venerdì 27 febbraio 2015
Condanna paterna
Nel post precedente si pubblica la traduzione di un racconto del primo Kafka. Merita chiarire che l'autore mette il lettore in grado di confrontare i due diversi punti di vista del figlio e del padre sulla stessa materia. Il padre sembra passabilmente rimbambito, sì, il figlio d'altra parte appare alquanto capace di raccontarsi delle frottole e di crederci. Quanto al suicidio finale, esso risponde più allo sgomento della scoperta, da parte del figlio, di essere un ipocrita, che non all'assurda condanna pronunciata dal padre - a "morire annegato". Retorica presa alla lettera. K non è, qui, "vittimologicamente" schierato dalla parte del figlio. Il motivo è semplice: K non era un cretino.
F.Kafka: La sentenza. Una storia.
Per F.
Avvenne una domenica mattina di
primavera, magnifica. Georg Bendemann, giovane commerciante, sedeva
in camera sua al primo piano di uno dei casamenti senza pretese che
si estendono lungo il fiume, diversi tra loro quasi solo in fatto di
colore ed altezza. Era al termine di una lettera ad un amico che si
trovava all'estero, la concluse con lentezza compiaciuta e poi
guardò, appoggiati i gomiti sulla scrivania, il fiume fuori dalla
finestra, i ponti e le alture oltre l'altra riva, con il loro
delicato verde.
Meditava sul modo come questo amico,
scontento della sua carriera in patria, da anni era per davvero
scappato in Russia. Ora aveva un'occupazione a Pietroburgo che era
iniziata molto bene, ma da tempo pareva già ristagnare, come l'amico
lamentava nelle sue sempre più rare visite. Così all'estero lui si
arrabattava a vuoto, l'esotica barba riusciva maluccio a nascondere
il ben noto viso degli anni giovanili, di cui il colorito giallastro
sembrava indicare lo sviluppo d'una malattia. Come andava
raccontando, lui non aveva nessuna relazione vera e propria con la
locale colonia dei connazionali, neanche quasi alcun rapporto sociale
con famiglie del posto, e si preparava a ritrovarsi definitivamente
scapolo.
Che cosa scrivere ad un uomo simile,
tanto evidentemente fissato di essere uno da compatire, non da
aiutare? Gli si poteva forse consigliare di far ritorno in patria, di
ritrasferirci la sua vita, di riprendere tutte le vecchie relazioni
amichevoli – al che nulla era certo d'ostacolo – e di confidare
per il resto nell'aiuto dell'amico? Questo però significava solo
dirgli nello stesso tempo, quanto più riguardosamente tanto più
offensivamente, che i tentativi fatti da lui finora erano falliti,
che doveva decidersi ad abbandonarli, che avrebbe dovuto ritornare e
farsi guardare da tutti chiaramente come un definitivo sconfitto, che
solo gli amici capivano qualcosa e che lui era un ex ragazzo cui
restava solo da imitare gli amici di successo rimasti a casa. E poi,
era certo che tutta la pena che gli si sarebbe dovuta cagionare
avesse uno scopo? Forse non si riusciva neanche a farlo ritornare –
anzi, proprio lui diceva di non raccapezzarcisi più, delle relazioni
in patria - , e così nonostante tutto se ne rimaneva lontano,
amareggiato dai consigli ed ancor più distante dagli amici. Se di
fatto avesse seguito il consiglio e poi qui si fosse scoraggiato –
non apposta, è naturale, oggettivamente -, se non se la fosse cavata
né con gli amici né senza di loro, se si fosse vergognato, allora
sul serio non avrebbe più avuto né patria né amici; non era molto
meglio per lui rimanere all'estero come ci si trovava? Date le
circostanze, infatti, si poteva pensare che in patria avrebbe davvero
fatto progressi?
Per questi motivi, se pur si aveva
intenzione di mantenere relazioni epistolari sincere, non si poteva
comunicargli alcunché di particolare, come si sarebbe fatto senza
timore anche con i più lontani conoscenti. Già da più di tre anni
l'amico non era stato in patria, questo si spiegava più o meno con
l'incertezza della situazione politica in Russia, che non consentiva
l'assenza più breve neppure ad un modesto uomo d'affari, mentre
invece centomila russi se ne andavano tranquilli per il mondo. Ma
proprio nel corso di quei tre anni molto era cambiato per Georg. Dopo
il decesso di sua madre, avvenuto da circa due anni, lui viveva con
l'anziano suo padre condividendo le spese di casa, del resto l'amico
era venuto a saperlo ed aveva espresso le sue condoglianze con una
lettera la cui stringatezza poteva essere spiegata solo con
l'argomento che il dolore per un evento simile da lontano si rende
del tutto inconcepibile. Ma da allora Georg aveva anche preso in mano
con maggior decisione il suo lavoro e tutto il resto. Vivente la
madre, il padre, che sul lavoro voleva far valere soltanto il proprio
punto di vista, forse gli aveva impedito di agire in modo veramente
suo. E forse, morta la madre, per quanto si occupasse pur sempre
dell'ufficio, il padre era divenuto più guardingo, se non giocava un
ruolo più importante la buona sorte - molto verosimilmente, del
resto -, comunque fosse, però, il lavoro in quei due anni si era
sviluppato in modo totalmente inaspettato. Si era dovuto raddoppiare
il personale, quintuplicato il giro d'affari, si prospettava senza
dubbio un ulteriore progresso.
L'amico tuttavia di tal cambiamento non
sapeva niente. Prima, forse l'ultima volta in quella lettera di
condoglianze, aveva voluto convincere Georg a fare un viaggio in
Russia e si era dilungato sulle prospettive che proprio per il genere
di attività di Georg c'erano a Pietroburgo. Quantitativamente
minime, in confronto all'estensione assunta ora dagli affari di
Georg. Che però non aveva avuto alcuna voglia di scrivere all'amico
dei suoi successi commerciali, ed ora, a scoppio ritardato, la cosa
sarebbe apparsa davvero strana.
Ecco quindi che Georg si era limitato a
scrivergli cose insignificanti come quelle che si affastellano
disordinatamente nella memoria quando ci si pensa nella tranquillità
d'una domenica. Non desiderava nient'altro che lasciare intatta
l'immagine che l'amico si era probabilmente fatta della città natale
nei lunghi intervalli di tempo tra le sue visite, e che a lui
bastava. Perciò era successo che Georg ripetesse in tre lettere
piuttosto distanti tra loro la nuova del fidanzamento d'un tale con
la tal signorina, al punto che l'amico poi aveva cominciato ad
interessarsi di questa cosa curiosa, del tutto in contrasto con le
previsioni di Georg.
Il quale però scriveva di cose come
queste assai più che non di quelle che avrebbe dovuto scrivere, che
anch'egli da un mese si era fidanzato con la signorina Frieda
Brandenfeld, una fanciulla di buona famiglia. Con lei aveva parlato
spesso di quell'amico e della particolare relazione epistolare che
aveva con lui. “In questo modo non verrà alle nostre nozze”,
aveva detto lei, “ed invece io ho il diritto di fare la conoscenza
di tutti i tuoi amici.” “Non voglio disturbarlo”, aveva riposto
lui. “Fa' attenzione, probabilmente verrebbe, almeno credo, ma si
sentirebbe forzato e leso, magari mi invidierebbe e di certo
ripartirebbe in solitudine scontento e del tutto incapace di
eliminare tale scontentezza. In solitudine – hai presente la
solitudine?” “Certo, ma non può venir a sapere anche in un altro
modo che ci sposiamo?” “Non c'è dubbio, non posso impedirlo, ma
visto come vive, la cosa è improbabile.” “Con amici del genere
non avresti dovuto nemmeno fidanzarti, Georg.” “La colpa è di
tutti e due, certo; ma a me ora va proprio bene così.” E quando,
ansimando sotto i suoi baci, lei aveva continuava però a manifestare
la sua afflizione, “però a me dà noia lo stesso”, lui aveva
rivalutato l'importanza di scriver tutto all'amico. “Così sono io,
così mi deve accettare lui”, si era detto, “non posso estirpare
da me un uomo che, forse, sarebbe più adatto all'amicizia con lui di
quanto lo sia io.”
Ed in effetti nella lunga lettera di
quella domenica mattina riferiva del fidanzamento avvenuto con le
seguenti parole: “Ho serbato per ultima la miglior nuova. Mi sono
fidanzato con una certa signorina Frieda Brandelfeld, una fanciulla
di buona famiglia che si è stabilita qui molto tempo dopo la tua
partenza e che quindi hai potuto conoscere appena. Ci sarà ancora
occasione di darti maggiori dettagli sulla mia fidanzata, oggi ti
basti sapere che sono veramente felice e che nella relazione tra noi
è cambiato qualcosa soltanto perché tu ora in me avrai, oltre che
un normalissimo amico, un amico felice. Inoltre con lei, che ti
saluta di cuore e che prestissimo ti scriverà, ti trovi ad avere
un'amica sincera, ciò che per uno scapolo non è proprio
insignificante. Lo so, sono tante le cose che t'impediscono di farci
una visita. Ma non sarebbero le mie nozze proprio l'occasione buona
per abbattere una buona volta tutti gli ostacoli? Sia come sia, fa'
come sinceramente ti senti e senza alcuno scrupolo.”
Con la lettera in mano Georg rimase a
lungo seduto alla scrivania guardando verso la finestra. Ad un
conoscente, che l'aveva salutato dalla via avvicinandosi, lui aveva
risposto appena con un sorriso distratto.
Infine cacciò la lettera in tasca e da
camera sua, attraverso un corridoietto, uscì in direzione della
camera del padre, dove non era stato da mesi. Non che fosse
minimamente costretto a farlo, perché in ufficio erano sempre in
contatto. A mezzodì pranzavano insieme in un ristorante, la sera
ognuno faceva a modo suo, ma dopo sedevano ancora un po' in
soggiorno, il più delle volte ognuno con il suo giornale, quando
Georg, come succedeva assai di frequente, non si trovava con amici o,
come ora, non andava a trovare la fidanzata.
Di come fosse buia la camera del padre,
pure in quella mattinata di sole, Georg fu sorpreso. A gettare una
tale ombra era l'alto muro che si ergeva dall'altra parte dello
stretto cortile. Il padre sedeva accanto alla finestra in un angolo
addobbato di numerosi ricordi della povera mamma, leggendo il
giornale che teneva davanti agli occhi voltato in modo da compensare
una certa sua quale debolezza visiva. Sul tavolo c'erano gli avanzi
della colazione, di cui sembrava che fosse stato consumato poco.
“Oh, Georg!”, disse il padre
andandogli incontro. La pesante vestaglia gli si aprì, nel
camminare, e le estremità gli ondeggiarono intorno - “mio padre è
sempre un colosso”, considerò Georg.
“E' insopportabile il buio, qui”,
disse quindi.
“E' già buio, davvero”, rispose il
padre.
“Anche la finestra hai chiuso?”
“Mi piace di più così.”
“Ma fa così caldo, fuori”, disse
Georg come in preda alla domanda da lui fatta pocanzi, e si mise
seduto.
Il padre sbarazzò le stoviglie della
colazione e le mise su un cassettone.
“Veramente volevo dirti solo”,
seguitò Georg seguendo tutto assorto i movimenti del padre, “che
ho appena annunciato il mio fidanzamento a Pietroburgo.” Fece
spuntare dalla tasca la lettera e di nuovo la lasciò ricadere.
“A Pietroburgo?”, domandò il
padre.
“Sì, al mio amico”, disse Georg
cercando gli occhi del padre - “in ufficio è tutta un'altra
persona”, pensò, “ rispetto a come siede qui spaparanzato a
braccia conserte.”
“Certo. Al tuo amico”, disse il
padre enfaticamente.
“Babbo, lo sai che dapprima glielo
volevo tacere, il mio fidanzamento. Per riguardo, mica per altro. Lo
sai anche tu, è una persona difficile. Può ben venire a saperlo per
altre vie, mi dissi, anche se per come vive non è mica probabile –
non posso nascondere questo – ma da me no.”
“E ora hai ricambiato idea?”,
domandò il padre, mise l'ampio giornale sul bordo della finestra,
sul giornale gli occhiali, e sugli occhiali una mano.
“Sì, ho ricambiato idea. Mi sono
detto, se è mio buon amico allora il mio felice fidanzamento è una
felicità anche per lui. Perciò non ho più aspettato ad
annunciarglielo. Prima d'imbucare però volevo dirtelo.”
“Georg”, disse il padre allargando
la bocca sdentata, “ascoltami una buona volta! Sei venuto da me a
consigliarti per questa faccenda. Ti fa onore, non c'è dubbio. Ma è
niente, meno che niente, se ora non mi dici la verità. Non voglio
rivangare cose che con queste non c'entrano. Dalla morte della nostra
cara mamma son capitate cose non belle. Forse viene anche il loro
momento, e prima di quanto pensiamo noi. In ufficio molto mi sfugge,
forse mi viene celato – ora non intendo congetturare che mi venga
proprio celato -, io non sono più forte abbastanza, la mia memoria
scema. Lo sguardo su tutto non ce l'ho più. E' normale che sia così,
per prima cosa, e per seconda
la morte della nostra mammina ha
colpito assai di più me che non te. - Ma già che ci siamo, su
questa faccenda, su questa lettera, ti prego Georg, non m'ingannare.
E' una sciocchezzuola, una cosa da nulla, e dunque non m'ingannare.
Quest'amico a Pietroburgo, è vero che lo hai?”
Georg si alzò imbarazzato. “Lasciamo
perdere i miei amici. Mille amici non mi compensano mio padre. Sai
che cosa credo? Che non ti riguardi abbastanza. Invece l''età ha i
suoi diritti. Tu mi sei indispensabile in ufficio, lo sai bene; ma se
il lavoro dovesse nuocere alla tua salute, io gli porrei fine per
sempre già da domani. Non va bene. Dobbiamo iniziare un nuovo modo
di vivere, per te. Ma completamente nuovo. Ti siedi qui al buio
quando in soggiorno avresti luce ottima. Mangiucchi la colazione
invece di irrobustirti come si deve. Stai seduto vicino alla finestra
chiusa, e l'aria ti farebbe tanto bene. No, babbo! Andrò a chiamare
il medico e seguiremo le sue prescrizioni. Cambieremo di camera, tu
in quella che dà sulla strada, io in questa. Per te nessun
cambiamento, ogni cosa verrà scambiata. Tutto a suo tempo, però,
ora mettiti ancora un po' a letto, necessiti di assoluto riposo.
Vieni, ti aiuto a spogliarti, vedrai, ci riuscirò. Oppure vuoi
andare subito nella stanza sul davanti e metterti intanto nel mio
letto? Che sarebbe del resto molto ragionevole.
Georg si trovava vicinissimo al padre,
che aveva lasciato cadere sul petto la testa dai bianchi capelli
arruffati.
“Georg”, disse senza muoversi.
Senza indugio Georg s'inginocchiò
accanto al padre, vide nel suo viso stanco le pupille puntate su di
sé dall'angolo degli occhi.
“Tu non hai nessun amico a
Pietroburgo. Sei sempre stato un buffone e non l'hai celato neanche a
me. Come potresti averci un amico, lì! Proprio non riesco a
crederci.”
“Pensaci bene, babbo”, disse Georg,
lo sollevò dalla sedia e, quando fu in piedi malfermo, gli tolse la
vestaglia, “tra poco saranno tre anni da quando appunto lui venne a
trovarci. Ancora mi ricordo che non ti piacque particolarmente.
Almeno due volte te l'ho celato, eppure si trovava proprio in camera
mia. Riuscivo bene a capire la tua antipatia per lui, che ha i suoi
lati strani. Poi però di nuovo ti sei comportato molto bene con lui.
Ero tanto fiero che tu allora stessi ad ascoltarlo, che annuissi e
gli ponessi delle domande. Se ci rifletti, te ne ricordi per forza.
Raccontò storie incredibili sulla rivoluzione russa. Come per
esempio, in viaggio d'affari a Kiev, avesse visto durante un tumulto
un prete, su un balcone, incidersi sul palmo della mano una vistosa
croce di sangue, alzar la mano e gridare alla folla. Anzi, questa
storia a volte l'hai raccontata anche tu.”
Intanto era riuscito a rimettere seduto
piano piano il padre ed a togliergli i pantaloni di maglia che
portava sulle mutande di lana, e le calze. Vedendo che la biancheria
non era troppo pulita, si rimproverò di aver trascurato il padre.
Sarebbe stato dovere suo anche curarsi del cambio di biancheria.
Ancora non aveva parlato con la fidanzata apertamente di come
organizzare il futuro del padre, ma senza dirlo avevano stabilito che
lui sarebbe restato da solo nel vecchio appartamento. Ora invece si
decise rapido e risoluto a prenderlo con sé nella futura casa. Gli
parve quasi, anzi, a ben guardare, che assisterlo lì potesse essere
cosa tardiva.
A braccia trascinò il padre a letto.
Orribile fu la sua sensazione quando notò che il padre, durante i
pochi passi verso il letto, giocherellava sul suo petto con la catena
del suo orologio. Non riuscì subito a farlo sdraiare, così il padre
si tenne stretto a quella catena.
Appena fu a letto, però, tutto sembrò
a posto. Si coprì e si tirò la coperta sulle spalle. Senza
antipatia guardò verso Georg.
“Non è vero che te ne sei ricordato,
di lui?”, domandò Georg annuendo incoraggiante.
“Sono coperto bene, ora?”, domandò
il padre, come se non riuscisse a vedere se aveva i piedi abbastanza
coperti.
“Allora, sei contento di essere già
a letto?”, disse Georg sistemandogli meglio le coperte.
“Sono ben coperto?”, domandò
un'altra volta il padre sembrando far molta attenzione alla risposta.
“Sta' tranquillo, sei coperto bene.”
“No!”, urlò il padre, scontrandosi
la sua risposta con la domanda del figlio, e respinse la coperta con
tanta forza che quella, per un attimo, si dispiegò tutta quanta in
volo. Si drizzò sul letto. Solo, teneva leggera una mano sulla
tovaglia del tavolino da notte. “Volevi coprirmi, mio bel tomo, ma
ancora non sono coperto. Foss'anche l'ultimo, è uno sforzo
sufficiente per te, anche troppo! Lo conosco bene, io, il tuo amico.
Sarebbe un figlio di mio gusto. L' hai imbrogliato per anni interi, e
poi perché? Credi che non ci abbia pianto, io? Ti ci chiudi nel tuo
ufficio, nessuno ha da disturbarti, il principale è occupato –
solo per scrivere le tue letterine false in Russia. Fortuna però che
nessuno deve insegnare al padre a indovinare le intenzioni del
figlio. Quando hai creduto che l'avresti sopraffatto, sopraffatto al
punto da poterti piazzare con il tuo didietro su di lui, e lui fermo,
ecco che il mio signor figlio si è deciso alle nozze!”
Georg alzò lo sguardo verso quello
spauracchio che era suo padre. L'amico di Pietroburgo, che di colpo
il padre conosceva tanto bene, lo commosse come mai prima. Lo vide
perso nella grande Russia. Lo vide alla porta dell'ufficio
saccheggiato, vuoto. Tra i rottami della scaffalatura, tra le merci
fatte a brani, i bracci dell'illuminazione a gas cadenti, ecco
dov'era. Perché aveva dovuto andarsene così lontano?
“Ma guardami!”, gridò il padre, e
Georg quasi annientato corse verso il letto per capire bene, ma si
bloccò a metà strada.
“Perché si è tirata su le sottane”,
cominciò con voce flautata il padre, “perché se l'è tirate su
così, l'oca schifosa”, ed illustrò quelle parole alzandosi la
camicia così in alto che si vide la cicatrice del tempo di guerra,
sulla coscia, “perché s'è tirata su le sottane così, così e
così, allora ti sei fatto sotto e per levarti la voglia con lei
senza esser disturbato hai sporcato il ricordo della nostra mamma,
tradito l'amico e ficcato a letto tuo padre perché non si possa
muovere. Ma non si può muovere davvero?”
Si liberò del tutto e sfoggiò le
gambe. Le sue intuizioni lo rendevano raggiante.
Georg stava in un angolo alla massima
distanza possibile da lui. Aveva già da molto deciso fermamente di
stare a guardare con assoluta precisione, per evitare d'esser preso
di sorpresa in qualche modo con strane manovre alle spalle, o
dall'alto in basso. Ora se ne ricordò, della decisione dimenticata
da lungo tempo, e la scordò, come si tira un filo corto attraverso
la cruna di un ago.
“L'amico però ora non è tradito”,
gridò il padre, sottolineando le parole con l'oscillare a destra e a
sinistra del dito indice. “C'ero io, qui, a fargli da difensore.”
“Commediante!”, Georg non poté
trattenersi dal gridare riconoscendo subito l'errore e mordendosi, ma
troppo tardi – sbarrò gli occhi – la lingua al punto di piegarsi
dal dolore.
“Certo, si capisce, ho fatto la
commedia! Commedia! Che bella parola! Che altra consolazione resta al
vecchio padre vedovo? Dillo – e quando rispondi sii ancora il mio
amato figlio – cosa mi resta, nella mia stanza sul retro,
perseguitato da dipendenti infidi, vecchio fino al midollo? E mio
figlio andava a far baldoria in giro, concludeva affari intrapresi da
me, faceva capriole di piacere e davanti a suo padre transitava con
la faccia abbottonata da uomo serio! Credi che non ti volessi bene,
io, quello da cui tu sei nato?”
“Ora si sporgerà in fuori”, pensò
Georg, “almeno cadesse e si stroncasse!”. Gli sibilarono in testa
queste parole.
Il padre si sporse, ma non cadde. Non
avvicinandosi Georg come lui si era aspettato, si sollevò di nuovo.
“Resta dove sei, non mi servi! Hai
anche il coraggio di pensare di venir qui e di risparmiarti come ti
pare. Attento a non sbagliarti! Sono ancor sempre io quello molto più
forte. Da solo forse avrei dovuto farmi indietro, ma la mamma mi ha
lasciato la sua forza, con il tuo amico mi ci sono splendidamente
associato, il giro dei tuoi clienti ce l'ho qui in tasca!”
“Ci ha le tasche anche in camicia da
notte!”, si disse Georg, e con tale osservazione credette che
avrebbe potuto comprometterlo davanti a tutti. Solo per un attimo, lo
pensò, poi continuò a dimenticarsi di ogni cosa.
“Provati a presentarti qui con la tua
fidanzata a braccetto e te la levo di mezzo tu non sai come!”
Georg fece una smorfia d'incredulità.
Il padre si limitò a fargli cenno di sì a mo' di asserzione della
verità di quel che aveva detto.
“Come sei stato divertente oggi,
però, quando sei venuto a chiedermi se avresti dovuto scrivere del
fidanzamento al tuo amico. Lui sa tutto, scemo di un ragazzo, sa
tutto! Gli ho scritto perché ti sei dimenticato di levarmi il
necessario per scrivere. Ecco perché da anni non viene, perché sa
tutto cento volte meglio di te. Con la mano sinistra appallottola le
tue lettere senza leggerle, con la destra tiene le mie per leggerle!”
Ispirato, agitò un braccio in alto.
“Mille volte meglio!”
“Diecimila!”, disse Georg per
deriderlo, ma la parola gli fece nella bocca un effetto assai serio.
“Anni, che sto in attesa che tu
venissi a chiedermelo! Credi che m'importi di altro? Credi che legga
i giornali? Ecco!”, e tirò a Georg un foglio di giornale che
chissà come era finito nel letto. Un vecchio numero già del tutto
privo, per Georg, di significato.
“Prima di arrivare a deciderti,
quanto ci hai messo! Doveva morire la mamma, senza poter partecipare
al tal gioia, l'amico va in malora in quella sua Russia, già tre
anni fa era giallo da buttar via, e io, lo vedi bene come sto. Gli
occhi ce li hai!”
“Dunque tu mi hai fatto la posta!”,
gridò Georg.
Compassionevole, il padre aggiunse:
“Probabilmente volevi dirlo prima. Ora non serve più.”
Ed a voce più alta:”Ora dunque lo
sai, quello che accade al di fuori di te, fin qui eri a conoscenza
solo del tuo punto di vista! Eri proprio un ragazzo innocente, ma
ancor più, davvero, eri un uomo diabolico! - Perciò sappilo: ora ti
condanno a morire affogato!”
Georg si sentì cacciato via dalla
stanza, la botta che dette il padre cadendo dal letto alle sue spalle
gli restò nelle orecchie. Per le scale, sui cui gradini si affrettò
come fossero un piano inclinato, sorprese la servetta che, trascorsa
la notte, stava per salire a rimettere in ordine l'appartamento.
“Gesù!”, gridò lei coprendosi il volto con il grembiule, ma lui
era già oltre. Balzò fuori dal portone, spinto sulla strada in
direzione dell'acqua. Già stringeva il parapetto come un affamato
stringe il cibo. Prese lo slancio come il segnalato ginnasta che da
ragazzo era stato per l'orgoglio dei genitori. Con le mani che
perdevano di presa continuò a tenersi al parapetto tra le cui sbarre
notò un omnibus che facilmente avrebbe coperto il rumore della sua
caduta, e gridò appena: “Cari genitori, eppure vi ho sempre
amati”, e si lasciò cadere.
In quel momento sul ponte c'era un
traffico davvero senza fine.
giovedì 19 febbraio 2015
F.Kafka: Rapporto per un'Accademia.
Illustri Signori dell'Accademia!
Loro mi fanno l'onore di invitarmi a
presentare all'Accademia un rapporto sui miei trascorsi scimmieschi.
Purtroppo non sono in grado di
soddisfare in tal senso l'invito. Quasi cinque anni mi separano dal
mio stato scimmiesco, un tempo forse breve se calcolato sul
calendario, ma lungo infinitamente da attraversare al galoppo come ho
fatto io, a tratti accompagnato da persone squisite, da consigli,
applausi e musica orchestrale, tuttavia in fondo da solo, perché
l'intera compagnia si mantenne, per restare all'interno della
metafora, distante dalla barriera. Questa prova sarebbe stata
impossibile se avessi voluto caparbiamente restare fedele alla mia
origine, ai ricordi della giovinezza. Completa rinuncia ad ogni tipo
di caparbietà, era l'ordine supremo che mi ero imposto; io, libera
scimmia, mi sottomisi a questa servitù. Ma con ciò i ricordi per
parte loro mi si occlusero sempre di più. Prima il ritorno, qualora
gli uomini avessero voluto, mi fu lasciato libero, era infatti
attraversabile l'intera porta che il cielo forma al di sopra della
terra, nello stesso tempo essa, con la mia ulteriore fustigata
evoluzione, si fece sempre più bassa e più stretta; mi sentii
meglio e maggiormente incluso nel mondo umano; la tempesta che
soffiava su di me dal mio passato si attenuò; oggi essa è solo uno
spiffero che mi raffredda i talloni; il pertugio lontano da cui esso
proviene ed attraverso cui un tempo venni io è diventato tanto
piccolo che per passarci, ammesso che ci fossero le energie e la
volontà per retrocedere fin lì, dovrei strapparmi la pelle dal
corpo. Detto con franchezza, per quanto io sia disposto a scelte
immagini per questa cosa, detto con franchezza: il Loro stato
scimmiesco, signori miei, se Loro ne hanno qualcosa alle spalle, non
può essere più lontano da Loro di quanto il mio lo sia da me.
Tuttavia lo stato scimmiesco sfiora il tallone di colui che cammina
sulla terra: del piccolo scimpanzé come del grande Achille.
Posso tuttavia rispondere forse in
senso più circoscritto alla Loro proposta, e lo faccio anche con
gioia. La prima cosa che imparai fu dar la mano; la stretta di mano
segnala schiettezza; oggi dunque, che mi trovo al vertice della mia
carriera, conviene aggiungere a quella prima stretta di mano anche un
parlar schietto. Esso non apporterà all'Accademia essenzialmente
alcuna novità, sarà molto distante da ciò che da me si è preteso
e che io con la volontà migliore non posso dire – e pur sempre ha
da indicare la linea generale con cui una ex scimmia è penetrata nel
mondo umano e vi ha preso dimora. Non potrei comunque dire
l'insignificante che segue se non fossi del tutto sicuro di me e se
il mio rango non si fosse consolidato in ogni gran teatro del mondo
civile al punto di essere incrollabile.
Provengo dalla Costa d'oro. In merito
alle modalità della mia cattura non possiedo che referti esterni.
Una spedizione di caccia dell'impresa Hagenbeck – con il cui capo
(si tratta certo di Carl Hagenbeck (1844-1913) – n.d.t.) ho tra
l'altro vuotato da allora già svariate bottiglie di rosso – era
appostata nella boscaglia lungo la riva di un fiume quando io corsi
insieme al branco ad abbeverarmi. Si sparò; fui l'unico ad essere
colpito; ricevetti due colpi.
Uno alla guancia; lieve; si lasciò
dietro tuttavia una grande, nuda, cicatrice rossa che mi ha fruttato
il nome odioso, assolutamente inappropriato per quel che riguarda in
particolare una scimmia, di Rotpeter, così mi distinsi solo per via
della chiazza rossa sulla guancia dalle scimmie ammaestrate rimaste
animalesche chiamate Peter, qua e là note e recentemente crepate.
Sia detto per inciso.
Il secondo colpo mi prese al di sotto
delle anche. Fu serio, per questo ancora oggi zoppico un poco. Di
recente lessi, nel saggio di uno dei diecimila fresconi che si
dilungarono su di me nel tempo, che la mia natura di scimmia non è
ancora del tutto repressa; prova ne sia che se vengono visitatori mi
compiaccio di levarmi le brache per mostrare dove fui colpito. A
costui si dovrebbero far saltare via uno ad uno tutti i ditini della
mano che scrive. Io ho il diritto di levarmi le brache davanti a chi
mi pare; non c'è altro che una ben curata pelliccia, lì, e la
cicatrice - con uno scopo preciso a questo punto cerchiamo una
parola precisa che non sia esposta a fraintendimenti – la cicatrice
conseguente ad un colpo scellerato. Tutto evidente; nulla da
nascondere; ognuno che sia magnanimo si scrolla di dosso ogni
smanceria, questo è importante per la verità. Se invece quello
scrittore si sfilasse le brache in occasione d'una visita, ciò a
dire il vero sarebbe da considerare diversamente, e che lui non lo
faccia lo voglio far valere come segno di discernimento. Poi però
con la sua tenera sensibilità si compiaccia di togliermisi di
torno!
Dopo quei colpi mi svegliai – qui
cominciano poco a poco i miei veri ricordi – dentro una gabbia
nell'interponte del piroscafo hagenbeckiano. Non era una gabbia a
sbarre con quattro pareti, le pareti erano solo tre, fissate ad una
cassa che formava dunque la quarta. L'insieme era troppo basso per
stare in piedi e troppo stretto per sedere. Mi accovacciavo perciò
con le ginocchia ripiegate in un continuo tremito e stavo girato
verso la cassa, in realtà è probabile che volessi in primo luogo
non veder nessuno e stare sempre al buio, e le sbarre intanto mi
incidevano solchi nella carne. Una custodia siffatta degli animali
selvatici è ritenuta all'inizio vantaggiosa, ed io oggi non posso
negare che dal punto di vista umano nel caso mio è stato così.
Non pensavo tuttavia a questo, allora.
Ero per la prima volta in vita mia privo di vie d'uscita; almeno, non
ce ne erano davanti; davanti a me c'era la cassa, le assi saldamente
connesse. In realtà tra loro c'era una fessura continua che, quando
la scoprii, salutai contento con il beato urlo della stoltezza, ma
questa fessura non servì neppure ad infilarci la coda e pur con
tutta la forza d'una scimmia non ci fu verso di allargarla.
Devo aver fatto, come poi mi si disse,
particolarmente poco strepito, ciò da cui si concluse che dovevo
morire presto oppure, se mi riusciva di sopravvivere, che mi sarei
fatto assai addomesticabile. Sopravvissi a questo periodo. Singhiozzi
cupi, spulciarsi dolente, leccar svogliato di noci di cocco, urti
della zucca contro la parete della cassa, linguacce a chi mi si
avvicinava – queste furono le prime incombenze della vita nuova. E
però in tutto questo il sentimento dominante di non avere alcuna via
d'uscita. Naturale, oggi posso indicare solo con parole umane i
sentimenti scimmieschi di allora, perciò distorcendoli, ma per
quanto non possa più pervenire alla vecchia verità scimmiesca,
almeno essa risiede nel significato della mia descrizione, su questo
non c'è dubbio.
Fino allora avevo avuto così tante vie
d'uscita, invece adesso più nessuna. Ero stato un ottimo corridore.
Mi avessero inchiodato, con questo la mia potenzialità di transito
non sarebbe diminuita. Perché? Scòrticati le carni in uno spazio di
dieci piedi quadrati, non troverai il perché. Premiti indietro
contro le sbarre dell'inferriata finché quasi non ti rompe in due,
non troverai il perché. Non avevo alcuna via d'uscita, ma dovevo
procurarmela, perché senza non potevo vivere. Ne sarei morto senza
meno, di questa sempiterna parete della cassa. Le scimmie tuttavia,
presso Hagenbeck, devono starsene addossate a una parete – e così
cessai di essere scimmia. Ragionamento bello chiaro che devo aver
concepito non so come visceralmente, infatti è con le viscere che le
scimmie pensano.
Temo che non si comprenda a sufficienza
che cosa intendo per via d'uscita. Uso l'espressione nel suo
significato più normale e pieno. E' intenzionalmente che non dico
libertà. Non mi riferisco a tale gran sentimento di libertà in ogni
direzione. In quanto scimmia forse lo conoscevo, ed ho imparato a
conoscere uomini che ne hanno il desiderio. Per quanto riguarda me,
non esigevo libertà né allora né oggi. Detto per inciso: della
libertà tra gli uomini ci si illude troppo di frequente. E come la
libertà ha i sentimenti più elevati, anche la relativa illusione ne
ha. Spesso nel varietà mi è avvenuto di vedere, nel far la mia
entrata, qualche coppia di virtuosi affaccendarsi dalle parti del
soffitto con il trapezio. S'agitavano, dondolavano, saltavano, si
libravano l'uno nelle braccia dell'altro, l'uno reggeva l'altro a
puntino con i denti. “Anche questo è umana libertà”, pensavo,
“movimento dispotico.” Tu, derisione della natura sacra! Nessun
edificio resterebbe in piedi davanti alla risata del mondo scimmiesco
al tal vista.
No, non volevo la libertà. Solo una
via d'uscita, a destra, a sinistra, ovunque, senza tregua; non avevo
altro da chiedere; poteva essere anche solo un'illusione, la via
d'uscita; l'esigenza era modesta, la delusione non sarebbe stata più
che modesta. Avanzare, avanzare! Pur di non restar fermo a braccia in
alto contro la parete d'una cassa.
Oggi vedo chiaro: senza la massima
calma interiore non avrei potuto fuggire. Ed in realtà devo forse
tutto quel che sono diventato alla calma che dopo i primi giorni
sulla nave s'impadronì di me. D'altra parte ne fui ben debitore a
quelli della nave.
Brava gente, nonostante tutto. Ancor
oggi mi rammento del rumore dei loro passi pesanti che talvolta
risuonavano nel mio dormiveglia. Avevano l'abitudine di por mano a
tutto con la massima lentezza. Uno che voleva stropicciarsi gli occhi
sollevava la mano come fosse un carico sospeso. Gli scherzi loro
erano rozzi, ma cordiali. Le risate sempre si mescolavano ad una
tosse squillante in modo sinistro, ma affatto trascurata. Avevano in
bocca sempre qualcosa da sputare, dove, era loro indifferente. Si
lamentavano sempre del fatto che le mie pulci saltavan loro addosso;
ma non per questo erano proprio cattivi con me; lo sapevano, che nel
mio pelame crescono le pulci, e che le pulci saltano; perciò ci si
rassegnavano. Quando erano liberi dal servizio, alcuni si sedevano
attorno a me in semicerchio, a volte; parlavano appena, piuttosto si
limitavano ad accostarsi l'un l'altro; fumavano la pipa stando sulla
cassa; si davan colpi sulle ginocchia fino a che io non facevo un
minimo di movimento; e alle volte uno prendeva un bastone e mi
solleticava dove mi piaceva. Mi capitasse oggi di essere invitato a
partecipare ad un viaggio su quella nave, declinerei, ma lo stesso è
sicuro che non ci sono soltanto brutti ricordi a cui potrei
abbandonarmi lì nell'interponte.
La calma che io acquisii nella cerchia
di quella gente mi tenne fuori da ogni tentativo di fuga. Oggi mi par
di vedere come almeno io avessi indovinato che dovevo trovare una via
d'uscita, se volevo vivere, ma che tale via d'uscita non era
ottenibile con la fuga. Non so più se fuggire era possibile, credo
di sì; ad una scimmia la fuga era sempre possibile. Con la mia
dentatura odierna devo stare attento perfino al banale schiacciar
noci, ma allora avrebbe ben dovuto riuscirmi di rompere un po' alla
volta la serratura con i denti. Non lo feci. Che cosa ci avrei
guadagnato? Appena messa fuori la testa mi si sarebbe riacchiappato e
chiuso in una gabbia anche peggiore; o avrei potuto senza volere
trovar rifugio presso animali come i serpenti boa che si trovavano
davanti a me, soffocando nelle loro spire; o mi sarebbe riuscito di
sbucare sul ponte e di balzare fuori bordo, per poi annegare dopo
aver dondolato per un po' nell'oceano. Atti disperati. Non feci
calcoli così umani, ma nei limiti della mia condizione mi comportai
come se li avessi fatti.
Non facevo calcoli, ma in tutta calma
stavo ad osservare, all'incirca. Vedevo quegli uomini andare di qua e
di là, sempre le stesse facce, gli stessi movimenti, spesso mi
facevano l'effetto di essere un uomo solo. Costui o costoro
camminavano dunque indisturbati. Una meta elevata emergeva. Nessuno
mi promise che se io fossi diventato come loro la grata sarebbe stata
tirata su. Promesse del genere apparentemente irrealizzabili non
furono fatte. Si raggiungono però risultati ed in un secondo tempo
appaiono corrette le promesse che prima si sono cercate invano. In
quegli uomini come tali nulla mi attirava. Fossi stato un seguace di
quella menzionata libertà, certo avrei preferito l'oceano alla via
d'uscita che mi si mostrava nello sguardo spento di quegli uomini.
Del resto li osservavo già da tempo, prima di pensare cose del
genere, anzi, l'accumulo di osservazioni fu il primo che mi condusse
nella direzione stabilita.
Era tanto facile imitarli. Già nei
primi giorni ero in grado di sputare. Ci sputavamo reciprocamente in
faccia; unica differenza, io dopo mi pulivo leccandomi la faccia,
loro no. Fumai la pipa ben presto come un veterano; poi pressai il
pollice nel fornello, e tutto l'interponte esultò; solo che per
parecchio tempo non compresi la differenza tra pipa vuota e piena.
Lo stento maggiore me lo causò la
fiasca d'acquavite. L'odore era tormentoso. Con tutte le forze mi
costrinsi; ma passarono settimane prima che riuscissi a dominarmi.
Lotte interiori che loro presero nettamente più sul serio di ogni
altra cosa. Nel ricordo non li distinguo nemmeno, ma uno continuava a
tornare, da solo o con i camerati, di giorno, di notte, alle ore più
svariate; mi si piazzava davanti con la fiasca e m'impartiva lezioni.
Non mi capiva, voleva risolvere l'enigma del mio essere. Sturava la
fiasca lento e mi guardava per accertarsi che avessi compreso; lo
confesso, stavo a guardarlo con attenzione sollecita, sfrenata;
nessun maestro umano trovò uno scolaro umano simile nell'intero
pianeta; dopo stappata la fiasca, lui la portava alla bocca; io ne
seguivo il movimento con lo sguardo fino alla gola; annuisce,
contento di me, e si mette la fiasca alle labbra; io, estasiato dalla
graduale cognizione, mi gratto dappertutto strillando; lui se ne
rallegra, si accosta la fiasca alle labbra e prende un sorso; io,
disperatamente impaziente di emularlo, me la faccio addosso nella
gabbia, cosa che lo compiace parecchio; ed ora, alzando lontano da sé
la fiasca e con slancio riportandola su, la vuota in un colpo solo
piegato indietro in modo esageratamente didattico. Io, sfinito
dall'eccesso di pretese, non so più imitare e sto appeso alle sbarre
fiacco, intanto che lui termina l'insegnamento teorico al punto di
accarezzarsi il ventre sogghignante.
Inizia dunque la pratica. Non sono già
troppo sfinito dalla teoria? Ebbene, sì. E' il mio destino. Ciò
nonostante allungo la mano, tanto sono bravo, sulla fiasca che mi si
porge; la stappo tremante; dato il buon esito a poco a poco mi
nascono nuove energie; alzo la fiasca quasi come ha fatto lui, me
l'appoggio e – e la butto schifato, schifato, anche se è vuota e
piena solo dell'odore, la butto schifato al suolo. Con dolore del
mio maestro, con mio più grande dolore, e non mi rimetto in pace con
lui o con me stesso per il fatto che, dopo aver buttato via la
fiasca, non dimentico di accarezzarmi la pancia soddisfattissimo e
poi di sogghignare.
La lezione troppo spesso trascorreva
così. E, sia detto ad onore del mio maestro, lui non era malvagio;
sì, certe volte mi tenne la pipa accesa sulla pelliccia finché, in
un qualche posto dove solo con difficoltà ero disponibile, non
cominciava a bruciare, ma poi era lui a spegnere con la sua buona
manona; non era malvagio con me, si rendeva conto che eravamo in
lotta contro la natura scimmiesca e che la mia parte era la più
ardua.
Quale vittoria invece dopo, per lui e
per me, quando una sera davanti ad un gran cerchio di spettatori –
una festa, forse, suonava un grammofono, tra loro circolava un
ufficiale – in quell'istante, non visto, afferrai una fiasca
d'acquavite senza volere lasciata lì, la stappai da bravo scolaro
mentre nella combriccola cresceva l'attenzione, la portai alla bocca
e senza indugio, senza smorfie, a mo' di bevitore professionista, gli
occhi ben rovesciati indietro, la vuotai davvero a garganella; e non
come un disperato, bensì da virtuoso la buttai in terra; è vero,
scordai di accarezzarmi il ventre, invece, dato che non potevo fare
altro e che ne sentivo l'urgenza, ed i sensi erano in fregola, gridai
breve e come si deve: “Ehilà!”, esplosi con voce umana, e balzai
con quel grido nella comunità degli uomini la cui eco, “Sentite!
Parla!”, io la sentii come un bacio su tutto il mio corpo sudato.
Lo feci ancora: non mi piaceva imitare
gli uomini; mi andava perché era un tentativo di via d'uscita, non
per altro. E con quella vittoria ancora era fatto poco. Subito la
voce mi venne meno di nuovo; ritornò dopo mesi; la ripugnanza per la
fiasca d'acquavite crebbe addirittura. La mia strada però era senza
dubbio aperta per sempre.
Quando ad Amburgo fui consegnato al
primo addomesticatore, seppi presto le due possibilità che mi si
aprivano: o giardino zoologico o varietà. Non indugiai. Mi dissi:
sforzati bene di entrare nel varietà; è quella la via d'uscita; il
giardino zoologico è solo un'altra gabbia; ci entri e sei perduto.
Ed imparai, signori miei. Oh, s'impara,
quando si desidera una via d'uscita; s'impara con spietatezza; ci si
contiene anche in presenza della frusta; ci si tormenta anche per la
minima resistenza. La natura scimmiesca, rovesciandosi, se ne andava
via da me, tanto che il mio primo maestro quasi divenne scimmiesco,
presto fu costretto ad abbandonare le lezioni e fu portato in
manicomio. Per fortuna ne uscì in breve.
Di maestri però ne consumai molti,
anzi, addirittura più di uno nello stesso tempo. Divenuto già più
certo del mio talento, io, fu il pubblico a seguire i miei progressi,
il mio avvenire cominciò a splendere, presi io stesso dei maestri,
li feci sistemare in cinque stanze contigue ed imparai da tutti
contemporaneamente saltando senza sosta da una stanza all'altra.
Quei progressi! Quella penetrazione da
ogni parte, nel mio cervello risvegliato, dei raggi del sapere! Non
lo nego: ne fui contento. Ma confesso di non averli sopravvalutati
allora, ed ancor meno oggi. Con uno sforzo finora senza paragoni
sulla terra sono pervenuto alla cultura media di un europeo. Nulla in
sé, ma ben qualcosa, dal momento che mi servì ad uscire dalla
gabbia e mi procurò questa particolare via d'uscita, questa via
d'uscita umana. In tedesco c'è un noto modo di dire: svignarsela
(sich in die Buesche schlagen – battersela, svignarsela -
n.d.t.); ecco che cosa ho
fatto, me la sono svignata. Non avevo nessuna altra via, posto sempre
che non potevo scegliere la libertà.
Valuto la mia evoluzione fin qui e la
sua meta non mi lamento né sono soddisfatto. Le mani in tasca, la
fiasca di vino sul tavolo, un poco sto disteso, un poco siedo sul
dondolo e guardo fuori dalla finestra. Capita una visita, l'accolgo
come si conviene. Il mio impresario (in italiano nel testo –
n.d.t.) siede in anticamera; quando suono viene a sentire che cosa ho
da dire. La sera c'è quasi sempre spettacolo e non credo di avere
più troppi margini di crescita in fatto di successo. La notte tardi
torno a casa da qualche banchetto, da occasioni scientifiche, da
piacevoli riunioni, mi aspetta una piccola scimpanzé semiaddestrata,
e me la spasso con lei a mo' di scimmia. Di giorno non desidero
vederla; infatti ha nello sguardo quella follia delle bestie
perturbate dall'addestramento che solo io riconosco e che non so
tollerare.
Insomma ho conseguito comunque quel che
volevo. Non si dica che non ne è valsa la pena. Del resto non voglio
nessun giudizio umano, voglio solo allargare le conoscenze, mi
limitai a riferire, anche a voi, illustri signori dell'Accademia, ho
solo riferito.
Altri testi sul tema Rotpeter.
Tutti conosciamo il Rotpeter, così
come lo conosce mezzo mondo. Quando però lui venne nella nostra
città per un'esibizione straordinaria, decisi di farne personalmente
la conoscenza più da vicino. Nelle città grandi, dove regna
l'esigenza smaliziata di veder respirare dalla minima distanza le
celebrità, ciò può essere certo difficile, ma nella nostra ci si
accontenta di osservare dal parterre con meraviglia quello che la
merita, ragion per cui io ero, come mi disse il facchino
dell'albergo, fin lì l'unico ad aver annunciato la sua visita. Il
signor Busenau, l'impresario, mi accolse molto cortesemente. Non mi
aspettavo di incontrare in lui un uomo così alla buona, un uomo anzi
quasi timido. Sedeva nell'anticamera dell'appartamento di Rotpeter e
mangiava un piatto di uova. Nonostante che fosse mattina lui sedeva
in abito da sera, come si mostrava nelle esibizioni. Non appena
scorse me, insignificante ospite estraneo, saltò su, lui, possessore
delle maggiori onorificenze, re dell'addestramento, laureato ad
honorem nelle grandi università – saltò su, mi strinse la mano,
mi pregò di sedere, nettò il suo cucchiaio alla tovaglia ed
amichevolmente me lo offrì perché finissi di mangiare il piatto di
uova. Non fece caso al mio no grazie e cominciò ad imboccarmi lui
stesso. Feci fatica a placarlo ed a respingerlo con il cucchiaio ed
il piatto. “Assai amabile, che siate venuto”, disse con forte
accento straniero, “davvero amabile. Ed anche all'ora migliore,
Rotpeter non sempre, purtroppo non sempre è in grado di ricevere,
spesso è nauseato dalla vista degli uomini; inoltre nessuno è
ammesso, chiunque sia, anch'io, anch'io ho il permesso per dir così
professionale di averci a che fare solo sulla scena. Ma appena finita
l'esibizione devo sparire, lui va a casa da solo, si sbarra nella sua
stanza e rimane per lo più così fino alla sera dopo. Tiene sempre
in stanza da letto una gran cesta da viaggio piena di frutta di cui
si nutre in questi casi. Io però, che naturalmente non posso
lasciarlo insorvegliato, prendo sempre l'appartamento di fronte e lo
tengo d'occhio da dietro le tende.”
“Quando siedo davanti a voi,
Rotpeter, e vi sento parlare, bevo alla vostra salute – che lo
prendiate o meno per un complimento, si tratta solo della verità –
dimentico del tutto che siete uno scimpanzé. Soltanto un po' alla
volta, quando mi costringo ad allontanarmi dal pensiero e ad
avvicinarmi alla realtà, gli occhi mi indicano di nuovo di chi sono
ospite.”
“Certo.”
“Vi siete fatto così silenzioso, ma
perché? Mi avete espresso da un attimo opinioni così
straordinariamente esatte sulla nostra città, ed ora siete tanto
silenzioso.”
“Silenzioso?”
“Vi serve qualcosa? Devo chiamare
l'addestratore? Siete forse abituato a mangiare, a quest'ora?”
“No no. Va bene. Posso anche dirvelo,
che cos'era. Talvolta mi sopravviene un tale disgusto davanti agli
uomini che trattengo appena il vomito. Naturalmente ciò non ha nulla
a che fare con il singolo, nulla con la vostra amabile presenza.
Riguarda gli uomini tutti. Non è neanche degno di nota, voi dovreste
per esempio vivere di continuo insieme alle scimmie, ed avreste di
certo attacchi simili, anche con ogni autocontrollo. Non è del resto
in particolare neppure l'odore del prossimo, a disgustarmi tanto, ma
l'odore umano che io ho assunto e che si mescola con l'odore della
mia patria originaria. Prego, annusate voi stesso! Qui sul petto!
Affondate il naso nella pelliccia! Affondatelo, dico!”
“Sfortunatamente non so sentire nulla
di particolare. Il solito odore di un corpo curato, quanto al resto
nulla. Per altro il naso delle persone di città su questo è
autorevole. Com'è naturale esse annusano quello che in mille modi
alita loro addosso.”
“Una volta, signor mio, una volta.
Ora non più.”
“Dato che voi stesso la prendete da
questo punto di vista m'arrischio a domandare: da quanto vivete tra
noi, di fatto?”
“Cinque anni, il cinque di agosto
sono cinque anni.”
“prestazione inaudita. In cinque anni
liberarsi dello stato scimmiesco e correre al galoppo l'intero
sviluppo dell'umano. Nessuno in verità ancora lo ha fatto. Su tal
percorso voi siete assolutamente solo.”
“Lo so, è molto, e talvolta
oltrepassa la mia capacità di comprensione. Nelle ore di quiete non
ho tuttavia una opinione tanto entusiastica. Lo sapete come fui
catturato?”
“Ho letto ogni pubblicazione su di
voi.”
“Certo, presi due colpi, uno qui
nella guancia, la ferita naturalmente era molto più grande della
cicatrice attuale, ed uno sotto le anche. Mi leverò i calzoni perché
vediate anche questa cicatrice. Dunque, era qui il foro d'entrata,
ferita decisamente profonda, caddi dall'albero e quando mi svegliai
ero in una gabbia nell'interponte.”
“In gabbia! Nell'interponte! E'
diverso leggerlo e pensarlo sentendovelo narrare.”
“Ed ancor diverso se lo si è vissuto
di persona, signor mio. Fino a quel momento non avevo avuto contezza
di ciò che significa non avere alcuna via d'uscita. Mica era una
gabbia di quattro pareti, erano tre sole, attaccate ad una cassa, la
quarta parete. Il tutto era tanto basso che non riuscivo a stare in
piedi, e tanto stretto che non potevo neanche star seduto. Ero in
gardo dunque di accoccolarmi con le ginocchia piegate. Dalla rabbia
non volevo vedere nessuno e rimanevo perciò girato verso la cassa,
così me ne stavo lì in attesa giorno e notte, mentre le sbarre
dietro mi tagliavano. Si ritiene una simile custodia degli animali
selvatici nel primissimo periodo vantaggiosa, e non posso negare,
dopo la mia esperienza, che ciò in senso umano è vero. Allora però
del punto di vista umano non era nella mia disponibilità ancora
alcunché. Ci avevo la cassa davanti. Allarga l'assito, rodici un
buco, pigiati nel buco che in realtà permette appena di
traguardarci, mentre tu la prima volta che lo scopri lo saluti con
l'urlo felice della stoltezza. Dove vuoi andare? Dietro l'assito c'è
ancora legno, (interrotto – n.d.t.)
Stimatissimo signor Rotpeter,
Ho letto il rapporto da voi scritto per
la nostra accademia delle scienze con grande interesse, anzi, con il
batticuore. Non c'è da stupirsene, sono il vostro primo lettore, e
voi avete trovato termini così gentili, ricordandovi di me. Forse
riflettendoci un poco si sarebbe potuta evitare la menzione del mio
soggiorno in manicomio, ma apprezzo il fatto che l'intero vostro
rapporto, con la franchezza che lo caratterizza, se guarda caso vi
era venuto in mente questo dettaglio nello scrivere, non abbia potuto
ometterlo, ancorché un poco esso mi comprometta. Ma non di questo
avevo qui intenzione di parlare, è altro che mi va.
mercoledì 18 febbraio 2015
Falsa coscienza in "Un cane ricercatore"
Chi abbia avuto la pazienza di leggere il testo che precede, come altri di K privo di titolo originale ed intitolato a cura nostra "Un cane ricercatore", avrà forse notato che in esso non si fa menzione alcuna della presenza umana - del padrone o meno: il cane che racconta le sue ricerche, per meglio dire, non accenna mai agli uomini, eppure ha come oggetto massiccio, di ricerca e di resoconto della medesima, il modo come il nutrimento pervenga ai cani. Certo, si fa riferimento numerose volte ad un imprecisata erogazione di nutrimento dall'alto, ciò che potrebbe alludere alla mano dell'uomo che ciba i cani. Quale reticenza!
Comunque sia, K ha voluto inquadrare le bislacche "attribuzioni causali"* e le credenze e superstizioni canine in merito all'origine del nutrimento - certo esso non dipendente solo dalla mano umana - nella cornice della falsa coscienza.
Dal momento però che superstizione e falsa coscienza non sono cose da cani, e nemmeno la scienza, né la ricerca, oggetti espliciti del testo di K, noi concludiamo affermando che in esso non sono in questione i cani.
*Con "Attribuzione causale", concetto filosofico prima e oggetto della scienza cognitiva poi, s'intende il dare una causa, un perché, ad un qualche fenomeno. Ricordiamo M.Hewstone, uno studioso inglese di tale materia, e naturalmente D.Hume.
(Non è del tutto impensabile, del resto, che K abbia immaginato un mondo parallelo abitato da cani e da altri animali - ad un tratto si fa effettivamente cenno ad altri animali - ma non da umani, per cui saremmo nell'ambito della utopia)
Comunque sia, K ha voluto inquadrare le bislacche "attribuzioni causali"* e le credenze e superstizioni canine in merito all'origine del nutrimento - certo esso non dipendente solo dalla mano umana - nella cornice della falsa coscienza.
Dal momento però che superstizione e falsa coscienza non sono cose da cani, e nemmeno la scienza, né la ricerca, oggetti espliciti del testo di K, noi concludiamo affermando che in esso non sono in questione i cani.
*Con "Attribuzione causale", concetto filosofico prima e oggetto della scienza cognitiva poi, s'intende il dare una causa, un perché, ad un qualche fenomeno. Ricordiamo M.Hewstone, uno studioso inglese di tale materia, e naturalmente D.Hume.
(Non è del tutto impensabile, del resto, che K abbia immaginato un mondo parallelo abitato da cani e da altri animali - ad un tratto si fa effettivamente cenno ad altri animali - ma non da umani, per cui saremmo nell'ambito della utopia)
giovedì 12 febbraio 2015
F.Kafka: Un cane ricercatore
Com'è
cambiata la mia vita, e tuttavia come non è, in fondo, cambiata! Se
con il pensiero vado indietro e mi rifaccio ai tempi in cui ancora
vivevo nella comunità dei cani, partecipavo a tutto quello che di
essa è rattristante, cane tra cani, trovo però guardando meglio che
da sempre qualcosa non tornava, lì, c'era una piccola frattura, un
lieve disagio mi toccava nel corso delle solenni manifestazioni
popolari, anzi, anche in cerchie intime talvolta, no, non talvolta,
ma assai spesso, la mera vista d'un confratello a me caro, la mera
vista in qualche modo guardata di nuovo, mi dava imbarazzo, spavento,
impotenza, anzi disperazione. Cercai per dir così di migliorarmi,
amici che di ciò feci partecipi mi furono utili, di nuovo vennero
tempi più sereni, tempi nei quali certamente quel tipo di sorprese
non mancarono, ma furono prese con imperturbabilità,
imperturbabilmente divennero parti della vita, forse tristi e
faticose, tuttavia a parte ciò esse lasciarono che io esistessi come
un cane certo un po' freddo, riservato, timido, calcolatore, ma
accolto nel complesso come uno a posto. Come avrei, senza queste
pause distensive, potuto raggiungere l'età di cui oggi mi
compiaccio, come avrei potuto farmi strada in direzione di quella
serenità con cui contemplo le paure della mia gioventù e tollero le
paure della vecchiaia, come avrei potuto arrivare a tirar le
conclusioni circa la mia tendenza, lo confesso, all'infelicità o,
per esprimersi con maggior cautela, alla scarsa felicità, e vivere
in modo quasi del tutto conforme ad essa? Ritirato, in solitudine,
occupato solo dalle mie modeste ricerche, senza speranza eppure a me
indispensabili, vivo così, ma con ciò non ho smarrito la visione
complessiva del mio popolo, spesso mi arrivano notizie ed ogni tanto
anche io sto ad ascoltarle. Mi si tratta con attenzione, non si
capisce il mio modo di vivere, ma ciò non mi nuoce, ed anche i
giovani cani che talvolta vedo da lontano correre, una nuova
generazione della cui fanciullezza a mala pena oscuramente mi
rammento, non rifiutano di salutarmi con rispetto. Non è possibile
trascurare il fatto che io, nonostante le mie particolarità oggi
evidenti, non traligno completamente. Riflettendoci, e ne ho il
tempo, il piacere e la capacità, ciò è anzi in armonia con la
comunità dei cani. Vi sono, a parte noi cani, una quantità di
specie di creature, in giro, povere, misere, mute, esseri limitati a
certe loro grida, tra noi cani molti le studiano, han dato loro
denominazioni, cercano di essere loro utili, di ingentilirli, cose
del genere, a me sono indifferenti, a meno che non tentino di
disturbarmi, all'incirca; li confondo, guardo oltre, ma anche uno
solo, tra loro, dà troppo nell'occhio per sfuggirmi; in altri
termini essi, confrontati a noi cani, sono davvero poco uniti,
davvero passano reciprocamente estranei, davvero non li unisce né un
interesse alto né uno infimo, davvero ogni interesse li tiene
reciprocamente lontani assai di più di quanto già la normalità non
comporti! Noi cani, al contrario! Si può ben dire che noi tutti
viviamo proprio in un unico mucchio, tutti, quantunque siamo diversi,
per il resto, a causa delle innumerevoli e profonde differenze che
nel corso dei tempi sono emerse. Tutti in un mucchio! Ci accalchiamo
reciprocamente e nulla può impedirci di compiacerci d'un simile
pigia pigia, tutte le nostre leggi ed istituzioni, le poche che
ancora conosco e le innumerevoli che ho dimenticato, sono riferite a
questa grandissima fortuna cui siamo soggetti, il caldo stare uniti.
Ma vediamo il reciproco di ciò, ora. Nessuna creatura vive a quanto
ne so così estesamente sparpagliata come noi cani, nessuna possiede
tanta ad occhio assolutamente incalcolabile distinzione di classe, di
natura, di attività, noi che vogliamo tenerci uniti – e ci riesce
sempre, nonostante tutto, nei momenti di entusiasmo – viviamo
separati assai largamente l'un dall'altro in mestieri particolari
spesso incomprensibili anche al cane accanto, stando alla regola,
mestieri non da cani, anzi orientati contro i cani. Cose difficili,
di quelle che si preferisce non toccare – lo capisco, tale punto di
vista, anche meglio del mio – eppure sono cose nelle quali sono
caduto ben bene. Perché non faccio come gli altri, perché non vivo
in concordia con il mio popolo, perché non accolgo in silenzio ciò
che turba la concordia, perché non lo trascuro come un piccolo
errore nella somma generale, perché non resto sempre orientato verso
ciò che felicemente lega, e non verso ciò che continua a trarci
irresistibilmente fuori dalla cerchia del popolo? Ricordo un episodio
della mia fanciullezza, mi trovavo allora in uno di quegli stati
felici di esaltazione che forse ogni fanciullo prova, ero ancora
assolutamente un cucciolo, mi piaceva tutto, tutto mi riguardava,
credevo che attorno a me accadessero grandi cose, con me al centro,
cui dovessi dar voce, cose che, se io non fossi loro andato in
soccorso agitandomi a destra e a manca, sarebbero rimaste in uno
stato misero, fantasie da fanciullo, dunque, che si dileguarono con
gli anni, eppure ancora assai potenti, talvolta, ero del tutto in
loro potere, e poi successe però qualcosa di straordinario che parve
dar ragione alle sfrenate aspettative. Nulla di eccezionale in sé,
in seguito ho visto abbastanza spesso cose del genere, ed anche più
particolari, ma quella volta rimasi colpito fortemente in confronto
alle successive. Incontrai dunque una piccola compagnia di
cani,
anzi, non la incontrai, mi venne incontro. Ero allora corso a lungo
nel buio con il presentimento di grandi cose, un presentimento che
però era facilmente ingannevole perché lo avevo sempre, ero corso a
lungo nel buio, a destra e a sinistra, condotto da null'altro che
dall'incerto desiderio, di colpo mi fermai sentendo che lì ero nel
posto giusto, alzai gli occhi ed era giorno più che luminoso, solo
un po' caliginoso, salutai il mattino con grida disordinate, là –
come se li avessi evocati – spuntarono da una qualche tenebra
facendo un frastuono spaventoso, come mai l'avevo udito, sette cani.
Se non avessi visto con chiarezza che si trattava di cani e che quel
frastuono era di loro pertinenza, per quanto non potessi capire in
qual modo lo facevano, sarei scappato subito, ma stando così le cose
rimasi. Ai tempi non sapevo quasi niente della musicalità di cui la
specie canina è tipicamente dotata, essa era sfuggita alla mia
nascente attenzione, soltanto per accenni si era tentato di farmela
notare, e tanto più sorprendenti, addirittura soverchianti, furono
per me quei sette musici. Non parlavano, non cantavano, diciamo che
tacevano quasi con una certa ostinazione, tuttavia dallo spazio vuoto
producevano per incanto la musica. Tutto era musica, il su e giù
operato dai loro piedi, la precisa rotazione delle teste, mosse e poi
bloccate, le posizioni che essi assumevano reciprocamente mentre per
esempio uno appoggiava le gambe anteriori sulla groppa dell'altro,
tutti e sette ciò facendo in modo che il primo portasse il peso di
tutti gli altri, oppure era musica il loro strisciare la pancia a un
pelo dal suolo dando luogo a figure intrecciate e mai sbagliandosi,
neanche l'ultimo, ancora un po' incerto, mancava mai di congiungersi
all'altro, a momenti vacillava, per dir così, mentre la melodia
veniva abbaiata, eppure era incerto solo in confronto alla gran
sicurezza degli altri, e neanche con molto maggiore incertezza, anzi,
neanche con la più compiuta incertezza lui avrebbe potuto guastare
alcunché, dato che gli altri, grandi maestri, tenevano il tempo
imperturbabili. E tuttavia innegabilmente costoro si vedevano a mala
pena, tutti e sette si vedevano a mala pena. Erano spuntati,
interiormente li avevi salutati come cani, certo eri assai confuso
dal frastuono che li accompagnava, ma si trattava di cani, cani come
tu ed io ne vedevamo normalmente, cani di quelli che s'incontrano per
la via, ti volevi avvicinare a loro, scambiare saluti, erano
vicinissimi, cani certo assai più vecchi di me e non di pelo lungo e
lanoso come il mio, ma non del tutto diversi in fatto di taglia e
fattezze, molti uguali o simili ne conoscevo ben più intimamente, ma
intanto che eri nell'imbarazzo di simili riflessioni la musica
cresceva, ti afferrava sul serio, ti spingeva via molto di
contraggenio da questi cani davvero piccoli, si alzava a tutta forza,
urlava come se fosse stato procurato del dolore, di nient'altro ti
potevi occupare se non della musica proveniente dall'alto, dal
profondo, da ogni dove, afferrava l'uditore, lo riempiva, lo
soverchiava, così prossima, al di là del suo affievolirsi, mentre
invece già era in lontananza appena udibile, ed ancora risuonante di
fanfare. Ed avevi di nuovo la libertà, poiché eri già troppo
stanco, troppo annientato, troppo debole per continuare ad ascoltare,
la libertà di vedere i sette piccoli cani condurre la loro
processione, fare i loro salti, volevi chiamarli, così poco parevano
propensi, chieder loro informazioni, domandare che cosa ci facevano,
lì – io ero un fanciullo e credevo di poter fare domande a tutti
–, ma non appena mi accinsi a ciò, non appena provai il buon
intimo legame canino con i sette, la loro musica fu di nuovo lì
facendomi ammattire, costringendomi a girare su me stesso in cerchio
come se fossi anch'io uno dei musici, invece ero soltanto una
vittima; mi volsi qua e là, tanto chiedevo grazia, ed infine mi
salvai dinnanzi a quella potenza per il fatto che la musica mi
strinse all'interno di un intrigo boschivo che da ogni lato si levava
attorno senza che fin lì io lo avessi notato, ora mi circondava
strettamente e mi spingeva il capo in basso fornendomi la possibilità
di riprendere un po' di fiato, poteva rimbombare là fuori, la
musica. Per la verità mi meravigliavo, più che della bravura dei
sette cani – inafferrabile, assolutamente scollegata dalle mie
facoltà -, del loro coraggio di esporsi a quello che essi
producevano in modo pieno e aperto, e della loro forza di sopportarlo
tranquilli senza spezzarsi la schiena. Ora però, dal mio
nascondiglio, ad una osservazione più rigorosa riconobbi che non
c'era tanta tranquillità quanto lo sforzo massimo che loro mettevano
in atto, quelle gambe mosse con tanta sicurezza tremavano ad ogni
passo con incessante meticoloso spasimo, l'uno guardava l'altro come
irrigidito nella disperazione, la loro lingua, sempre ritirata
dentro, tornava a pendere molle fuori dalle bocche. Non poteva essere
ansia di ben riuscire, quello che tanto li agitava; chi tanto osava,
tanto realizzava, non poteva più angosciarsi, e per che cosa? Chi li
costringeva a fare quel che facevano lì? E non riuscii a trattenermi
più, in particolare perché essi ora mi sembravano tanto
misteriosamente bisognosi d'aiuto, così gridai al di là di tutto il
frastuono le mie domande, chiaro e sollecito. Tuttavia loro –
incomprensibile, incomprensibile! - non risposero, fecero come se io
non ci fossi, cani che al richiamo canino non danno risposta, una
mancanza di buone maniere che mai viene perdonata né al più piccolo
né al più grosso cane. Non si trattava invece di qualcosa
all'incirca di non canino? Ma come poteva non trattarsi di cani? Ora
però udii, stando ad ascoltare meglio, perfino lievi richiami con
cui essi si bersagliavano per richiamare l'attenzione alle
difficoltà, si mettevano in guardia dagli errori, mentre vidi
l'ultimo e più piccolo dei cani, al quale toccava la maggior parte
dei richiami, sbirciare spesso verso di me come se avesse molta
voglia di rispondermi, ma si contenne, infatti ciò non era lecito
che avvenisse. Ma perché non era lecito, perché stavolta non era
lecito ciò che sempre senza riserve le nostre leggi esigono? Il mio
cuore provò indignazione, quasi dimenticai la musica. Quei cani lì
trasgredivano la legge. Per quanto potessero essere dei grandi maghi
la legge valeva anche per loro, lo capivo con assoluta precisione
anch'io, che ero un fanciullo. Ed ancor di più ci feci maggior caso
per questa ragione. Avevano davvero ragione di tacere, se lo facevano
per senso di colpa. Al modo come essi si comportavano non avevo fatto
caso finora a causa dell'elevato frastuono, avevano scacciato da sé
proprio ogni pudore, quei miserabili si davano sia ad assurdità che
ad indecenze, si muovevano ritti sulle gambe posteriori, che schifo!
Si scoprivano mettendo in mostra la loro vistosa nudità; se la
godevano, e se per un attimo ascoltavano i buoni impulsi ed
abbassavano le gambe anteriori, si spaventavano addirittura come se
fosse una colpa, come se la naturalezza fosse una colpa, rialzavano
svelti le gambe ed il loro sguardo pareva chiedere perdono perché
avevano dovuto interrompersi un poco nella loro peccaminosità. Era
il mondo alla rovescia? Dove mi trovavo? Che cosa era successo? Per
amore della mia stabilità personale non potevo più indugiare, mi
liberai degli sterpi che mi avvolgevano, con un balzo saltai fuori e
mi diressi verso i cani, io, semplice scolaro, dovevo essere maestro,
dovevo far loro capire ciò che facevano, dovevo tenerli lontani dal
persistente peccato. “Cani tanto anziani, tanto anziani!”, andavo
ripetendo. Ma non appena fui libero e solo due o tre salti mi
separavano dai cani, di nuovo fu il frastuono ad avermi in suo
potere. Probabilmente con il mio ardore avrei perfino resistito al
frastuono che a questo punto mi era noto, se, attraverso tutta la sua
pienezza spaventosa, ma forse contrastabile, una tonalità netta e
forte che giungeva sempre uguale da grande distanza, magari la
melodia vera e propria interna al frastuono, non fosse risuonata e mi
avesse costretto ad inginocchiarmi. Accidenti che razza di musica
incantatrice facevano quei cani! Non ce la facevo più, non volevo
più ammaestrarli, potevano seguitare ad allargar le gambe, a peccare
e ad attrarre altri al peccato di guardare inertemente, ero un cane
così piccolo, io, chi poteva caricarmi di un tale onere, e mi
facevo anche più piccolo di quanto non fossi, guaivo, se a quel
punto i cani mi avessero chiesto la mia opinione, forse avrei dato
loro ragione. Del resto non durò a lungo, ed essi sparirono, insieme
a tutto il frastuono ed a tutta la luce, nella tenebra da cui erano
venuti.
L'ho
già detto: tutto questo caso non ha niente di straordinario, nel
corso di una lunga vita te ne capitano di vario genere, di cose che
fuori dal loro contesto e viste con occhi di fanciullo sarebbero
ancora assai sorprendenti. Inoltre su queste cose si può – come
felicemente indica il modo di dire - “stare a veglia” come su
tutto, e poi salta fuori che sette cani erano convenuti lì per far
della musica nel silenzio del mattino, che un piccolo cane si era
smarrito, un ascoltatore molesto che essi, purtroppo invano,
tentarono di scacciare con un musica particolarmente paurosa o
sublime. Che li disturbò con le sue domande, e loro avrebbero
dovuto, già abbastanza disturbati dalla mera presenza dell'estraneo,
prestarsi a quella molestia ed aumentarla rispondendo? Ed anche se la
legge comanda di rispondere a tutti, la venuta di un simile cagnolino
è poi degna di nota? E magari non lo compresero affatto, forse lui
balbettò le sue domande in modo davvero incomprensibile. O invece lo
capirono bene e risposero, facendosi forza, ma lui, il piccino,
quello non avvezzo alla musica, non seppe discernere la risposta
dalla musica. E per quel che riguarda le gambe posteriori, forse
eccezionalmente, esse andavano da sé, nient'altro, non va bene,
certo! Ma loro erano soli, sette amici tra di loro, in compagnia e
confidenza, per dir così tra le loro quattro pareti, per dir così
soli soli, amici dunque senza pubblico, e dove non c'è pubblico non
lo porta neanche un piccolo curioso cane di strada, e dunque in
questo caso non è come se non fosse successo niente? Non è proprio
proprio così, ma quasi, ed i genitori dovrebbero insegnare ai loro
piccoli a gironzolare poco, a stare zitti, piuttosto, ed a tener
conto dell'età altrui.
A
posto, il caso è chiuso. Tuttavia quel che è chiuso per i grandi
non lo è ancora per i piccoli. Io gironzolai, raccontai e domandai,
accusai e indagai e mi impegnai a far venire ognuno là dove era
accaduto tutto per indicargli la mia posizione e quella dei cani e
dove e come avevano danzato e fatto musica, e, se qualcuno fosse
venuto, invece di liberarsi di me deridendomi, avrei certo rinunciato
alla mia innocenza e provato a stare sulle gambe posteriori allo
scopo di illustrare il tutto esattamente. Ora, un fanciullo non se la
prende a male di tutto, ma tutto perdona, davvero. Tuttavia io ho
serbato questo modo di fare immaturo, e sono divenuto nel frattempo
un cane anziano. Così come all'epoca non chiusi quel caso, che del
resto oggi sottovaluto molto, e ne parlai apertamente, lo analizzai
nelle sue parti, lo descrissi ai presenti senza riguardo alla
compagnia in cui mi trovavo, impegnato solo e sempre con la cosa che
io trovavo come ogni altro perfettamente noiosa, ma che – questa la
differenza – intendevo risolvere da ricercatore in modo appunto
integrale per questo motivo, per liberare di nuovo infine lo sguardo
verso la solita tranquilla felice vita di ogni giorno, proprio come
all'epoca ho fatto in seguito ed anche oggi non smetto di fare, per
quanto con mezzi meno giovanili – ma la differenza non è molto
grande.
La
cosa tuttavia iniziò con quel concerto. Nessun rammarico, nel caso
in questione agisce il mio carattere innato che certo, senza il
concerto, avrebbe avuto un'altra occasione per manifestarsi, solo che
la cosa avvenne così presto, talvolta mi fece soffrire prima del
dovuto, mi ha tolto una gran parte della mia fanciullezza, la vita
beata dei cuccioli, che di per sé può durare molti anni, per me è
durata solo pochi mesi. E sia! Ci sono cose più importanti della
fanciullezza. E forse mi aspetta, in una vecchiaia conseguita per
mezzo d'una dura vita, una felicità più fanciullesca di quanto un
vero fanciullo avrebbe la forza di tollerare, e che invece io avrò.
Allora
iniziai le mie investigazioni sulle cose più semplici, la materia
non mancava, ve n'è purtroppo in sovrabbondanza, ed in ore oscure mi
fa disperare. Iniziai ad investigare in merito all'origine del
nutrimento della comunità dei cani. Ora, non si tratta affatto,
naturalmente, volendo, di una questione semplice, essa ci impegna dai
primordi, è la materia principale della nostra riflessione,
innumerevoli sono le osservazioni, i tentativi e le opinioni in tale
campo, ne è derivata una scienza che, con le sue enormi dimensioni,
nel complesso esorbita non solo l'intelligenza del singolo, ma anche
quella di tutti gli eruditi, e non può essere fatta avanzare se non
dall'intera comunità dei cani e soltanto con sofferenza e parziale
completezza, di continuo essa seguita a frammentarsi in vetuste
ossessive aree e deve essere ricompattata con fatica, tacendo del
tutto delle sciocchezzuole e delle ipotesi nuove di ricerca che è
difficile che si realizzino. Tutto questo non mi viene obbiettato, io
tutto questo lo so come lo sa anche un qualsiasi normale cane, non mi
viene in mente di ingerirmi nella scienza vera, al suo cospetto ho
tutto il timore reverenziale che le spetta, ma mi manca il carattere
e l'assiduità e la serenità per incrementarla, e l'appetito – non
per ultimo, in specie da alcuni anni. Il cibo lo butto giù, se lo
trovo, ma non mi sembra all'altezza della più modesta casuale
osservazione d'un ordinato paesaggio rurale. Mi è sufficiente,
riguardo alla scienza tutta, il suo estratto, la piccola regola con
cui la madre libera alla vita i suoi piccoli: “Bagna tutto per
quanto puoi.” E non è davvero compreso tutto, qui? Che cos'ha la
ricerca iniziata dai nostri avi da aggiungere a ciò, di decisivo ed
essenziale? Dettagli, dettagli, e com'è incerto l'insieme, invece
questa regola resisterà finché esisteremo noi cani. Essa concerne
il nostro nutrimento principale, certamente disponiamo anche di altri
mezzi, ma nell'urgenza, e quando gli anni non sono troppo cattivi,
potremmo vivere di tale nutrimento principale, lo troviamo nella
terra, che però necessita della nostra orina, si nutre di essa e
soltanto a questo prezzo ci dà il nostro nutrimento il cui spuntare
si può del resto accelerare, non bisogna dimenticarsi di questo,
tramite precisi motti, canti e gesti. Da questo lato su ciò non c'è
da dire qualcosa di più essenziale, dopotutto però si tratta della
mia opinione. Anche qui sono d'accordo con la maggioranza della
comunità dei cani e mi allontano con osservanza da tutte le teorie
eretiche sulla questione. Davvero, non mi piacciono le stranezze,
l'arroganza, sono contento quando posso concordare con i
connazionali, e questo è il caso. Le mie personali investigazioni
vanno tuttavia in altra direzione. Ciò che verifico mi indica che la
terra, quando viene spruzzata e lavorata secondo le regole
scientifiche, rende il nutrimento ed esattamente in tale quantità,
massa, modo, luogo ed in tali ore, secondo quel che richiedono le
leggi scientifiche verificate del tutto o in parte. Lo ammetto, ma la
questione che pongo è: “questo nutrimento la terra da dove lo
prende?” Si tratta di una domanda che di solito si dà ad intendere
di non capire ed a cui nel migliore dei casi si risponde: “se non
hai abbastanza da mangiare, te ne daremo del nostro.” Si faccia
caso a questa risposta. Lo so: non fa parte delle preferenze canine,
che noi spartiamo i cibi una volta che ce li siamo procurati. La
vita è difficile, la terra arida, la scienza è ricca di conoscenze,
ma piuttosto povera di effetti pratici; chi ha cibo, se lo tiene; non
è egoismo, è il contrario, è legge canina e concorde decisione
popolare, risultanti dal superamento dell'egoismo, infatti gli agiati
sono certo una minoranza. Ecco dunque la risposta: “se non hai
abbastanza da mangiare, te ne daremo del nostro”, modo di dire
fisso, facezia, canzonatura. Non l'ho scordato. Ma un significato
tanto più grande per me fu che si cessasse di burlarsi di me, non
appena iniziai ad andare in giro nel mondo con le mie questioni; non
mi si dette di certo alcunché da mangiare – dove mai lo si sarebbe
potuto prendere? Ed anche nel caso che lo si fosse avuto, si
dimenticò naturalmente, nella frenesia della fame, ogni altra
considerazione, seppur parlando seriamente di offrirne, e qua e là
ne ebbi poi davvero un minimo, se fui svelto abbastanza, però, ad
impadronirmene. Come fu che ci si comportasse con me in modo tanto
speciale? Mi si risparmiò, mi si favorì. Perché ero un cane
debole, magro, malnutrito e troppo trascurato in fatto di cibo? Ma in
giro di cani malnutriti ce ne sono, ed anche a quelli si leva di
bocca perfino il cibo più misero, se capita, spesso non per
cupidigia, ma nella maggioranza dei casi per principio. Invece mi si
favorì, non potevo spiegarlo con la casualità, infatti avevo la
precisa impressione che mi si favorisse. Era per questioni che
ponevo, di cui ci si compiaceva, cui si guardava come fossero
specialmente intelligenti? No, non ci si compiaceva, e le si
ritenevano tutte sciocche. Eppure potevano essere soltanto le mie
questioni, a guadagnarmi l'attenzione. Era come se si preferisse
compiere l'enormità di riempirmi la bocca di cibo – non lo si
faceva, ma se ne aveva l'intenzione – piuttosto che tollerare le
questioni che ponevo. Anche se, meglio, si sarebbe potuto scacciarmi
e non consentirle. No, non si voleva udirle, certo che non si voleva,
ma proprio a causa di esse non si voleva scacciarmi. Fu, tanto venivo
deriso, trattato da stupida bestiola, preso in giro, veramente il
periodo del mio massimo credito, qualcosa di simile in seguitò non
si ripeté mai, ebbi accesso in ogni dove, nulla mi fu vietato, con
il pretesto di un trattamento più scortese mi si lusingò in modo
speciale. Tutto dunque a causa delle mie questioni, della mia
impazienza, della mia brama di ricercatore. Mi si voleva con ciò
addormentare senza violenza, sviarmi quasi piacevolmente da una
strada erronea, da una strada la cui erroneità tuttavia non stava
così al di sopra di ogni dubbio da rendere impossibile l'uso della
violenza, inoltre c'era anche un certo rispetto ed una certa paura a
trattenere dalla violenza. Indovinavo già allora qualcosa del
genere, oggi lo so con precisione, con molta più precisione di chi
allora lo faceva, sì, con lusinghe si è voluto che io mi
distogliessi dalla mia strada. La cosa non ebbe successo, si ottenne
l'opposto, la mia attenzione si acuì. Mi si rivelò addirittura che
ero io a voler attrarre gli altri, e che di fatto mi riusciva fino ad
un certo punto, la seduzione. Fu proprio con l'aiuto della comunità
dei cani che iniziai a comprendere le mie proprie questioni. Quando
per esempio domandavo da dove la terra prenda il nostro nutrimento,
questo m'interessava, come potesse la terra averne dato
l'impressione, non m'interessavano, per dire, le preoccupazioni della
terra. Per nulla m'interessavano, ero ben lungi da ciò, come presto
riconobbi a me interessavano soltanto i cani, quasi nient'altro. Che
cosa c'è, infatti, a parte i cani? Chi altri si può invocare nel
vasto vuoto mondo? Ogni sapere, la totalità di tutte le domande e di
tutte le risposte, i cani la hanno in sé. Se soltanto si potesse con
efficacia portare alla luce del giorno tale sapere, se soltanto si
potesse, se essi non sapessero infinitamente di più di quanto
ammettono, di quanto si concedono. Anche il cane più loquace è più
riservato di quanto sogliano esserlo i luoghi dove si trovano i cibi
migliori. Ci si aggira furtivamente intorno al confratello, si sbava
dalla brama, ci si colpisce anche con la propria coda, si domanda, si
prega, si ulula, si morde e si ottiene – quello che si otterrebbe
anche senza ogni sforzo, si ottiene: ascolto affettuoso, cortesia,
falso rispetto, abbracci fervidi, il tuo ed il mio ululato si
mescolano insieme, tutto è regolato allo scopo di trovare
nell'incanto l'oblio, ma l'unica cosa che si voleva ottenere prima di
tutte, che si confessasse il sapere, quella rimane negata, a quella
preghiera, che sia espressa a voce o che sia muta, rispondono nei
casi migliori, se si è spinto l'allettamento all'estremo, solo
espressioni ottuse, occhiate oblique, chiuse, torbide. Non è molto
diverso da quando, giovinetto, chiamai i musici e loro tacquero. Ora
si potrebbe dire: “ti lamenti dei tuoi confratelli, del loro tacere
in merito alle cose decisive, sostieni che sappiano più di quanto
ammettano, più di quanto essi vogliano che nella vita valga, e che
questa segretezza, la cui ragione e il cui mistero essi naturalmente
tacciono, avveleni la vita, te la renda insopportabile, tu questa
cosa dovresti cambiarla oppure trascurarla, forse, però sei un cane,
possiedi anche tu il sapere canino, dunque tiralo fuori non solo in
forma di domanda, ma come risposta. Se lo tiri fuori, chi ti
resisterà? Il gran coro della comunità dei cani avrà inizio come
fosse in attesa. Ed avrai verità, chiarezza e confessione, quante ne
vuoi. Si scoperchierà la volta di questa bassa vita di cui parli
tanto male, e noi tutti, cane dopo cane, ci leveremo nell'alto della
libertà. E se ciò non dovesse riuscire, se dovesse essere peggio di
quel che è stato finora, se la verità intera dovesse essere più
insopportabile della verità a metà, se dovesse emergere che i
conservatori taciti della vita sono nel giusto, se dovesse sortire,
dalla speranza sommessa che ancora oggi abbiamo, la disperazione
piena, parlare è ancora un degno tentativo, poiché tu non vuoi
vivere come ti è permesso. Ordunque, perché rimproveri agli altri
il loro silenzio e tu stesso taci?” La risposta è facile: perché
io sono un cane, in sostanza molto riservato, proprio come gli altri,
e restio con ostinato timore alle questioni particolari. Chiedo forse
alla comunità dei cani, da quando sono diventato grande, in senso
stretto, che mi risponda? Ho speranze così folli? Vedo i fondamenti
della nostra vita, indovino la loro profondità, ne vedo gli
edificatori oscuramente all'opera, e continuo ad attendere che tutto
ciò termini con le mie questioni, si annulli, venga dimenticato? No,
davvero non me lo aspetto più.
<Nelle
traduzioni italiane che conosco, la prima di Anita Rho (Il messaggio
dell'imperatore,Torino 1958), la seconda di Ervino Pocar (Tutti i
racconti, Milano 1970), da questo punto in avanti si leggono una
ventina di righe che mancano nell'edizione da cui traduco, Die
Erzaehlungen, Frankfurt am Mein 2010 – n.d.t.>
Continuo
ad affannarmi a domandare, nient'altro, io mi sprono per mezzo del
silenzio che, esso solo, attorno a me ancora mi risponde. Quanto a
lungo sopporterai che la comunità dei cani taccia e continui a
tacere, cosa di cui con le tue ricerche divieni sempre più
consapevole? Quanto a lungo sopporterai, questo è l'urlo che la mia
questione vitale leva al di sopra di tutte le questione di dettaglio;
me la pongo io, e non dà fastidio a nessun altro. Sfortunatamente so
rispondere meglio ad essa che non alle questioni di dettaglio: lo
sopporterò, è probabile, fino alla mia fine naturale, la quiete
dell'anzianità resiste sempre di più alle questioni inquietanti. E'
probabile che io, tacendo, circondato dal silenzio, morirò felice, a
ciò sono abbastanza preparato. E' quasi una cattiveria, che noi cani
siamo dotati di cuore prodigiosamente robusto e di polmoni che non si
logorano in modo prematuro, noi opponiamo resistenza a tutte le
domande, perfino alle nostre, noi siamo il baluardo del silenzio.
Di
recente penso sempre di più alla mia vita, cerco lo sbaglio
decisivo, la causa di tutto, che forse ho commesso, e non riesco a
trovarlo. Devo averlo commesso, però, se non l'avessi commesso e
nonostante questo avessi raggiunto, per mezzo di onesto impegno, una
lunga vita, ciò che non desideravo, sarebbe provato che quel che io
volevo era impossibile, e ne conseguirebbe la disperazione totale.
Guarda l'opera della tua vita! Per prima cosa le investigazioni
inerenti alla questione: da dove la terra prende il nutrimento per
noi. Da cucciolo, com'è naturale fondamentalmente avido e contento
della vita, rinunciai ad ogni piacere, scansai ogni divertimento,
affondai il capo tra le gambe dinnanzi ad ogni tentazione, e mi misi
all'opera. Non fu un lavoro da eruditi né in fatto di dottrina, né
di metodo, né di scopo. Erano difetti, certo, ma non decisivi. Ho
appreso poco, infatti mi allontanai presto dalla madre e mi abituai
all'autonomia, condussi una vita libera, e un'autonomia precoce
confligge con l'apprendimento sistematico. Tuttavia ho visto molte
cose, udito, parlato con molti cani di genere e di varia professione,
tutto, credo, capendo non male né mal collegando le osservazioni
particolari, ciò ha un po' sostituito la dottrina, ma in più
l'autonomia, per quanto svantaggiosa ai fini dell'apprendimento, è
un gran vantaggio ai fini d'una ricerca personale. Tanto più
necessaria, nel mio caso, dal momento che non potevo attenermi al
particolare metodo scientifico, cioè trar profitto dell'opera dei
predecessori ed associarmi con gli studiosi contemporanei. Mi istruii
completamente da solo, iniziai con i primissimi rudimenti avendo la
consapevolezza, felice in gioventù tuttavia in sommo grado avvilente
nella vecchiaia, che l'ipotetico punto cui sarei pervenuto avrebbe
dovuto essere anche quello definitivo. Davvero fui sempre così solo
con le mie ricerche? Sì e no. Non è possibile che cani isolati, ora
e sempre, non si trovino e non si siano trovati nella mia situazione.
Non posso essere così sfortunato. La mia natura è totalmente
canina, ogni cane ha il mio stesso impulso a porre domande ed io ho
come ogni cane l'impulso a tacere. Ognuno ha l'impulso a porre
domande. Come, sennò, avrei potuto con le mie domande provocare le
sia pur lievi reazioni emotive che spesso ebbi il piacere di scorgere
incantato, del resto esageratamente. E del fatto che ho l'impulso a
tacere non ho bisogno purtroppo bisogno di alcuna prova particolare.
Dunque, io non sono in linea di massima diverso da ogni altro cane,
ognuno in fondo me lo riconoscerà, a parte le differenze d'opinione
e le antipatie, ed io farò con ogni cane la stessa cosa. Soltanto la
mescolanza degli elementi è diversa, assai incisiva sul piano
personale, molto meno sul piano collettivo. E dunque, non potrebbe la
mescolanza di questi eterni elementi esser riuscita nel passato e nel
presente mai simile alla mia e, se si vuol dire la mia mescolanza
infelice, anche molto più infelice? Ciò sarebbe contrario ad ogni
altra esperienza. Noi cani siamo alle prese con le professioni più
particolari, attività cui non si darebbe alcun credito se non se ne
avessero le notizie più degne di fiducia. Penso ora in special modo
all'esempio degli aerocani. Quando ne sentii parlare per la prima
volta, risi, non si riuscì davvero a farmici credere. Suvvia! Poteva
darsi che un cane della specie più piccola, non tanto più grosso,
anche da adulto, del mio capo, che questo cane deboluccio di natura,
creatura artificiosa, immatura, accuratissimamente pettinata, inabile
a fare un vero e proprio balzo, potesse, come si raccontava, saper
procedere nell'aria eppure inattivo, nulla facendo di visibile? Via,
mi si prendeva in giro, questo vuol dire approfittarsi un po' troppo
della mancanza di pregiudizi d'un cucciolo, credo. Tuttavia poco
tempo dopo da altra fonte sentii raccontare d'un altro cane aereo. Ci
si era messi d'accordo per prendersi gioco di me? In seguito però
vidi i cani musici e da allora ritenni tutto possibile, nessun
ripudio limitò la mia capacità di comprensione, presi in
considerazione le dicerie più insensate, le seguii fin dove potevo,
l'insensatezza massima mi parve in questa vita insensata più
probabile della piena sensatezza e proficua in particolare per la mia
ricerca. E così anche gli aerocani. In proposito imparai molte cose,
certo fino ad oggi non mi è riuscito di vederne alcuno, ma già da
molto tempo sono assolutamente convinto della loro esistenza e nella
mia immagine del mondo essi hanno il loro posto importante. Come
nella maggior parte dei casi, anche in questo com'è naturale non è
la maestria che mi dà maggiormente da pensare. E' straordinario, chi
può negarlo, che questi cani siano capaci di librarsi nell'aria, su
questa meraviglia concordo con la comunità dei cani. Ma assai più
straordinaria è per il mio sentire l'insensatezza, la silente
insensatezza di queste esistenze. In genere essa non viene motivata
quasi per niente, essi si librano nell'aria e la cosa finisce lì, la
vita continua, a tratti si parla della maestria di questi artisti,
tutto qui. Ma perché, o fondamentalmente benigna comunità dei cani,
perché mai questi cani si librano? Che senso ha la loro professione?
Perché non ci danno alcuna parola di spiegazione? Perché si librano
lassù facendo atrofizzare la gambe, orgoglio canino, separati dalla
terra che nutre, non seminando eppur raccogliendo, nutriti a quel che
si dice addirittura in modo particolarmente buono a spese della
comunità dei cani? Posso illudermi tuttavia che le mie domande
abbiano portato in quest'ambito un po' di movimento. S'inizia a
motivare, a impapocchiare un tipo di spiegazione, s'inizia, però
quest'inizio non si oltrepassa. Ma è già qualcosa. Senza certamente
che appaia la verità – mai ci si arriva – mentre appare il
profondo radicamento della menzogna. Tutte le insensate apparenze
della nostra vita, e le più insensate in modo del tutto particolare,
si lasciano per dir così motivare. Non in modo completo,
naturalmente – tale è il diabolico scherzo – ma al massimo con
il fine di proteggersi dalle domande spiacevoli. Prendiamo ancora ad
esempio gli aerocani. Non sono superbi come si potrebbe credere,
tanto per cominciare, hanno bisogni particolari assai di più del
cane medio, si provi a mettersi al loro posto e lo si capirà. Invece
devono, anche se non possono farlo apertamente – significherebbe
violare l'obbligo di mantenere il segreto – tentare di farsi
perdonare per come vivono od allontanarsi da tal modo, almeno, farlo
dimenticare, ed attuano ciò, a quanto mi si dice, con una loquacità
pressoché insopportabile. Senza tregua devono render conto in parte
delle riflessioni filosofiche che li occupano di continuo in ragione
del fatto che essi hanno rinunciato completamente alle fatiche
fisiche, in parte delle osservazioni che essi fanno dal loro elevato
punto di vista. E nonostante questo non si distinguono molto in fatto
di forza intellettuale, il che è evidente data una siffatta
scioperataggine, la loro filosofia vale poco come le loro
osservazioni, la scienza può a mala pena farne qualcosa e
soprattutto non dipende da un fattore di sostegno tanto misero,
eppure se si domanda a che cosa servono in modo particolare gli
aerocani, si continua ad avere la risposta che essi contribuiscono
molto alla scienza. “Va bene”, si replica, “ma i loro
contributi sono privi di valore e noiosi.” Un'alzata di spalle è
la risposta che segue, si cambia discorso, ci si risente o si ride, e
dopo un attimo, se si domanda ancora, si viene a sapere che essi
contribuiscono alla scienza, infine, se alla prima occasione si pone
la domanda, non riuscendo a dominarsi, la risposta è la stessa. E
forse va anche bene non ostinarsi troppo e sottomettersi, soffrire in
silenzio, senza riconoscere i suddetti aerocani nel loro diritto di
vivere, ciò che è impossibile. Di più non è consentito
pretendere, la cosa è andata troppo oltre, e tuttavia si pretende
che si tollerino sempre i nuovi aerocani che spuntano. Non si sa per
niente bene da dove vengano. Si riproducono? Ne hanno poi l'energia,
ma: se non possiedono molto più di un bel pelame, che cosa mai deve
riprodursi, in questo caso? E se fosse possibile l'inverosimile,
quand'è che dovrebbe accadere? Li si vede sempre soli, sempre
autosufficienti su nell'aria, e quando calano giù e corrono ciò
avviene solo per brevi attimi, pochi passi frettolosi e sempre
rigorosamente in solitudine, tra pretese cogitazioni da cui loro, per
quanto si sforzino, non sanno staccarsi, almeno è questo che
sostengono. Ma, se non si riproducono, sarebbe concepibile che si
trovino cani che rinunciano volontariamente alla vita a terra, che
diventano volontariamente aerocani e scelgono, in nome della facilità
e d'una certa destrezza, la monotona vita di lassù, sui cuscini
dell'aria? Non è concepibile, né è la riproduzione né l'adesione
volontaria. Eppure la realtà indica che continuano ad esserci nuovi
aerocani; se ne conclude che, per quanto invincibili possano sembrare
al nostro intelletto gli ostacoli, stranamente ancora non s'è
estinta una antica razza canina, almeno non s'è estinta con
facilità, almeno in tale razza c'era un qualcosa di vittoriosamente
combattivo nel tempo. Se questo vale per una razza così
particolarmente insensata, che sembra la più strana di tutte, com'è
quella degli aerocani, non devo accettarlo anche per la mia? Però io
non appaio affatto strano, sono un cane come ce ne sono tanti, qui,
non mi distinguo in nulla, in nulla sono spregevole, da giovane e
parzialmente durante la maturità, fin quando non mi trascurai e
molto mi mossi, fui un cane perfino grazioso, davvero, in particolare
si lodava il mio aspetto, le gambe slanciate, la bella postura del
capo, ed anche il mio pelo, grigio bianco e giallo, era assai
gradevole, riccio solo in punta, tutto ciò non è particolare,
particolare è solo il mio carattere, ma anch'esso è ben tipico del
generale carattere canino, come mai ho potuto evitare di prendere in
considerazione. Orbene, se neppure l'aerocane resta in solitudine,
qua e là se ne continua a trovare nel mondo dei cani sempre uno e
loro, gli aerocani, vanno a cavar nuove leve addirittura dal nulla,
allora anch'io posso aver fiducia di non essere lasciato solo. Certo,
quelli come me sono costretti ad una sorte particolare e la loro
esistenza già per questo mai mi sarà utile in modo chiaro, non
perché è con difficoltà che saprò sempre distinguerli. Noi siamo
gli oppressi dal silenzio, noi vogliamo romperlo proprio per bisogno
d'aria fresca, agli altri sembra di star bene, nel silenzio, certo è
solo apparenza come fu nel caso dei cani musici, che apparentemente
facevano musica sereni mentre invece erano assai agitati, tale
apparenza tuttavia è potente, si prova ad afferrarla, ma essa se la
ride di ogni assalto. Ora, come si arrangiano quelli come me? Come si
riconoscono i loro tentativi di vivere a dispetto ciò? Dipende. Io
ho tentato, fintanto che ero giovane. Potrei dunque pormi tra coloro
che fanno molte domande, ed in ciò poi li avrei come compagni. C'è
stato un periodo in cui mi sono sforzato di dominarmi, a me
interessano tuttavia coloro che sono in grado di rispondere, quelli
che seguitano ad immischiarsi con me, a suon di domande che il più
delle volte non posso soddisfare rispondendo, mi disgustano. E poi,
chi non fa volentieri domande quando è giovane? Come faccio a
scoprire tra i molti interroganti quelli giusti? Una domanda suona
come l'altra, dipende dall'intenzione, che tuttavia è nascosta
spesso anche a chi la pone. E soprattutto, domandare è certo una
particolarità canina, tutti si fanno domande a vicenda, è come se
con ciò le tracce dell'interrogante potessero esser cancellate. No,
tra gli interroganti, i giovani, non trovo quelli come me, e tra i
taciti, i vecchi, di cui ora faccio parte, li trovo ugualmente poco.
Ma a che cosa servono le domande, io certo ho fallito con le domande,
probabilmente quelli come me sono più astuti e si servono di
tutt'altri ed ottimi mezzi per sopportare questa vita, mezzi che, mi
permetto di aggiungere, magari all'occasione servono loro, li
placano, li assopiscono, agiscono in modo trasformativo sulla loro
natura, che in genere sono deboli come i miei, infatti per quanto io
vado investigando non vedo un risultato. Credo che riconoscerò
quelli come me, prima che nel risultato, in tutt'altro. Dove si
trovano poi quelli come me? Proprio questo è in questione, proprio
questo. Dove sono? Ovunque ed in nessun luogo. Forse il mio vicino è
del mio genere, a tre balzi da me, magari rumoreggiamo l'un con
l'altro, lui viene magari dalla mia parte, io dalla sua no. E' uno
come me? Non so, in lui non riconosco nulla di simile, ma può
essere. Può essere, ma niente è più improbabile; se si trova
lontano, per gioco posso scoprire, ricorrendo a tutta la mia
fantasia, numerose familiarità indiziarie, ma se poi si trova
davanti a me tutte le mie elucubrazioni fanno ridere. Un vecchio cane
anche più piccolo di me, che sono di taglia media, marrone, corto di
pelo, capo stanco e ciondolante, passi strascicati, in più trascina
la gamba posteriore sinistra a causa di una malattia che ha avuto.
Così da vicino come lui non frequento già da molto più nessuno, mi
piace tuttavia di sopportarlo abbastanza, e quando si allontana gli
grido dietro le cose più benevole, ma non per affetto, invece
arrabbiato con me stesso, infatti quando lo seguo con lo sguardo
trovo del tutto disgustoso come lui va di soppiatto con il piede che
strascica e con il posteriore troppo abbassata. A volte è come se
volessi burlarmi di me stesso, quando nel pensiero lo chiamo mio
simile. Anche nelle nostre conversazioni lui non manifesta alcuna
colleganza, certo è intelligente e, nei limiti dei nostri rapporti,
abbastanza colto, da lui potrei imparare molto, ma io sono alla
ricerca di intelligenza e di cultura? Di solito c'intratteniamo su
questioni locali ed io mi stupisco, con la perspicacia che mi deriva
dall'isolamento, di quanto spirito serva anche ad un cane normale,
anche in situazioni ordinariamente non troppo sfavorevoli, per
vivacchiare e proteggersi dai maggiori consueti pericoli. La scienza
certo fornisce regole, ma non è affatto facile capirle anche alla
lontana ed in modo grossolano, e, quando le si sono capite, subito
arriva il difficile, quello vero, vale a dire applicarle alle
situazioni locali, in questo caso pochi possono essere all'altezza
del compito, quasi ogni ora propone nuove incombenze ed ogni nuovo
pezzetto di terra le sue particolari; che uno possegga una qualche
organizzazione ai fini della sopravvivenza e che la sua vita scorra
per dir così da sola, nessuno può affermarlo di sé, neanch'io che
ho bisogni che calano addirittura da un giorno all'altro. E tutte
queste inique fatiche, a qual fine? Solo per continuare a seppellirsi
nel silenzio e per esserne estratti mai più e da nessuno. Spesso si
decanta il progresso generale della comunità dei cani nel tempo e
ciò facendo ci si riferisce in primissimo luogo al progresso della
scienza. Certo, la scienza progredisce, è inarrestabile, progredisce
addirittura acquistando velocità, sempre di più, ma che cosa c'è
da decantare? E' come se si volesse decantare qualcuno perché
invecchia di un numero crescente di anni e perciò si avvicina sempre
più velocemente alla morte. E' un progresso naturale ed anche
malvagio in cui io non trovo niente da decantare. Vedo soltanto
decadenza, con ciò non intendo dire che le generazioni precedenti
fossero migliori, quanto all'indole, erano solo più giovani, questo
era il loro gran vantaggio, la loro memoria non era ancora tanto
sovraccarica come l'odierna, era anche più facile indurle a parlare,
ed anche se a nessuno è riuscito, la possibilità era maggiore, tale
maggior possibilità era anzi quella che ci eccita tanto quando
ascoltiamo quelle vecchie storie davvero semplici, del resto. Capita
che udiamo un'allusione e quasi ci piacerebbe sobbalzare, non
sentissimo il peso dei secoli su di noi. No, che cosa ho da
rimproverare alla mia epoca, le generazioni precedenti non erano
migliori della nuova, anzi, in un certo senso erano assai peggiori e
meno forti. I casi eccezionali naturalmente neanche allora
sfuggivano, li si poteva cogliere, ma i cani non erano ancora così
canini come lo sono oggi, non posso dirlo che in questo modo, la
compagine canina era ancora indefinita, la parola autentica ai tempi
avrebbe potuto ancora entrare in azione, stabilire la struttura,
rimodularla, mutarla secondo ogni voglia, volgerla nel suo contrario,
la parola era lì, almeno, era vicina, si librava sulla punta della
lingua, tutti potevano impararla, dov'è finita oggi non si
troverebbe neppure frugando nella pancia. La nostra generazione forse
è perduta, ma non ha più colpe della generazione passata. Posso
capire la titubanza della mia generazione, anzi, non c'è alcuna
titubanza, si tratta della perdita della memoria di un sogno sognato
da mille notti e mille volte dimenticato, chi vuole avercela con noi
proprio per la millesima dimenticanza? Tuttavia io credo di capire
anche la titubanza dei nostri avi, forse noi non avremmo agito in
modo diverso, fortunati noi, vorrei quasi dire, che non dovemmo
addossarcene la colpa, che abbiamo la assai maggiore possibilità di
affrettarci verso la morte in un silenzio quasi incolpevole, in un
mondo già oscurato da altri. Quando i nostri avi deviarono, è
difficile che pensassero ad una deviazione duratura, anzi, loro
vedevano ancora in effetti il bivio, era facile tornare indietro in
qualsiasi momento, e se esitarono a tornare indietro fu solo perché
desideravano godersi un poco la vita canina, essa non era ancora
affatto proprio una vita canina, ed a loro pareva bella in modo
esaltante come più tardi doveva diventare, almeno ancora un
momentino d'indugio e continuarono nella deviazione. Non sapevano
quello che noi possiamo indovinare osservando il corso della storia,
che l'anima muta prima della vita, e che loro, quando cominciarono a
godersi la vita canina già dovevano avere un'anima canina vecchia
come si deve e che non si trovavano più tanto vicino al punto di
partenza come a loro pareva, o come voleva far loro credere il loro
sguardo gaudente d'ogni piacere canino. Oggi, chi può parlare di
giovinezza? Loro erano i veri giovani, tuttavia la loro unica
ambizione purtroppo fu quella di diventare in seguito vecchi,
qualcosa cioè d'immancabile, come tutte le successive generazioni e
la nostra, l'ultima, dimostrano al meglio. - di tutte queste cose non
parlo con il mio vicino, ma spesso sono costretto a pensarci, quando
gli sto davanti, a questo tipico vecchio cane, o quando gli affondo
il muso nel pelo che già sente di quell'odore che hanno le pellicce
dopo che sono state scuoiate. Sarebbe sciocco parlare di quelle cose
sia con lui, sia con ogni altro. Lo so, come andrebbe il discorso.
Lui solleverebbe alcune piccole obbiezioni qua e là, alla fine
acconsentirebbe – il consenso è l'arma migliore, e la cosa
verrebbe seppellita, perché dunque scomodarla dalla sua fossa? E
nonostante tutto con il mio vicino c'è forse una concordanza più
profonda che oltrepassa le mere parole. Non riesco a smettere di
sostenere ciò, eppure non ne ho alcuna prova e forse a questo
riguardo io soggiaccio ad una semplice illusione, poiché lui da
molto tempo è l'unico purtroppo con cui ho a che fare e dunque è a
lui che mi devo attenere. “Sei forse uno come me, a modo tuo? Ti
vergogni di aver fatto fiasco totale? Guarda, a me è andata nello
stesso modo. Quando sono solo mi viene da ululare, vieni, in due è
meno amaro.” Penso così, talvolta, e lo guardo dappresso. Lui non
abbassa lo sguardo, ma non c'è da cavarne nulla, mi guarda ottuso e
si meraviglia che io taccia ed abbia interrotto la conversazione. Ma
forse tale sguardo è proprio il suo modo di por domande ed io lo
deludo tanto quanto lui delude me. Da giovane, se non avessi avuto
altre domande importanti e fossi stato capace di accontentarmi quanto
bastava, forse gli avrei fatto domande a voce alta, avrei ricevuto un
debole consenso, meno di oggi, dunque, che lui tace. Ma non tacciono
forse tutti così? Che cosa m'impedisce di credere che tutti sono
come me, che io ebbi qua e là un collega ricercatore che, insieme ai
suoi minimi risultati, è sprofondato e dimenticato ed al quale non
posso più in alcun modo arrivare attraversando il buio del tempo o
la calca del presente, che da sempre e ben di più ho dei simili che,
tutti, si sforzano a modo loro, tutti infruttuosamente a modo loro,
tutti tacendo o cicalando maliziosi a modo loro, così come questa
disperata ricerca comporta. Inoltre non avrei dovuto affatto
isolarmi, però, avrei potuto restare in pace tra gli altri, non
avrei dovuto spingermi avanti come un giovinetto maleducato tra i
ranghi degli adulti, che tanto quanto me certo lo vogliono, ed
accanto ai quali basta a confondermi la loro intelligenza, la quale
dice loro che nessuno esce dai ranghi ed ogni spinta è stolta.
Considerazioni
simili sono del resto chiaramente provocate dal mio vicino, egli mi
sconcerta, mi mette nella malinconia completa; e pensare che è
piuttosto allegro, di per sé, almeno, io lo sento, quando si trova
nella sua cerchia, gridare e cantare al punto di darmi noia. Sarebbe
bene rinunciare anche a questa relazione, non inseguire vane
fantasticherie quali ogni relazione canina, eppure ritenuta
temperata,fa inevitabilmente sorgere, ed utilizzare il poco tempo che
mi resta soltanto per le mie ricerche. La prossima volta che viene mi
nasconderò e fingerò di dormire, e lo rifarò fino a quando lui non
smetterà.
Veramente,
nelle mie ricerche è intervenuto del disordine, cedo, mi stanco,
trotterello ancora soltanto meccanicamente, laddove correvo con
entusiasmo. Ripenso a quando iniziai ad esplorare la questione “da
dove la terra prende il nostro nutrimento?”. Allora vivevo in mezzo
al popolo, si capisce, mi spingevo là dove esso era più fitto,
volevo render tutti testimoni delle mie fatiche, tale testimonianza
per me era anche più importante del mio lavoro, poiché anzi mi
aspettavo ancora qualche risultato d'interesse generale. Da ciò
ricavavo naturalmente un gran calore che ora, nella mia solitudine, è
finito. Allora però ero così forte da compiere qualcosa
d'incredibile, che si opponeva ad ogni nostro principio, ed ogni
testimone oculare dell'epoca certo lo ricorda come qualcosa di poco
rassicurante. Nella scienza, che per altro tende ad una
specializzazione senza limiti, trovai in un certo senso una notevole
semplificazione. Essa insegna essenzialmente che la terra fornisce il
nostro nutrimento e, con tale premessa, indica i metodi secondo i
quali si fanno cogliere i vari cibi nel modo migliore e con la
massima abbondanza. Ora, certo è esatto che la terra fornisce il
nutrimento, non può esserci dubbio, ma non è così semplice come di
solito viene descritto senza ulteriore indagine. Si prendano però i
casi anche più semplici che si ripetono ogni giorno. Se fossimo del
tutto inoperosi come ormai lo sono quasi io, se ci acciambellassimo
dopo aver lavorato un poco la terra ed aspettassimo quel che viene,
in quel caso, ammesso che un qualcosa spuntasse, lo troveremmo, il
nutrimento nella terra? Questo tuttavia di regola non avviene. Chi
solo ha mostrato solo un po' di spregiudicatezza nei confronti della
scienza – e di costoro ce ne sono pochi, si capisce, infatti la
scienza attira cerchie sempre più larghe – facilmente riconoscerà,
anche se non si prefigge particolari osservazioni, che la maggior
parte del nutrimento che finisce col trovarsi sulla terra scende
dall'alto, anzi, mai una volta che noi lo s'intercetti, secondo
destrezza e bramosia, prima che tocchi terra. Con ciò ancora non
dico alcunché contro la scienza, è anche la terra, naturalmente, a
recare questo nutrimento, sia quello che trae da sé sia quello che
chiama giù, forse non c'è alcuna differenza, per la scienza,
appurato che in entrambi i casi il lavoro della terra è necessario,
essa forse non deve curarsi di questa differenza, ma ciò vuol dire:
“se ci hai in bocca il cibo, allora per questa volta hai risolto
ogni questione.” Solo che a me pare che la scienza si occupi di
queste cose almeno in parte in forma meno chiara, dato che essa
conosce invece due metodi principali di provvista di nutrimento,
quello della lavorazione vera e propria del suolo e quello di
integrazione e perfezionamento nella forma di formule magiche, danza
e canto. La trovo una bipartizione certo incompleta, eppure
abbastanza chiara ed adeguata alla mia differenziazione. Secondo la
mia opinione la lavorazione del suolo serve alla produzione del
nutrimento che viene dall'alto e di quello che viene dal suolo e
rimane sempre indispensabile, formule magiche, danza e canto
riguardano invece in modo più limitato il nutrimento che viene dal
suolo, e servono soprattutto a trarlo dall'alto. Mi rinforza in tal
concezione la tradizione. Qui il popolo sembra correggere la scienza
senza saperlo e senza che la scienza osi difendersi. Se, come vuole
la scienza, quelle cerimonie potessero servire solo al suolo per
dargli all'incirca la forza di cogliere il nutrimento dall'alto, esse
dovrebbero di conseguenza compiersi tutte per terra, tutto il suolo
dovrebbe essere oggetto di sussurri, di canti e danze. La scienza non
richiede altro, per quanto ne so. E dunque è curioso che il popolo
con tutte le sue cerimonie si rivolga verso l'alto. Ciò non offende
affatto la scienza, essa non lo vieta, all'agricoltore ne lascia la
libertà, dal punto di vista dottrinario prende in considerazione
solo il suolo, e se l'agricoltore mette in pratica le di lei dottrine
che fanno riferimento al suolo, è soddisfatta, ma secondo la mia
opinione il di lei ragionamento dovrebbe veramente richiedere di più.
Ed io che mai sono stato con maggiore profondità iniziato alla
scienza, non riesco proprio ad immaginarmi come gli eruditi possano
tollerare che il nostro popolo, passionale com'è, invochi l'alto con
formule magiche, faccia echeggiare le nostre vecchie canzoni popolari
e compia passi di danza come se, scordandosi in modo definitivo il
suolo, volesse lanciarsi all'insù. Evitai di rilevare queste
contraddizioni, mi trattenni, dinnanzi al totale farsi prossimo al
suolo del raccolto, sempre secondo le dottrine scientifiche lo
razzolai danzando, torsi il capo giusto per essere il più possibile
vicino al suolo, mi feci poi una buca per il muso e cantai, declamai
in modo che solo il suolo, e nessun altro intorno o sopra a me,
udisse. I risultati della ricerca furono scarsi, spesso non ebbi cibo
e già ero sul punto di esultare per la mia scoperta, ma poi il cibo
venne di nuovo come se prima fosse stata fatta della confusione
tramite la mia particolare esecuzione, ma a questo punto riconobbi il
vantaggio che essa induce e rinunciai volentieri al mio gridare e
saltare, spesso il cibo venne anche più abbondante di prima,
tuttavia in seguito venne di nuovo a mancare del tutto. Con una
diligenza che fin lì al cane giovinetto era stata ignota feci
minuziosi elenchi di tutti i miei tentativi, a tratti ebbi
l'impressione di trovare una traccia che potesse farmi progredire, ma
dopo essa si perse ancora nell'indistinto. In quest'occasione mi
ostacolò incontestabilmente anche la mia insufficiente preparazione
scientifica. Chi mi garantiva per esempio che la mancanza di cibo non
fosse causata dal mio esperimento bensì da una lavorazione del suolo
non scientificamente corretta e che la mancanza di cibo non ne fosse
il risultato, quindi tutte le mie deduzioni erano inconsistenti. In
certe circostanze avrei potuto pervenire ad un esperimento quasi del
tutto preciso, se cioè mi fosse riuscito, senza alcuna lavorazione
del suolo, di arrivare una volta sola per mezzo di cerimonie rivolte
verso l'alto, alla venuta in basso del cibo. Feci tentativi del
genere, ma senza solida fede e senza condizioni sperimentali
perfette, infatti secondo la mia salda opinione almeno una certa
lavorazione del suolo è sempre utile, ed anche se gli eretici, che
non lo credono, avessero ragione, ciò tuttavia non sarebbe
prevedibile poiché lo spruzzare di liquido sul suolo avviene a causa
di un bisogno ed entro certi limiti è inevitabile. D'altra parte un
altro esperimento un po' singolare mi riuscì meglio e fece qualche
scalpore. Successivamente all'usuale attesa del nutrimento dall'aria
decisi cioè di non far cadere giù il nutrimento né di aspettarlo.
A tale scopo spiccai sempre, quando veniva il nutrimento, un piccolo
salto tuttavia tanto calcolato che non fu sufficiente; nella
maggioranza dei casi il nutrimento cadde anzi al suolo alla stanca ed
io mi ci gettai sopra furente, non solo con la furia della fame,
bensì con quella anche della delusione. In casi isolati accadde
tuttavia qualcosa di diverso, qualcosa di particolarmente
straordinario, il cibo non cadde, ma mi seguì in aria, il nutrimento
dette la caccia all'affamato. Avvenne per breve tratto, non a lungo,
poi esso cadde, o scomparve del tutto, o – più frequentemente –
la mia brama esaurì l'esperimento ed io mangiai tutto quanto. Fui
pur sempre fortunato, allora, attorno a me si bisbigliò, si fu
inquieti, e trovai i miei conoscenti, diventati guardinghi,
disponibili alle mie domande, nei loro occhi vidi farsi luce un
qualche sostegno, ciò poteva essere anche solo il riflesso del mio
sguardo, mi bastò, fui contento. Finché poi venni a sapere – e
gli altri con me – che questo esperimento da lungo tempo è
descritto dalla scienza, che è riuscito già molto meglio che non a
me, ma che da molto non è stato compiuto a causa della difficoltà
dell'autocontrollo che esso richiede, e neanche deve essere ripetuto
a causa della sua pretesa irrilevanza scientifica. Appariva solo
quello che si sapeva già, che il suolo non coglie il nutrimento
proprio esattamente dall'alto, ma di sbieco, anzi, addirittura a
guisa di spirale. Ci rimasi, dunque, ma non scoraggiato, ero ancora
troppo giovane, al contrario, fui incitato alla prestazione forse più
grande della mia vita. Alla svalutazione scientifica del mio
esperimento non credevo, ma in ciò non mi sosteneva alcuna fede,
bensì soltanto la dimostrazione, e volli intraprenderla con
l'intenzione di mettere per mezzo di tale dimostrazione in piena luce
al centro della ricerca anche il seguente esperimento un po'
particolare. Intendevo dimostrare che quando io indietreggiavo al
cospetto del cibo il suolo non lo attirava di sbieco, bensì ero io
che me lo attiravo dietro. Del resto l'esperimento non potei portarlo
avanti, vedere la pappatoria davanti a sé e sperimentarci sopra
scientificamente, non si riusciva a sopportarlo a lungo; tuttavia
intesi di far qualcos'altro, fin quando resistetti alla totale fame
volli evitare ogni allettamento del cibo ed insieme ogni vista.
Quando mi abbandonai così, ad occhi chiusi giorno e notte rimanendo
disteso non curandomi di raccogliere il nutrimento né di aspettarlo,
io non osavo sostenere tuttavia speravo sommessamente questo, che, in
assenza di tutte le usuali misure, a parte l'inevitabile irrazionale
innaffiatura del suolo, ed in presenza della recitazione segreta
delle formule e delle canzoni (volli omettere la danza per non
affaticarmi), ugualmente il nutrimento venisse giù e, trascurando il
suolo, bussasse alla porta dei miei denti per esser fatto entrare –
se accadeva ciò la scienza mica era confutata, essa possiede
sufficiente elasticità in rapporto ad eccezioni e casi particolari,
ma il popolo, che tanta elasticità per fortuna non possiede, che
cosa avrebbe detto? Non sarebbe stato proprio un caso eccezionale
rispetto a come si tramanda nella storia che, per dire, un tizio a
causa di malattia fisica o per sua tetraggine si rifiuta di preparare
il nutrimento, di cercarlo, di accoglierlo, e allora la comunità dei
cani si raduna, formula suppliche ed ottiene che il nutrimento devii
dal suo normale percorso diritto in bocca al malato. Io che invece
ero pieno di forza e di salute, che avevo un appetito così
meraviglioso da impedirmi di pensare ad altro durante la giornata, mi
sottoposi, lo si voglia credere o no, volontariamente alla fame, ero
pure in grado di preoccuparmi della discesa del nutrimento e ne avevo
l'intenzione, non necessitavo dunque di alcun aiuto della comunità
dei cani ed essa nel modo più deciso me lo sconsigliava. Mi cercai
un posto adeguato all'interno d'una boscaglia appartata dove non
avrei udito in alcun modo parlare di cibo, né masticare né
sgranocchiare ossi, mi riempii ancora una volta per bene e poi mi
sdraiai. Avevo intenzione di trascorrere se possibile tutto il tempo
con gli occhi chiusi; per tutta la durata della fame sarebbe stata
per me notte ininterrotta, durasse giorni o settimane. Mi riuscì
poco però, grave difficoltà aggiuntiva, di dormire, quasi per nulla
magari, infatti non solo dovevo implorare la discesa del nutrimento,
ma anche stare in guardia allo scopo di non distrarmi dormendo, per
dir così, d'altro canto dormire era ottimale, perché dormendo avrei
potuto sopportare la fame molto più a lungo che da sveglio. Perciò
decisi di frazionare con cura il tempo e di dormire molto, ma ogni
volta per brevissimi tratti. Ci riuscii in questo modo, dormendo
appoggiavo sempre il capo ad un ramo sottile che presto si piegava,
con ciò svegliandomi. Giacqui così, dormii o vegliai, sognai o
cantai muto per me stesso. Il tempo dapprima trascorse senza che
avvenisse alcunché, forse là da dove perviene il nutrimento non era
stato notato che io mi opponevo al corso normale delle cose, e così
tutto restò tranquillo. Un poco nella mia fatica mi disturbò il
timore che i cani si accorgessero che non c'ero, che presto mi
rintracciassero ed intraprendessero qualcosa contro di me. Un altro
timore era che semplicemente annaffiandolo lì, il suolo, per quanto
infecondo fosse stando alla scienza, fornisse il cosiddetto
nutrimento fortuito il cui odore mi avrebbe attirato. Non accadde
tuttavia per il momento niente del genere ed io potei continuare il
digiuno. A prescindere da questi timori io fui per il momento calmo
come mai prima in me era stato osservabile. Per quanto io stessi
lavorando all'abrogazione della scienza, ero colmo dell'agio e quasi
della proverbiale serenità degli operatori scientifici. Fantasticai
di esser perdonato dalla scienza, nel suo ambito c'era uno spazio
anche per le mie ricerche, nelle orecchie mi risuonò consolante che,
anche nel caso che le mie ricerche avessero successo, non solo, ma
successo particolarmente grande, io non ero perduto alla vita canina,
la scienza stava dalla mia, essa stessa avrebbe interpretato i miei
risultati, e tale promessa significava di per sé la realizzazione,
sarei, mentre fin lì interiormente mi sentivo escluso ed assalivo
selvaggiamente le mura del mio popolo, stato elevato a grandi onori,
il bramato calore dell'adunato corpo canino sarebbe confluito su di
me, premiatissimo avrei sobbalzato sulle spalle del mio popolo.
L'inizio della fame genera quest'effetto particolare. La mia
prestazione mi pareva tanto grande che cominciai a piangere di
commozione e di autoindulgenza lì, nella silente boscaglia, cosa del
resto non tanto comprensibile, se aspettavo il meritato premio,
infatti, perché poi piangevo? Solo perché mi faceva comodo. Non mi
era mai andato a genio il mio pianto. Sempre e solo se mi faceva
comodo, piuttosto di rado, ho pianto. Però quella volta finì alla
svelta. Le belle immagini si volatilizzarono gradualmente con
autol'acuirsi della fame, non durarono, ed io restai solo, dopo
veloce congedo di tutte le fantasie e d'ogni commozione, con la fame
che mi bruciava le viscere. “E' la fame”, mi dissi allora mille
volte come se volessi convincermi che io e la fame fossimo ancor
sempre due cose distinte ed io potessi liberarmene come d'una amante
noiosa, ma in realtà noi eravamo dolorosissimamente una cosa sola, e
se mi spiegavo che “era la fame” parlava la fame stessa e con ciò
si prendeva gioco di me. Brutto momento, brutto! Se ci penso mi
vengono i brividi, non solo però per la pena dentro cui sono
passato, ma prima di tutto perché non l'avevo spuntata, perché in
tale pena avrei dovuto passare ancora se volevo ottenere qualcosa,
ancor oggi digiunare io lo considero infatti come il definitivo e più
potente mezzo della mia ricerca. Dalla fame passa la via, il massimo
non è altro che la più alta prestazione raggiungibile, se
raggiungibile, e tale prestazione più alta è tra noi cani il
digiuno volontario. Se approfondisco dunque quei tempi – e vado
rivangandoli molto volentieri – approfondisco anche i tempi che su
di me incombono. Sembra che si debba lasciar passare quasi una vita
prima di rimettersi ad una prova del genere, tutti gli anni della mia
maturità mi separano da quel digiuno, ma ancora non mi sono ripreso.
Se prossimamente inizio a digiunare, forse avrò più saldezza di
allora come effetto della mia maggiore esperienza e del miglior
discernimento della necessità della prova, ma le mie forze sono più
scarse di allora, per lo meno, mi esaurirò già nella mera attesa
dei noti timori. Il mio appetito più debole non mi gioverà,
scredita solo un poco la prova e forse mi costringerà a digiunare
più a lungo di quanto sia stato capace quella volta. Di tali
presupposti e di altri credo di rendermi conto, certo in questo lungo
intervallo di tempo non sono mancati esperimenti preliminari,
abbastanza spesso nella fame vera e propria ci sono cascato, ma non
fui forte al massimo, e la spregiudicata aggressività giovanile
naturalmente è svanita per sempre. Già allora scemava, nel corso
della fame. Mi tormentavano riflessioni varie. I nostri avi mi
sembravano minacciosi. Certo, io li considero, anche se non oso dirlo
pubblicamente, responsabili di tutto, hanno colpa della vita canina
ed io potrei rispondere facilmente alla loro minaccia con una
contro-minaccia, ma mi inchino al cospetto della loro dottrina, essa
ebbe origine dal tormento di cui noi non siamo più consapevoli,
perciò, anche se sono spinto a battermi contro di loro, mai
trasgredirei manifestamente le loro leggi, mi limito a sfuggire
attraverso le smagliature della legge, per cui possiedo un naso
particolare. In merito al digiuno mi appello al celebre dialogo nel
cui corso uno dei nostri saggi espresse l'intenzione di proibirlo,
ciò di cui un secondo lo sconsigliò domandando: “Ma chi vuoi che
digiuni?”, ed il primo rimase persuaso ritirando la proibizione.
Ora si ripropone la questione: “Allora, il digiuno non è
propriamente proibito?” La maggior parte degli esegeti la rigetta e
ritiene consentito il digiuno, è dell'opinione del secondo saggio e
per questo non teme alcuna spiacevole conseguenza d'una esegesi
erronea. Me ne sono accertato bene prima di iniziare il digiuno.
Però, quando mi contorsi dalla fame ed in preda alla confusione
mentale cercai senza tregua scampo nelle mie gambe posteriori
leccandole disperato, masticandole, succhiandole fino all'ano,
l'interpretazione generale di quel dialogo mi parve del tutto falsa,
maledissi la dottrina esegetica, maledissi me stesso che da tal
dottrina mi ero fatto ingannare, anzi, come un giovinetto doveva, in
particolare uno che aveva fame, compresi il dialogo come un tutt'uno
che proibiva il digiuno, il primo saggio intendeva proibirlo, ciò
che una persona assennata vuole è già cosa fatta, il digiuno dunque
era vietato, il secondo saggio non solo approvava, ma riteneva il
digiuno addirittura impossibile, dunque scorreva nel primo divieto
anche un secondo divieto, quello naturale canino, il primo lo
apprezzava e poneva un freno al divieto formale, in altri termini
comandava ai cani, tutto ciò esposto, di esercitare saggezza e di
vietarsi il digiuno. Un divieto triplo, invece che l'unico abituale,
ed io lo avevo violato. Avrei dunque a questo punto obbedito, certo,
in ritardo, e smesso il digiuno, ma oltre che tormentato venni
sedotto dalla continuazione del digiuno, e, lascivo come un qualsiasi
cane, cedetti. Non riuscii a smettere, forse ero anche già troppo
fiaccato per tirarmi su e mettermi in salvo nella contrada
circostante. Mi rotolai qua e là nello strame fogliaceo, dormire non
potevo più, udivo in particolar modo dello strepito, con la mia fame
pareva essersi destato il mondo che durante la mia vita fino a quel
momento aveva dormito, mi immaginai che mai più sarei stato
autorizzato a mangiare, mangiando dovevo infatti riportare al
silenzio il mondo lasciato libero di strepitare e non ne sarei stato
capace, del resto il maggior strepito me lo sentivo nella pancia, ci
mettevo l'orecchio sopra e devo aver avuto l'orrore nello sguardo,
perché facevo fatica a credere a quel che udivo. Ed allorquando ciò
si aggravò, sembrò che anche la vertigine s'impadronisse della mia
fisicità che compì insensati tentativi di salvezza, cominciai a
sentire odore di cibo, cibo squisito che da tanto tempo non avevo più
mangiato, gioie della mia infanzia, anzi, sentii l'odore del seno di
mia madre; dimenticai la mia decisione di voler resistere agli odori,
o meglio non la dimenticai, me la trascinai dietro da ogni parte come
se si trattasse di una decisione necessaria, pochi passi soltanto ed
annusavo come se cercassi unicamente il cibo allo scopo di
guardarmene. Di non trovare niente non mi scoraggiai, i cibi erano
erano lì, solo pochi passi oltre, mi si piegavano prima le gambe.
Sapevo però insieme che non c'era alcunché, che facevo quei piccoli
movimenti solo per via dell'angoscia in vista del fallimento
definitivo in un posto che non avrei più lasciato. Svanirono le
ultime speranze, gli ultimi allettamenti, in questo posto sarei
andato miseramente in rovina, che significato avevano le mie
ricerche, tentativi infantili del tempo infantile più felice, qui ed
ora la cosa era seria, la ricerca era qui che avrebbe potuto
dimostrare il suo valore, ma lei dov'era? Qui c'era solo un cane che
impotente cercava di addentare a vuoto, che ancora, anzi, in modo
spasmodicamente frettoloso continuava ad innaffiare il suolo, ma
dall'intero guazzabuglio delle formule magiche non riusciva a farsi
venire in mente più nemmeno quella più misera, neppure la strofetta
dei neonati che si rannicchiano sotto la loro madre. Era come se
fossi separato dai fratelli non di pochi balzi, ma infinitamente
fossi lontano da tutti, come se mica crepassi di fame vera e propria,
bensì in conseguenza del mio stato di abbandono. Era però evidente
che a nessuno importava di me, a nessuno sotto terra, a nessuno
sopra, a nessuno in alto, andavo in rovina nella loro indifferenza,
che diceva: lui crepa, cose che capitano. E io, non sono d'accordo?
Non ho detto la stessa cosa? Non l'ho voluta, questa solitudine?
Certo, cani, ma non per arrivare a questo punto, per giungere invece
alla verità via da questo mondo di menzogna dove non si trova
nessuno da cui si possa venire a sapere la verità, neanche da me,
nato cittadino della menzogna. Forse la verità non si trovava
affatto lontana, solo che lo era per me, che fallivo e crepavo. Non
si muore tuttavia tanto alla svelta come crede un cane nevrotico.
Caddi solo nell'impotenza, e quando mi destai ed aprii gli occhi, lì
davanti c'era una cane sconosciuto. Non sentivo nessuna fame, ero
molto in forze, mi pareva che nelle giunture vi fosse elasticità,
per quanto non facessi alcun tentativo di verificarlo mettendomi in
piedi. Guardai senza particolare attenzione, davanti a me c'era un
cane, bello, ma non in modo insolito, vidi questo e nient'altro, ma
ritenendo di guardarlo attentamente. Sotto di me c'era sangue, alla
prima occhiata pensai che fosse cibo, ma poi riconobbi che si
trattava di sangue che avevo vomitato io. Mi volsi dal sangue verso
il cane sconosciuto. Magro, di gamba lunga, marrone, qua e là
chiazzato di bianco, aveva un bello sguardo, forte, indagatore. “Che
cosa ci fai, qui?”, disse, “devi andartene.” “Ora non riesco
ad andarmene”, dissi senza altre spiegazioni, come avrei infatti
potuto spiegargli tutto, inoltre sembrava che avesse fretta. “Per
favore, vattene”, disse, ed irrequieto sollevò una gamba dopo
l'altra. “Lasciami perdere”, dissi, “va', e non ti preoccupare
per me, gli altri non se ne preoccupano.” “Te ne prego, per il
tuo bene”, disse. “Prega per quello che vuoi”, dissi, “anche
se volessi, io non posso.” “Ci manca solo questo”, disse
sorridendo. “Tu puoi farcela. Appunto perché sei debole ti prego
di andartene piano piano, se esiti poi dovrai correre.” “Lascia
che ad occuparmene sia io”, dissi. “E' anche affar mio”, disse
contristato dalla mia caparbietà, e visibilmente stava già per
lasciarmi lì in via provvisoria, ma anche per approfittare
dell'occasione di avvicinarsi a me amorevolmente. In un altro momento
volentieri avrei lasciato correre la cosa con indulgenza, ma in quel
caso non la capivo e mi fece orrore, “Via”, gridai più alto di
quanto del resto fosse giustificato. “Sì sì, ti lascio”. Disse
arretrando lentamente. “Sei strano. Non ti piaccio?” “Tu mi
piacerai se te ne vai e mi lasci in pace”, dissi, ma non ero più
tanto sicuro di me come volevo far credere. Un qualcosa lo vedevo, in
lui, con la mia sensibilità acuita dalla fame, era all'inizio,
cresceva, si approssimava, ed io già lo sapevo: questo cane è in
possesso della forza di cacciarti da qui, per quanto tu non possa
immaginarti come potresti mai alzarti. E lo guardai con brama
crescente, lui che aveva scosso solo un poco il capo davanti alla mia
grossolana risposta. “Chi sei?”, domandai. “Sono un
cacciatore”, disse. “E perché non vuoi lasciarmi qui?”,
domandai. “Mi disturbi”, disse, “non posso cacciare se tu sei
qui.” “Provaci”, dissi, “forse ci riuscirai, a cacciare.
“No”, disse, “mi rincresce, ma devi andartene.” “Non
cacciare, oggi!”, lo pregai. “No”, disse, “Devo.” “Io
devo andarmene, tu devi cacciare, dissi, “non c'è che il dovere.
Lo capisci, tu, perché noi dobbiamo?” “No”, disse, “ma non
c'è nulla da capire, sono cose naturali ed evidenti”. “Eh no”,
dissi, “ti rincresce di dover mandarmi via e ciò nonostante lo
fai.”E' così”, disse. “E' così”, ribattei io contrariato,
“non è una risposta. Qual rinuncia ti è più agevole, quella a
cacciare o quella a mandarmi via?” “La rinuncia alla caccia”,
disse senza indugio. “Ordunque, c'è una contraddizione.” “Quale
contraddizione?”, disse. “Tu, caro cagnolino, davvero non lo
capisci che io devo? Non capisci quel che è evidente?” Cessai di
replicare perché mi accorsi – e nuova vita perciò mi attraversò,
vita come ne dà il terrore – mi accorsi da impercettibili dettagli
che nessuno tranne me forse avrebbe potuto notare, che il cane dal
profondo del suo petto dava inizio ad un canto. “Tu canterai”,
dissi. “Sì”, disse serio, “presto canterò, ma non ancora.”
“Tu stai iniziando”, dissi. “No”, disse, “ancora no. Ma
tienti pronto.” “Lo sento già, anche se tu neghi”, dissi
tremando. Tacque. Ed allora credetti di riconoscere qualcosa di cui
nessun cane prima di me mai è venuto a conoscenza, almeno, non se ne
trova nella tradizione il minimo accenno, ed affondai svelto con
infinita ansia e vergogna la faccia nella pozza di sangue davanti a
me. In altri termini ritenni di riconoscere che il cane già stava
cantando senza saperlo, anzi di più, che la melodia si staccava da
lui librandosi via nell'aria secondo una propria legge, come se lui
non ne fosse partecipe, tendendo verso di me, solo verso di me. Oggi
nego naturalmente qualsiasi riconoscimento del genere e ne
attribuisco la responsabilità alla mia sovreccitazione del momento,
ma, per quanto la cosa fosse un errore, un errore di una certa
grandiosità, si tratta dell'unica per quanto apparente realtà che
ne ho conservato ed indica almeno quanto lontano noi possiamo
arrivare per mezzo dell'essere forsennati. Ed io lo ero veramente. In
circostanze normali sarei stato profondamente invalido, incapace di
muovermi, ma non riuscii a resistere alla melodia che il cane presto
sembrò adottare come fosse sua. Essa si faceva sempre più poderosa;
la sua espansione forse non aveva limiti, e già stava quasi
facendomi scoppiare l'udito. Il peggio era però che sembrava fatta
per me, questa voce davanti alla cui solennità il bosco ammutolì,
soltanto per me, chi ero io che osavo restare ancora lì adagiato al
suo cospetto nel mio sudiciume sanguinolento? Tremante mi sollevai e
mi guardai sotto, “questa roba qui non correrà”, pensai, ma già
fuggivo con i più magnifici balzi scacciato dalla melodia. Ai miei
amici non raccontai nulla, probabilmente al mio arrivo avrei
raccontato ogni cosa, forse, ma dopo tornò a sembrarmi in
comunicabile, ero troppo stanco. Parlando, irreprimibili allusioni si
persero senza lasciare traccia. Del resto mi rimisi in poche ore,
fisicamente, spiritualmente ne sopporto ancora le conseguenze.
Estesi
tuttavia le mie ricerche sulla musica dei cani. Anche in questo caso
ebbe a che farci certo la scienza, la musicologia è, se sono ben
informato, ancora più vasta della scienza nutrizionale e comunque
fondata in modo più rigoroso. Ciò è spiegabile con il fatto che in
quest'ambito si può lavorare più spassionatamente che in quello, e
che in musicologia sono più in questione osservazioni pure e
sistematizzazioni, nella scienza nutrizionale al contrario sono in
questione conseguenze pratiche. Ne deriva che il rispetto per la
musicologia è maggiore di quello per la scienza nutrizionale, la
prima tuttavia non poté mai penetrare in seno al popolo così
profondamente come la seconda. Anch'io nei confronti della
musicologia mi posi più da estraneo che nei confronti d'una qualche
altra scienza, prima di aver udito la voce nel bosco. Certamente già
l'esperienza dei cani musici aveva attirato la mia attenzione sulla
musicologia, ma allora ero ancor troppo giovane, inoltre a questa
scienza non è facile anche soltanto accostarsi, è considerata
difficile in modo particolare e resta segregata preziosamente
rispetto alla massa. Nel caso di quei cani la musica era stata
davvero la cosa più notevole, ma a me sembrò più importante della
musica la di lei segreta essenza, forse e soprattutto non si trova
alcunché di simile a quella musica orrifica, altrove, dapprima ce la
feci a trascurarla, ma quell'essenza ovunque, in ogni cane, poi mi
colpì. Al fine di penetrare nella natura canina mi sembrarono
tuttavia, le ricerche in merito al nutrimento, conducenti alla meta
nel modo più appropriato e privo di lungaggini. Forse in questo mi
sbagliavo. Sospettavo già allora che tra le due scienze vi fosse
un'intersezione. Si tratta della nozione per cui il canto attira in
basso il nutrimento. Ancora, in questo caso, per me è assai
disturbante che anche in musicologia io non sia mai penetrato
seriamente e che a tal riguardo assolutamente mai riesca a contare su
quella mezza cultura sempre particolarmente disdegnata dalla scienza.
Al cospetto d'un erudito reggerei molto male, purtroppo ne sono
consapevole, anche nella più semplice verifica scientifica. Ciò
dipende com'è naturale, in rapporto alle già menzionate circostanze
della mia vita, per prima cosa dalla mia inabilità scientifica,
dalla modestissima potenza di pensiero, dalla cattiva memoria, e
soprattutto dall'incapacità di mantenermi davanti agli occhi la meta
scientifica. Ammetto tutto ciò, anche con una certa gioia. Infatti
la ragione più profonda della mia inabilità scientifica a me pare
risiedere in un istinto, e però non negativo. Se volessi darmi arie
potrei dire che proprio questo istinto ha distrutto la mia abilità
scientifica, infatti sarebbe per lo meno un fatto assai notevole che
io, che mostro nelle normali cose quotidiane della vita, che certo
non sono le più semplici, un discreto ingegno e che soprattutto, se
non la scienza, comprendo molto bene gli eruditi, come si verifica
dai miei risultati, a priori dovessi essere stato inabile a sollevare
la zampa anche soltanto fino al primo gradino della scienza. Fu
l'istinto che proprio per amor della scienza, ma di un'altra scienza
rispetto a quella praticata oggi, una scienza nuovissima, che mi fece
stimare più di tutto il resto la libertà! La libertà beninteso che
oggi è possibile, una pianta modesta. Ma pur sempre libertà, pur
sempre un bene.
(Dedico questa traduzione a Anita Rho e a Ervino Pocar (N.S.))
(Dedico questa traduzione a Anita Rho e a Ervino Pocar (N.S.))
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