martedì 1 settembre 2015

Le carte lasciate da Kafka

Lo scrittore Max Brod ebbe incarico da Kafka di far fuori le carte che l'interessato morendo lasciava forse senza avere la forza di farle fuori lui stesso. Brod non eseguì, ecco perché leggiamo Kafka, inclusi i testi da lui scritti per fini personali. Del resto nei Diari ci sono brani narrativi eccellenti. Brod si portò in Palestina le carte che poi, dopo una serie di controversie legali comprensibili, sono finite in mano allo Stato d'Israele. Come la Palestina. 
Anche Kafka aveva una mezza idea di andare in Palestina; se leggiamo una delle prime, se non la prima lettera scritta da lui a Felice Bauer, vi si trova un accenno. Le lettere scritte a Felice Bauer, fidanzata di Kafka, furono conservate da lei e poi vendute, quando Kafka, diversi decenni dopo la sua morte, era diventato celebre. Ecco perché volendo possiamo leggerle.

domenica 1 marzo 2015

Libertà o meglio via d'uscita

Il penultimo racconto di K qui pubblicato consiste in una relazione tenuta da uno scimpanzé al cospetto di professori universitari in merito alla trasformazione di lui stesso da animale selvatico in animale umanizzato, parlante e all'incirca integrato nella società con il ruolo di attrazione teatrale. Com'è ovvio si tratta di un racconto che si pone oltre la nostra abituale realtà, dal momento che gli scimpanzé non parlano né filosofeggiano come invece fa Rotpeter, questo il nome del protagonista. Si è tentati di non limitarsi a considerare l'animalismo di K, evidente, ma di apprezzare anche la distinzione da lui offerta tra via d'uscita (Ausweg) e libertà. Che non riguarda solo gli animali, ma tutti noi, che siamo, certo in modo meno crudele di quanto non capiti a Rotpeter, strappati dalla dimensione della nostra natura animale, tramite la cosiddetta socializzazione, ed immessi nella dimensione umana, matura, civile e così via. Di libertà non si può parlare, decentemente, per nessuno, ed allora acquista valore il modo di uscirne, dall'imprigionamento della civiltà; la via d'uscita.

venerdì 27 febbraio 2015

Condanna paterna

Nel post precedente si pubblica la traduzione di un racconto del primo Kafka. Merita chiarire che l'autore mette il lettore in grado di confrontare i due diversi punti di vista del figlio e del padre sulla stessa materia. Il padre sembra passabilmente rimbambito, sì, il figlio d'altra parte appare alquanto capace di raccontarsi delle frottole e di crederci. Quanto al suicidio finale, esso risponde più allo sgomento della scoperta, da parte del figlio, di essere un ipocrita, che non all'assurda condanna pronunciata dal padre - a "morire annegato". Retorica presa alla lettera. K non è, qui, "vittimologicamente" schierato dalla parte del figlio. Il motivo è semplice: K non era un cretino.

F.Kafka: La sentenza. Una storia.

Per F.

Avvenne una domenica mattina di primavera, magnifica. Georg Bendemann, giovane commerciante, sedeva in camera sua al primo piano di uno dei casamenti senza pretese che si estendono lungo il fiume, diversi tra loro quasi solo in fatto di colore ed altezza. Era al termine di una lettera ad un amico che si trovava all'estero, la concluse con lentezza compiaciuta e poi guardò, appoggiati i gomiti sulla scrivania, il fiume fuori dalla finestra, i ponti e le alture oltre l'altra riva, con il loro delicato verde.
Meditava sul modo come questo amico, scontento della sua carriera in patria, da anni era per davvero scappato in Russia. Ora aveva un'occupazione a Pietroburgo che era iniziata molto bene, ma da tempo pareva già ristagnare, come l'amico lamentava nelle sue sempre più rare visite. Così all'estero lui si arrabattava a vuoto, l'esotica barba riusciva maluccio a nascondere il ben noto viso degli anni giovanili, di cui il colorito giallastro sembrava indicare lo sviluppo d'una malattia. Come andava raccontando, lui non aveva nessuna relazione vera e propria con la locale colonia dei connazionali, neanche quasi alcun rapporto sociale con famiglie del posto, e si preparava a ritrovarsi definitivamente scapolo.
Che cosa scrivere ad un uomo simile, tanto evidentemente fissato di essere uno da compatire, non da aiutare? Gli si poteva forse consigliare di far ritorno in patria, di ritrasferirci la sua vita, di riprendere tutte le vecchie relazioni amichevoli – al che nulla era certo d'ostacolo – e di confidare per il resto nell'aiuto dell'amico? Questo però significava solo dirgli nello stesso tempo, quanto più riguardosamente tanto più offensivamente, che i tentativi fatti da lui finora erano falliti, che doveva decidersi ad abbandonarli, che avrebbe dovuto ritornare e farsi guardare da tutti chiaramente come un definitivo sconfitto, che solo gli amici capivano qualcosa e che lui era un ex ragazzo cui restava solo da imitare gli amici di successo rimasti a casa. E poi, era certo che tutta la pena che gli si sarebbe dovuta cagionare avesse uno scopo? Forse non si riusciva neanche a farlo ritornare – anzi, proprio lui diceva di non raccapezzarcisi più, delle relazioni in patria - , e così nonostante tutto se ne rimaneva lontano, amareggiato dai consigli ed ancor più distante dagli amici. Se di fatto avesse seguito il consiglio e poi qui si fosse scoraggiato – non apposta, è naturale, oggettivamente -, se non se la fosse cavata né con gli amici né senza di loro, se si fosse vergognato, allora sul serio non avrebbe più avuto né patria né amici; non era molto meglio per lui rimanere all'estero come ci si trovava? Date le circostanze, infatti, si poteva pensare che in patria avrebbe davvero fatto progressi?
Per questi motivi, se pur si aveva intenzione di mantenere relazioni epistolari sincere, non si poteva comunicargli alcunché di particolare, come si sarebbe fatto senza timore anche con i più lontani conoscenti. Già da più di tre anni l'amico non era stato in patria, questo si spiegava più o meno con l'incertezza della situazione politica in Russia, che non consentiva l'assenza più breve neppure ad un modesto uomo d'affari, mentre invece centomila russi se ne andavano tranquilli per il mondo. Ma proprio nel corso di quei tre anni molto era cambiato per Georg. Dopo il decesso di sua madre, avvenuto da circa due anni, lui viveva con l'anziano suo padre condividendo le spese di casa, del resto l'amico era venuto a saperlo ed aveva espresso le sue condoglianze con una lettera la cui stringatezza poteva essere spiegata solo con l'argomento che il dolore per un evento simile da lontano si rende del tutto inconcepibile. Ma da allora Georg aveva anche preso in mano con maggior decisione il suo lavoro e tutto il resto. Vivente la madre, il padre, che sul lavoro voleva far valere soltanto il proprio punto di vista, forse gli aveva impedito di agire in modo veramente suo. E forse, morta la madre, per quanto si occupasse pur sempre dell'ufficio, il padre era divenuto più guardingo, se non giocava un ruolo più importante la buona sorte - molto verosimilmente, del resto -, comunque fosse, però, il lavoro in quei due anni si era sviluppato in modo totalmente inaspettato. Si era dovuto raddoppiare il personale, quintuplicato il giro d'affari, si prospettava senza dubbio un ulteriore progresso.
L'amico tuttavia di tal cambiamento non sapeva niente. Prima, forse l'ultima volta in quella lettera di condoglianze, aveva voluto convincere Georg a fare un viaggio in Russia e si era dilungato sulle prospettive che proprio per il genere di attività di Georg c'erano a Pietroburgo. Quantitativamente minime, in confronto all'estensione assunta ora dagli affari di Georg. Che però non aveva avuto alcuna voglia di scrivere all'amico dei suoi successi commerciali, ed ora, a scoppio ritardato, la cosa sarebbe apparsa davvero strana.
Ecco quindi che Georg si era limitato a scrivergli cose insignificanti come quelle che si affastellano disordinatamente nella memoria quando ci si pensa nella tranquillità d'una domenica. Non desiderava nient'altro che lasciare intatta l'immagine che l'amico si era probabilmente fatta della città natale nei lunghi intervalli di tempo tra le sue visite, e che a lui bastava. Perciò era successo che Georg ripetesse in tre lettere piuttosto distanti tra loro la nuova del fidanzamento d'un tale con la tal signorina, al punto che l'amico poi aveva cominciato ad interessarsi di questa cosa curiosa, del tutto in contrasto con le previsioni di Georg.
Il quale però scriveva di cose come queste assai più che non di quelle che avrebbe dovuto scrivere, che anch'egli da un mese si era fidanzato con la signorina Frieda Brandenfeld, una fanciulla di buona famiglia. Con lei aveva parlato spesso di quell'amico e della particolare relazione epistolare che aveva con lui. “In questo modo non verrà alle nostre nozze”, aveva detto lei, “ed invece io ho il diritto di fare la conoscenza di tutti i tuoi amici.” “Non voglio disturbarlo”, aveva riposto lui. “Fa' attenzione, probabilmente verrebbe, almeno credo, ma si sentirebbe forzato e leso, magari mi invidierebbe e di certo ripartirebbe in solitudine scontento e del tutto incapace di eliminare tale scontentezza. In solitudine – hai presente la solitudine?” “Certo, ma non può venir a sapere anche in un altro modo che ci sposiamo?” “Non c'è dubbio, non posso impedirlo, ma visto come vive, la cosa è improbabile.” “Con amici del genere non avresti dovuto nemmeno fidanzarti, Georg.” “La colpa è di tutti e due, certo; ma a me ora va proprio bene così.” E quando, ansimando sotto i suoi baci, lei aveva continuava però a manifestare la sua afflizione, “però a me dà noia lo stesso”, lui aveva rivalutato l'importanza di scriver tutto all'amico. “Così sono io, così mi deve accettare lui”, si era detto, “non posso estirpare da me un uomo che, forse, sarebbe più adatto all'amicizia con lui di quanto lo sia io.”
Ed in effetti nella lunga lettera di quella domenica mattina riferiva del fidanzamento avvenuto con le seguenti parole: “Ho serbato per ultima la miglior nuova. Mi sono fidanzato con una certa signorina Frieda Brandelfeld, una fanciulla di buona famiglia che si è stabilita qui molto tempo dopo la tua partenza e che quindi hai potuto conoscere appena. Ci sarà ancora occasione di darti maggiori dettagli sulla mia fidanzata, oggi ti basti sapere che sono veramente felice e che nella relazione tra noi è cambiato qualcosa soltanto perché tu ora in me avrai, oltre che un normalissimo amico, un amico felice. Inoltre con lei, che ti saluta di cuore e che prestissimo ti scriverà, ti trovi ad avere un'amica sincera, ciò che per uno scapolo non è proprio insignificante. Lo so, sono tante le cose che t'impediscono di farci una visita. Ma non sarebbero le mie nozze proprio l'occasione buona per abbattere una buona volta tutti gli ostacoli? Sia come sia, fa' come sinceramente ti senti e senza alcuno scrupolo.”
Con la lettera in mano Georg rimase a lungo seduto alla scrivania guardando verso la finestra. Ad un conoscente, che l'aveva salutato dalla via avvicinandosi, lui aveva risposto appena con un sorriso distratto.
Infine cacciò la lettera in tasca e da camera sua, attraverso un corridoietto, uscì in direzione della camera del padre, dove non era stato da mesi. Non che fosse minimamente costretto a farlo, perché in ufficio erano sempre in contatto. A mezzodì pranzavano insieme in un ristorante, la sera ognuno faceva a modo suo, ma dopo sedevano ancora un po' in soggiorno, il più delle volte ognuno con il suo giornale, quando Georg, come succedeva assai di frequente, non si trovava con amici o, come ora, non andava a trovare la fidanzata.
Di come fosse buia la camera del padre, pure in quella mattinata di sole, Georg fu sorpreso. A gettare una tale ombra era l'alto muro che si ergeva dall'altra parte dello stretto cortile. Il padre sedeva accanto alla finestra in un angolo addobbato di numerosi ricordi della povera mamma, leggendo il giornale che teneva davanti agli occhi voltato in modo da compensare una certa sua quale debolezza visiva. Sul tavolo c'erano gli avanzi della colazione, di cui sembrava che fosse stato consumato poco.
“Oh, Georg!”, disse il padre andandogli incontro. La pesante vestaglia gli si aprì, nel camminare, e le estremità gli ondeggiarono intorno - “mio padre è sempre un colosso”, considerò Georg.
“E' insopportabile il buio, qui”, disse quindi.
“E' già buio, davvero”, rispose il padre.
“Anche la finestra hai chiuso?”
“Mi piace di più così.”
“Ma fa così caldo, fuori”, disse Georg come in preda alla domanda da lui fatta pocanzi, e si mise seduto.
Il padre sbarazzò le stoviglie della colazione e le mise su un cassettone.
“Veramente volevo dirti solo”, seguitò Georg seguendo tutto assorto i movimenti del padre, “che ho appena annunciato il mio fidanzamento a Pietroburgo.” Fece spuntare dalla tasca la lettera e di nuovo la lasciò ricadere.
“A Pietroburgo?”, domandò il padre.
“Sì, al mio amico”, disse Georg cercando gli occhi del padre - “in ufficio è tutta un'altra persona”, pensò, “ rispetto a come siede qui spaparanzato a braccia conserte.”
“Certo. Al tuo amico”, disse il padre enfaticamente.
“Babbo, lo sai che dapprima glielo volevo tacere, il mio fidanzamento. Per riguardo, mica per altro. Lo sai anche tu, è una persona difficile. Può ben venire a saperlo per altre vie, mi dissi, anche se per come vive non è mica probabile – non posso nascondere questo – ma da me no.”
“E ora hai ricambiato idea?”, domandò il padre, mise l'ampio giornale sul bordo della finestra, sul giornale gli occhiali, e sugli occhiali una mano.
“Sì, ho ricambiato idea. Mi sono detto, se è mio buon amico allora il mio felice fidanzamento è una felicità anche per lui. Perciò non ho più aspettato ad annunciarglielo. Prima d'imbucare però volevo dirtelo.”
“Georg”, disse il padre allargando la bocca sdentata, “ascoltami una buona volta! Sei venuto da me a consigliarti per questa faccenda. Ti fa onore, non c'è dubbio. Ma è niente, meno che niente, se ora non mi dici la verità. Non voglio rivangare cose che con queste non c'entrano. Dalla morte della nostra cara mamma son capitate cose non belle. Forse viene anche il loro momento, e prima di quanto pensiamo noi. In ufficio molto mi sfugge, forse mi viene celato – ora non intendo congetturare che mi venga proprio celato -, io non sono più forte abbastanza, la mia memoria scema. Lo sguardo su tutto non ce l'ho più. E' normale che sia così, per prima cosa, e per seconda
la morte della nostra mammina ha colpito assai di più me che non te. - Ma già che ci siamo, su questa faccenda, su questa lettera, ti prego Georg, non m'ingannare. E' una sciocchezzuola, una cosa da nulla, e dunque non m'ingannare. Quest'amico a Pietroburgo, è vero che lo hai?”
Georg si alzò imbarazzato. “Lasciamo perdere i miei amici. Mille amici non mi compensano mio padre. Sai che cosa credo? Che non ti riguardi abbastanza. Invece l''età ha i suoi diritti. Tu mi sei indispensabile in ufficio, lo sai bene; ma se il lavoro dovesse nuocere alla tua salute, io gli porrei fine per sempre già da domani. Non va bene. Dobbiamo iniziare un nuovo modo di vivere, per te. Ma completamente nuovo. Ti siedi qui al buio quando in soggiorno avresti luce ottima. Mangiucchi la colazione invece di irrobustirti come si deve. Stai seduto vicino alla finestra chiusa, e l'aria ti farebbe tanto bene. No, babbo! Andrò a chiamare il medico e seguiremo le sue prescrizioni. Cambieremo di camera, tu in quella che dà sulla strada, io in questa. Per te nessun cambiamento, ogni cosa verrà scambiata. Tutto a suo tempo, però, ora mettiti ancora un po' a letto, necessiti di assoluto riposo. Vieni, ti aiuto a spogliarti, vedrai, ci riuscirò. Oppure vuoi andare subito nella stanza sul davanti e metterti intanto nel mio letto? Che sarebbe del resto molto ragionevole.
Georg si trovava vicinissimo al padre, che aveva lasciato cadere sul petto la testa dai bianchi capelli arruffati.
“Georg”, disse senza muoversi.
Senza indugio Georg s'inginocchiò accanto al padre, vide nel suo viso stanco le pupille puntate su di sé dall'angolo degli occhi.
“Tu non hai nessun amico a Pietroburgo. Sei sempre stato un buffone e non l'hai celato neanche a me. Come potresti averci un amico, lì! Proprio non riesco a crederci.”
“Pensaci bene, babbo”, disse Georg, lo sollevò dalla sedia e, quando fu in piedi malfermo, gli tolse la vestaglia, “tra poco saranno tre anni da quando appunto lui venne a trovarci. Ancora mi ricordo che non ti piacque particolarmente. Almeno due volte te l'ho celato, eppure si trovava proprio in camera mia. Riuscivo bene a capire la tua antipatia per lui, che ha i suoi lati strani. Poi però di nuovo ti sei comportato molto bene con lui. Ero tanto fiero che tu allora stessi ad ascoltarlo, che annuissi e gli ponessi delle domande. Se ci rifletti, te ne ricordi per forza. Raccontò storie incredibili sulla rivoluzione russa. Come per esempio, in viaggio d'affari a Kiev, avesse visto durante un tumulto un prete, su un balcone, incidersi sul palmo della mano una vistosa croce di sangue, alzar la mano e gridare alla folla. Anzi, questa storia a volte l'hai raccontata anche tu.”
Intanto era riuscito a rimettere seduto piano piano il padre ed a togliergli i pantaloni di maglia che portava sulle mutande di lana, e le calze. Vedendo che la biancheria non era troppo pulita, si rimproverò di aver trascurato il padre. Sarebbe stato dovere suo anche curarsi del cambio di biancheria. Ancora non aveva parlato con la fidanzata apertamente di come organizzare il futuro del padre, ma senza dirlo avevano stabilito che lui sarebbe restato da solo nel vecchio appartamento. Ora invece si decise rapido e risoluto a prenderlo con sé nella futura casa. Gli parve quasi, anzi, a ben guardare, che assisterlo lì potesse essere cosa tardiva.
A braccia trascinò il padre a letto. Orribile fu la sua sensazione quando notò che il padre, durante i pochi passi verso il letto, giocherellava sul suo petto con la catena del suo orologio. Non riuscì subito a farlo sdraiare, così il padre si tenne stretto a quella catena.
Appena fu a letto, però, tutto sembrò a posto. Si coprì e si tirò la coperta sulle spalle. Senza antipatia guardò verso Georg.
“Non è vero che te ne sei ricordato, di lui?”, domandò Georg annuendo incoraggiante.
“Sono coperto bene, ora?”, domandò il padre, come se non riuscisse a vedere se aveva i piedi abbastanza coperti.
“Allora, sei contento di essere già a letto?”, disse Georg sistemandogli meglio le coperte.
“Sono ben coperto?”, domandò un'altra volta il padre sembrando far molta attenzione alla risposta.
“Sta' tranquillo, sei coperto bene.”
“No!”, urlò il padre, scontrandosi la sua risposta con la domanda del figlio, e respinse la coperta con tanta forza che quella, per un attimo, si dispiegò tutta quanta in volo. Si drizzò sul letto. Solo, teneva leggera una mano sulla tovaglia del tavolino da notte. “Volevi coprirmi, mio bel tomo, ma ancora non sono coperto. Foss'anche l'ultimo, è uno sforzo sufficiente per te, anche troppo! Lo conosco bene, io, il tuo amico. Sarebbe un figlio di mio gusto. L' hai imbrogliato per anni interi, e poi perché? Credi che non ci abbia pianto, io? Ti ci chiudi nel tuo ufficio, nessuno ha da disturbarti, il principale è occupato – solo per scrivere le tue letterine false in Russia. Fortuna però che nessuno deve insegnare al padre a indovinare le intenzioni del figlio. Quando hai creduto che l'avresti sopraffatto, sopraffatto al punto da poterti piazzare con il tuo didietro su di lui, e lui fermo, ecco che il mio signor figlio si è deciso alle nozze!”
Georg alzò lo sguardo verso quello spauracchio che era suo padre. L'amico di Pietroburgo, che di colpo il padre conosceva tanto bene, lo commosse come mai prima. Lo vide perso nella grande Russia. Lo vide alla porta dell'ufficio saccheggiato, vuoto. Tra i rottami della scaffalatura, tra le merci fatte a brani, i bracci dell'illuminazione a gas cadenti, ecco dov'era. Perché aveva dovuto andarsene così lontano?
“Ma guardami!”, gridò il padre, e Georg quasi annientato corse verso il letto per capire bene, ma si bloccò a metà strada.
“Perché si è tirata su le sottane”, cominciò con voce flautata il padre, “perché se l'è tirate su così, l'oca schifosa”, ed illustrò quelle parole alzandosi la camicia così in alto che si vide la cicatrice del tempo di guerra, sulla coscia, “perché s'è tirata su le sottane così, così e così, allora ti sei fatto sotto e per levarti la voglia con lei senza esser disturbato hai sporcato il ricordo della nostra mamma, tradito l'amico e ficcato a letto tuo padre perché non si possa muovere. Ma non si può muovere davvero?”
Si liberò del tutto e sfoggiò le gambe. Le sue intuizioni lo rendevano raggiante.
Georg stava in un angolo alla massima distanza possibile da lui. Aveva già da molto deciso fermamente di stare a guardare con assoluta precisione, per evitare d'esser preso di sorpresa in qualche modo con strane manovre alle spalle, o dall'alto in basso. Ora se ne ricordò, della decisione dimenticata da lungo tempo, e la scordò, come si tira un filo corto attraverso la cruna di un ago.
“L'amico però ora non è tradito”, gridò il padre, sottolineando le parole con l'oscillare a destra e a sinistra del dito indice. “C'ero io, qui, a fargli da difensore.”
“Commediante!”, Georg non poté trattenersi dal gridare riconoscendo subito l'errore e mordendosi, ma troppo tardi – sbarrò gli occhi – la lingua al punto di piegarsi dal dolore.
“Certo, si capisce, ho fatto la commedia! Commedia! Che bella parola! Che altra consolazione resta al vecchio padre vedovo? Dillo – e quando rispondi sii ancora il mio amato figlio – cosa mi resta, nella mia stanza sul retro, perseguitato da dipendenti infidi, vecchio fino al midollo? E mio figlio andava a far baldoria in giro, concludeva affari intrapresi da me, faceva capriole di piacere e davanti a suo padre transitava con la faccia abbottonata da uomo serio! Credi che non ti volessi bene, io, quello da cui tu sei nato?”
“Ora si sporgerà in fuori”, pensò Georg, “almeno cadesse e si stroncasse!”. Gli sibilarono in testa queste parole.
Il padre si sporse, ma non cadde. Non avvicinandosi Georg come lui si era aspettato, si sollevò di nuovo.
“Resta dove sei, non mi servi! Hai anche il coraggio di pensare di venir qui e di risparmiarti come ti pare. Attento a non sbagliarti! Sono ancor sempre io quello molto più forte. Da solo forse avrei dovuto farmi indietro, ma la mamma mi ha lasciato la sua forza, con il tuo amico mi ci sono splendidamente associato, il giro dei tuoi clienti ce l'ho qui in tasca!”
“Ci ha le tasche anche in camicia da notte!”, si disse Georg, e con tale osservazione credette che avrebbe potuto comprometterlo davanti a tutti. Solo per un attimo, lo pensò, poi continuò a dimenticarsi di ogni cosa.
“Provati a presentarti qui con la tua fidanzata a braccetto e te la levo di mezzo tu non sai come!”
Georg fece una smorfia d'incredulità. Il padre si limitò a fargli cenno di sì a mo' di asserzione della verità di quel che aveva detto.
“Come sei stato divertente oggi, però, quando sei venuto a chiedermi se avresti dovuto scrivere del fidanzamento al tuo amico. Lui sa tutto, scemo di un ragazzo, sa tutto! Gli ho scritto perché ti sei dimenticato di levarmi il necessario per scrivere. Ecco perché da anni non viene, perché sa tutto cento volte meglio di te. Con la mano sinistra appallottola le tue lettere senza leggerle, con la destra tiene le mie per leggerle!”
Ispirato, agitò un braccio in alto. “Mille volte meglio!”
“Diecimila!”, disse Georg per deriderlo, ma la parola gli fece nella bocca un effetto assai serio.
“Anni, che sto in attesa che tu venissi a chiedermelo! Credi che m'importi di altro? Credi che legga i giornali? Ecco!”, e tirò a Georg un foglio di giornale che chissà come era finito nel letto. Un vecchio numero già del tutto privo, per Georg, di significato.
“Prima di arrivare a deciderti, quanto ci hai messo! Doveva morire la mamma, senza poter partecipare al tal gioia, l'amico va in malora in quella sua Russia, già tre anni fa era giallo da buttar via, e io, lo vedi bene come sto. Gli occhi ce li hai!”
“Dunque tu mi hai fatto la posta!”, gridò Georg.
Compassionevole, il padre aggiunse: “Probabilmente volevi dirlo prima. Ora non serve più.”
Ed a voce più alta:”Ora dunque lo sai, quello che accade al di fuori di te, fin qui eri a conoscenza solo del tuo punto di vista! Eri proprio un ragazzo innocente, ma ancor più, davvero, eri un uomo diabolico! - Perciò sappilo: ora ti condanno a morire affogato!”
Georg si sentì cacciato via dalla stanza, la botta che dette il padre cadendo dal letto alle sue spalle gli restò nelle orecchie. Per le scale, sui cui gradini si affrettò come fossero un piano inclinato, sorprese la servetta che, trascorsa la notte, stava per salire a rimettere in ordine l'appartamento. “Gesù!”, gridò lei coprendosi il volto con il grembiule, ma lui era già oltre. Balzò fuori dal portone, spinto sulla strada in direzione dell'acqua. Già stringeva il parapetto come un affamato stringe il cibo. Prese lo slancio come il segnalato ginnasta che da ragazzo era stato per l'orgoglio dei genitori. Con le mani che perdevano di presa continuò a tenersi al parapetto tra le cui sbarre notò un omnibus che facilmente avrebbe coperto il rumore della sua caduta, e gridò appena: “Cari genitori, eppure vi ho sempre amati”, e si lasciò cadere.
In quel momento sul ponte c'era un traffico davvero senza fine.








giovedì 19 febbraio 2015

F.Kafka: Rapporto per un'Accademia.

Illustri Signori dell'Accademia!

Loro mi fanno l'onore di invitarmi a presentare all'Accademia un rapporto sui miei trascorsi scimmieschi.
Purtroppo non sono in grado di soddisfare in tal senso l'invito. Quasi cinque anni mi separano dal mio stato scimmiesco, un tempo forse breve se calcolato sul calendario, ma lungo infinitamente da attraversare al galoppo come ho fatto io, a tratti accompagnato da persone squisite, da consigli, applausi e musica orchestrale, tuttavia in fondo da solo, perché l'intera compagnia si mantenne, per restare all'interno della metafora, distante dalla barriera. Questa prova sarebbe stata impossibile se avessi voluto caparbiamente restare fedele alla mia origine, ai ricordi della giovinezza. Completa rinuncia ad ogni tipo di caparbietà, era l'ordine supremo che mi ero imposto; io, libera scimmia, mi sottomisi a questa servitù. Ma con ciò i ricordi per parte loro mi si occlusero sempre di più. Prima il ritorno, qualora gli uomini avessero voluto, mi fu lasciato libero, era infatti attraversabile l'intera porta che il cielo forma al di sopra della terra, nello stesso tempo essa, con la mia ulteriore fustigata evoluzione, si fece sempre più bassa e più stretta; mi sentii meglio e maggiormente incluso nel mondo umano; la tempesta che soffiava su di me dal mio passato si attenuò; oggi essa è solo uno spiffero che mi raffredda i talloni; il pertugio lontano da cui esso proviene ed attraverso cui un tempo venni io è diventato tanto piccolo che per passarci, ammesso che ci fossero le energie e la volontà per retrocedere fin lì, dovrei strapparmi la pelle dal corpo. Detto con franchezza, per quanto io sia disposto a scelte immagini per questa cosa, detto con franchezza: il Loro stato scimmiesco, signori miei, se Loro ne hanno qualcosa alle spalle, non può essere più lontano da Loro di quanto il mio lo sia da me. Tuttavia lo stato scimmiesco sfiora il tallone di colui che cammina sulla terra: del piccolo scimpanzé come del grande Achille.
Posso tuttavia rispondere forse in senso più circoscritto alla Loro proposta, e lo faccio anche con gioia. La prima cosa che imparai fu dar la mano; la stretta di mano segnala schiettezza; oggi dunque, che mi trovo al vertice della mia carriera, conviene aggiungere a quella prima stretta di mano anche un parlar schietto. Esso non apporterà all'Accademia essenzialmente alcuna novità, sarà molto distante da ciò che da me si è preteso e che io con la volontà migliore non posso dire – e pur sempre ha da indicare la linea generale con cui una ex scimmia è penetrata nel mondo umano e vi ha preso dimora. Non potrei comunque dire l'insignificante che segue se non fossi del tutto sicuro di me e se il mio rango non si fosse consolidato in ogni gran teatro del mondo civile al punto di essere incrollabile.
Provengo dalla Costa d'oro. In merito alle modalità della mia cattura non possiedo che referti esterni. Una spedizione di caccia dell'impresa Hagenbeck – con il cui capo (si tratta certo di Carl Hagenbeck (1844-1913) – n.d.t.) ho tra l'altro vuotato da allora già svariate bottiglie di rosso – era appostata nella boscaglia lungo la riva di un fiume quando io corsi insieme al branco ad abbeverarmi. Si sparò; fui l'unico ad essere colpito; ricevetti due colpi.
Uno alla guancia; lieve; si lasciò dietro tuttavia una grande, nuda, cicatrice rossa che mi ha fruttato il nome odioso, assolutamente inappropriato per quel che riguarda in particolare una scimmia, di Rotpeter, così mi distinsi solo per via della chiazza rossa sulla guancia dalle scimmie ammaestrate rimaste animalesche chiamate Peter, qua e là note e recentemente crepate. Sia detto per inciso.
Il secondo colpo mi prese al di sotto delle anche. Fu serio, per questo ancora oggi zoppico un poco. Di recente lessi, nel saggio di uno dei diecimila fresconi che si dilungarono su di me nel tempo, che la mia natura di scimmia non è ancora del tutto repressa; prova ne sia che se vengono visitatori mi compiaccio di levarmi le brache per mostrare dove fui colpito. A costui si dovrebbero far saltare via uno ad uno tutti i ditini della mano che scrive. Io ho il diritto di levarmi le brache davanti a chi mi pare; non c'è altro che una ben curata pelliccia, lì, e la cicatrice - con uno scopo preciso a questo punto cerchiamo una parola precisa che non sia esposta a fraintendimenti – la cicatrice conseguente ad un colpo scellerato. Tutto evidente; nulla da nascondere; ognuno che sia magnanimo si scrolla di dosso ogni smanceria, questo è importante per la verità. Se invece quello scrittore si sfilasse le brache in occasione d'una visita, ciò a dire il vero sarebbe da considerare diversamente, e che lui non lo faccia lo voglio far valere come segno di discernimento. Poi però con la sua tenera sensibilità si compiaccia di togliermisi di torno!
Dopo quei colpi mi svegliai – qui cominciano poco a poco i miei veri ricordi – dentro una gabbia nell'interponte del piroscafo hagenbeckiano. Non era una gabbia a sbarre con quattro pareti, le pareti erano solo tre, fissate ad una cassa che formava dunque la quarta. L'insieme era troppo basso per stare in piedi e troppo stretto per sedere. Mi accovacciavo perciò con le ginocchia ripiegate in un continuo tremito e stavo girato verso la cassa, in realtà è probabile che volessi in primo luogo non veder nessuno e stare sempre al buio, e le sbarre intanto mi incidevano solchi nella carne. Una custodia siffatta degli animali selvatici è ritenuta all'inizio vantaggiosa, ed io oggi non posso negare che dal punto di vista umano nel caso mio è stato così.
Non pensavo tuttavia a questo, allora. Ero per la prima volta in vita mia privo di vie d'uscita; almeno, non ce ne erano davanti; davanti a me c'era la cassa, le assi saldamente connesse. In realtà tra loro c'era una fessura continua che, quando la scoprii, salutai contento con il beato urlo della stoltezza, ma questa fessura non servì neppure ad infilarci la coda e pur con tutta la forza d'una scimmia non ci fu verso di allargarla.
Devo aver fatto, come poi mi si disse, particolarmente poco strepito, ciò da cui si concluse che dovevo morire presto oppure, se mi riusciva di sopravvivere, che mi sarei fatto assai addomesticabile. Sopravvissi a questo periodo. Singhiozzi cupi, spulciarsi dolente, leccar svogliato di noci di cocco, urti della zucca contro la parete della cassa, linguacce a chi mi si avvicinava – queste furono le prime incombenze della vita nuova. E però in tutto questo il sentimento dominante di non avere alcuna via d'uscita. Naturale, oggi posso indicare solo con parole umane i sentimenti scimmieschi di allora, perciò distorcendoli, ma per quanto non possa più pervenire alla vecchia verità scimmiesca, almeno essa risiede nel significato della mia descrizione, su questo non c'è dubbio.
Fino allora avevo avuto così tante vie d'uscita, invece adesso più nessuna. Ero stato un ottimo corridore. Mi avessero inchiodato, con questo la mia potenzialità di transito non sarebbe diminuita. Perché? Scòrticati le carni in uno spazio di dieci piedi quadrati, non troverai il perché. Premiti indietro contro le sbarre dell'inferriata finché quasi non ti rompe in due, non troverai il perché. Non avevo alcuna via d'uscita, ma dovevo procurarmela, perché senza non potevo vivere. Ne sarei morto senza meno, di questa sempiterna parete della cassa. Le scimmie tuttavia, presso Hagenbeck, devono starsene addossate a una parete – e così cessai di essere scimmia. Ragionamento bello chiaro che devo aver concepito non so come visceralmente, infatti è con le viscere che le scimmie pensano.
Temo che non si comprenda a sufficienza che cosa intendo per via d'uscita. Uso l'espressione nel suo significato più normale e pieno. E' intenzionalmente che non dico libertà. Non mi riferisco a tale gran sentimento di libertà in ogni direzione. In quanto scimmia forse lo conoscevo, ed ho imparato a conoscere uomini che ne hanno il desiderio. Per quanto riguarda me, non esigevo libertà né allora né oggi. Detto per inciso: della libertà tra gli uomini ci si illude troppo di frequente. E come la libertà ha i sentimenti più elevati, anche la relativa illusione ne ha. Spesso nel varietà mi è avvenuto di vedere, nel far la mia entrata, qualche coppia di virtuosi affaccendarsi dalle parti del soffitto con il trapezio. S'agitavano, dondolavano, saltavano, si libravano l'uno nelle braccia dell'altro, l'uno reggeva l'altro a puntino con i denti. “Anche questo è umana libertà”, pensavo, “movimento dispotico.” Tu, derisione della natura sacra! Nessun edificio resterebbe in piedi davanti alla risata del mondo scimmiesco al tal vista.
No, non volevo la libertà. Solo una via d'uscita, a destra, a sinistra, ovunque, senza tregua; non avevo altro da chiedere; poteva essere anche solo un'illusione, la via d'uscita; l'esigenza era modesta, la delusione non sarebbe stata più che modesta. Avanzare, avanzare! Pur di non restar fermo a braccia in alto contro la parete d'una cassa.
Oggi vedo chiaro: senza la massima calma interiore non avrei potuto fuggire. Ed in realtà devo forse tutto quel che sono diventato alla calma che dopo i primi giorni sulla nave s'impadronì di me. D'altra parte ne fui ben debitore a quelli della nave.
Brava gente, nonostante tutto. Ancor oggi mi rammento del rumore dei loro passi pesanti che talvolta risuonavano nel mio dormiveglia. Avevano l'abitudine di por mano a tutto con la massima lentezza. Uno che voleva stropicciarsi gli occhi sollevava la mano come fosse un carico sospeso. Gli scherzi loro erano rozzi, ma cordiali. Le risate sempre si mescolavano ad una tosse squillante in modo sinistro, ma affatto trascurata. Avevano in bocca sempre qualcosa da sputare, dove, era loro indifferente. Si lamentavano sempre del fatto che le mie pulci saltavan loro addosso; ma non per questo erano proprio cattivi con me; lo sapevano, che nel mio pelame crescono le pulci, e che le pulci saltano; perciò ci si rassegnavano. Quando erano liberi dal servizio, alcuni si sedevano attorno a me in semicerchio, a volte; parlavano appena, piuttosto si limitavano ad accostarsi l'un l'altro; fumavano la pipa stando sulla cassa; si davan colpi sulle ginocchia fino a che io non facevo un minimo di movimento; e alle volte uno prendeva un bastone e mi solleticava dove mi piaceva. Mi capitasse oggi di essere invitato a partecipare ad un viaggio su quella nave, declinerei, ma lo stesso è sicuro che non ci sono soltanto brutti ricordi a cui potrei abbandonarmi lì nell'interponte.
La calma che io acquisii nella cerchia di quella gente mi tenne fuori da ogni tentativo di fuga. Oggi mi par di vedere come almeno io avessi indovinato che dovevo trovare una via d'uscita, se volevo vivere, ma che tale via d'uscita non era ottenibile con la fuga. Non so più se fuggire era possibile, credo di sì; ad una scimmia la fuga era sempre possibile. Con la mia dentatura odierna devo stare attento perfino al banale schiacciar noci, ma allora avrebbe ben dovuto riuscirmi di rompere un po' alla volta la serratura con i denti. Non lo feci. Che cosa ci avrei guadagnato? Appena messa fuori la testa mi si sarebbe riacchiappato e chiuso in una gabbia anche peggiore; o avrei potuto senza volere trovar rifugio presso animali come i serpenti boa che si trovavano davanti a me, soffocando nelle loro spire; o mi sarebbe riuscito di sbucare sul ponte e di balzare fuori bordo, per poi annegare dopo aver dondolato per un po' nell'oceano. Atti disperati. Non feci calcoli così umani, ma nei limiti della mia condizione mi comportai come se li avessi fatti.
Non facevo calcoli, ma in tutta calma stavo ad osservare, all'incirca. Vedevo quegli uomini andare di qua e di là, sempre le stesse facce, gli stessi movimenti, spesso mi facevano l'effetto di essere un uomo solo. Costui o costoro camminavano dunque indisturbati. Una meta elevata emergeva. Nessuno mi promise che se io fossi diventato come loro la grata sarebbe stata tirata su. Promesse del genere apparentemente irrealizzabili non furono fatte. Si raggiungono però risultati ed in un secondo tempo appaiono corrette le promesse che prima si sono cercate invano. In quegli uomini come tali nulla mi attirava. Fossi stato un seguace di quella menzionata libertà, certo avrei preferito l'oceano alla via d'uscita che mi si mostrava nello sguardo spento di quegli uomini. Del resto li osservavo già da tempo, prima di pensare cose del genere, anzi, l'accumulo di osservazioni fu il primo che mi condusse nella direzione stabilita.
Era tanto facile imitarli. Già nei primi giorni ero in grado di sputare. Ci sputavamo reciprocamente in faccia; unica differenza, io dopo mi pulivo leccandomi la faccia, loro no. Fumai la pipa ben presto come un veterano; poi pressai il pollice nel fornello, e tutto l'interponte esultò; solo che per parecchio tempo non compresi la differenza tra pipa vuota e piena.
Lo stento maggiore me lo causò la fiasca d'acquavite. L'odore era tormentoso. Con tutte le forze mi costrinsi; ma passarono settimane prima che riuscissi a dominarmi. Lotte interiori che loro presero nettamente più sul serio di ogni altra cosa. Nel ricordo non li distinguo nemmeno, ma uno continuava a tornare, da solo o con i camerati, di giorno, di notte, alle ore più svariate; mi si piazzava davanti con la fiasca e m'impartiva lezioni. Non mi capiva, voleva risolvere l'enigma del mio essere. Sturava la fiasca lento e mi guardava per accertarsi che avessi compreso; lo confesso, stavo a guardarlo con attenzione sollecita, sfrenata; nessun maestro umano trovò uno scolaro umano simile nell'intero pianeta; dopo stappata la fiasca, lui la portava alla bocca; io ne seguivo il movimento con lo sguardo fino alla gola; annuisce, contento di me, e si mette la fiasca alle labbra; io, estasiato dalla graduale cognizione, mi gratto dappertutto strillando; lui se ne rallegra, si accosta la fiasca alle labbra e prende un sorso; io, disperatamente impaziente di emularlo, me la faccio addosso nella gabbia, cosa che lo compiace parecchio; ed ora, alzando lontano da sé la fiasca e con slancio riportandola su, la vuota in un colpo solo piegato indietro in modo esageratamente didattico. Io, sfinito dall'eccesso di pretese, non so più imitare e sto appeso alle sbarre fiacco, intanto che lui termina l'insegnamento teorico al punto di accarezzarsi il ventre sogghignante.
Inizia dunque la pratica. Non sono già troppo sfinito dalla teoria? Ebbene, sì. E' il mio destino. Ciò nonostante allungo la mano, tanto sono bravo, sulla fiasca che mi si porge; la stappo tremante; dato il buon esito a poco a poco mi nascono nuove energie; alzo la fiasca quasi come ha fatto lui, me l'appoggio e – e la butto schifato, schifato, anche se è vuota e piena solo dell'odore, la butto schifato al suolo. Con dolore del mio maestro, con mio più grande dolore, e non mi rimetto in pace con lui o con me stesso per il fatto che, dopo aver buttato via la fiasca, non dimentico di accarezzarmi la pancia soddisfattissimo e poi di sogghignare.
La lezione troppo spesso trascorreva così. E, sia detto ad onore del mio maestro, lui non era malvagio; sì, certe volte mi tenne la pipa accesa sulla pelliccia finché, in un qualche posto dove solo con difficoltà ero disponibile, non cominciava a bruciare, ma poi era lui a spegnere con la sua buona manona; non era malvagio con me, si rendeva conto che eravamo in lotta contro la natura scimmiesca e che la mia parte era la più ardua.
Quale vittoria invece dopo, per lui e per me, quando una sera davanti ad un gran cerchio di spettatori – una festa, forse, suonava un grammofono, tra loro circolava un ufficiale – in quell'istante, non visto, afferrai una fiasca d'acquavite senza volere lasciata lì, la stappai da bravo scolaro mentre nella combriccola cresceva l'attenzione, la portai alla bocca e senza indugio, senza smorfie, a mo' di bevitore professionista, gli occhi ben rovesciati indietro, la vuotai davvero a garganella; e non come un disperato, bensì da virtuoso la buttai in terra; è vero, scordai di accarezzarmi il ventre, invece, dato che non potevo fare altro e che ne sentivo l'urgenza, ed i sensi erano in fregola, gridai breve e come si deve: “Ehilà!”, esplosi con voce umana, e balzai con quel grido nella comunità degli uomini la cui eco, “Sentite! Parla!”, io la sentii come un bacio su tutto il mio corpo sudato.
Lo feci ancora: non mi piaceva imitare gli uomini; mi andava perché era un tentativo di via d'uscita, non per altro. E con quella vittoria ancora era fatto poco. Subito la voce mi venne meno di nuovo; ritornò dopo mesi; la ripugnanza per la fiasca d'acquavite crebbe addirittura. La mia strada però era senza dubbio aperta per sempre.
Quando ad Amburgo fui consegnato al primo addomesticatore, seppi presto le due possibilità che mi si aprivano: o giardino zoologico o varietà. Non indugiai. Mi dissi: sforzati bene di entrare nel varietà; è quella la via d'uscita; il giardino zoologico è solo un'altra gabbia; ci entri e sei perduto.
Ed imparai, signori miei. Oh, s'impara, quando si desidera una via d'uscita; s'impara con spietatezza; ci si contiene anche in presenza della frusta; ci si tormenta anche per la minima resistenza. La natura scimmiesca, rovesciandosi, se ne andava via da me, tanto che il mio primo maestro quasi divenne scimmiesco, presto fu costretto ad abbandonare le lezioni e fu portato in manicomio. Per fortuna ne uscì in breve.
Di maestri però ne consumai molti, anzi, addirittura più di uno nello stesso tempo. Divenuto già più certo del mio talento, io, fu il pubblico a seguire i miei progressi, il mio avvenire cominciò a splendere, presi io stesso dei maestri, li feci sistemare in cinque stanze contigue ed imparai da tutti contemporaneamente saltando senza sosta da una stanza all'altra.
Quei progressi! Quella penetrazione da ogni parte, nel mio cervello risvegliato, dei raggi del sapere! Non lo nego: ne fui contento. Ma confesso di non averli sopravvalutati allora, ed ancor meno oggi. Con uno sforzo finora senza paragoni sulla terra sono pervenuto alla cultura media di un europeo. Nulla in sé, ma ben qualcosa, dal momento che mi servì ad uscire dalla gabbia e mi procurò questa particolare via d'uscita, questa via d'uscita umana. In tedesco c'è un noto modo di dire: svignarsela (sich in die Buesche schlagen – battersela, svignarsela - n.d.t.); ecco che cosa ho fatto, me la sono svignata. Non avevo nessuna altra via, posto sempre che non potevo scegliere la libertà.
Valuto la mia evoluzione fin qui e la sua meta non mi lamento né sono soddisfatto. Le mani in tasca, la fiasca di vino sul tavolo, un poco sto disteso, un poco siedo sul dondolo e guardo fuori dalla finestra. Capita una visita, l'accolgo come si conviene. Il mio impresario (in italiano nel testo – n.d.t.) siede in anticamera; quando suono viene a sentire che cosa ho da dire. La sera c'è quasi sempre spettacolo e non credo di avere più troppi margini di crescita in fatto di successo. La notte tardi torno a casa da qualche banchetto, da occasioni scientifiche, da piacevoli riunioni, mi aspetta una piccola scimpanzé semiaddestrata, e me la spasso con lei a mo' di scimmia. Di giorno non desidero vederla; infatti ha nello sguardo quella follia delle bestie perturbate dall'addestramento che solo io riconosco e che non so tollerare.
Insomma ho conseguito comunque quel che volevo. Non si dica che non ne è valsa la pena. Del resto non voglio nessun giudizio umano, voglio solo allargare le conoscenze, mi limitai a riferire, anche a voi, illustri signori dell'Accademia, ho solo riferito.


Altri testi sul tema Rotpeter.

Tutti conosciamo il Rotpeter, così come lo conosce mezzo mondo. Quando però lui venne nella nostra città per un'esibizione straordinaria, decisi di farne personalmente la conoscenza più da vicino. Nelle città grandi, dove regna l'esigenza smaliziata di veder respirare dalla minima distanza le celebrità, ciò può essere certo difficile, ma nella nostra ci si accontenta di osservare dal parterre con meraviglia quello che la merita, ragion per cui io ero, come mi disse il facchino dell'albergo, fin lì l'unico ad aver annunciato la sua visita. Il signor Busenau, l'impresario, mi accolse molto cortesemente. Non mi aspettavo di incontrare in lui un uomo così alla buona, un uomo anzi quasi timido. Sedeva nell'anticamera dell'appartamento di Rotpeter e mangiava un piatto di uova. Nonostante che fosse mattina lui sedeva in abito da sera, come si mostrava nelle esibizioni. Non appena scorse me, insignificante ospite estraneo, saltò su, lui, possessore delle maggiori onorificenze, re dell'addestramento, laureato ad honorem nelle grandi università – saltò su, mi strinse la mano, mi pregò di sedere, nettò il suo cucchiaio alla tovaglia ed amichevolmente me lo offrì perché finissi di mangiare il piatto di uova. Non fece caso al mio no grazie e cominciò ad imboccarmi lui stesso. Feci fatica a placarlo ed a respingerlo con il cucchiaio ed il piatto. “Assai amabile, che siate venuto”, disse con forte accento straniero, “davvero amabile. Ed anche all'ora migliore, Rotpeter non sempre, purtroppo non sempre è in grado di ricevere, spesso è nauseato dalla vista degli uomini; inoltre nessuno è ammesso, chiunque sia, anch'io, anch'io ho il permesso per dir così professionale di averci a che fare solo sulla scena. Ma appena finita l'esibizione devo sparire, lui va a casa da solo, si sbarra nella sua stanza e rimane per lo più così fino alla sera dopo. Tiene sempre in stanza da letto una gran cesta da viaggio piena di frutta di cui si nutre in questi casi. Io però, che naturalmente non posso lasciarlo insorvegliato, prendo sempre l'appartamento di fronte e lo tengo d'occhio da dietro le tende.”

“Quando siedo davanti a voi, Rotpeter, e vi sento parlare, bevo alla vostra salute – che lo prendiate o meno per un complimento, si tratta solo della verità – dimentico del tutto che siete uno scimpanzé. Soltanto un po' alla volta, quando mi costringo ad allontanarmi dal pensiero e ad avvicinarmi alla realtà, gli occhi mi indicano di nuovo di chi sono ospite.”
“Certo.”
“Vi siete fatto così silenzioso, ma perché? Mi avete espresso da un attimo opinioni così straordinariamente esatte sulla nostra città, ed ora siete tanto silenzioso.”
“Silenzioso?”
“Vi serve qualcosa? Devo chiamare l'addestratore? Siete forse abituato a mangiare, a quest'ora?”
“No no. Va bene. Posso anche dirvelo, che cos'era. Talvolta mi sopravviene un tale disgusto davanti agli uomini che trattengo appena il vomito. Naturalmente ciò non ha nulla a che fare con il singolo, nulla con la vostra amabile presenza. Riguarda gli uomini tutti. Non è neanche degno di nota, voi dovreste per esempio vivere di continuo insieme alle scimmie, ed avreste di certo attacchi simili, anche con ogni autocontrollo. Non è del resto in particolare neppure l'odore del prossimo, a disgustarmi tanto, ma l'odore umano che io ho assunto e che si mescola con l'odore della mia patria originaria. Prego, annusate voi stesso! Qui sul petto! Affondate il naso nella pelliccia! Affondatelo, dico!”
“Sfortunatamente non so sentire nulla di particolare. Il solito odore di un corpo curato, quanto al resto nulla. Per altro il naso delle persone di città su questo è autorevole. Com'è naturale esse annusano quello che in mille modi alita loro addosso.”
“Una volta, signor mio, una volta. Ora non più.”
“Dato che voi stesso la prendete da questo punto di vista m'arrischio a domandare: da quanto vivete tra noi, di fatto?”
“Cinque anni, il cinque di agosto sono cinque anni.”
“prestazione inaudita. In cinque anni liberarsi dello stato scimmiesco e correre al galoppo l'intero sviluppo dell'umano. Nessuno in verità ancora lo ha fatto. Su tal percorso voi siete assolutamente solo.”
“Lo so, è molto, e talvolta oltrepassa la mia capacità di comprensione. Nelle ore di quiete non ho tuttavia una opinione tanto entusiastica. Lo sapete come fui catturato?”
“Ho letto ogni pubblicazione su di voi.”
“Certo, presi due colpi, uno qui nella guancia, la ferita naturalmente era molto più grande della cicatrice attuale, ed uno sotto le anche. Mi leverò i calzoni perché vediate anche questa cicatrice. Dunque, era qui il foro d'entrata, ferita decisamente profonda, caddi dall'albero e quando mi svegliai ero in una gabbia nell'interponte.”
“In gabbia! Nell'interponte! E' diverso leggerlo e pensarlo sentendovelo narrare.”
“Ed ancor diverso se lo si è vissuto di persona, signor mio. Fino a quel momento non avevo avuto contezza di ciò che significa non avere alcuna via d'uscita. Mica era una gabbia di quattro pareti, erano tre sole, attaccate ad una cassa, la quarta parete. Il tutto era tanto basso che non riuscivo a stare in piedi, e tanto stretto che non potevo neanche star seduto. Ero in gardo dunque di accoccolarmi con le ginocchia piegate. Dalla rabbia non volevo vedere nessuno e rimanevo perciò girato verso la cassa, così me ne stavo lì in attesa giorno e notte, mentre le sbarre dietro mi tagliavano. Si ritiene una simile custodia degli animali selvatici nel primissimo periodo vantaggiosa, e non posso negare, dopo la mia esperienza, che ciò in senso umano è vero. Allora però del punto di vista umano non era nella mia disponibilità ancora alcunché. Ci avevo la cassa davanti. Allarga l'assito, rodici un buco, pigiati nel buco che in realtà permette appena di traguardarci, mentre tu la prima volta che lo scopri lo saluti con l'urlo felice della stoltezza. Dove vuoi andare? Dietro l'assito c'è ancora legno, (interrotto – n.d.t.)


Stimatissimo signor Rotpeter,


Ho letto il rapporto da voi scritto per la nostra accademia delle scienze con grande interesse, anzi, con il batticuore. Non c'è da stupirsene, sono il vostro primo lettore, e voi avete trovato termini così gentili, ricordandovi di me. Forse riflettendoci un poco si sarebbe potuta evitare la menzione del mio soggiorno in manicomio, ma apprezzo il fatto che l'intero vostro rapporto, con la franchezza che lo caratterizza, se guarda caso vi era venuto in mente questo dettaglio nello scrivere, non abbia potuto ometterlo, ancorché un poco esso mi comprometta. Ma non di questo avevo qui intenzione di parlare, è altro che mi va.

mercoledì 18 febbraio 2015

Falsa coscienza in "Un cane ricercatore"

Chi abbia avuto la pazienza di leggere il testo che precede, come altri di K privo di titolo originale ed intitolato a cura nostra "Un cane ricercatore", avrà forse notato che in esso non si fa menzione alcuna della presenza umana - del padrone o meno: il cane che racconta le sue ricerche, per meglio dire, non accenna mai agli uomini, eppure ha come oggetto massiccio, di ricerca e di resoconto della medesima, il modo come il nutrimento pervenga ai cani. Certo, si fa riferimento numerose volte ad un imprecisata erogazione di nutrimento dall'alto, ciò che potrebbe alludere alla mano dell'uomo che ciba i cani. Quale reticenza!
Comunque sia, K ha voluto inquadrare le bislacche "attribuzioni causali"* e le credenze e superstizioni canine in merito all'origine del nutrimento - certo esso non dipendente solo dalla mano umana - nella cornice della falsa coscienza. 
Dal momento però che superstizione e falsa coscienza non sono cose da cani, e nemmeno la scienza, né la ricerca, oggetti espliciti del testo di K, noi concludiamo affermando che in esso non sono in questione i cani.

*Con "Attribuzione causale", concetto filosofico prima e oggetto della scienza cognitiva poi, s'intende il dare una causa, un perché, ad un qualche fenomeno. Ricordiamo M.Hewstone, uno studioso inglese di tale materia, e naturalmente D.Hume.

(Non è del tutto impensabile, del resto, che K abbia immaginato un mondo parallelo abitato da cani e da altri animali - ad un tratto si fa effettivamente cenno ad altri animali - ma non da umani, per cui saremmo nell'ambito della utopia)

giovedì 12 febbraio 2015

F.Kafka: Un cane ricercatore

Com'è cambiata la mia vita, e tuttavia come non è, in fondo, cambiata! Se con il pensiero vado indietro e mi rifaccio ai tempi in cui ancora vivevo nella comunità dei cani, partecipavo a tutto quello che di essa è rattristante, cane tra cani, trovo però guardando meglio che da sempre qualcosa non tornava, lì, c'era una piccola frattura, un lieve disagio mi toccava nel corso delle solenni manifestazioni popolari, anzi, anche in cerchie intime talvolta, no, non talvolta, ma assai spesso, la mera vista d'un confratello a me caro, la mera vista in qualche modo guardata di nuovo, mi dava imbarazzo, spavento, impotenza, anzi disperazione. Cercai per dir così di migliorarmi, amici che di ciò feci partecipi mi furono utili, di nuovo vennero tempi più sereni, tempi nei quali certamente quel tipo di sorprese non mancarono, ma furono prese con imperturbabilità, imperturbabilmente divennero parti della vita, forse tristi e faticose, tuttavia a parte ciò esse lasciarono che io esistessi come un cane certo un po' freddo, riservato, timido, calcolatore, ma accolto nel complesso come uno a posto. Come avrei, senza queste pause distensive, potuto raggiungere l'età di cui oggi mi compiaccio, come avrei potuto farmi strada in direzione di quella serenità con cui contemplo le paure della mia gioventù e tollero le paure della vecchiaia, come avrei potuto arrivare a tirar le conclusioni circa la mia tendenza, lo confesso, all'infelicità o, per esprimersi con maggior cautela, alla scarsa felicità, e vivere in modo quasi del tutto conforme ad essa? Ritirato, in solitudine, occupato solo dalle mie modeste ricerche, senza speranza eppure a me indispensabili, vivo così, ma con ciò non ho smarrito la visione complessiva del mio popolo, spesso mi arrivano notizie ed ogni tanto anche io sto ad ascoltarle. Mi si tratta con attenzione, non si capisce il mio modo di vivere, ma ciò non mi nuoce, ed anche i giovani cani che talvolta vedo da lontano correre, una nuova generazione della cui fanciullezza a mala pena oscuramente mi rammento, non rifiutano di salutarmi con rispetto. Non è possibile trascurare il fatto che io, nonostante le mie particolarità oggi evidenti, non traligno completamente. Riflettendoci, e ne ho il tempo, il piacere e la capacità, ciò è anzi in armonia con la comunità dei cani. Vi sono, a parte noi cani, una quantità di specie di creature, in giro, povere, misere, mute, esseri limitati a certe loro grida, tra noi cani molti le studiano, han dato loro denominazioni, cercano di essere loro utili, di ingentilirli, cose del genere, a me sono indifferenti, a meno che non tentino di disturbarmi, all'incirca; li confondo, guardo oltre, ma anche uno solo, tra loro, dà troppo nell'occhio per sfuggirmi; in altri termini essi, confrontati a noi cani, sono davvero poco uniti, davvero passano reciprocamente estranei, davvero non li unisce né un interesse alto né uno infimo, davvero ogni interesse li tiene reciprocamente lontani assai di più di quanto già la normalità non comporti! Noi cani, al contrario! Si può ben dire che noi tutti viviamo proprio in un unico mucchio, tutti, quantunque siamo diversi, per il resto, a causa delle innumerevoli e profonde differenze che nel corso dei tempi sono emerse. Tutti in un mucchio! Ci accalchiamo reciprocamente e nulla può impedirci di compiacerci d'un simile pigia pigia, tutte le nostre leggi ed istituzioni, le poche che ancora conosco e le innumerevoli che ho dimenticato, sono riferite a questa grandissima fortuna cui siamo soggetti, il caldo stare uniti. Ma vediamo il reciproco di ciò, ora. Nessuna creatura vive a quanto ne so così estesamente sparpagliata come noi cani, nessuna possiede tanta ad occhio assolutamente incalcolabile distinzione di classe, di natura, di attività, noi che vogliamo tenerci uniti – e ci riesce sempre, nonostante tutto, nei momenti di entusiasmo – viviamo separati assai largamente l'un dall'altro in mestieri particolari spesso incomprensibili anche al cane accanto, stando alla regola, mestieri non da cani, anzi orientati contro i cani. Cose difficili, di quelle che si preferisce non toccare – lo capisco, tale punto di vista, anche meglio del mio – eppure sono cose nelle quali sono caduto ben bene. Perché non faccio come gli altri, perché non vivo in concordia con il mio popolo, perché non accolgo in silenzio ciò che turba la concordia, perché non lo trascuro come un piccolo errore nella somma generale, perché non resto sempre orientato verso ciò che felicemente lega, e non verso ciò che continua a trarci irresistibilmente fuori dalla cerchia del popolo? Ricordo un episodio della mia fanciullezza, mi trovavo allora in uno di quegli stati felici di esaltazione che forse ogni fanciullo prova, ero ancora assolutamente un cucciolo, mi piaceva tutto, tutto mi riguardava, credevo che attorno a me accadessero grandi cose, con me al centro, cui dovessi dar voce, cose che, se io non fossi loro andato in soccorso agitandomi a destra e a manca, sarebbero rimaste in uno stato misero, fantasie da fanciullo, dunque, che si dileguarono con gli anni, eppure ancora assai potenti, talvolta, ero del tutto in loro potere, e poi successe però qualcosa di straordinario che parve dar ragione alle sfrenate aspettative. Nulla di eccezionale in sé, in seguito ho visto abbastanza spesso cose del genere, ed anche più particolari, ma quella volta rimasi colpito fortemente in confronto alle successive. Incontrai dunque una piccola compagnia di
cani, anzi, non la incontrai, mi venne incontro. Ero allora corso a lungo nel buio con il presentimento di grandi cose, un presentimento che però era facilmente ingannevole perché lo avevo sempre, ero corso a lungo nel buio, a destra e a sinistra, condotto da null'altro che dall'incerto desiderio, di colpo mi fermai sentendo che lì ero nel posto giusto, alzai gli occhi ed era giorno più che luminoso, solo un po' caliginoso, salutai il mattino con grida disordinate, là – come se li avessi evocati – spuntarono da una qualche tenebra facendo un frastuono spaventoso, come mai l'avevo udito, sette cani. Se non avessi visto con chiarezza che si trattava di cani e che quel frastuono era di loro pertinenza, per quanto non potessi capire in qual modo lo facevano, sarei scappato subito, ma stando così le cose rimasi. Ai tempi non sapevo quasi niente della musicalità di cui la specie canina è tipicamente dotata, essa era sfuggita alla mia nascente attenzione, soltanto per accenni si era tentato di farmela notare, e tanto più sorprendenti, addirittura soverchianti, furono per me quei sette musici. Non parlavano, non cantavano, diciamo che tacevano quasi con una certa ostinazione, tuttavia dallo spazio vuoto producevano per incanto la musica. Tutto era musica, il su e giù operato dai loro piedi, la precisa rotazione delle teste, mosse e poi bloccate, le posizioni che essi assumevano reciprocamente mentre per esempio uno appoggiava le gambe anteriori sulla groppa dell'altro, tutti e sette ciò facendo in modo che il primo portasse il peso di tutti gli altri, oppure era musica il loro strisciare la pancia a un pelo dal suolo dando luogo a figure intrecciate e mai sbagliandosi, neanche l'ultimo, ancora un po' incerto, mancava mai di congiungersi all'altro, a momenti vacillava, per dir così, mentre la melodia veniva abbaiata, eppure era incerto solo in confronto alla gran sicurezza degli altri, e neanche con molto maggiore incertezza, anzi, neanche con la più compiuta incertezza lui avrebbe potuto guastare alcunché, dato che gli altri, grandi maestri, tenevano il tempo imperturbabili. E tuttavia innegabilmente costoro si vedevano a mala pena, tutti e sette si vedevano a mala pena. Erano spuntati, interiormente li avevi salutati come cani, certo eri assai confuso dal frastuono che li accompagnava, ma si trattava di cani, cani come tu ed io ne vedevamo normalmente, cani di quelli che s'incontrano per la via, ti volevi avvicinare a loro, scambiare saluti, erano vicinissimi, cani certo assai più vecchi di me e non di pelo lungo e lanoso come il mio, ma non del tutto diversi in fatto di taglia e fattezze, molti uguali o simili ne conoscevo ben più intimamente, ma intanto che eri nell'imbarazzo di simili riflessioni la musica cresceva, ti afferrava sul serio, ti spingeva via molto di contraggenio da questi cani davvero piccoli, si alzava a tutta forza, urlava come se fosse stato procurato del dolore, di nient'altro ti potevi occupare se non della musica proveniente dall'alto, dal profondo, da ogni dove, afferrava l'uditore, lo riempiva, lo soverchiava, così prossima, al di là del suo affievolirsi, mentre invece già era in lontananza appena udibile, ed ancora risuonante di fanfare. Ed avevi di nuovo la libertà, poiché eri già troppo stanco, troppo annientato, troppo debole per continuare ad ascoltare, la libertà di vedere i sette piccoli cani condurre la loro processione, fare i loro salti, volevi chiamarli, così poco parevano propensi, chieder loro informazioni, domandare che cosa ci facevano, lì – io ero un fanciullo e credevo di poter fare domande a tutti –, ma non appena mi accinsi a ciò, non appena provai il buon intimo legame canino con i sette, la loro musica fu di nuovo lì facendomi ammattire, costringendomi a girare su me stesso in cerchio come se fossi anch'io uno dei musici, invece ero soltanto una vittima; mi volsi qua e là, tanto chiedevo grazia, ed infine mi salvai dinnanzi a quella potenza per il fatto che la musica mi strinse all'interno di un intrigo boschivo che da ogni lato si levava attorno senza che fin lì io lo avessi notato, ora mi circondava strettamente e mi spingeva il capo in basso fornendomi la possibilità di riprendere un po' di fiato, poteva rimbombare là fuori, la musica. Per la verità mi meravigliavo, più che della bravura dei sette cani – inafferrabile, assolutamente scollegata dalle mie facoltà -, del loro coraggio di esporsi a quello che essi producevano in modo pieno e aperto, e della loro forza di sopportarlo tranquilli senza spezzarsi la schiena. Ora però, dal mio nascondiglio, ad una osservazione più rigorosa riconobbi che non c'era tanta tranquillità quanto lo sforzo massimo che loro mettevano in atto, quelle gambe mosse con tanta sicurezza tremavano ad ogni passo con incessante meticoloso spasimo, l'uno guardava l'altro come irrigidito nella disperazione, la loro lingua, sempre ritirata dentro, tornava a pendere molle fuori dalle bocche. Non poteva essere ansia di ben riuscire, quello che tanto li agitava; chi tanto osava, tanto realizzava, non poteva più angosciarsi, e per che cosa? Chi li costringeva a fare quel che facevano lì? E non riuscii a trattenermi più, in particolare perché essi ora mi sembravano tanto misteriosamente bisognosi d'aiuto, così gridai al di là di tutto il frastuono le mie domande, chiaro e sollecito. Tuttavia loro – incomprensibile, incomprensibile! - non risposero, fecero come se io non ci fossi, cani che al richiamo canino non danno risposta, una mancanza di buone maniere che mai viene perdonata né al più piccolo né al più grosso cane. Non si trattava invece di qualcosa all'incirca di non canino? Ma come poteva non trattarsi di cani? Ora però udii, stando ad ascoltare meglio, perfino lievi richiami con cui essi si bersagliavano per richiamare l'attenzione alle difficoltà, si mettevano in guardia dagli errori, mentre vidi l'ultimo e più piccolo dei cani, al quale toccava la maggior parte dei richiami, sbirciare spesso verso di me come se avesse molta voglia di rispondermi, ma si contenne, infatti ciò non era lecito che avvenisse. Ma perché non era lecito, perché stavolta non era lecito ciò che sempre senza riserve le nostre leggi esigono? Il mio cuore provò indignazione, quasi dimenticai la musica. Quei cani lì trasgredivano la legge. Per quanto potessero essere dei grandi maghi la legge valeva anche per loro, lo capivo con assoluta precisione anch'io, che ero un fanciullo. Ed ancor di più ci feci maggior caso per questa ragione. Avevano davvero ragione di tacere, se lo facevano per senso di colpa. Al modo come essi si comportavano non avevo fatto caso finora a causa dell'elevato frastuono, avevano scacciato da sé proprio ogni pudore, quei miserabili si davano sia ad assurdità che ad indecenze, si muovevano ritti sulle gambe posteriori, che schifo! Si scoprivano mettendo in mostra la loro vistosa nudità; se la godevano, e se per un attimo ascoltavano i buoni impulsi ed abbassavano le gambe anteriori, si spaventavano addirittura come se fosse una colpa, come se la naturalezza fosse una colpa, rialzavano svelti le gambe ed il loro sguardo pareva chiedere perdono perché avevano dovuto interrompersi un poco nella loro peccaminosità. Era il mondo alla rovescia? Dove mi trovavo? Che cosa era successo? Per amore della mia stabilità personale non potevo più indugiare, mi liberai degli sterpi che mi avvolgevano, con un balzo saltai fuori e mi diressi verso i cani, io, semplice scolaro, dovevo essere maestro, dovevo far loro capire ciò che facevano, dovevo tenerli lontani dal persistente peccato. “Cani tanto anziani, tanto anziani!”, andavo ripetendo. Ma non appena fui libero e solo due o tre salti mi separavano dai cani, di nuovo fu il frastuono ad avermi in suo potere. Probabilmente con il mio ardore avrei perfino resistito al frastuono che a questo punto mi era noto, se, attraverso tutta la sua pienezza spaventosa, ma forse contrastabile, una tonalità netta e forte che giungeva sempre uguale da grande distanza, magari la melodia vera e propria interna al frastuono, non fosse risuonata e mi avesse costretto ad inginocchiarmi. Accidenti che razza di musica incantatrice facevano quei cani! Non ce la facevo più, non volevo più ammaestrarli, potevano seguitare ad allargar le gambe, a peccare e ad attrarre altri al peccato di guardare inertemente, ero un cane così piccolo, io, chi poteva caricarmi di un tale onere, e mi facevo anche più piccolo di quanto non fossi, guaivo, se a quel punto i cani mi avessero chiesto la mia opinione, forse avrei dato loro ragione. Del resto non durò a lungo, ed essi sparirono, insieme a tutto il frastuono ed a tutta la luce, nella tenebra da cui erano venuti.
L'ho già detto: tutto questo caso non ha niente di straordinario, nel corso di una lunga vita te ne capitano di vario genere, di cose che fuori dal loro contesto e viste con occhi di fanciullo sarebbero ancora assai sorprendenti. Inoltre su queste cose si può – come felicemente indica il modo di dire - “stare a veglia” come su tutto, e poi salta fuori che sette cani erano convenuti lì per far della musica nel silenzio del mattino, che un piccolo cane si era smarrito, un ascoltatore molesto che essi, purtroppo invano, tentarono di scacciare con un musica particolarmente paurosa o sublime. Che li disturbò con le sue domande, e loro avrebbero dovuto, già abbastanza disturbati dalla mera presenza dell'estraneo, prestarsi a quella molestia ed aumentarla rispondendo? Ed anche se la legge comanda di rispondere a tutti, la venuta di un simile cagnolino è poi degna di nota? E magari non lo compresero affatto, forse lui balbettò le sue domande in modo davvero incomprensibile. O invece lo capirono bene e risposero, facendosi forza, ma lui, il piccino, quello non avvezzo alla musica, non seppe discernere la risposta dalla musica. E per quel che riguarda le gambe posteriori, forse eccezionalmente, esse andavano da sé, nient'altro, non va bene, certo! Ma loro erano soli, sette amici tra di loro, in compagnia e confidenza, per dir così tra le loro quattro pareti, per dir così soli soli, amici dunque senza pubblico, e dove non c'è pubblico non lo porta neanche un piccolo curioso cane di strada, e dunque in questo caso non è come se non fosse successo niente? Non è proprio proprio così, ma quasi, ed i genitori dovrebbero insegnare ai loro piccoli a gironzolare poco, a stare zitti, piuttosto, ed a tener conto dell'età altrui.
A posto, il caso è chiuso. Tuttavia quel che è chiuso per i grandi non lo è ancora per i piccoli. Io gironzolai, raccontai e domandai, accusai e indagai e mi impegnai a far venire ognuno là dove era accaduto tutto per indicargli la mia posizione e quella dei cani e dove e come avevano danzato e fatto musica, e, se qualcuno fosse venuto, invece di liberarsi di me deridendomi, avrei certo rinunciato alla mia innocenza e provato a stare sulle gambe posteriori allo scopo di illustrare il tutto esattamente. Ora, un fanciullo non se la prende a male di tutto, ma tutto perdona, davvero. Tuttavia io ho serbato questo modo di fare immaturo, e sono divenuto nel frattempo un cane anziano. Così come all'epoca non chiusi quel caso, che del resto oggi sottovaluto molto, e ne parlai apertamente, lo analizzai nelle sue parti, lo descrissi ai presenti senza riguardo alla compagnia in cui mi trovavo, impegnato solo e sempre con la cosa che io trovavo come ogni altro perfettamente noiosa, ma che – questa la differenza – intendevo risolvere da ricercatore in modo appunto integrale per questo motivo, per liberare di nuovo infine lo sguardo verso la solita tranquilla felice vita di ogni giorno, proprio come all'epoca ho fatto in seguito ed anche oggi non smetto di fare, per quanto con mezzi meno giovanili – ma la differenza non è molto grande.
La cosa tuttavia iniziò con quel concerto. Nessun rammarico, nel caso in questione agisce il mio carattere innato che certo, senza il concerto, avrebbe avuto un'altra occasione per manifestarsi, solo che la cosa avvenne così presto, talvolta mi fece soffrire prima del dovuto, mi ha tolto una gran parte della mia fanciullezza, la vita beata dei cuccioli, che di per sé può durare molti anni, per me è durata solo pochi mesi. E sia! Ci sono cose più importanti della fanciullezza. E forse mi aspetta, in una vecchiaia conseguita per mezzo d'una dura vita, una felicità più fanciullesca di quanto un vero fanciullo avrebbe la forza di tollerare, e che invece io avrò.
Allora iniziai le mie investigazioni sulle cose più semplici, la materia non mancava, ve n'è purtroppo in sovrabbondanza, ed in ore oscure mi fa disperare. Iniziai ad investigare in merito all'origine del nutrimento della comunità dei cani. Ora, non si tratta affatto, naturalmente, volendo, di una questione semplice, essa ci impegna dai primordi, è la materia principale della nostra riflessione, innumerevoli sono le osservazioni, i tentativi e le opinioni in tale campo, ne è derivata una scienza che, con le sue enormi dimensioni, nel complesso esorbita non solo l'intelligenza del singolo, ma anche quella di tutti gli eruditi, e non può essere fatta avanzare se non dall'intera comunità dei cani e soltanto con sofferenza e parziale completezza, di continuo essa seguita a frammentarsi in vetuste ossessive aree e deve essere ricompattata con fatica, tacendo del tutto delle sciocchezzuole e delle ipotesi nuove di ricerca che è difficile che si realizzino. Tutto questo non mi viene obbiettato, io tutto questo lo so come lo sa anche un qualsiasi normale cane, non mi viene in mente di ingerirmi nella scienza vera, al suo cospetto ho tutto il timore reverenziale che le spetta, ma mi manca il carattere e l'assiduità e la serenità per incrementarla, e l'appetito – non per ultimo, in specie da alcuni anni. Il cibo lo butto giù, se lo trovo, ma non mi sembra all'altezza della più modesta casuale osservazione d'un ordinato paesaggio rurale. Mi è sufficiente, riguardo alla scienza tutta, il suo estratto, la piccola regola con cui la madre libera alla vita i suoi piccoli: “Bagna tutto per quanto puoi.” E non è davvero compreso tutto, qui? Che cos'ha la ricerca iniziata dai nostri avi da aggiungere a ciò, di decisivo ed essenziale? Dettagli, dettagli, e com'è incerto l'insieme, invece questa regola resisterà finché esisteremo noi cani. Essa concerne il nostro nutrimento principale, certamente disponiamo anche di altri mezzi, ma nell'urgenza, e quando gli anni non sono troppo cattivi, potremmo vivere di tale nutrimento principale, lo troviamo nella terra, che però necessita della nostra orina, si nutre di essa e soltanto a questo prezzo ci dà il nostro nutrimento il cui spuntare si può del resto accelerare, non bisogna dimenticarsi di questo, tramite precisi motti, canti e gesti. Da questo lato su ciò non c'è da dire qualcosa di più essenziale, dopotutto però si tratta della mia opinione. Anche qui sono d'accordo con la maggioranza della comunità dei cani e mi allontano con osservanza da tutte le teorie eretiche sulla questione. Davvero, non mi piacciono le stranezze, l'arroganza, sono contento quando posso concordare con i connazionali, e questo è il caso. Le mie personali investigazioni vanno tuttavia in altra direzione. Ciò che verifico mi indica che la terra, quando viene spruzzata e lavorata secondo le regole scientifiche, rende il nutrimento ed esattamente in tale quantità, massa, modo, luogo ed in tali ore, secondo quel che richiedono le leggi scientifiche verificate del tutto o in parte. Lo ammetto, ma la questione che pongo è: “questo nutrimento la terra da dove lo prende?” Si tratta di una domanda che di solito si dà ad intendere di non capire ed a cui nel migliore dei casi si risponde: “se non hai abbastanza da mangiare, te ne daremo del nostro.” Si faccia caso a questa risposta. Lo so: non fa parte delle preferenze canine, che noi spartiamo i cibi una volta che ce li siamo procurati. La vita è difficile, la terra arida, la scienza è ricca di conoscenze, ma piuttosto povera di effetti pratici; chi ha cibo, se lo tiene; non è egoismo, è il contrario, è legge canina e concorde decisione popolare, risultanti dal superamento dell'egoismo, infatti gli agiati sono certo una minoranza. Ecco dunque la risposta: “se non hai abbastanza da mangiare, te ne daremo del nostro”, modo di dire fisso, facezia, canzonatura. Non l'ho scordato. Ma un significato tanto più grande per me fu che si cessasse di burlarsi di me, non appena iniziai ad andare in giro nel mondo con le mie questioni; non mi si dette di certo alcunché da mangiare – dove mai lo si sarebbe potuto prendere? Ed anche nel caso che lo si fosse avuto, si dimenticò naturalmente, nella frenesia della fame, ogni altra considerazione, seppur parlando seriamente di offrirne, e qua e là ne ebbi poi davvero un minimo, se fui svelto abbastanza, però, ad impadronirmene. Come fu che ci si comportasse con me in modo tanto speciale? Mi si risparmiò, mi si favorì. Perché ero un cane debole, magro, malnutrito e troppo trascurato in fatto di cibo? Ma in giro di cani malnutriti ce ne sono, ed anche a quelli si leva di bocca perfino il cibo più misero, se capita, spesso non per cupidigia, ma nella maggioranza dei casi per principio. Invece mi si favorì, non potevo spiegarlo con la casualità, infatti avevo la precisa impressione che mi si favorisse. Era per questioni che ponevo, di cui ci si compiaceva, cui si guardava come fossero specialmente intelligenti? No, non ci si compiaceva, e le si ritenevano tutte sciocche. Eppure potevano essere soltanto le mie questioni, a guadagnarmi l'attenzione. Era come se si preferisse compiere l'enormità di riempirmi la bocca di cibo – non lo si faceva, ma se ne aveva l'intenzione – piuttosto che tollerare le questioni che ponevo. Anche se, meglio, si sarebbe potuto scacciarmi e non consentirle. No, non si voleva udirle, certo che non si voleva, ma proprio a causa di esse non si voleva scacciarmi. Fu, tanto venivo deriso, trattato da stupida bestiola, preso in giro, veramente il periodo del mio massimo credito, qualcosa di simile in seguitò non si ripeté mai, ebbi accesso in ogni dove, nulla mi fu vietato, con il pretesto di un trattamento più scortese mi si lusingò in modo speciale. Tutto dunque a causa delle mie questioni, della mia impazienza, della mia brama di ricercatore. Mi si voleva con ciò addormentare senza violenza, sviarmi quasi piacevolmente da una strada erronea, da una strada la cui erroneità tuttavia non stava così al di sopra di ogni dubbio da rendere impossibile l'uso della violenza, inoltre c'era anche un certo rispetto ed una certa paura a trattenere dalla violenza. Indovinavo già allora qualcosa del genere, oggi lo so con precisione, con molta più precisione di chi allora lo faceva, sì, con lusinghe si è voluto che io mi distogliessi dalla mia strada. La cosa non ebbe successo, si ottenne l'opposto, la mia attenzione si acuì. Mi si rivelò addirittura che ero io a voler attrarre gli altri, e che di fatto mi riusciva fino ad un certo punto, la seduzione. Fu proprio con l'aiuto della comunità dei cani che iniziai a comprendere le mie proprie questioni. Quando per esempio domandavo da dove la terra prenda il nostro nutrimento, questo m'interessava, come potesse la terra averne dato l'impressione, non m'interessavano, per dire, le preoccupazioni della terra. Per nulla m'interessavano, ero ben lungi da ciò, come presto riconobbi a me interessavano soltanto i cani, quasi nient'altro. Che cosa c'è, infatti, a parte i cani? Chi altri si può invocare nel vasto vuoto mondo? Ogni sapere, la totalità di tutte le domande e di tutte le risposte, i cani la hanno in sé. Se soltanto si potesse con efficacia portare alla luce del giorno tale sapere, se soltanto si potesse, se essi non sapessero infinitamente di più di quanto ammettono, di quanto si concedono. Anche il cane più loquace è più riservato di quanto sogliano esserlo i luoghi dove si trovano i cibi migliori. Ci si aggira furtivamente intorno al confratello, si sbava dalla brama, ci si colpisce anche con la propria coda, si domanda, si prega, si ulula, si morde e si ottiene – quello che si otterrebbe anche senza ogni sforzo, si ottiene: ascolto affettuoso, cortesia, falso rispetto, abbracci fervidi, il tuo ed il mio ululato si mescolano insieme, tutto è regolato allo scopo di trovare nell'incanto l'oblio, ma l'unica cosa che si voleva ottenere prima di tutte, che si confessasse il sapere, quella rimane negata, a quella preghiera, che sia espressa a voce o che sia muta, rispondono nei casi migliori, se si è spinto l'allettamento all'estremo, solo espressioni ottuse, occhiate oblique, chiuse, torbide. Non è molto diverso da quando, giovinetto, chiamai i musici e loro tacquero. Ora si potrebbe dire: “ti lamenti dei tuoi confratelli, del loro tacere in merito alle cose decisive, sostieni che sappiano più di quanto ammettano, più di quanto essi vogliano che nella vita valga, e che questa segretezza, la cui ragione e il cui mistero essi naturalmente tacciono, avveleni la vita, te la renda insopportabile, tu questa cosa dovresti cambiarla oppure trascurarla, forse, però sei un cane, possiedi anche tu il sapere canino, dunque tiralo fuori non solo in forma di domanda, ma come risposta. Se lo tiri fuori, chi ti resisterà? Il gran coro della comunità dei cani avrà inizio come fosse in attesa. Ed avrai verità, chiarezza e confessione, quante ne vuoi. Si scoperchierà la volta di questa bassa vita di cui parli tanto male, e noi tutti, cane dopo cane, ci leveremo nell'alto della libertà. E se ciò non dovesse riuscire, se dovesse essere peggio di quel che è stato finora, se la verità intera dovesse essere più insopportabile della verità a metà, se dovesse emergere che i conservatori taciti della vita sono nel giusto, se dovesse sortire, dalla speranza sommessa che ancora oggi abbiamo, la disperazione piena, parlare è ancora un degno tentativo, poiché tu non vuoi vivere come ti è permesso. Ordunque, perché rimproveri agli altri il loro silenzio e tu stesso taci?” La risposta è facile: perché io sono un cane, in sostanza molto riservato, proprio come gli altri, e restio con ostinato timore alle questioni particolari. Chiedo forse alla comunità dei cani, da quando sono diventato grande, in senso stretto, che mi risponda? Ho speranze così folli? Vedo i fondamenti della nostra vita, indovino la loro profondità, ne vedo gli edificatori oscuramente all'opera, e continuo ad attendere che tutto ciò termini con le mie questioni, si annulli, venga dimenticato? No, davvero non me lo aspetto più.
<Nelle traduzioni italiane che conosco, la prima di Anita Rho (Il messaggio dell'imperatore,Torino 1958), la seconda di Ervino Pocar (Tutti i racconti, Milano 1970), da questo punto in avanti si leggono una ventina di righe che mancano nell'edizione da cui traduco, Die Erzaehlungen, Frankfurt am Mein 2010 – n.d.t.>
Continuo ad affannarmi a domandare, nient'altro, io mi sprono per mezzo del silenzio che, esso solo, attorno a me ancora mi risponde. Quanto a lungo sopporterai che la comunità dei cani taccia e continui a tacere, cosa di cui con le tue ricerche divieni sempre più consapevole? Quanto a lungo sopporterai, questo è l'urlo che la mia questione vitale leva al di sopra di tutte le questione di dettaglio; me la pongo io, e non dà fastidio a nessun altro. Sfortunatamente so rispondere meglio ad essa che non alle questioni di dettaglio: lo sopporterò, è probabile, fino alla mia fine naturale, la quiete dell'anzianità resiste sempre di più alle questioni inquietanti. E' probabile che io, tacendo, circondato dal silenzio, morirò felice, a ciò sono abbastanza preparato. E' quasi una cattiveria, che noi cani siamo dotati di cuore prodigiosamente robusto e di polmoni che non si logorano in modo prematuro, noi opponiamo resistenza a tutte le domande, perfino alle nostre, noi siamo il baluardo del silenzio.
Di recente penso sempre di più alla mia vita, cerco lo sbaglio decisivo, la causa di tutto, che forse ho commesso, e non riesco a trovarlo. Devo averlo commesso, però, se non l'avessi commesso e nonostante questo avessi raggiunto, per mezzo di onesto impegno, una lunga vita, ciò che non desideravo, sarebbe provato che quel che io volevo era impossibile, e ne conseguirebbe la disperazione totale. Guarda l'opera della tua vita! Per prima cosa le investigazioni inerenti alla questione: da dove la terra prende il nutrimento per noi. Da cucciolo, com'è naturale fondamentalmente avido e contento della vita, rinunciai ad ogni piacere, scansai ogni divertimento, affondai il capo tra le gambe dinnanzi ad ogni tentazione, e mi misi all'opera. Non fu un lavoro da eruditi né in fatto di dottrina, né di metodo, né di scopo. Erano difetti, certo, ma non decisivi. Ho appreso poco, infatti mi allontanai presto dalla madre e mi abituai all'autonomia, condussi una vita libera, e un'autonomia precoce confligge con l'apprendimento sistematico. Tuttavia ho visto molte cose, udito, parlato con molti cani di genere e di varia professione, tutto, credo, capendo non male né mal collegando le osservazioni particolari, ciò ha un po' sostituito la dottrina, ma in più l'autonomia, per quanto svantaggiosa ai fini dell'apprendimento, è un gran vantaggio ai fini d'una ricerca personale. Tanto più necessaria, nel mio caso, dal momento che non potevo attenermi al particolare metodo scientifico, cioè trar profitto dell'opera dei predecessori ed associarmi con gli studiosi contemporanei. Mi istruii completamente da solo, iniziai con i primissimi rudimenti avendo la consapevolezza, felice in gioventù tuttavia in sommo grado avvilente nella vecchiaia, che l'ipotetico punto cui sarei pervenuto avrebbe dovuto essere anche quello definitivo. Davvero fui sempre così solo con le mie ricerche? Sì e no. Non è possibile che cani isolati, ora e sempre, non si trovino e non si siano trovati nella mia situazione. Non posso essere così sfortunato. La mia natura è totalmente canina, ogni cane ha il mio stesso impulso a porre domande ed io ho come ogni cane l'impulso a tacere. Ognuno ha l'impulso a porre domande. Come, sennò, avrei potuto con le mie domande provocare le sia pur lievi reazioni emotive che spesso ebbi il piacere di scorgere incantato, del resto esageratamente. E del fatto che ho l'impulso a tacere non ho bisogno purtroppo bisogno di alcuna prova particolare. Dunque, io non sono in linea di massima diverso da ogni altro cane, ognuno in fondo me lo riconoscerà, a parte le differenze d'opinione e le antipatie, ed io farò con ogni cane la stessa cosa. Soltanto la mescolanza degli elementi è diversa, assai incisiva sul piano personale, molto meno sul piano collettivo. E dunque, non potrebbe la mescolanza di questi eterni elementi esser riuscita nel passato e nel presente mai simile alla mia e, se si vuol dire la mia mescolanza infelice, anche molto più infelice? Ciò sarebbe contrario ad ogni altra esperienza. Noi cani siamo alle prese con le professioni più particolari, attività cui non si darebbe alcun credito se non se ne avessero le notizie più degne di fiducia. Penso ora in special modo all'esempio degli aerocani. Quando ne sentii parlare per la prima volta, risi, non si riuscì davvero a farmici credere. Suvvia! Poteva darsi che un cane della specie più piccola, non tanto più grosso, anche da adulto, del mio capo, che questo cane deboluccio di natura, creatura artificiosa, immatura, accuratissimamente pettinata, inabile a fare un vero e proprio balzo, potesse, come si raccontava, saper procedere nell'aria eppure inattivo, nulla facendo di visibile? Via, mi si prendeva in giro, questo vuol dire approfittarsi un po' troppo della mancanza di pregiudizi d'un cucciolo, credo. Tuttavia poco tempo dopo da altra fonte sentii raccontare d'un altro cane aereo. Ci si era messi d'accordo per prendersi gioco di me? In seguito però vidi i cani musici e da allora ritenni tutto possibile, nessun ripudio limitò la mia capacità di comprensione, presi in considerazione le dicerie più insensate, le seguii fin dove potevo, l'insensatezza massima mi parve in questa vita insensata più probabile della piena sensatezza e proficua in particolare per la mia ricerca. E così anche gli aerocani. In proposito imparai molte cose, certo fino ad oggi non mi è riuscito di vederne alcuno, ma già da molto tempo sono assolutamente convinto della loro esistenza e nella mia immagine del mondo essi hanno il loro posto importante. Come nella maggior parte dei casi, anche in questo com'è naturale non è la maestria che mi dà maggiormente da pensare. E' straordinario, chi può negarlo, che questi cani siano capaci di librarsi nell'aria, su questa meraviglia concordo con la comunità dei cani. Ma assai più straordinaria è per il mio sentire l'insensatezza, la silente insensatezza di queste esistenze. In genere essa non viene motivata quasi per niente, essi si librano nell'aria e la cosa finisce lì, la vita continua, a tratti si parla della maestria di questi artisti, tutto qui. Ma perché, o fondamentalmente benigna comunità dei cani, perché mai questi cani si librano? Che senso ha la loro professione? Perché non ci danno alcuna parola di spiegazione? Perché si librano lassù facendo atrofizzare la gambe, orgoglio canino, separati dalla terra che nutre, non seminando eppur raccogliendo, nutriti a quel che si dice addirittura in modo particolarmente buono a spese della comunità dei cani? Posso illudermi tuttavia che le mie domande abbiano portato in quest'ambito un po' di movimento. S'inizia a motivare, a impapocchiare un tipo di spiegazione, s'inizia, però quest'inizio non si oltrepassa. Ma è già qualcosa. Senza certamente che appaia la verità – mai ci si arriva – mentre appare il profondo radicamento della menzogna. Tutte le insensate apparenze della nostra vita, e le più insensate in modo del tutto particolare, si lasciano per dir così motivare. Non in modo completo, naturalmente – tale è il diabolico scherzo – ma al massimo con il fine di proteggersi dalle domande spiacevoli. Prendiamo ancora ad esempio gli aerocani. Non sono superbi come si potrebbe credere, tanto per cominciare, hanno bisogni particolari assai di più del cane medio, si provi a mettersi al loro posto e lo si capirà. Invece devono, anche se non possono farlo apertamente – significherebbe violare l'obbligo di mantenere il segreto – tentare di farsi perdonare per come vivono od allontanarsi da tal modo, almeno, farlo dimenticare, ed attuano ciò, a quanto mi si dice, con una loquacità pressoché insopportabile. Senza tregua devono render conto in parte delle riflessioni filosofiche che li occupano di continuo in ragione del fatto che essi hanno rinunciato completamente alle fatiche fisiche, in parte delle osservazioni che essi fanno dal loro elevato punto di vista. E nonostante questo non si distinguono molto in fatto di forza intellettuale, il che è evidente data una siffatta scioperataggine, la loro filosofia vale poco come le loro osservazioni, la scienza può a mala pena farne qualcosa e soprattutto non dipende da un fattore di sostegno tanto misero, eppure se si domanda a che cosa servono in modo particolare gli aerocani, si continua ad avere la risposta che essi contribuiscono molto alla scienza. “Va bene”, si replica, “ma i loro contributi sono privi di valore e noiosi.” Un'alzata di spalle è la risposta che segue, si cambia discorso, ci si risente o si ride, e dopo un attimo, se si domanda ancora, si viene a sapere che essi contribuiscono alla scienza, infine, se alla prima occasione si pone la domanda, non riuscendo a dominarsi, la risposta è la stessa. E forse va anche bene non ostinarsi troppo e sottomettersi, soffrire in silenzio, senza riconoscere i suddetti aerocani nel loro diritto di vivere, ciò che è impossibile. Di più non è consentito pretendere, la cosa è andata troppo oltre, e tuttavia si pretende che si tollerino sempre i nuovi aerocani che spuntano. Non si sa per niente bene da dove vengano. Si riproducono? Ne hanno poi l'energia, ma: se non possiedono molto più di un bel pelame, che cosa mai deve riprodursi, in questo caso? E se fosse possibile l'inverosimile, quand'è che dovrebbe accadere? Li si vede sempre soli, sempre autosufficienti su nell'aria, e quando calano giù e corrono ciò avviene solo per brevi attimi, pochi passi frettolosi e sempre rigorosamente in solitudine, tra pretese cogitazioni da cui loro, per quanto si sforzino, non sanno staccarsi, almeno è questo che sostengono. Ma, se non si riproducono, sarebbe concepibile che si trovino cani che rinunciano volontariamente alla vita a terra, che diventano volontariamente aerocani e scelgono, in nome della facilità e d'una certa destrezza, la monotona vita di lassù, sui cuscini dell'aria? Non è concepibile, né è la riproduzione né l'adesione volontaria. Eppure la realtà indica che continuano ad esserci nuovi aerocani; se ne conclude che, per quanto invincibili possano sembrare al nostro intelletto gli ostacoli, stranamente ancora non s'è estinta una antica razza canina, almeno non s'è estinta con facilità, almeno in tale razza c'era un qualcosa di vittoriosamente combattivo nel tempo. Se questo vale per una razza così particolarmente insensata, che sembra la più strana di tutte, com'è quella degli aerocani, non devo accettarlo anche per la mia? Però io non appaio affatto strano, sono un cane come ce ne sono tanti, qui, non mi distinguo in nulla, in nulla sono spregevole, da giovane e parzialmente durante la maturità, fin quando non mi trascurai e molto mi mossi, fui un cane perfino grazioso, davvero, in particolare si lodava il mio aspetto, le gambe slanciate, la bella postura del capo, ed anche il mio pelo, grigio bianco e giallo, era assai gradevole, riccio solo in punta, tutto ciò non è particolare, particolare è solo il mio carattere, ma anch'esso è ben tipico del generale carattere canino, come mai ho potuto evitare di prendere in considerazione. Orbene, se neppure l'aerocane resta in solitudine, qua e là se ne continua a trovare nel mondo dei cani sempre uno e loro, gli aerocani, vanno a cavar nuove leve addirittura dal nulla, allora anch'io posso aver fiducia di non essere lasciato solo. Certo, quelli come me sono costretti ad una sorte particolare e la loro esistenza già per questo mai mi sarà utile in modo chiaro, non perché è con difficoltà che saprò sempre distinguerli. Noi siamo gli oppressi dal silenzio, noi vogliamo romperlo proprio per bisogno d'aria fresca, agli altri sembra di star bene, nel silenzio, certo è solo apparenza come fu nel caso dei cani musici, che apparentemente facevano musica sereni mentre invece erano assai agitati, tale apparenza tuttavia è potente, si prova ad afferrarla, ma essa se la ride di ogni assalto. Ora, come si arrangiano quelli come me? Come si riconoscono i loro tentativi di vivere a dispetto ciò? Dipende. Io ho tentato, fintanto che ero giovane. Potrei dunque pormi tra coloro che fanno molte domande, ed in ciò poi li avrei come compagni. C'è stato un periodo in cui mi sono sforzato di dominarmi, a me interessano tuttavia coloro che sono in grado di rispondere, quelli che seguitano ad immischiarsi con me, a suon di domande che il più delle volte non posso soddisfare rispondendo, mi disgustano. E poi, chi non fa volentieri domande quando è giovane? Come faccio a scoprire tra i molti interroganti quelli giusti? Una domanda suona come l'altra, dipende dall'intenzione, che tuttavia è nascosta spesso anche a chi la pone. E soprattutto, domandare è certo una particolarità canina, tutti si fanno domande a vicenda, è come se con ciò le tracce dell'interrogante potessero esser cancellate. No, tra gli interroganti, i giovani, non trovo quelli come me, e tra i taciti, i vecchi, di cui ora faccio parte, li trovo ugualmente poco. Ma a che cosa servono le domande, io certo ho fallito con le domande, probabilmente quelli come me sono più astuti e si servono di tutt'altri ed ottimi mezzi per sopportare questa vita, mezzi che, mi permetto di aggiungere, magari all'occasione servono loro, li placano, li assopiscono, agiscono in modo trasformativo sulla loro natura, che in genere sono deboli come i miei, infatti per quanto io vado investigando non vedo un risultato. Credo che riconoscerò quelli come me, prima che nel risultato, in tutt'altro. Dove si trovano poi quelli come me? Proprio questo è in questione, proprio questo. Dove sono? Ovunque ed in nessun luogo. Forse il mio vicino è del mio genere, a tre balzi da me, magari rumoreggiamo l'un con l'altro, lui viene magari dalla mia parte, io dalla sua no. E' uno come me? Non so, in lui non riconosco nulla di simile, ma può essere. Può essere, ma niente è più improbabile; se si trova lontano, per gioco posso scoprire, ricorrendo a tutta la mia fantasia, numerose familiarità indiziarie, ma se poi si trova davanti a me tutte le mie elucubrazioni fanno ridere. Un vecchio cane anche più piccolo di me, che sono di taglia media, marrone, corto di pelo, capo stanco e ciondolante, passi strascicati, in più trascina la gamba posteriore sinistra a causa di una malattia che ha avuto. Così da vicino come lui non frequento già da molto più nessuno, mi piace tuttavia di sopportarlo abbastanza, e quando si allontana gli grido dietro le cose più benevole, ma non per affetto, invece arrabbiato con me stesso, infatti quando lo seguo con lo sguardo trovo del tutto disgustoso come lui va di soppiatto con il piede che strascica e con il posteriore troppo abbassata. A volte è come se volessi burlarmi di me stesso, quando nel pensiero lo chiamo mio simile. Anche nelle nostre conversazioni lui non manifesta alcuna colleganza, certo è intelligente e, nei limiti dei nostri rapporti, abbastanza colto, da lui potrei imparare molto, ma io sono alla ricerca di intelligenza e di cultura? Di solito c'intratteniamo su questioni locali ed io mi stupisco, con la perspicacia che mi deriva dall'isolamento, di quanto spirito serva anche ad un cane normale, anche in situazioni ordinariamente non troppo sfavorevoli, per vivacchiare e proteggersi dai maggiori consueti pericoli. La scienza certo fornisce regole, ma non è affatto facile capirle anche alla lontana ed in modo grossolano, e, quando le si sono capite, subito arriva il difficile, quello vero, vale a dire applicarle alle situazioni locali, in questo caso pochi possono essere all'altezza del compito, quasi ogni ora propone nuove incombenze ed ogni nuovo pezzetto di terra le sue particolari; che uno possegga una qualche organizzazione ai fini della sopravvivenza e che la sua vita scorra per dir così da sola, nessuno può affermarlo di sé, neanch'io che ho bisogni che calano addirittura da un giorno all'altro. E tutte queste inique fatiche, a qual fine? Solo per continuare a seppellirsi nel silenzio e per esserne estratti mai più e da nessuno. Spesso si decanta il progresso generale della comunità dei cani nel tempo e ciò facendo ci si riferisce in primissimo luogo al progresso della scienza. Certo, la scienza progredisce, è inarrestabile, progredisce addirittura acquistando velocità, sempre di più, ma che cosa c'è da decantare? E' come se si volesse decantare qualcuno perché invecchia di un numero crescente di anni e perciò si avvicina sempre più velocemente alla morte. E' un progresso naturale ed anche malvagio in cui io non trovo niente da decantare. Vedo soltanto decadenza, con ciò non intendo dire che le generazioni precedenti fossero migliori, quanto all'indole, erano solo più giovani, questo era il loro gran vantaggio, la loro memoria non era ancora tanto sovraccarica come l'odierna, era anche più facile indurle a parlare, ed anche se a nessuno è riuscito, la possibilità era maggiore, tale maggior possibilità era anzi quella che ci eccita tanto quando ascoltiamo quelle vecchie storie davvero semplici, del resto. Capita che udiamo un'allusione e quasi ci piacerebbe sobbalzare, non sentissimo il peso dei secoli su di noi. No, che cosa ho da rimproverare alla mia epoca, le generazioni precedenti non erano migliori della nuova, anzi, in un certo senso erano assai peggiori e meno forti. I casi eccezionali naturalmente neanche allora sfuggivano, li si poteva cogliere, ma i cani non erano ancora così canini come lo sono oggi, non posso dirlo che in questo modo, la compagine canina era ancora indefinita, la parola autentica ai tempi avrebbe potuto ancora entrare in azione, stabilire la struttura, rimodularla, mutarla secondo ogni voglia, volgerla nel suo contrario, la parola era lì, almeno, era vicina, si librava sulla punta della lingua, tutti potevano impararla, dov'è finita oggi non si troverebbe neppure frugando nella pancia. La nostra generazione forse è perduta, ma non ha più colpe della generazione passata. Posso capire la titubanza della mia generazione, anzi, non c'è alcuna titubanza, si tratta della perdita della memoria di un sogno sognato da mille notti e mille volte dimenticato, chi vuole avercela con noi proprio per la millesima dimenticanza? Tuttavia io credo di capire anche la titubanza dei nostri avi, forse noi non avremmo agito in modo diverso, fortunati noi, vorrei quasi dire, che non dovemmo addossarcene la colpa, che abbiamo la assai maggiore possibilità di affrettarci verso la morte in un silenzio quasi incolpevole, in un mondo già oscurato da altri. Quando i nostri avi deviarono, è difficile che pensassero ad una deviazione duratura, anzi, loro vedevano ancora in effetti il bivio, era facile tornare indietro in qualsiasi momento, e se esitarono a tornare indietro fu solo perché desideravano godersi un poco la vita canina, essa non era ancora affatto proprio una vita canina, ed a loro pareva bella in modo esaltante come più tardi doveva diventare, almeno ancora un momentino d'indugio e continuarono nella deviazione. Non sapevano quello che noi possiamo indovinare osservando il corso della storia, che l'anima muta prima della vita, e che loro, quando cominciarono a godersi la vita canina già dovevano avere un'anima canina vecchia come si deve e che non si trovavano più tanto vicino al punto di partenza come a loro pareva, o come voleva far loro credere il loro sguardo gaudente d'ogni piacere canino. Oggi, chi può parlare di giovinezza? Loro erano i veri giovani, tuttavia la loro unica ambizione purtroppo fu quella di diventare in seguito vecchi, qualcosa cioè d'immancabile, come tutte le successive generazioni e la nostra, l'ultima, dimostrano al meglio. - di tutte queste cose non parlo con il mio vicino, ma spesso sono costretto a pensarci, quando gli sto davanti, a questo tipico vecchio cane, o quando gli affondo il muso nel pelo che già sente di quell'odore che hanno le pellicce dopo che sono state scuoiate. Sarebbe sciocco parlare di quelle cose sia con lui, sia con ogni altro. Lo so, come andrebbe il discorso. Lui solleverebbe alcune piccole obbiezioni qua e là, alla fine acconsentirebbe – il consenso è l'arma migliore, e la cosa verrebbe seppellita, perché dunque scomodarla dalla sua fossa? E nonostante tutto con il mio vicino c'è forse una concordanza più profonda che oltrepassa le mere parole. Non riesco a smettere di sostenere ciò, eppure non ne ho alcuna prova e forse a questo riguardo io soggiaccio ad una semplice illusione, poiché lui da molto tempo è l'unico purtroppo con cui ho a che fare e dunque è a lui che mi devo attenere. “Sei forse uno come me, a modo tuo? Ti vergogni di aver fatto fiasco totale? Guarda, a me è andata nello stesso modo. Quando sono solo mi viene da ululare, vieni, in due è meno amaro.” Penso così, talvolta, e lo guardo dappresso. Lui non abbassa lo sguardo, ma non c'è da cavarne nulla, mi guarda ottuso e si meraviglia che io taccia ed abbia interrotto la conversazione. Ma forse tale sguardo è proprio il suo modo di por domande ed io lo deludo tanto quanto lui delude me. Da giovane, se non avessi avuto altre domande importanti e fossi stato capace di accontentarmi quanto bastava, forse gli avrei fatto domande a voce alta, avrei ricevuto un debole consenso, meno di oggi, dunque, che lui tace. Ma non tacciono forse tutti così? Che cosa m'impedisce di credere che tutti sono come me, che io ebbi qua e là un collega ricercatore che, insieme ai suoi minimi risultati, è sprofondato e dimenticato ed al quale non posso più in alcun modo arrivare attraversando il buio del tempo o la calca del presente, che da sempre e ben di più ho dei simili che, tutti, si sforzano a modo loro, tutti infruttuosamente a modo loro, tutti tacendo o cicalando maliziosi a modo loro, così come questa disperata ricerca comporta. Inoltre non avrei dovuto affatto isolarmi, però, avrei potuto restare in pace tra gli altri, non avrei dovuto spingermi avanti come un giovinetto maleducato tra i ranghi degli adulti, che tanto quanto me certo lo vogliono, ed accanto ai quali basta a confondermi la loro intelligenza, la quale dice loro che nessuno esce dai ranghi ed ogni spinta è stolta.
Considerazioni simili sono del resto chiaramente provocate dal mio vicino, egli mi sconcerta, mi mette nella malinconia completa; e pensare che è piuttosto allegro, di per sé, almeno, io lo sento, quando si trova nella sua cerchia, gridare e cantare al punto di darmi noia. Sarebbe bene rinunciare anche a questa relazione, non inseguire vane fantasticherie quali ogni relazione canina, eppure ritenuta temperata,fa inevitabilmente sorgere, ed utilizzare il poco tempo che mi resta soltanto per le mie ricerche. La prossima volta che viene mi nasconderò e fingerò di dormire, e lo rifarò fino a quando lui non smetterà.
Veramente, nelle mie ricerche è intervenuto del disordine, cedo, mi stanco, trotterello ancora soltanto meccanicamente, laddove correvo con entusiasmo. Ripenso a quando iniziai ad esplorare la questione “da dove la terra prende il nostro nutrimento?”. Allora vivevo in mezzo al popolo, si capisce, mi spingevo là dove esso era più fitto, volevo render tutti testimoni delle mie fatiche, tale testimonianza per me era anche più importante del mio lavoro, poiché anzi mi aspettavo ancora qualche risultato d'interesse generale. Da ciò ricavavo naturalmente un gran calore che ora, nella mia solitudine, è finito. Allora però ero così forte da compiere qualcosa d'incredibile, che si opponeva ad ogni nostro principio, ed ogni testimone oculare dell'epoca certo lo ricorda come qualcosa di poco rassicurante. Nella scienza, che per altro tende ad una specializzazione senza limiti, trovai in un certo senso una notevole semplificazione. Essa insegna essenzialmente che la terra fornisce il nostro nutrimento e, con tale premessa, indica i metodi secondo i quali si fanno cogliere i vari cibi nel modo migliore e con la massima abbondanza. Ora, certo è esatto che la terra fornisce il nutrimento, non può esserci dubbio, ma non è così semplice come di solito viene descritto senza ulteriore indagine. Si prendano però i casi anche più semplici che si ripetono ogni giorno. Se fossimo del tutto inoperosi come ormai lo sono quasi io, se ci acciambellassimo dopo aver lavorato un poco la terra ed aspettassimo quel che viene, in quel caso, ammesso che un qualcosa spuntasse, lo troveremmo, il nutrimento nella terra? Questo tuttavia di regola non avviene. Chi solo ha mostrato solo un po' di spregiudicatezza nei confronti della scienza – e di costoro ce ne sono pochi, si capisce, infatti la scienza attira cerchie sempre più larghe – facilmente riconoscerà, anche se non si prefigge particolari osservazioni, che la maggior parte del nutrimento che finisce col trovarsi sulla terra scende dall'alto, anzi, mai una volta che noi lo s'intercetti, secondo destrezza e bramosia, prima che tocchi terra. Con ciò ancora non dico alcunché contro la scienza, è anche la terra, naturalmente, a recare questo nutrimento, sia quello che trae da sé sia quello che chiama giù, forse non c'è alcuna differenza, per la scienza, appurato che in entrambi i casi il lavoro della terra è necessario, essa forse non deve curarsi di questa differenza, ma ciò vuol dire: “se ci hai in bocca il cibo, allora per questa volta hai risolto ogni questione.” Solo che a me pare che la scienza si occupi di queste cose almeno in parte in forma meno chiara, dato che essa conosce invece due metodi principali di provvista di nutrimento, quello della lavorazione vera e propria del suolo e quello di integrazione e perfezionamento nella forma di formule magiche, danza e canto. La trovo una bipartizione certo incompleta, eppure abbastanza chiara ed adeguata alla mia differenziazione. Secondo la mia opinione la lavorazione del suolo serve alla produzione del nutrimento che viene dall'alto e di quello che viene dal suolo e rimane sempre indispensabile, formule magiche, danza e canto riguardano invece in modo più limitato il nutrimento che viene dal suolo, e servono soprattutto a trarlo dall'alto. Mi rinforza in tal concezione la tradizione. Qui il popolo sembra correggere la scienza senza saperlo e senza che la scienza osi difendersi. Se, come vuole la scienza, quelle cerimonie potessero servire solo al suolo per dargli all'incirca la forza di cogliere il nutrimento dall'alto, esse dovrebbero di conseguenza compiersi tutte per terra, tutto il suolo dovrebbe essere oggetto di sussurri, di canti e danze. La scienza non richiede altro, per quanto ne so. E dunque è curioso che il popolo con tutte le sue cerimonie si rivolga verso l'alto. Ciò non offende affatto la scienza, essa non lo vieta, all'agricoltore ne lascia la libertà, dal punto di vista dottrinario prende in considerazione solo il suolo, e se l'agricoltore mette in pratica le di lei dottrine che fanno riferimento al suolo, è soddisfatta, ma secondo la mia opinione il di lei ragionamento dovrebbe veramente richiedere di più. Ed io che mai sono stato con maggiore profondità iniziato alla scienza, non riesco proprio ad immaginarmi come gli eruditi possano tollerare che il nostro popolo, passionale com'è, invochi l'alto con formule magiche, faccia echeggiare le nostre vecchie canzoni popolari e compia passi di danza come se, scordandosi in modo definitivo il suolo, volesse lanciarsi all'insù. Evitai di rilevare queste contraddizioni, mi trattenni, dinnanzi al totale farsi prossimo al suolo del raccolto, sempre secondo le dottrine scientifiche lo razzolai danzando, torsi il capo giusto per essere il più possibile vicino al suolo, mi feci poi una buca per il muso e cantai, declamai in modo che solo il suolo, e nessun altro intorno o sopra a me, udisse. I risultati della ricerca furono scarsi, spesso non ebbi cibo e già ero sul punto di esultare per la mia scoperta, ma poi il cibo venne di nuovo come se prima fosse stata fatta della confusione tramite la mia particolare esecuzione, ma a questo punto riconobbi il vantaggio che essa induce e rinunciai volentieri al mio gridare e saltare, spesso il cibo venne anche più abbondante di prima, tuttavia in seguito venne di nuovo a mancare del tutto. Con una diligenza che fin lì al cane giovinetto era stata ignota feci minuziosi elenchi di tutti i miei tentativi, a tratti ebbi l'impressione di trovare una traccia che potesse farmi progredire, ma dopo essa si perse ancora nell'indistinto. In quest'occasione mi ostacolò incontestabilmente anche la mia insufficiente preparazione scientifica. Chi mi garantiva per esempio che la mancanza di cibo non fosse causata dal mio esperimento bensì da una lavorazione del suolo non scientificamente corretta e che la mancanza di cibo non ne fosse il risultato, quindi tutte le mie deduzioni erano inconsistenti. In certe circostanze avrei potuto pervenire ad un esperimento quasi del tutto preciso, se cioè mi fosse riuscito, senza alcuna lavorazione del suolo, di arrivare una volta sola per mezzo di cerimonie rivolte verso l'alto, alla venuta in basso del cibo. Feci tentativi del genere, ma senza solida fede e senza condizioni sperimentali perfette, infatti secondo la mia salda opinione almeno una certa lavorazione del suolo è sempre utile, ed anche se gli eretici, che non lo credono, avessero ragione, ciò tuttavia non sarebbe prevedibile poiché lo spruzzare di liquido sul suolo avviene a causa di un bisogno ed entro certi limiti è inevitabile. D'altra parte un altro esperimento un po' singolare mi riuscì meglio e fece qualche scalpore. Successivamente all'usuale attesa del nutrimento dall'aria decisi cioè di non far cadere giù il nutrimento né di aspettarlo. A tale scopo spiccai sempre, quando veniva il nutrimento, un piccolo salto tuttavia tanto calcolato che non fu sufficiente; nella maggioranza dei casi il nutrimento cadde anzi al suolo alla stanca ed io mi ci gettai sopra furente, non solo con la furia della fame, bensì con quella anche della delusione. In casi isolati accadde tuttavia qualcosa di diverso, qualcosa di particolarmente straordinario, il cibo non cadde, ma mi seguì in aria, il nutrimento dette la caccia all'affamato. Avvenne per breve tratto, non a lungo, poi esso cadde, o scomparve del tutto, o – più frequentemente – la mia brama esaurì l'esperimento ed io mangiai tutto quanto. Fui pur sempre fortunato, allora, attorno a me si bisbigliò, si fu inquieti, e trovai i miei conoscenti, diventati guardinghi, disponibili alle mie domande, nei loro occhi vidi farsi luce un qualche sostegno, ciò poteva essere anche solo il riflesso del mio sguardo, mi bastò, fui contento. Finché poi venni a sapere – e gli altri con me – che questo esperimento da lungo tempo è descritto dalla scienza, che è riuscito già molto meglio che non a me, ma che da molto non è stato compiuto a causa della difficoltà dell'autocontrollo che esso richiede, e neanche deve essere ripetuto a causa della sua pretesa irrilevanza scientifica. Appariva solo quello che si sapeva già, che il suolo non coglie il nutrimento proprio esattamente dall'alto, ma di sbieco, anzi, addirittura a guisa di spirale. Ci rimasi, dunque, ma non scoraggiato, ero ancora troppo giovane, al contrario, fui incitato alla prestazione forse più grande della mia vita. Alla svalutazione scientifica del mio esperimento non credevo, ma in ciò non mi sosteneva alcuna fede, bensì soltanto la dimostrazione, e volli intraprenderla con l'intenzione di mettere per mezzo di tale dimostrazione in piena luce al centro della ricerca anche il seguente esperimento un po' particolare. Intendevo dimostrare che quando io indietreggiavo al cospetto del cibo il suolo non lo attirava di sbieco, bensì ero io che me lo attiravo dietro. Del resto l'esperimento non potei portarlo avanti, vedere la pappatoria davanti a sé e sperimentarci sopra scientificamente, non si riusciva a sopportarlo a lungo; tuttavia intesi di far qualcos'altro, fin quando resistetti alla totale fame volli evitare ogni allettamento del cibo ed insieme ogni vista. Quando mi abbandonai così, ad occhi chiusi giorno e notte rimanendo disteso non curandomi di raccogliere il nutrimento né di aspettarlo, io non osavo sostenere tuttavia speravo sommessamente questo, che, in assenza di tutte le usuali misure, a parte l'inevitabile irrazionale innaffiatura del suolo, ed in presenza della recitazione segreta delle formule e delle canzoni (volli omettere la danza per non affaticarmi), ugualmente il nutrimento venisse giù e, trascurando il suolo, bussasse alla porta dei miei denti per esser fatto entrare – se accadeva ciò la scienza mica era confutata, essa possiede sufficiente elasticità in rapporto ad eccezioni e casi particolari, ma il popolo, che tanta elasticità per fortuna non possiede, che cosa avrebbe detto? Non sarebbe stato proprio un caso eccezionale rispetto a come si tramanda nella storia che, per dire, un tizio a causa di malattia fisica o per sua tetraggine si rifiuta di preparare il nutrimento, di cercarlo, di accoglierlo, e allora la comunità dei cani si raduna, formula suppliche ed ottiene che il nutrimento devii dal suo normale percorso diritto in bocca al malato. Io che invece ero pieno di forza e di salute, che avevo un appetito così meraviglioso da impedirmi di pensare ad altro durante la giornata, mi sottoposi, lo si voglia credere o no, volontariamente alla fame, ero pure in grado di preoccuparmi della discesa del nutrimento e ne avevo l'intenzione, non necessitavo dunque di alcun aiuto della comunità dei cani ed essa nel modo più deciso me lo sconsigliava. Mi cercai un posto adeguato all'interno d'una boscaglia appartata dove non avrei udito in alcun modo parlare di cibo, né masticare né sgranocchiare ossi, mi riempii ancora una volta per bene e poi mi sdraiai. Avevo intenzione di trascorrere se possibile tutto il tempo con gli occhi chiusi; per tutta la durata della fame sarebbe stata per me notte ininterrotta, durasse giorni o settimane. Mi riuscì poco però, grave difficoltà aggiuntiva, di dormire, quasi per nulla magari, infatti non solo dovevo implorare la discesa del nutrimento, ma anche stare in guardia allo scopo di non distrarmi dormendo, per dir così, d'altro canto dormire era ottimale, perché dormendo avrei potuto sopportare la fame molto più a lungo che da sveglio. Perciò decisi di frazionare con cura il tempo e di dormire molto, ma ogni volta per brevissimi tratti. Ci riuscii in questo modo, dormendo appoggiavo sempre il capo ad un ramo sottile che presto si piegava, con ciò svegliandomi. Giacqui così, dormii o vegliai, sognai o cantai muto per me stesso. Il tempo dapprima trascorse senza che avvenisse alcunché, forse là da dove perviene il nutrimento non era stato notato che io mi opponevo al corso normale delle cose, e così tutto restò tranquillo. Un poco nella mia fatica mi disturbò il timore che i cani si accorgessero che non c'ero, che presto mi rintracciassero ed intraprendessero qualcosa contro di me. Un altro timore era che semplicemente annaffiandolo lì, il suolo, per quanto infecondo fosse stando alla scienza, fornisse il cosiddetto nutrimento fortuito il cui odore mi avrebbe attirato. Non accadde tuttavia per il momento niente del genere ed io potei continuare il digiuno. A prescindere da questi timori io fui per il momento calmo come mai prima in me era stato osservabile. Per quanto io stessi lavorando all'abrogazione della scienza, ero colmo dell'agio e quasi della proverbiale serenità degli operatori scientifici. Fantasticai di esser perdonato dalla scienza, nel suo ambito c'era uno spazio anche per le mie ricerche, nelle orecchie mi risuonò consolante che, anche nel caso che le mie ricerche avessero successo, non solo, ma successo particolarmente grande, io non ero perduto alla vita canina, la scienza stava dalla mia, essa stessa avrebbe interpretato i miei risultati, e tale promessa significava di per sé la realizzazione, sarei, mentre fin lì interiormente mi sentivo escluso ed assalivo selvaggiamente le mura del mio popolo, stato elevato a grandi onori, il bramato calore dell'adunato corpo canino sarebbe confluito su di me, premiatissimo avrei sobbalzato sulle spalle del mio popolo. L'inizio della fame genera quest'effetto particolare. La mia prestazione mi pareva tanto grande che cominciai a piangere di commozione e di autoindulgenza lì, nella silente boscaglia, cosa del resto non tanto comprensibile, se aspettavo il meritato premio, infatti, perché poi piangevo? Solo perché mi faceva comodo. Non mi era mai andato a genio il mio pianto. Sempre e solo se mi faceva comodo, piuttosto di rado, ho pianto. Però quella volta finì alla svelta. Le belle immagini si volatilizzarono gradualmente con autol'acuirsi della fame, non durarono, ed io restai solo, dopo veloce congedo di tutte le fantasie e d'ogni commozione, con la fame che mi bruciava le viscere. “E' la fame”, mi dissi allora mille volte come se volessi convincermi che io e la fame fossimo ancor sempre due cose distinte ed io potessi liberarmene come d'una amante noiosa, ma in realtà noi eravamo dolorosissimamente una cosa sola, e se mi spiegavo che “era la fame” parlava la fame stessa e con ciò si prendeva gioco di me. Brutto momento, brutto! Se ci penso mi vengono i brividi, non solo però per la pena dentro cui sono passato, ma prima di tutto perché non l'avevo spuntata, perché in tale pena avrei dovuto passare ancora se volevo ottenere qualcosa, ancor oggi digiunare io lo considero infatti come il definitivo e più potente mezzo della mia ricerca. Dalla fame passa la via, il massimo non è altro che la più alta prestazione raggiungibile, se raggiungibile, e tale prestazione più alta è tra noi cani il digiuno volontario. Se approfondisco dunque quei tempi – e vado rivangandoli molto volentieri – approfondisco anche i tempi che su di me incombono. Sembra che si debba lasciar passare quasi una vita prima di rimettersi ad una prova del genere, tutti gli anni della mia maturità mi separano da quel digiuno, ma ancora non mi sono ripreso. Se prossimamente inizio a digiunare, forse avrò più saldezza di allora come effetto della mia maggiore esperienza e del miglior discernimento della necessità della prova, ma le mie forze sono più scarse di allora, per lo meno, mi esaurirò già nella mera attesa dei noti timori. Il mio appetito più debole non mi gioverà, scredita solo un poco la prova e forse mi costringerà a digiunare più a lungo di quanto sia stato capace quella volta. Di tali presupposti e di altri credo di rendermi conto, certo in questo lungo intervallo di tempo non sono mancati esperimenti preliminari, abbastanza spesso nella fame vera e propria ci sono cascato, ma non fui forte al massimo, e la spregiudicata aggressività giovanile naturalmente è svanita per sempre. Già allora scemava, nel corso della fame. Mi tormentavano riflessioni varie. I nostri avi mi sembravano minacciosi. Certo, io li considero, anche se non oso dirlo pubblicamente, responsabili di tutto, hanno colpa della vita canina ed io potrei rispondere facilmente alla loro minaccia con una contro-minaccia, ma mi inchino al cospetto della loro dottrina, essa ebbe origine dal tormento di cui noi non siamo più consapevoli, perciò, anche se sono spinto a battermi contro di loro, mai trasgredirei manifestamente le loro leggi, mi limito a sfuggire attraverso le smagliature della legge, per cui possiedo un naso particolare. In merito al digiuno mi appello al celebre dialogo nel cui corso uno dei nostri saggi espresse l'intenzione di proibirlo, ciò di cui un secondo lo sconsigliò domandando: “Ma chi vuoi che digiuni?”, ed il primo rimase persuaso ritirando la proibizione. Ora si ripropone la questione: “Allora, il digiuno non è propriamente proibito?” La maggior parte degli esegeti la rigetta e ritiene consentito il digiuno, è dell'opinione del secondo saggio e per questo non teme alcuna spiacevole conseguenza d'una esegesi erronea. Me ne sono accertato bene prima di iniziare il digiuno. Però, quando mi contorsi dalla fame ed in preda alla confusione mentale cercai senza tregua scampo nelle mie gambe posteriori leccandole disperato, masticandole, succhiandole fino all'ano, l'interpretazione generale di quel dialogo mi parve del tutto falsa, maledissi la dottrina esegetica, maledissi me stesso che da tal dottrina mi ero fatto ingannare, anzi, come un giovinetto doveva, in particolare uno che aveva fame, compresi il dialogo come un tutt'uno che proibiva il digiuno, il primo saggio intendeva proibirlo, ciò che una persona assennata vuole è già cosa fatta, il digiuno dunque era vietato, il secondo saggio non solo approvava, ma riteneva il digiuno addirittura impossibile, dunque scorreva nel primo divieto anche un secondo divieto, quello naturale canino, il primo lo apprezzava e poneva un freno al divieto formale, in altri termini comandava ai cani, tutto ciò esposto, di esercitare saggezza e di vietarsi il digiuno. Un divieto triplo, invece che l'unico abituale, ed io lo avevo violato. Avrei dunque a questo punto obbedito, certo, in ritardo, e smesso il digiuno, ma oltre che tormentato venni sedotto dalla continuazione del digiuno, e, lascivo come un qualsiasi cane, cedetti. Non riuscii a smettere, forse ero anche già troppo fiaccato per tirarmi su e mettermi in salvo nella contrada circostante. Mi rotolai qua e là nello strame fogliaceo, dormire non potevo più, udivo in particolar modo dello strepito, con la mia fame pareva essersi destato il mondo che durante la mia vita fino a quel momento aveva dormito, mi immaginai che mai più sarei stato autorizzato a mangiare, mangiando dovevo infatti riportare al silenzio il mondo lasciato libero di strepitare e non ne sarei stato capace, del resto il maggior strepito me lo sentivo nella pancia, ci mettevo l'orecchio sopra e devo aver avuto l'orrore nello sguardo, perché facevo fatica a credere a quel che udivo. Ed allorquando ciò si aggravò, sembrò che anche la vertigine s'impadronisse della mia fisicità che compì insensati tentativi di salvezza, cominciai a sentire odore di cibo, cibo squisito che da tanto tempo non avevo più mangiato, gioie della mia infanzia, anzi, sentii l'odore del seno di mia madre; dimenticai la mia decisione di voler resistere agli odori, o meglio non la dimenticai, me la trascinai dietro da ogni parte come se si trattasse di una decisione necessaria, pochi passi soltanto ed annusavo come se cercassi unicamente il cibo allo scopo di guardarmene. Di non trovare niente non mi scoraggiai, i cibi erano erano lì, solo pochi passi oltre, mi si piegavano prima le gambe. Sapevo però insieme che non c'era alcunché, che facevo quei piccoli movimenti solo per via dell'angoscia in vista del fallimento definitivo in un posto che non avrei più lasciato. Svanirono le ultime speranze, gli ultimi allettamenti, in questo posto sarei andato miseramente in rovina, che significato avevano le mie ricerche, tentativi infantili del tempo infantile più felice, qui ed ora la cosa era seria, la ricerca era qui che avrebbe potuto dimostrare il suo valore, ma lei dov'era? Qui c'era solo un cane che impotente cercava di addentare a vuoto, che ancora, anzi, in modo spasmodicamente frettoloso continuava ad innaffiare il suolo, ma dall'intero guazzabuglio delle formule magiche non riusciva a farsi venire in mente più nemmeno quella più misera, neppure la strofetta dei neonati che si rannicchiano sotto la loro madre. Era come se fossi separato dai fratelli non di pochi balzi, ma infinitamente fossi lontano da tutti, come se mica crepassi di fame vera e propria, bensì in conseguenza del mio stato di abbandono. Era però evidente che a nessuno importava di me, a nessuno sotto terra, a nessuno sopra, a nessuno in alto, andavo in rovina nella loro indifferenza, che diceva: lui crepa, cose che capitano. E io, non sono d'accordo? Non ho detto la stessa cosa? Non l'ho voluta, questa solitudine? Certo, cani, ma non per arrivare a questo punto, per giungere invece alla verità via da questo mondo di menzogna dove non si trova nessuno da cui si possa venire a sapere la verità, neanche da me, nato cittadino della menzogna. Forse la verità non si trovava affatto lontana, solo che lo era per me, che fallivo e crepavo. Non si muore tuttavia tanto alla svelta come crede un cane nevrotico. Caddi solo nell'impotenza, e quando mi destai ed aprii gli occhi, lì davanti c'era una cane sconosciuto. Non sentivo nessuna fame, ero molto in forze, mi pareva che nelle giunture vi fosse elasticità, per quanto non facessi alcun tentativo di verificarlo mettendomi in piedi. Guardai senza particolare attenzione, davanti a me c'era un cane, bello, ma non in modo insolito, vidi questo e nient'altro, ma ritenendo di guardarlo attentamente. Sotto di me c'era sangue, alla prima occhiata pensai che fosse cibo, ma poi riconobbi che si trattava di sangue che avevo vomitato io. Mi volsi dal sangue verso il cane sconosciuto. Magro, di gamba lunga, marrone, qua e là chiazzato di bianco, aveva un bello sguardo, forte, indagatore. “Che cosa ci fai, qui?”, disse, “devi andartene.” “Ora non riesco ad andarmene”, dissi senza altre spiegazioni, come avrei infatti potuto spiegargli tutto, inoltre sembrava che avesse fretta. “Per favore, vattene”, disse, ed irrequieto sollevò una gamba dopo l'altra. “Lasciami perdere”, dissi, “va', e non ti preoccupare per me, gli altri non se ne preoccupano.” “Te ne prego, per il tuo bene”, disse. “Prega per quello che vuoi”, dissi, “anche se volessi, io non posso.” “Ci manca solo questo”, disse sorridendo. “Tu puoi farcela. Appunto perché sei debole ti prego di andartene piano piano, se esiti poi dovrai correre.” “Lascia che ad occuparmene sia io”, dissi. “E' anche affar mio”, disse contristato dalla mia caparbietà, e visibilmente stava già per lasciarmi lì in via provvisoria, ma anche per approfittare dell'occasione di avvicinarsi a me amorevolmente. In un altro momento volentieri avrei lasciato correre la cosa con indulgenza, ma in quel caso non la capivo e mi fece orrore, “Via”, gridai più alto di quanto del resto fosse giustificato. “Sì sì, ti lascio”. Disse arretrando lentamente. “Sei strano. Non ti piaccio?” “Tu mi piacerai se te ne vai e mi lasci in pace”, dissi, ma non ero più tanto sicuro di me come volevo far credere. Un qualcosa lo vedevo, in lui, con la mia sensibilità acuita dalla fame, era all'inizio, cresceva, si approssimava, ed io già lo sapevo: questo cane è in possesso della forza di cacciarti da qui, per quanto tu non possa immaginarti come potresti mai alzarti. E lo guardai con brama crescente, lui che aveva scosso solo un poco il capo davanti alla mia grossolana risposta. “Chi sei?”, domandai. “Sono un cacciatore”, disse. “E perché non vuoi lasciarmi qui?”, domandai. “Mi disturbi”, disse, “non posso cacciare se tu sei qui.” “Provaci”, dissi, “forse ci riuscirai, a cacciare. “No”, disse, “mi rincresce, ma devi andartene.” “Non cacciare, oggi!”, lo pregai. “No”, disse, “Devo.” “Io devo andarmene, tu devi cacciare, dissi, “non c'è che il dovere. Lo capisci, tu, perché noi dobbiamo?” “No”, disse, “ma non c'è nulla da capire, sono cose naturali ed evidenti”. “Eh no”, dissi, “ti rincresce di dover mandarmi via e ciò nonostante lo fai.”E' così”, disse. “E' così”, ribattei io contrariato, “non è una risposta. Qual rinuncia ti è più agevole, quella a cacciare o quella a mandarmi via?” “La rinuncia alla caccia”, disse senza indugio. “Ordunque, c'è una contraddizione.” “Quale contraddizione?”, disse. “Tu, caro cagnolino, davvero non lo capisci che io devo? Non capisci quel che è evidente?” Cessai di replicare perché mi accorsi – e nuova vita perciò mi attraversò, vita come ne dà il terrore – mi accorsi da impercettibili dettagli che nessuno tranne me forse avrebbe potuto notare, che il cane dal profondo del suo petto dava inizio ad un canto. “Tu canterai”, dissi. “Sì”, disse serio, “presto canterò, ma non ancora.” “Tu stai iniziando”, dissi. “No”, disse, “ancora no. Ma tienti pronto.” “Lo sento già, anche se tu neghi”, dissi tremando. Tacque. Ed allora credetti di riconoscere qualcosa di cui nessun cane prima di me mai è venuto a conoscenza, almeno, non se ne trova nella tradizione il minimo accenno, ed affondai svelto con infinita ansia e vergogna la faccia nella pozza di sangue davanti a me. In altri termini ritenni di riconoscere che il cane già stava cantando senza saperlo, anzi di più, che la melodia si staccava da lui librandosi via nell'aria secondo una propria legge, come se lui non ne fosse partecipe, tendendo verso di me, solo verso di me. Oggi nego naturalmente qualsiasi riconoscimento del genere e ne attribuisco la responsabilità alla mia sovreccitazione del momento, ma, per quanto la cosa fosse un errore, un errore di una certa grandiosità, si tratta dell'unica per quanto apparente realtà che ne ho conservato ed indica almeno quanto lontano noi possiamo arrivare per mezzo dell'essere forsennati. Ed io lo ero veramente. In circostanze normali sarei stato profondamente invalido, incapace di muovermi, ma non riuscii a resistere alla melodia che il cane presto sembrò adottare come fosse sua. Essa si faceva sempre più poderosa; la sua espansione forse non aveva limiti, e già stava quasi facendomi scoppiare l'udito. Il peggio era però che sembrava fatta per me, questa voce davanti alla cui solennità il bosco ammutolì, soltanto per me, chi ero io che osavo restare ancora lì adagiato al suo cospetto nel mio sudiciume sanguinolento? Tremante mi sollevai e mi guardai sotto, “questa roba qui non correrà”, pensai, ma già fuggivo con i più magnifici balzi scacciato dalla melodia. Ai miei amici non raccontai nulla, probabilmente al mio arrivo avrei raccontato ogni cosa, forse, ma dopo tornò a sembrarmi in comunicabile, ero troppo stanco. Parlando, irreprimibili allusioni si persero senza lasciare traccia. Del resto mi rimisi in poche ore, fisicamente, spiritualmente ne sopporto ancora le conseguenze.

Estesi tuttavia le mie ricerche sulla musica dei cani. Anche in questo caso ebbe a che farci certo la scienza, la musicologia è, se sono ben informato, ancora più vasta della scienza nutrizionale e comunque fondata in modo più rigoroso. Ciò è spiegabile con il fatto che in quest'ambito si può lavorare più spassionatamente che in quello, e che in musicologia sono più in questione osservazioni pure e sistematizzazioni, nella scienza nutrizionale al contrario sono in questione conseguenze pratiche. Ne deriva che il rispetto per la musicologia è maggiore di quello per la scienza nutrizionale, la prima tuttavia non poté mai penetrare in seno al popolo così profondamente come la seconda. Anch'io nei confronti della musicologia mi posi più da estraneo che nei confronti d'una qualche altra scienza, prima di aver udito la voce nel bosco. Certamente già l'esperienza dei cani musici aveva attirato la mia attenzione sulla musicologia, ma allora ero ancor troppo giovane, inoltre a questa scienza non è facile anche soltanto accostarsi, è considerata difficile in modo particolare e resta segregata preziosamente rispetto alla massa. Nel caso di quei cani la musica era stata davvero la cosa più notevole, ma a me sembrò più importante della musica la di lei segreta essenza, forse e soprattutto non si trova alcunché di simile a quella musica orrifica, altrove, dapprima ce la feci a trascurarla, ma quell'essenza ovunque, in ogni cane, poi mi colpì. Al fine di penetrare nella natura canina mi sembrarono tuttavia, le ricerche in merito al nutrimento, conducenti alla meta nel modo più appropriato e privo di lungaggini. Forse in questo mi sbagliavo. Sospettavo già allora che tra le due scienze vi fosse un'intersezione. Si tratta della nozione per cui il canto attira in basso il nutrimento. Ancora, in questo caso, per me è assai disturbante che anche in musicologia io non sia mai penetrato seriamente e che a tal riguardo assolutamente mai riesca a contare su quella mezza cultura sempre particolarmente disdegnata dalla scienza. Al cospetto d'un erudito reggerei molto male, purtroppo ne sono consapevole, anche nella più semplice verifica scientifica. Ciò dipende com'è naturale, in rapporto alle già menzionate circostanze della mia vita, per prima cosa dalla mia inabilità scientifica, dalla modestissima potenza di pensiero, dalla cattiva memoria, e soprattutto dall'incapacità di mantenermi davanti agli occhi la meta scientifica. Ammetto tutto ciò, anche con una certa gioia. Infatti la ragione più profonda della mia inabilità scientifica a me pare risiedere in un istinto, e però non negativo. Se volessi darmi arie potrei dire che proprio questo istinto ha distrutto la mia abilità scientifica, infatti sarebbe per lo meno un fatto assai notevole che io, che mostro nelle normali cose quotidiane della vita, che certo non sono le più semplici, un discreto ingegno e che soprattutto, se non la scienza, comprendo molto bene gli eruditi, come si verifica dai miei risultati, a priori dovessi essere stato inabile a sollevare la zampa anche soltanto fino al primo gradino della scienza. Fu l'istinto che proprio per amor della scienza, ma di un'altra scienza rispetto a quella praticata oggi, una scienza nuovissima, che mi fece stimare più di tutto il resto la libertà! La libertà beninteso che oggi è possibile, una pianta modesta. Ma pur sempre libertà, pur sempre un bene.

(Dedico questa traduzione a Anita Rho e a Ervino Pocar (N.S.))