotto, non ci pensiamo nemmeno, non siamo mica scemi.” – “ Non ne avete il coraggio, ecco cos’è. Venite, venite e basta!” – “Ma davvero? Voi? Ci farete davvero volar giù? Pensate di esserne capaci?”
Partivamo all’assalto, venivamo spintonati e finivamo nell’erba della discesa cadendovi apposta. Tutta l’erba era uniformemente calda, non ne sentivamo il calore, non ne sentivamo il freddo, eravamo solo stanchi.
Se ci si girava sul fianco destro, si infilava la mano sotto l’orecchio, veniva voglia di addormentarsi sul posto. C’era certo la voglia di balzare su ancora fieramente, ma anche l’altra, di cadere più in basso. Si continuava poi a saltare nell’aria, braccia in avanti, gambe indietro, e di nuovo a cadere ancora più giù E non si voleva smettere.
Non appena però si pensava a come ci saremmo, da ultimo, distesi giù in fondo proprio a dormire in stato d'impotenza**, giacevamo sulla schiena come malati, sul punto di piangere. Si ammiccava se, qualche volta, un giovane, le braccia piegate sui fianchi, spuntava dalla scarpata, con le suole scure, sopra di noi.
Si vedeva già ad una certa altezza la luna alla cui luce avanzava una carrozza postale. Un vento delicato si alzava ovunque, lo si sentiva anche dal basso, e la foresta vicina cominciava a rumoreggiava. Restare lì da soli non piaceva più tanto.
Dove siete?” – “Venite qui!” – “Tutti insieme!” – “Che cosa c’è sotto, basta sciocchezze!” – “ Non lo sapete che c’è già la posta?” – “Ma no! Già ?” – “Certo, è passata mentre dormivi.” –“Ho dormito? Solo un pochino!” – “Taci, che ti teniamo d’occhio.” – “Ma ti prego.”- “Venite!”.
Si correva meno distanziati, alcuni tenendosi per la mano, poiché andavamo in discesa non si poteva tenere la testa abbastanza alta. Qualcuno lanciava un grido di guerra indiano, le gambe si mettevano più che mai al galoppo, i nostri balzi ci facevano vento sui fianchi. Niente avrebbe potuto fermarci; eravamo così in gara che nel sorpassarci incrociavamo le braccia e potevamo guardarci senza fatica.
Arrivati al ponte sul torrente ci fermavamo; quelli che erano corsi avanti tornavano indietro. L’acqua sottostante urtava sulle pietre e le radici, come se non fosse già tarda sera. Non ve n’era ragione, nessuno si sporgeva dal parapetto.
Oltre la boscaglia in lontananza transitava un convoglio ferroviario, tutti gli scompartimenti illuminati, certamente i finestrini aperti. Uno di noi cominciava a cantare una canzonetta alla moda, ma tutti ne avevamo voglia. Cantavamo molto più svelti al passaggio del treno, facevamo oscillare le braccia, perché le voci non bastavano, creavamo un’intensità vocale in cui stavamo bene. Se la nostra voce si confonde con un’altra, è come esser presi all’amo.
Cantavamo dunque da dietro la foresta nelle orecchie dei viaggiatori lontani. Gli adulti nel villaggio erano ancora svegli, le madri preparavano i letti per la notte.
Era già il momento. Baciavo quello che mi era vicino, porgevo soltanto la mano ai tre meno distanti, cominciavo a fare il percorso di ritorno correndo, nessuno mi chiamava. Al primo incrocio, là dove non potevano più vedermi, voltavo e correvo di nuovo sul viottolo verso la foresta. La mia meta era la città a sud, di cui nel nostro villaggio si diceva:
Là sì che c’è gente! Pensate, non dormono!”
E perché non dormono?”
Perché non si stancano.”
E perché non si stancano?”
Perché sono matti”
I matti non si stancano?”
Come potrebbero stancarsi, i matti!”


**Lottando i fanciulli si stringono e sfregano reciprocamente i bottoni dei loro panciotti, come denti (n.d.t).
***Allusione probabile al giacere definitivo dei morti (n.d.t.)




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