Davanti
alla legge si trova un guardiano. Un campagnolo chiede di essere
ammesso al cospetto della legge, ma il guardiano gli dice che adesso
non può concedergli l’ammissione. Il campagnolo ci pensa, e poi
chiede se, di conseguenza, potrà entrare più tardi. “Forse”, fa
il guardiano,”ma non adesso”. Dato che il portone della legge è
aperto come sempre e il guardiano traccheggia da una parte, il
campagnolo tenta di guardare dentro. Non appena il guardiano se ne
accorge, ride e fa:”Se vuoi, provaci, ad entrare nonostante il mio
divieto; ma attento: io sono un’autorità, pur essendo solo il
guardiano di grado minimo. Da una sala all’altra troveresti
guardiani sempre più influenti. Già la vista del terzo per me è
insostenibile per più di una volta.” Il campagnolo è impreparato
a una simile difficoltà, eppure la legge dovrebbe essere sempre
accessibile a tutti, pensa, tuttavia, non appena guarda bene il
guardiano con quel soprabito di pelliccia, con quel po’po’ di
naso, con quella lunga barba da tartaro, cambia opinione: meglio
aspettare il permesso, per entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello
e lo fa sedere da una parte. Giorni e anni il campagnolo resta lì
seduto, fa molti tentativi di venir ammesso, disturbando con le
sue suppliche il guardiano. Costui quasi sempre gli dà un po’ di
spago, gli chiede del paese e di molte altre cose, ma sono domande
piene d’indifferenza, come le fanno i gran signori, e in conclusione gli ripete che ancora non può farlo entrare. Il campagnolo, che in
vista del suo viaggio si è ben rifornito, impiega tutto quel che ha,
valori inclusi, allo scopo di ungere il guardiano. Costui accetta
tutto, ma ciò nonostante dice: “Accetto soltanto perché tu non
creda di aver trascurato qualcosa.” Il campagnolo lo tiene d’occhio
ininterrottamente per molti anni. Dimentica gli altri guardiani, e
questo primo gli appare come l’unico ostacolo al suo ingresso al
cospetto della legge. Maledice il suo caso infelice, nei primi anni a
voce alta e senza riguardi, più tardi, invecchiando, bofonchia tra
sé e sé. Diventa puerile, e poiché durante l'attenzione dedicata al guardiano, anni e anni, ha individuato anche le pulci della sua pelliccia, prega perfino le pulci di aiutarlo a far cambiare opinione
al guardiano. Da ultimo la vista gli s’indebolisce, e non si rende
conto se è buio o se ad ingannarlo sono i suoi occhi. Ma ora
riconosce bene nell’oscurità un luccichìo ininterrotto che
proviene dalla porta della legge. E’ alla fine. Prima di morire
nella sua testa tutte le esperienze di tutto il tempo trascorso si
aggrumano in una domanda fin qui mai posta al guardiano. Gli fa un
cenno, dato che non riesce più a sollevare il suo corpo irrigidito.
Il guardiano è costretto ad abbassarsi parecchio verso di lui,
infatti la differenza di statura è cambiata molto a sfavore del
campagnolo. “Che cosa vuoi sapere ancora?”, domanda, “sei
insaziabile”. “Tutti anelano alla legge”, dice il campagnolo,
“e allora com’è che in tanti anni nessuno ha chiesto il permesso
di entrare, all’infuori di me?” Il guardiano capisce che il
campagnolo è alla fine, e per toccarne l’udito morente gli grida:
“Qui nessun altro poteva avere il permesso, perché quest’ingresso
era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo.”
martedì 28 agosto 2012
lunedì 27 agosto 2012
F.Kafka: Infelicità dello scapolo
Sembra davvero una brutta cosa restare scapolo, supplicare come un vecchio, a rischio della propria dignità, di essere accolti, quando si vuol
passare una serata con qualcuno, essere ammalati e restare a guardare
da un cantuccio del letto la stanza vuota, accettare sempre di
lasciarsi davanti al portone di casa, non salire le scale accanto alla
propria moglie, avere nella camera soltanto porte che danno in
appartamenti sconosciuti, tornare a casa con la cena in mano, dover
osservare con stupefazione sconosciuti bambini, non poterne più di
ripetere ogni volta “io non ne ho”, esercitarsi ad avere
l’aspetto e il comportamento giusto sulla base dei ricordi
giovanili di un paio di scapoli.
Così
avviene, peccato che in realtà oggi o domani ci si trovi a percuotersi il petto con una mano, e la testa, e poi la fronte.
mercoledì 22 agosto 2012
F.Kafka:Vita in città.
Oskar
M. uno studente fuori corso – a guardarlo da vicino ci si spaventava –
rimase un pomeriggio d’inverno nel pieno d’una nevicata in una
piazza vuota in piedi vestito da inverno la giacca invernale sopra
uno scialle al collo e in testa un berretto di pelliccia *.
Riflettere gli faceva stringere gli occhi. Tanto si era perso nel
pensare che si tolse il berretto e si passò sulla faccia la
pelliccia increspata. Infine parve arrivato ad una conclusione e si girò con un volteggio verso la via di casa. Come aprì la porta del
soggiorno della casa dei suoi genitori vide suo padre un uomo ben
rasato dal volto pesantemente carnoso seduto davanti a un tavolo
vuoto le spalle rivolte alla porta. “Era ora” ** disse il padre
non appena Oskar ebbe messo piede nella stanza fammi il piacere di
restare sulla porta perché ce l'ho talmente con te che non mi
fido di me stesso. Ma padre disse Oskar accorgendosi da come parlava
quanto si era affannato. Silenziò gridò il padre e si alzò con il
che nascose la finestra alla vista. Silenzio ti ordino. E smettila
con i tuoi ma tienilo a mente. Nel dir così afferrò con entrambe le mani
il tavolo e lo spostò di un passo verso Oskar. La tua vita da
scioperato non la sopporto semplicemente più. Sono vecchio. In te
credevo di avere una consolazione per la vecchiaia invece sei per me
peggio di ogni malattia. Vergogna un figlio del genere che a
forza di pigrizia dissipazione malvagità e stupidità porta il suo
vecchio padre nella fossa. A questo punto il padre tacque ma il
viso gli tremava come se parlasse ancora. Caro padre disse Oskar
e cautamente si avvicinò al tavolo, calmati andrà tutto bene. Oggi
m’è venuta un’ispirazione che farà di me un uomo tanto operoso quanto puoi augurarti. Sarebbe? Domandò il padre guardando da una
parte. Fidati di me e basta a cena ti spiegherò tutto. Dentro di me
sono sempre stato un bravo figlio solo che non riuscivo a farlo
vedere mi amareggiavo tanto perché non ero capace di
onorarti invece ti facevo arrabbiare. Ma ora lasciami andare un
po’ a camminare perché si sviluppino con più chiarezza i miei pensieri.
Il padre che facendosi dapprima attento si era seduto al tavolo si
alzò: non credo che le cose che hai detto or ora significhino molto, al
contrario le considero chiacchiere. Ma in fin dei conti sei mio figlio –
vieni a casa per tempo ceneremo e dopo puoi esporre la tua cosa.
Questo po’ di fiducia mi basta, te ne sono grato di cuore. Non dovrò mica accorgermi di aver preso con te un impegno gravoso? Ora non vedo niente disse il padre ma può essere
anche colpa mia perché sono fuori esercizio in particolare nel
giudicarti. Intanto secondo la sua abitudine dava meticolosi colpi ritmati sul piano del tavolo come segnasse lo scorrere
del tempo. La cosa più importante tuttavia è che non ho più
nessuna fiducia in te Oskar. Quando qualche volta ti sgrido – appena sei arrivato del resto ti ho sgridato, no? – non lo faccio nella speranza di migliorarti ma perché penso alla tua povera madre che in questo preciso momento forse non prova alcun dispiacere a causa tua però lentamente va in rovina sforzandosi di prevenirne uno in arrivo perché pensa con questo di aiutarti in qualche modo. Infine
sono cose che sai molto bene ed io per quanto mi
riguarda non le avrei ricordate se tu non mi ci avessi stuzzicato con
le tue promesse. Nel bel mezzo di queste ultime parole entrò la
servetta per dare un’occhiata al fuoco nella stufa. Appena ebbe
lasciato la stanza Oskar protestò: ma padre! Non me lo sarei
aspettato. Se mi fosse venuta diciamo solo una modesta ispirazione per
la mia tesi di laurea che sì riposa nel cassetto già da 10
*** anni e manca di mordente è possibile anche se improbabile che io come è successo oggi sarei corso a casa dopo la passeggiata e
avrei detto: padre per fortuna mi è venuta questa e quest’altra
ispirazione. Se tu poi mi avessi gettato in faccia i tuoi rimproveri
con la tua venerabile voce allora la mia ispirazione sarebbe stata
semplicemente spazzata via e avrei subito dovuto con o senza qualche
scusa mettermi in marcia. Ora al contrario! Tutto quel che
dici contro di me è d’aiuto alle mie idee, esse non stanno a sentire,
fortificandosi mi riempiono la testa. Andrò perché soltanto stando
da solo posso metterci ordine. Nel calore della stanza lui trasse un respiro. Può darsi anche che tu abbia in testa una sciocchezza disse il padre sgranando gli occhi infatti io credo che sia quel che
ti si addice. Se pure qualcosa di buono si è disperso in te ti sfugge via durante la notte. Ti conosco. Oskar storse la testa come se lo
tenessero per il collo. Fammi andare ora. Stai tormentandomi troppo.
La semplice possibilità che tu sappia prevedere giusto come mi va
a finire non dovrebbe davvero indurti ad interrompere la mia
buona riflessione. Forse il mio passato te ne dà il motivo ma non
dovresti approfittartene. Considera meglio quanto dev’esser grande
la tua mancanza di sicurezza se ti costringe a parlare così contro
di me. Niente mi costringe disse Oskar e di colpo tese la
nuca. Si avvicinò moltissimo al tavolo così che non si
seppe più chi dei due ne fosse il padrone. Quel che dicevo lo dicevo
con rispetto e perfino con amore per te come del resto vedrai tra
poco perché nelle mie decisioni il rispetto per te e mamma ha la
parte maggiore. Te ne sono grato già da ora disse il padre perché
è molto improbabile che tua madre ed io ne saremo capaci al momento
giusto. Per favore però padre lascia che il futuro continui a
dormire come merita. Infatti se lo svegliamo in anticipo, poi abbiamo un presente assonnato. Tuo figlio deve per prima cosa
dirti questo. Non volevo certamente convincerti subito ma
annunciarti solo la novità. E almeno questo mi è riuscito come
devi ammettere. Ora Oskar mi stupisci veramente ancora: perché non sei già venuto altre volte da me come
oggi con una faccenda così secondo il tuo solito carattere? No davvero si tratta della mia serietà.
Di
sicuro invece di ascoltarmi mi avresti interrotto. Sono venuto di
corsa lo sa Dio per darti velocemente una gioia. Ma non posso rivelarti
niente fino a quando il mio piano non è completo. Perché mi
rimproveri in questo modo per una mia buona idea e vuoi avere
chiarimenti che però ora potrebbero danneggiare l’attuazione del
mio piano?
Taci
perché non voglio sapere nulla. Ma devo risponderti subito perché
ti avvicini di nuovo alla porta ed è chiaro che hai in testa
qualcosa di urgente: hai placato con il tuo gioco di prestigio la mia
nascente rabbia solo che ora sono più triste di prima per la mamma
e perciò per favore – se insisti posso anche pregarti – almeno
non dirle nulla delle tue idee. Mi basta questo.
Non
è certo mio padre che parla in questo modo esclamò Oskar che già si era appoggiato con il braccio alla maniglia della porta. Questo
pomeriggio ti è successo qualcosa o sei una persona estranea
che ora incontro per la prima volta nel soggiorno di mio padre. Il
mio padre vero – Oskar tacque un momento tenendo aperta la bocca – avrebbe dovuto abbracciarmi e avrebbe chiamato la
madre. Cos’hai padre?
Faresti
meglio a cenare con il tuo vero padre secondo me. Sarebbe più
allegro.
Verrà
subito. In fondo non può restare assente. E dev’esserci la madre.
E Franz che adesso vado a chiamare. Tutti. Dopodiché Oskar spinse la
porta che pure si muoveva morbida come se avesse intenzione di
sfondarla con la spalla.
Arrivato
all’abitazione di Franz si chinò sulla padroncina di casa
con queste parole: il signor ingegnere so che dorme non importa e senza badare alla signora che scontenta della visita si aggirava a vuoto nell’anticamera aprì la porta a vetri che tremò
nelle sue mani come se fosse costretta a un lavoro indelicato e gridò
senza garbo in direzione della camera ancora invisibile: Franz
alzati. Ho bisogno del tuo consiglio speciale. Però qui no dobbiamo andare un po’ a passeggio devi anche venire a cena
da noi. Dunque sbrigati. Molto volentieri ma qui disse l’ingegnere dal suo
divano di pelle cos’è mai quest’ alzarsi di colpo cenare
andare a passeggio dar consigli? Non avrò capito qualcosa.
Soprattutto Franz niente scherzi. E' la cosa più importante. Ti faccio immediatamente il favore. Ma alzati –
per te cenerei magari due volte piuttosto che alzarmi una volta sola.
Dunque ora su! Niente obbiezioni. Oskar prese il pigrone per la
giacca e lo tirò su. Però lo sai che sei brutale. Ci facciano tutti attenzione. Si nettò con i mignoli gli occhi chiusi. Parla. Ti ho già
strappato in questo modo una volta dal divano. Ma Franz disse Oskar
facendo una smorfia vestiti una buona volta. Mica sono il matto che
ti sveglia per un nulla. – E così per un nulla io non ho dormito.
Ieri ho avuto il turno di notte, dopodiché finalmente sono venuto a
fare il mio sonnellino pomeridiano; è colpa tua – perché?
Ma mi fa arrabbiare sul serio la poca considerazione che hai per me.
Non è la prima volta. Certo tu come studente universitario sei più
libero e puoi fare quel che vuoi. C’è chi non ha tale fortuna. Ci
vuole riguardo porca miseria. Certo sono amico tuo ma per questo
non è che son dispensato dal lavoro. – Esponeva la cosa
agitando qua e là pigramente le mani. Come faccio a non pensare data la tua presente parlantina che tu abbia dormito più che a
sufficienza disse Franz che si era appoggiato a una colonna del letto
da dove osservava l’ingegnere come se ora avesse più tempo.
Allora che cosa vuoi di preciso da me? O per meglio dire perché mi
hai svegliato domandò l’ingegnere e si grattò energicamente la
gola sotto la sua barba caprina con quella dimestichezza che si ha con il proprio corpo dopo aver dormito. Che cosa voglio da te disse
Oskar piano dando di tacco un colpo al letto. Pochissimo. Te l’ho
già detto dall’anticamera. Che ti vesta. Se con ciò Oskar mi vuoi
segnalare che m’interessa pochissimo la tua novità hai
perfettamente ragione. Va bene così certo così la tortura che i genitori t'infliggeranno sarà tutta colpa loro senza che la nostra
amicizia ci vada di mezzo. Anche la spiegazione sarà più chiara è di chiarezza che ho bisogno non dimenticarlo. Se però stai magari cercando
colletto e cravatta sono lì sulla poltrona. Grazie disse
l’ingegnere e cominciò a mettersi colletto e cravatta su te si può
davvero contare.
*
Il testo presenta una notevole assenza d'interpunzione. Ciò rende incerto, a momenti, capire chi ha la parola.
**
Le frasi pronunciate dai personaggi mancano tutte di virgolette,
tranne questa.
***
“10” nel testo.
giovedì 16 agosto 2012
F.Kafka:Fanciulli sulla strada maestra
Sentivo
avanzare lungo la cancellata del giardino i carri, a tratti li vedevo
attraverso gli esigui pertugi del fogliame. Come
scricchiolava, nel gran caldo dell’estate, il legno dei raggi e dei
timoni! Lavoratori venivano dai campi ridendo oltraggiosamente.
Stavo
seduto sulla nostra piccola altalena, mi riposavo tra gli alberi nel
giardino dei miei genitori.
Davanti
alla cancellata continuavano a passare in un baleno fanciulli di
corsa; carri di grano, sui covoni uomini e donne, oscuravano tutt'intorno le aiole fiorite; verso sera vedevo un signore con il bastone passeggiare lento e alcune ragazze che a braccetto gli
venivano incontro, salutavano e si spostavano sull’erba di lato.
Uccelli
spiccavano il volo come guizzando, li seguivo con lo sguardo, vedevo
come salivano nel tempo d’un respiro fino a dove non pensavo che
arrivassero, mentre credendo di cadere cominciavo a dondolarmi un
po' tenendomi saldo alle corde. Prima debolmente, ma presto dondolavo
con più energia, l'aria si faceva fresca, e gli uccelli in
volo mi sembravano invece stelle tremanti.
Mi facevano cenare al lume di candela. Spesso tenevo entrambe le
braccia appoggiate al piano del tavolo e, già stanco, sbocconcellavo
il mio pane imburrato. Spalancate con forza, le cortine si gonfiavano
nel vento caldo e, a tratti, qualcuno di passaggio le teneva ferme
con le mani da fuori, se desiderava vedermi meglio e parlare con me.
Il più delle volte la candela si consumava presto e vagavano ancora per un poco certe bizzarre combinazioni nel suo fumo oscuro. Dalla
finestra qualcuno m’intratteneva, così lo contemplavo come si
trovasse sulla montagna o davvero per aria, e nemmeno a lui premeva molto una risposta.
Spuntava
quindi qualcuno al davanzale ed annunciava che gli altri si
trovavano già davanti alla casa, così mi alzavo, tuttavia
sospirando.
“No,
perché sospiri così? Cos’è successo, in fondo?
E’ un tipo
speciale, lui, mai capace di smetterla con l’infelicità?
Sapremo
mai tirarcene fuori?
Davvero tutto è perduto?”
Nulla
era perduto. Correvamo davanti alla casa.
“Grazie a Dio, finalmente
ci siete!” – “Tu vieni sempre in ritardo!” – “ Io?” –
“Sì, proprio tu, resta a casa, se non vuoi venire con noi” –
“Siete spietati!” – “Che cosa? Spietati? Ma come parli?”
Non
avevamo altro che la sera per la testa. Non il giorno – e
neanche la notte. Presto i bottoni dei panciotti di ognuno si strofinavano con quelli degli altri, come fossero denti*, e subito ci trovavamo a correre distanziati, le
bocche brucianti, come belve tropicali. Come avessimo la corazza, da
guerrieri antichi, scalpitando e a gran salti, ci buttavamo nella breve stradina in discesa e, con tale slancio nelle gambe, di
nuovo in salita sulla strada maestra. Alcuni di noi ne fuoruscivano,
bastava che sparissero sullo sfondo scuro della scarpata per
trasformarsi in estranei, e da lì scrutavano in basso.
“Forza, venite
giù!” – “ Venite prima voi quassù!” – “Così poi
ci buttate di sotto, non ci pensiamo nemmeno, non siamo mica scemi.”
– “ Non ne avete il coraggio, ecco cos’è. Venite, venite e
basta!” – “Ma davvero? Voi? Ci farete davvero volar giù?
Pensate di esserne capaci?”
Partivamo all’assalto, venivamo spintonati e finivamo nell’erba della discesa
cadendovi apposta. Tutta l’erba era uniformemente
calda, non ne sentivamo il calore, non ne sentivamo il freddo,
eravamo solo stanchi.
Se
ci si girava sul fianco destro, si infilava la mano sotto l’orecchio,
veniva voglia di addormentarsi sul posto. C’era certo la voglia di
balzare su ancora fieramente, ma anche l’altra, di cadere più in
basso. Si continuava poi a saltare nell’aria, braccia in avanti,
gambe indietro, e di nuovo a cadere ancora più giù E non si voleva
smettere.
Non
appena però si pensava a come ci saremmo, da ultimo, distesi giù in
fondo proprio a dormire in stato d'impotenza**, giacevamo sulla schiena
come malati, sul punto di piangere. Si ammiccava se, qualche volta,
un giovane, le braccia piegate sui fianchi, spuntava dalla scarpata,
con le suole scure, sopra di noi.
Si
vedeva già ad una certa altezza la luna alla cui luce avanzava una
carrozza postale. Un vento delicato si alzava ovunque, lo si sentiva
anche dal basso, e la foresta vicina cominciava a rumoreggiava.
Restare lì da soli non piaceva più tanto.
“Dove
siete?” – “Venite qui!” – “Tutti insieme!” – “Che
cosa c’è sotto, basta sciocchezze!” – “ Non lo sapete che
c’è già la posta?” – “Ma no! Già ?” – “Certo, è
passata mentre dormivi.” –“Ho dormito? Solo un pochino!” –
“Taci, che ti teniamo d’occhio.” – “Ma ti prego.”-
“Venite!”.
Si
correva meno distanziati, alcuni tenendosi per la mano, poiché
andavamo in discesa non si poteva tenere la testa abbastanza alta.
Qualcuno lanciava un grido di guerra indiano, le gambe si mettevano
più che mai al galoppo, i nostri balzi ci facevano vento sui
fianchi. Niente avrebbe potuto fermarci; eravamo così in gara che
nel sorpassarci incrociavamo le braccia e potevamo guardarci senza
fatica.
Arrivati
al ponte sul torrente ci fermavamo; quelli che erano corsi avanti
tornavano indietro. L’acqua sottostante urtava sulle pietre e le
radici, come se non fosse già tarda sera. Non ve n’era ragione, nessuno si sporgeva dal parapetto.
Oltre
la boscaglia in lontananza transitava un convoglio ferroviario, tutti
gli scompartimenti illuminati, certamente i finestrini aperti. Uno di
noi cominciava a cantare una canzonetta alla moda, ma tutti ne
avevamo voglia. Cantavamo molto più svelti al passaggio del treno,
facevamo oscillare le braccia, perché le voci non bastavano,
creavamo un’intensità vocale in cui stavamo bene. Se la nostra
voce si confonde con un’altra, è come esser presi all’amo.
Cantavamo
dunque da dietro la foresta nelle orecchie dei viaggiatori lontani. Gli
adulti nel villaggio erano ancora svegli, le madri preparavano i
letti per la notte.
Era
già il momento. Baciavo quello che mi era vicino, porgevo soltanto
la mano ai tre meno distanti, cominciavo a fare il percorso di
ritorno correndo, nessuno mi chiamava. Al primo incrocio, là dove
non potevano più vedermi, voltavo e correvo di nuovo sul viottolo
verso la foresta. La mia meta era la città a sud, di cui nel nostro
villaggio si diceva:
“Là
sì che c’è gente! Pensate, non dormono!”
“E
perché non dormono?”
“Perché
non si stancano.”
“E
perché non si stancano?”
“Perché
sono matti”
“I
matti non si stancano?”
“Come
potrebbero stancarsi, i matti!”
**Lottando i fanciulli si stringono e sfregano reciprocamente i bottoni dei loro panciotti, come denti (n.d.t).
***Allusione probabile al giacere definitivo dei morti (n.d.t.)
lunedì 13 agosto 2012
F.Kafka:Essere infelici
Una
sera di Novembre - non ce la facevo più e misuravo di furia i passi
sullo stretto tappeto della mia stanza come se fosse una pista, mi
sgomentava la vista della strada illuminata, facevo dietrofront per
trovare del resto un altro limite nel tavolo e nel fondo dello specchio -
solo per sentirlo cacciai un grido cui niente rispose e niente tolse
forza, si alzò dunque libero e non poté cessare neanche
quando si spense; a quel punto si aprì una porta, ma così di colpo,
senza motivo, che anche i cavalli da tiro giù sul
selciato della strada, come fossero imbizzarriti in battaglia,
s’impennarono rovesciando indietro il collo.
Un
fantasma di fanciullo percorse tutto al buio il corridoio dove la
lampada non ardeva ancora e rimase ritto su una striscia d’impiantito
che oscillava impercettibilmente. Come accecato dalla penombra della stanza subito si mise il viso tra le mani, ma si calmò prontamente guardando verso la finestra, davanti al cui
telaio i vapori dell’illuminazione stradale, sospinti in alto, giungevano e sostavano. Restò ritto davanti alla porta con il gomito
destro appoggiato alla parete e si lasciò accarezzare i piedi, il
collo e le tempie dalla corrente d’aria.
Per
un po’ stetti a guardare, poi dissi “buongiorno” e presi la
giacca dal parafuoco, non volevo mica restare così mezzo svestito.
Per bloccarmi l’agitazione rimasi un momento con la bocca
aperta. Aveva un cattivo sapore, la saliva, le ciglia mi tremavano,
per farla breve non mi mancava che questa visita, a dire il vero
aspettata.
Il
fanciullo restava lì vicino alla parete, aveva la mano destra
premuta sul muro e, tutto rosso in viso, non poteva esserne contento, infatti la parete intonacata di bianco era ruvida e gli
pizzicava la punta delle dita. Dissi: “E’ proprio da me che
volete venire? Non è uno sbaglio? Niente di più facile, in una casa
grande come questa. Io mi chiamo Taldetali, abito al terzo piano.
Sono io quello a cui volete far visita?”
“Calma!
Calma!” disse il fanciullo da sopra una spalla, “è tutto a
posto.”
“Allora
entrate, devo chiudere la porta.”
“L’ho appena chiusa io. Non vi affaticate. Soprattutto calmatevi.”
“Non
si tratta di fatica. E’ che in questo corridoio abita una quantità
di gente, tutti com’è naturale sono miei conoscenti; la
maggioranza torna ora dal lavoro; se sentono parlare in una stanza
credono di avere senz’altro il diritto di venire a vedere cosa c’è.
Già una volta è successo. Questa gente ha alle spalle la fatica quotidiana; durante la provvisoria libertà serale, chi mai rispetterebbero? Del resto già lo sapete. Fatemi chiudere
la porta.”
“Che
sarà mai? Che avete? Per me può venire il casamento intero. E poi,
di nuovo, la porta l’ho già chiusa, credete di saperla chiudere
solo voi? Addirittura a chiave, ho chiuso.”
“Allora
va bene. Mi basta. Non avreste dovuto chiudere anche a chiave. E ora
mettetevi comodo, se volete. Siete mio ospite. Fidatevi. Accomodatevi senza paura. Non vi costringerò né a
rimanere né ad andarvene, bisogna che lo dica come premessa? Mi conoscete
così male?”
“No.
Non avreste dovuto dirlo, anzi, certamente non avreste potuto dirlo.
Sono un fanciullo; perché prendersi tanto disturbo con me?”
“Non
fa niente. Certo, un fanciullo. Ma non siete mica tanto piccolo.
Siete già bello grande. Se foste una fanciulla non potreste così
semplicemente chiudervi con me in una stanza.”
“Non
ce ne dobbiamo affatto preoccupare. Volevo soltanto dire: conoscervi così bene mi protegge poco, libera solo voi dalla fatica di farmi credere qualcosa. Però mi fate il cerimonioso.
Smettetela, lo esigo, smettetela. Inoltre non vi distinguo bene, così
in questo buio . Sarebbe meglio se voi faceste luce. No, meglio di
no. Comunque mi ricorderò che mi avete minacciato.”
“Come?
Vi avrei minacciato? Ma vi prego. Io sono davvero felice che alla fine siate qui. Dico ‘alla fine’ perché è già così tardi. Mi resta incomprensibile la ragione per cui siete venuto tanto
tardi. Può darsi che nella gioia io abbia parlato a caso e
che voi abbiate capito lo stesso a caso. Che io vi abbia
parlato in questo modo, lo ripeto dieci volte, è vero, in fin dei
conti vi ho minacciato, come volete. – Niente discussioni, per
l’amor del cielo! – Ma come potete pensarlo? Come potete
offendermi così? Perché volete guastare così questa breve presenza? Un estraneo sarebbe più amabile di voi.”
“Credo
che non siate stato saggio. Io vi sono tanto vicino quanto
un estraneo può permettersi di esserlo, per indole. Lo sapete,
dunque perché prendersela? Ditelo, che volete far la scena, e me ne
vado subito.”
“Dunque!
Anche questo osate dirmi? Siete un po’ troppo temerario. In fondo
vi trovate nella mia stanza. Strofinate come un matto quel dito sulla
mia parete. La mia stanza, la mia parete! Ed oltre a questo c’è
quel che dite, ridicolo, non solo sfrontato. Dite, è la vostra
indole che vi obbliga a parlare con me in quel modo. Sul serio? E' la
vostra indole ad obbligarvi? E’ carino da parte sua. La vostra indole
è la mia, e se mi comporto in modo amichevole per indole, voi non
potete fare che la stessa cosa.”
“Questo
è amichevole?”
“Parlo
di prima.”
“Sapete
come sarò più tardi?”
“Non
so niente.”
E
andai al tavolino da notte dove accesi una candela. Allora nella mia
stanza non avevo né il gas né l’elettricità. Restai al tavolino
ancora un momento, finché non fui stanco anche di questo, mi misi il
soprabito, presi il berretto dal divano e soffiai sulla candela per
spegnerla. Seduto su una sedia dibattei con me stesso se uscire
oppure no.
Per
le scale incappai in un inquilino del mio stesso piano.
“Andate
via di nuovo, vagabondo?” domandò quello fermandosi con le gambe su due diversi gradini.
“Cosa
devo fare?” dissi, “ho avuto ora un fantasma nella mia stanza.”
“Lo
dite scontento come se aveste trovato un capello nella minestra.”
“Voi
scherzate, ma rendetevi conto, un fantasma è un fantasma.”
“Verissimo.
Ma in che modo, visto che ai fantasmi non si crede affatto?”
“Non
penserete che io creda ai fantasmi? Tuttavia, questo non credere a che
cosa mi serve?”
“Semplicissimo.
Non dovete assolutamente avere alcuna paura, se un fantasma davvero
viene da voi.”
“Sì,
ma questa è la paura secondaria. Quella vera è la paura della causa
dell’apparizione. E questa paura rimane. L’ho dentro di me, enorme.” Il nervosismo mi fece rovistare in tutte le mie
tasche.
“Ma
dal momento che non avete alcuna paura dell’apparizione stessa,
avreste potuto interrogarla con calma sulla sua causa!”
E’
evidente che voi ancora non avete mai parlato con i fantasmi. Con
loro non si riesce davvero mai ad avere un’informazione chiara.
Tergiversano. Questi fantasmi sembrano più dubbiosi di quanto lo
siamo noi sulla loro esistenza, ciò che non è affatto stupefacente,
data la loro nullità.”
“Però
ho sentito che si può allevarli.”
“Siete
ben informato. Si può. Ma chi lo farà?”
“Perché
no? Se per esempio è un fantasma di donna”, disse, e balzò sullo
scalino superiore.
“Eh
sì!” dissi “ma lui non è mica adatto.”
Mi
ricordai. Il mio conoscente era già salito tanto che doveva
sporgersi da un angolo delle scale per vedermi. “Comunque”,
gridai, “se lassù vi prendete il mio fantasma tra noi è finita
per sempre.”
“Ma
era solo uno scherzo”, disse, e tirò indietro la testa.
“Allora
va bene”, dissi, e ora sarei potuto andare a passeggio davvero
tranquillo. Invece, poiché mi sentivo completamente perso,
andai su e mi distesi a dormire.
mercoledì 8 agosto 2012
F.Kafka: Meditazione sui signori cavalieri
A pensarci,
nella volontà di primeggiare in una gara nulla è allettante. La
gloria di essere riconosciuto come il miglior cavaliere della regione
rallegra troppo, quando l’orchestra attacca, perché il giorno dopo
si riesca ad evitare il rimorso.
L’invidia
degli avversari, scaltri, gente importante, non può non dispiacere,
ora, nello stretto passaggio tra due ali di folla in cui si cavalca
dopo il pendio, che invece era vuoto fino al punto dove qualche
avversario doppiato cavalcava minuscolo contro la linea
dell’orizzonte.
Molti
nostri amici intanto s’affrettano a incassare la loro vincita e,
con aria d’indubitabile superiorità, urlano, dallo sportello
laggiù, il loro hurrà al nostro indirizzo; i migliori amici, di
nuovo, non hanno assolutamente puntato sul nostro cavallo, perché
temevano che finisse perdente, forse ce l’hanno con noi, ma ora che
il nostro è arrivato primo e loro non hanno vinto nulla, si voltano
dall’altra parte, se noi ci facciamo avanti e guardiamo soddisfatti
verso la tribuna.
I
concorrenti sconfitti, saldi in sella, cercano di valutare la
sfortuna che li ha colpiti e l’ingiustizia che in qualche modo gli
è stata fatta; prendono un’aria gagliarda, come se dovessero
cominciare una nuova corsa seria, dopo la prima, quella dei bambini.
A
molte signore il vincitore appare ridicolo, perché mena vanto,
eppure non sa come contenersi con le infinite strette di mano,
saluti, inchini, richiami da lontano, mentre gli sconfitti tengono la
bocca chiusa e danno colpetti sul collo dei loro cavalli che, quasi
tutti, nitriscono.
Infine,
dal cielo diventato fosco, comincia anche a piovere.
martedì 7 agosto 2012
F.Kafka:Il rifiuto
Se
incontro una bella ragazza e le chiedo di essere tanto gentile da
venir con me, lei se ne va senza una parola, pensando: “Non sei
mica un famoso duca, né un grosso americano, un indiano dallo
sguardo fermo e ardito, dalla pelle lavorata dall’aria delle
praterie e dei fiumi che le solcano; non ti sei mai spinto fino ai
Grandi Laghi e neppure fino ai laghi che non sappiamo dove si
trovino; perché una bella ragazza come me dovrebbe venir con te?”
“E
tu trascuri il fatto che nessun’auto lunga e molleggiata ti
scarrozza, né vedo una coda di signori eleganti riverirti
tutt’intorno; sì, hai il seno ben modellato nel busto, ma i
fianchi e le gambe si prendono la rivincita; indossi un abito di
taffetà plissettato come piaceva a tutti noi, lo scorso autunno, ciò
nonostante ti permetti di sorridere ancora. A tuo rischio.”
“Hai
le tue ragioni, ma ne ho anch’io, e al fine che ciò non ci si
riveli inconfutabilmente è meglio che andiamo tutti e due a casa da
soli, no?”
lunedì 6 agosto 2012
F.Kafka: Ritorno a casa
Sono tornato a casa, ho attraversato il vecchio cortile della fattoria di mio padre. Nel mezzo il pantano. Un intrigo di vecchi inutili attrezzi ostacola l’accesso ai piedi della scala. La gatta fa la posta sul muro. Un drappo che ha visto giorni migliori, attorcigliato al palo, si rianima nel vento. Sono arrivato. Chi mi accoglierà? Chi aspetta dietro la porta della cucina? Sale fumo dal comignolo, si prepara il caffè per la cena. Ti pare accogliente, ciò, ti senti a casa? Non so, sono molto incerto. E’ la casa di mio padre, ma i suoi pezzi restano freddi uno accanto all’altro, come se ognuno fosse occupato in una sua faccenda che io non ho dimenticato e non potevo dimenticare. In che cosa poteva loro servire, che cosa è per loro, e per suo padre, il figlio del vecchio contadino? Non oso bussare alla porta della cucina, ascolto a distanza, solo a distanza, per non esser scoperto come uno che origlia. E poiché ascolto a distanza, non capisco niente, sento unicamente un leggero battere dell’ora, se non, invece, mi limito a pensare di udirlo a rimorchio dei tempi dell’infanzia. Quel che invece accade nella cucina è il mistero, protetto contro di me, di chi siede lì dentro.
Quanto più a lungo s’indugia davanti alla porta, tanto più si diventa sconosciuti. Come sarebbe, se ora qualcuno aprisse la porta e mi domandasse qualcosa? Allora io stesso non sarei come chi vuole custodire il suo segreto?
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