Ho a disposizione due traduzioni di America, o meglio de Lo scomparso, una Mondadori, degli anni sessanta, l'altra Newton Compton, forse degli anni ottanta: entrambe danno all'ultimo capitolo il titolo "Il teatro naturale di Oklahoma", una formula che mi è cara da decenni. Però Naturtheater significa "teatro all'aperto".
Capita qui qualcosa che famosissimamente troviamo nella espressione "Grande fratello", in 1984 di Orwell. Big Brother significa "fratello maggiore".
Gli esempi di traduzioni frettolose e però fortunate non mancano.
giovedì 15 dicembre 2016
venerdì 11 novembre 2016
Cunnilinctus
Costretto a finire nelle grinfie di Delamarche, sempre meglio della polizia, Karl Rossmann sale nell'appartamentino che Delamarche scrocca insieme a Robinson a una certa Brunelda; è stanco morto, si butta su un cumulo di tende in un angolo della stanza sovraffollata (è Kafka, il sovraffollamento soffocante è un suo arnese estetico, narrativo, critico, comico), si addormenta. A un tratto lo sveglia un urlo della grassa e belloccia Brunelda, la quale, assisa su un divano, sta (probabilmente) ricevendo o ha ricevuto una leccata di successo da Delamarche, inginocchiato. Orbene, questo è il secondo accenno al sesso orale, infatti ricordiamoci dell'ottimo brano (v. capitolo primo, America) che descrive la passione della serva di casa per il quindicenne Karl, in Europa. Un giorno lei, la Brummer, lo trascina nella sua stanza e, tra l'altro, glielo propone, il cunnilinctus, al nostro innocentino. Che ripensandoci è ancora in preda allo schifo. "Sei ancora un ragazzino", gli dice Robinson, dopo che entrambi sono stati sbattuti fuori dalla stanza sovraffollata, sul balcone, e ci hanno dormito, bene o male.
martedì 8 novembre 2016
Collodi e Kafka
Delamarche e Robinson hanno la funzione di salvare Rossmann, Karl, il protagonista di America, dal perbenismo, dalla banalità, dall'ordine. Come il gatto e la volpe, o Lucignolo, hanno la funzione di aiutare Pinocchio a restare quello che è. Non importa leggere la descrizione della fuga di Karl, inseguito dal poliziotto, nel capitolo settimo, per avere questa impressione, che America appartenga allo stesso continente di Pinocchio.
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mercoledì 2 novembre 2016
L'avvenenza di Karl Rossmann
Finisce con il farsi buttar fuori dal lavoro, Karl, la sua parte di bravissimo ragazzo ben educato non ce la fa contro la parte vagabonda e filibustiera (Robinson e Delamarche), prima dell'espulsione il ragazzo è processato; comunque qui mi concentro su un dettaglio. Per chi non l'avesse capito, si tratta di America, romanzo incompiuto di Kafka. Orbene, il capo della portineria dell'albergo a me pare dedicare attenzioni poco professionali, ancorché autoritariamente espresse, a Karl, la sua smania di tenerlo stretto e di frugargli le tasche fa pensare a mire omosessuali espresse in modo "derivativo". Di fatto, quando Karl non ne può più e schizza via dalle grinfie del portiere capo, leggiamo che il ragazzo passa attraverso l'aria viziata (schwuele) che pesa dentro la portineria - vi stanno al lavoro poco meno di una decina di persone. Solo che quest'aria potrebbe essere invece viziosa (schwule). Del resto, che Karl sia un bel ragazzetto lo si era già capito fin dal primo capitolo, quando vi si narra lo smarrimento che per lui prova la donna di servizio di famiglia, la Brummer. Piace a femmine e maschi.
giovedì 27 ottobre 2016
Confessione di un traduttore dilettante
Ho iniziato a lavorare con la lingua tedesca circa otto anni fa limitatamente al tradurre, certo ho fatto progressi nel senso che adesso sono meno vincolato ai dizionari, sei, comunque non ho alcuna pratica, non parlo né capisco e sempre, quando capita che veda parole tedesche scritte, ho difficoltà. Non so scrivere se non commettendo caterve di errori. Ciò nonostante ho tradotto quasi tutti i testi brevi di Kafka e mi trovo oltre la metà del romanzo noto con il titolo America. Ho tradotto del resto diversi testi di Schnitzler, un testo di Von Kleist, uno di Thomas Mann, e un romanzo di Duerrenmatt. Ho tradotto anche due raccolte di racconti brevi di Thomas Bernhard. Non sono un principiante, ma un cosiddetto dilettante, sordo, muto e analfabeta. L'italiano delle mie traduzioni da Kafka (a parte l'eventualità di qualche cantonata) è abbastanza contorto, senz'altro non è arioso, è ampolloso, ma penso che togliendo questi difetti in modo radicale io farei assurdamente prevalere la mia mente e i miei gusti, ragione per cui tradirei il testo kafkiano. Un fenomeno meno interessante (perché personale) rispetto a quello che ho appena segnalato riguarda il mio modo di scrivere in italiano: a me sembra che nel mio italiano talvolta si nasconda il tedesco di Kafka, se non il tedesco in genere, che offre delle possibilità, a chi lo pratica come traduttore, di imprigionare, ma in modo divertente, le parole italiane al loro significato letterale, se non etimologico. Si gioca, anche, di più con le parole.
Tornando a Kafka, le mie traduzioni spesso mi danno l'impressione di un linguaggio non sufficientemente letterario, ma invece austero, ufficiale, se non proprio burocratico. Ripeto: ampolloso
Tornando a Kafka, le mie traduzioni spesso mi danno l'impressione di un linguaggio non sufficientemente letterario, ma invece austero, ufficiale, se non proprio burocratico. Ripeto: ampolloso
venerdì 30 settembre 2016
La via verso Ramsete
Butterford, dove sono diretti i due farabuttelli incontrati per caso nel secondo capitolo di America da Karl, è un luogo immaginario, potrebbe essere l'anagramma di Butterdorf, villaggio del o di burro, e richiamare del resto il Butterbaum, albero del burro o di burro, del primo capitolo, un altro passeggero della nave che ha portato Karl in America - "in Egitto". Ciò potrebbe dar luce alla "via verso Ramses" che dà il titolo al quarto capitolo. Ramses non esiste, significa Ramsete, nome di diversi faraoni. Tramite un certo Zimmermann, che ha scritto (2004) un libro di "lettura avanzata" su America, ho trovato che una certa E.Beck, autrice di un libro (1972) su Kafka e il teatro yiddish, sostiene che K nel 1911 vide un'opera teatrale del genere, in cui un personaggio paragonava l'America all'Egitto, da cui più o meno miticamente gli ebrei fuggirono. Ora, il "continente sconosciuto" di cui si parla nel primo capitolo, potrebbe essere questo faraonico Egitto - l'America. C'è un però: Karl non è un ebreo.
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mercoledì 28 settembre 2016
Kafka e i due elettricisti in convento - cerimoniosità
Il diverbio (capitolo 4 di America) tra Karl e i suoi due compagni da poco incontrati, Robinson e Delamarche, vivacissimo in sé, è reso dalla penna di Kafka alquanto cerimonioso, trattandosi di tre ragazzi, due dei quali pratici della strada e delle sue delicatezze.
Mi ha fatto tornare in mente una barzelletta: due operai elettricisti all'opera in un convento di suore sono richiamati dal padrone. "La madre superiora s'è lamentata di voi, dice che avete bestemmiato e detto una marea di parolacce!" dice il padrone. "Noi? Ma no, è successo che Gigi mentre saldava, e io ero sotto di lui, m'ha fatto colare nel collo un po' di piombo fuso, allora io gli ho detto: ma Gigi, perdindirindina, dovresti fare un po' più di attenzione quando adoperi il saldatore!" risponde uno degli operai.
Forse però è la lingua tedesca di Kafka, a non funzionare, oppure lo stile cerimonioso gli serve, a K, per raggelare le scene?
In effetti nel testo si accenna alla cerimoniosità "europea" di Karl, nel capitolo intitolato "Il caso Robinson". Il protagonista è rimproverato dal portiere dell'albergo perché in qualche caso si sarebbe dimenticato, incontrandolo, di salutarlo. E Karl si difende, tra l'altro, dicendo che sta imparando in America uno stile meno cerimonioso di quello suo abituale.
Mi ha fatto tornare in mente una barzelletta: due operai elettricisti all'opera in un convento di suore sono richiamati dal padrone. "La madre superiora s'è lamentata di voi, dice che avete bestemmiato e detto una marea di parolacce!" dice il padrone. "Noi? Ma no, è successo che Gigi mentre saldava, e io ero sotto di lui, m'ha fatto colare nel collo un po' di piombo fuso, allora io gli ho detto: ma Gigi, perdindirindina, dovresti fare un po' più di attenzione quando adoperi il saldatore!" risponde uno degli operai.
Forse però è la lingua tedesca di Kafka, a non funzionare, oppure lo stile cerimonioso gli serve, a K, per raggelare le scene?
In effetti nel testo si accenna alla cerimoniosità "europea" di Karl, nel capitolo intitolato "Il caso Robinson". Il protagonista è rimproverato dal portiere dell'albergo perché in qualche caso si sarebbe dimenticato, incontrandolo, di salutarlo. E Karl si difende, tra l'altro, dicendo che sta imparando in America uno stile meno cerimonioso di quello suo abituale.
venerdì 23 settembre 2016
Kafka e la giungla d'asfalto
Traducendo Der Verschollene, che significa "lo scomparso", conosciuto come America (bel titolo scelto dal non esecutore testamentario di Kafka, Max Brod), già tradotto negli anni sessanta per Mondadori, non so se anche dopo da altri, trovo descrizioni di cose americane, come il traffico stradale, viste con gli occhi d'un europeo, che è il protagonista del romanzo, ed è anche Kafka, mai stato in America. Che ignora o rifiuta il lessico settoriale, usa perifrasi. Prende cantonate, come quando attribuisce alla Statua della libertà una spada, al posto della fiaccola, o fa dar di mancia a un cameriere uno scellino. Accade un poco come quando si legge una traduzione d'un romanzo americano fatta quando la cultura materiale americana (jeans, juke box, jeep, hamburger) era qui del tutto ignota ai traduttori. Penso a Giungla d'asfalto.
Le perifrasi americane di Kafka aiutano a capire la distanza tra Europa e Nord America, cent'anni fa più grande di quanto lo è ora.
Le perifrasi americane di Kafka aiutano a capire la distanza tra Europa e Nord America, cent'anni fa più grande di quanto lo è ora.
sabato 17 settembre 2016
Uno scellino di mancia
Nel terzo capitolo di America il protagonista, Karl Rossmann, dà "uno scellino" di mancia al servitore che lo ha accompagnato lungo i corridoi nella casa buia dove si svolge di fatto l'azione dell'uscita di Karl dalla soffocante protezione dello zio. Siamo nei dintorni di New York, Karl si trova negli Stati uniti da un bel po', ragione per cui lo scellino dato al servitore come mancia è un lapsus dell'autore. Una svista, un errore, come la spada affibbiata alla Statua della Libertà al posto della fiaccola, nel primo capitolo. Come Karl si diverte a suonare vecchi canti malinconici militari della sua terra natia, così Kafka gli mette in mano uno scellino per la mancia, al posto di un "dime", di un soldino da dieci centesimi.
domenica 21 agosto 2016
Il "cremlino" di Kafka
Il famoso romanzo di Kafka noto come Il castello s'intitola in tedesco Das Schloss. Orbene, la traduzione impostasi è inevitabile, ma pigra, infatti propriamente è in questione non un castello, ma una sorta di cittadella o al limite una fortezza. Traggo questa conclusione dalla memoria del testo e da una recente "scoperta" relativa al famoso Cremlino. Tale termine significa in russo appunto cittadella o fortezza, ed il Cremlino a tutti noto non è altro che la più famosa di queste fortezze o cittadelle russe. Scoperta che mi ha aperto gli occhi circa Das Schloss.
martedì 16 agosto 2016
La colonia penale kafkiana
Traducendo "Nella colonia penale", il famoso racconto di Kafka, che non leggevo da decenni e di cui com'è naturale ricordavo solo la macchina che serve per incidere sulla schiena dei condannati la sentenza, oggetto narrativo di grande interesse tecnico o fantatecnico, ho messo a fuoco che la vicenda si svolge in zona tropicale, in un'isola, e che il Paese da cui la colonia penale dipende è caratterizzato dalla poligamia maschile, infatti si insiste in più luoghi sulle Damen che circondano il comandante della colonia, in un caso chiamandole Frauen. Mogli. Il cerchio si stringe con l'accenno alla ciotola di riso che il condannato alla tortura di cui sopra (mortale) ha a disposizione. Direi che la colonia penale fa parte della Cina kafkiana.
Uno studioso degli usi e costumi del vasto mondo (etnologo, antropologo culturale, direi) si reca in visita in una colonia penale dove gli si mostra una complessa macchina, o apparato, che semplicemente punisce (nel caso in esame si tratta di un attendente che si è ribellato al suo superiore) il reo, ignaro della condanna e del tutto passivo rispetto all'accusa (das ist Kafka!) torturandolo con la incisione tramite aghi sulla sua schiena della sentenza. Tutto macchinico, elettricamente mosso e avveniristico - si pensa alle oggi antiche "schede perforate". La tortura, che permette al condannato di arrivare nel corso di dodici ora di incisione a conoscere la sentenza in modo sensoriale, nella carne, termina con la morte. L'ufficiale che illustra (Erklaerung) allo studioso l'apparato, ne è un fanatico, in ciò assolutamente minoritario, infatti la nuova dirigenza della colonia penale è contraria al metodo e lo boicotta. Anche lo studioso è un oppositore della tortura, ma è quasi soggiogato dalla eloquenza appassionata e folle dell'ufficiale conservatore, e lo lascia parlare. Quando il conservatore si accorge che dallo studioso non otterrà appoggi a favore dell'apparato e si rende conto di essersi fatto delle illusioni assurde su di lui, libera il condannato, si denuda e mette se stesso alla tortura; la macchina inizia a operare, ma si rompe, va in pezzi, e l'ufficiale muore trafitto dagli aghi che servono alla incisione sul corpo della sentenza. Essa dice: "Sii giusto!" Sei Recht!
Lo studioso, insieme al condannato scampato e al soldato di guardia, una coppia che da ultimo diviene buffa ricordandoci gli aiutanti dell'agrimensore in Das Schloss (Il castello), lascia il luogo dell'apparato e fa ritorno nella colonia: prende la prima nave e se ne va.
Tristi tragicomici tropici! Ottimo racconto.
(Ora, non so se esistano o siano esistite pratiche "penali" e di tortura analoghe a quella immaginata da Kafka; non posso però evitare di attribuirne la genesi alla mente di Kafka.
Altro: salta agli occhi la finezza "empatica" della rappresentazione del protagonista del racconto, l'ufficiale fedele alla pratica creata dal defunto comandante della colonia penale, ormai un "esule in patria", direi, uno straniero tra i suoi. Un sopravvissuto!
La posizione della pietra tombale del comandante inventore della macchina da tortura, infine, nascosta sotto un tavolo della lurida casa del té, è una meravigliosa beffa kafkiana che ha dell'onirico.)
(Marzo 2020) La traduzione è postata nella mia sezione del sito Scribd - con il titolo "Nella colonia penale").
Uno studioso degli usi e costumi del vasto mondo (etnologo, antropologo culturale, direi) si reca in visita in una colonia penale dove gli si mostra una complessa macchina, o apparato, che semplicemente punisce (nel caso in esame si tratta di un attendente che si è ribellato al suo superiore) il reo, ignaro della condanna e del tutto passivo rispetto all'accusa (das ist Kafka!) torturandolo con la incisione tramite aghi sulla sua schiena della sentenza. Tutto macchinico, elettricamente mosso e avveniristico - si pensa alle oggi antiche "schede perforate". La tortura, che permette al condannato di arrivare nel corso di dodici ora di incisione a conoscere la sentenza in modo sensoriale, nella carne, termina con la morte. L'ufficiale che illustra (Erklaerung) allo studioso l'apparato, ne è un fanatico, in ciò assolutamente minoritario, infatti la nuova dirigenza della colonia penale è contraria al metodo e lo boicotta. Anche lo studioso è un oppositore della tortura, ma è quasi soggiogato dalla eloquenza appassionata e folle dell'ufficiale conservatore, e lo lascia parlare. Quando il conservatore si accorge che dallo studioso non otterrà appoggi a favore dell'apparato e si rende conto di essersi fatto delle illusioni assurde su di lui, libera il condannato, si denuda e mette se stesso alla tortura; la macchina inizia a operare, ma si rompe, va in pezzi, e l'ufficiale muore trafitto dagli aghi che servono alla incisione sul corpo della sentenza. Essa dice: "Sii giusto!" Sei Recht!
Lo studioso, insieme al condannato scampato e al soldato di guardia, una coppia che da ultimo diviene buffa ricordandoci gli aiutanti dell'agrimensore in Das Schloss (Il castello), lascia il luogo dell'apparato e fa ritorno nella colonia: prende la prima nave e se ne va.
Tristi tragicomici tropici! Ottimo racconto.
(Ora, non so se esistano o siano esistite pratiche "penali" e di tortura analoghe a quella immaginata da Kafka; non posso però evitare di attribuirne la genesi alla mente di Kafka.
Altro: salta agli occhi la finezza "empatica" della rappresentazione del protagonista del racconto, l'ufficiale fedele alla pratica creata dal defunto comandante della colonia penale, ormai un "esule in patria", direi, uno straniero tra i suoi. Un sopravvissuto!
La posizione della pietra tombale del comandante inventore della macchina da tortura, infine, nascosta sotto un tavolo della lurida casa del té, è una meravigliosa beffa kafkiana che ha dell'onirico.)
(Marzo 2020) La traduzione è postata nella mia sezione del sito Scribd - con il titolo "Nella colonia penale").
sabato 13 agosto 2016
Hungernkuenstler
Non digiunatore, ma virtuoso del digiuno ho tradotto Hungernkuenstler, per rendere giustizia all'originale tedesco ed alla maestria del protagonista. Faccio notare che le scene relative ai rapporti tra il protagonista in gabbia e i suoi guardiani ricordano quelle tra la scimmia in gabbia e i suoi occasionali compagni umani in "Relazione per un'accademia"
venerdì 5 agosto 2016
F.Kafka: Un virtuoso del digiuno
Negli
ultini decenni l'interesse per i virtuosi del digiuno è assai
scemato. Mentre prima valeva la pena organizzare simili dimostrazioni
in proprio, oggi è del tutto impossibile. Erano altri tempi. Allora
l'intera città si occupava del virtuoso; quotidianamente insieme
alla durata del digiuno saliva la partecipazione; ognuno almeno una
volta al giorno voleva vedere il virtuoso; aumentando i giorni di
digiuno c'erano abbonati i quali sedevano tutto il dì davanti alla
piccola gabbia; anche di notte avevano luogo visite allo scopo di
accrescere l'effetto con la luce delle fiaccole; quando il tempo era
buono la gabbia era trasportata all'aperto ed in questo caso
specialmente ai bambini veniva mostrato il virtuoso; mentre per gli
adulti era spesso soltanto un divertimento cui essi prendevano parte
perché era di moda, i bambini stavano a guardare a bocca aperta,
tenendosi, a scanso di rischi, reciprocamente per mano, stupefatti da
come lui, pallido, una maglia nera adosso, le costole sporgenti,
sedeva sulla paglia sparsa perfino disdegnando una sedia, da come
annuendo a un tratto gentilmente rispondeva alle domande con un
sorriso forzato, da come tendeva tra le sbarre della gabbia il
braccio per far sentire la sua magrezza e poi però riaffondava
completamente in se stesso senza curarsi di nessuno, neppure del
rintocco dell'orologio, unico arredo della gabbia, per lui così
importante, e invece continuava a guardare davanti a sé con gli
occhi quasi chiusi, di tanto in tanto centellinando un sorsino
d'acqua da un piccolo bicchiere per inumidirsi le labbra.
A
parte i mutevoli spettatori c'erano anche guardiani fissi scelti nel
pubblico, notevolmente di solito macellai i quali, sempre tre per
volta, avevano l'incarico di osservare notte e giorno il virtuoso
acciocché questi, in un qualche modo più o meno segreto, non si
nutrisse. Solo una formalità a scopo di tranquillizare la massa,
infatti gli iniziati sapevano bene che mai il virtuoso durante il
digiuno per nessuna circostanza, neppur con la forza, avrebbe
mangiato neppure la minima cosa; lo proibiva l'onor dell'arte sua.
S'intende che non tutti i guardiani potevano capire ciò, talvolta
c'erano gruppi di guardia notturni i quali esercitavano la
sorveglianza in modo assai lasso, deliberatamente si sedevano insieme
in un angolo lontano e lì s'immergevano nel gioco delle carte con l'
intenzione manifesta di concedere al virtuoso un rinfreschino che
secondo loro egli poteva tirar fuori da una qualche riserva segreta.
Niente era più molesto per il virtuoso di siffatti guardiani; lo
rattristavano; gli rendevano il digiuno orribile; talvolta vinceva la
sua debolezza e cantava durante questo tempo di guardia, finché
semplicemente non ne poteva più, per mostrare a quella gente quanto
ingiustamente lo sospettassero. Però serviva a poco; essi finivano
per stupirsi soltanto della sua disinvoltura nel mangiare mentre
cantava. Molto di più gli piacevano i guardiani che si mettevano
vicino alle sbarre, non si accontentavano dell'illuminazione notturna
della sala, ma lo illuminavano con le torce elettriche che
l'impresario <in italiano nel testo - n.d.t.> metteva loro a
disposizione. La luce abbagliante non lo disurbava affatto, tanto a
dormire, in linea di massima, non riusciva, e un poco poteva sempre
assopirsi con qualsiasi illuminazione e ad ogni ora, anche con la
sala strapiena e chiassosa. Assai volentieri era disposto a
trascorrere completamente senza sonno la notte con guardiani del
genere; disposto a scherzarci, a raccontar loro storie della sua vita
nomade e ad ascoltare poi le loro, tutto all'unico scopo di tenerli
desti per poter continuare a mostrar loro che lui nella gabbia non
aveva nulla di commestibile e che digiunava come nessun di loro
avrebbe potuto. Il massimo per lui tuttavia era quando poi arrivava
la mattina e veniva portata loro, a spese sue, una sontuosa colazione
su cui si gettavano con l'appetito di uomini sani dopo una faticosa
notte di veglia. Certo, non mancava gente che in questa colazione
voleva vedere una disdicevole subornazione dei guardiani, ma ciò
oltrepassava i limiti, e quando si domandava ai guardiani se
volevano, diciamo per la causa, sobbarcarsi la veglia notturna senza
colazione, loro storcevano la bocca, però restavano a causa delle
insinuazioni di quella gente.
Questo
certo faceva parte però delle insinuazioni assolutamente
inseparabili dal digiuno. Nessuno in fin dei conti era in grado di
passare tutti i giorni e le notti presso il virtuoso
ininterrottamente come guardiano, nessuno dunque poteva di suo
propriamente sapere, senza fallo, se davvero si era digiunato
ininterrottamente; soltanto il virtuoso stesso poteva saperlo,
soltanto lui poteva allo stesso tempo essere il digiunatore e
l'osservatore pienamente soddisfatto del suo digiuno. Sempre, invece,
era insoddisfatto per un altro ulteriore motivo; forse non aveva
affatto ottenuto dal digiuno quel dimagrimento tale che parecchi, non
tollerandone la vista, dovessero star lontano dagli spettacoli in
segno di compianto, piuttosto era dimagrito soltanto a causa
dell'insoddisfazione di sé. Solo lui, in altre parole, sapeva, e
nessun altro iniziato lo sapeva, com'era facile il digiuno. La cosa
più facile al mondo. Neanche lo nascondeva, questo, ma non gli si
credeva, nel caso più favorevole lo si considerava modesto, ma
specilmente voglioso di pubblicità o perfino un imbroglione cui il
digiuno era in fondo facile perché sapeva renderselo facile e che
aveva anche la sfrontatezza di ammetterlo. Tutto questo lui doveva
accettarlo, ci si era anche abituato con gli anni, ma interiormente
questa insoddisfazione continuava a rodergli, e ancora mai dopo alcun
periodo di digiuno - si doveva riconoscerglielo - aveva lasciato di
sua volontà la gabbia. Come limite massimo del digiuno l'impresario
aveva posto quello di quaranta giorni, oltre non lasciava digiunare
nessuno, neanche nelle metropoli, e certamente per buone ragioni.
Secondo l'esperienza tramite la pubblicità gradualmente crescente si
poteva circa per quaranta giorni stuzzicare sempre di più
l'interesse di una città, dopo però il pubblico mancava, era
osservabile un essenziale calo di affluenza; sussitevano naturalmente
a questo riguardo piccole differenze tra le città e le province, ma
come regola valeva che il limite massimo era quaranta giorni. Così
al quarantesimo giorno la porta inghirlandata di fiori della gabbia
veniva aperta, una entusiastica partecipazione di spettatori riempiva
l'anfiteatro, una banda militare suonava, due medici entravano nella
gabbia per prendere le necessarie misurazioni al virtuoso, con un
megafono i risultati venivano annunciati alla sala, ed infine ecco
due giovani signore contente del fatto che proprio loro fossero state
sorteggiate, che intendevano far scendere un paio di gradini fuori
dalla gabbia al virtuoso fino ad un tavolino su cui era servito un
pasto da ammalati accuratamente scelto. A questo punto il virtuoso si
opponeva sempre. Certo, appoggiava ancora volontariamente le sue
braccia ossute sulle mani soccorrevoli protese dalle signore, chine
su di lui, ma non voleva stare in piedi. Perché smettere proprio ora
dopo quaranta giorni? Avrebbe resistito ancora a lungo,
illimitatamente; perché smettere proprio ora che lui si trovava,
anzi, non era ancora nel meglio del digiuno? Perché si voleva
derubarlo della gloria di digiunare più a lungo, di diventare non
solo il più grande virtuoso del digiuno di tutti i tempi, il che
lui, anzi, probabilmente già era, ma anche di superare se stesso
fino all'inesplicabile, dal momento che lui non sentiva alcun limite
alla sua capacità digiunatoria. Perché questa folla che pretendeva
di ammirarlo così tanto aveva così poca pazienza? Se lui resisteva
ancora a digiunare più a lungo, perché essa non voleva resistere?
Inoltre era stanco, si trovava bene sulla paglia, ora doveva tirarsi
su, e non per poco, andar a mangiare, cosa che già a figurarsela gli
provocava nausee la cui espressione tratteneva a fatica per riguardo
alle signore. E dal basso guardava negli occhi le signore,
apparentemente tanto gentili, in realtà così crudeli e faceva segno
di no con la testa appesantita sul debole collo. Però poi succedeva
quel che succedeva sempre. Veniva l'impresario, senza parole - la
musica rendeva impossibile parlare - sollevava le braccia sul
virtuoso quasi che invitasse il cielo ad osservare una buona volta
l'opera sua lì sulla paglia, questo miserevole martire, il che il
virtuoso era di certo, ma in tutt'altro senso; afferrava per la
sottile vita il virtuoso, facendo ciò con esagerata cautela lui
voleva render credibile che lui lì avesse a che fare come con una
cosa fragile; e lo consegnava - non senza dargli segrete scosse in
modo che il virtuoso con le gambe ed il busto incontrollatamente
oscillasse qua e là - alle signore nel frattempo impallidite come
due morte. Ora il virtuoso sopportava tutto; la testa appoggiata al
petto, era come fosse rotolata in basso e si reggesse per miracolo;
la pancia svuotata; le gambe si stringevano l'una con l'altra
all'altezza delle ginocchia per istinto di conservazione, ma
raspavano il suolo, come se non si trattasse di cosa reale si
preoccupavano di trovare quello vero; e tutto il peso, invero
modesto, del corpo si appoggiava su una delle signore, la quale in
cerca d'aiuto, con il respiro accelerato - non si era figurata così
questo ufficio d'onore - tendeva al massimo il collo almeno per
difendere il viso dal contatto con il virtuoso, poi però, dato che
ciò non le riusciva e la sua più fortunata compagna non la
soccorreva, si accontentava di liberarsi, tremando, della mano del
virtuoso, questo pacchetto di ossa, tra le risate entusiastiche della
sala rompeva in lacrime, e doveva esser rilevata da un inserviente da
tempo predisposto. Poi veniva il mangiare, un poco del quale
l'impresario somministrava al virtuoso, durante una sonnolenza simile
allo svenimento, in mezzo a gioiosi applausi, che doveva sviare
l'attenzione dallo stato del virtuoso; poi al pubblico si rivolgeva
un brindisi presumibilmente sussurrato dal virtuoso all'impresario;
l'orchestra ratificava il tutto con gran squilli, e si andava via,
nessuno aveva ragione di essere scontento del virtuoso, nessuno, solo
lui, sempre solo lui.
Così
visse molti anni, con piccole pause di riposo periodiche,
apparentemente fulgido, onorato dal mondo, malgrado tutto, però, in
genere di un cattivo umore che diveniva sempre peggiore per il fatto
che nessuno intendeva prenderlo sul serio. In che modo lo si doveva
poi consolare? Cosa gli restava da desiderare? E se capitava una
buona volta chi bonariamente lo compativa e intendeva spiegargli che
la sua afflizione proveniva dal digiuno, poteva succedere, specie
durante l'aumentare del tempo digiunato, che il virtuoso rispondesse
con un esplosione di rabbia e iniziasse, come una belva, a scuotere
le sbarre. Comunque l'impresario per stati simili aveva un rimedio
punitivo che il virtuoso accoglieva volentieri. Lo giustificava di
fronte al pubblico riunito, ammetteva che solo l'irritabilità
suscitata dal digiuno poteva scusare il comportamento del virtuoso,
essendo tale irritabilità, per le persone sazie, senz'altro
incomprensibile; veniva poi, in rapporto a ciò, a parlare anche
dell'altrettanto spiegabile affermazione del virtuoso che lui avrebbe
potuto digiunare anche molto più a lungo di quanto faceva; lodava lo
sforzo, la buona volontà, la grande abnegazione che certo in tale
affermazione erano contenuti; cercava poi di confutare, però,
l'affermazione abbastanza semplicemente tramite l'esibizione di
fotografie che allo stesso tempo venivano smerciate, infatti in esse
si vedeva il virtuoso pervenuto ad un quarantesimo giorno di digiuno,
allettato, quasi spento a causa della debolezza. Ben note, queste
foto, al virtuoso, certo, ma sempre di nuovo lo stravolgimento della
verità, che lo snervava, era troppo per lui. Ciò che era
conseguenza del prematuro termine del digiuno, qui si mostrava come
se fosse la causa! Combattere contro tale dissennatezza, contro
questo mondo d'insensatezza, era impossibile. Ancor sempre in buona
fede aveva riascoltato, impaziente alle sbarre, l'impresario,
all'apparizione delle fotografie però ogni volta le aveva
abbandonate, sospirando si era afflosciato nella paglia, ed il
pubblico tranquillizzato poteva di nuovo avvicinarsi per guardarlo.
Se
alcuni anni più tardi i testimoni ripensavano a simili scene, spesso
le trovavano addirittura incomprensibili. Infatti nel frattempo era
subentrato quel sopra menzionato capovolgimento; era successo quasi
d'improvviso; poteva avere motivi profondi, ma a chi importava di
scovarli? Comunque il raffinato virtuoso si vide un giorno
abbandonato dalla folla desiderosa di divertimento, la quale fluì
verso altre attrazioni. L'impresario si sguinzagliò con lui in mezza
Europa per vedere se non si ritrovava ancora qua e là il vecchio
interesse; tutto finito; come in un accordo segreto dappertutto si
era formata una vera e propria ripugnanza nei confronti della vista
dei digiuni. Naturalmente ciò in realtà non era potuto avvenire
d'improvviso, ed ora ci si rammentava ricostruttivamente di molti
indizi a suo tempo, nell'ubriacatura del successo, non abbastanza
osservati , non abbastanza repressi, tuttavia ora farci qualcosa di
oppositivo era troppo tardi. Certo era sicuro che una buona volta
anche per il digiuno il tempo sarebbe ritornato, ma per i vivi ciò
non era di conforto. Che cosa doveva fare ora il virtuoso? Colui per
il quale in migliaia avevano giubilato non poteva esibirsi in
baracconi di modeste fiere annuali, e per trovare un altro impiego il
virtuoso non soltanto era troppo anziano, ma soprattutto troppo
fanaticamente devoto. Così licenziò l'impresario, il compagno d'una
carriera senza pari, e si fece ingaggiare da un grande circo; per
proteggere la sua sensibilità non guardò nemmeno le condizioni
contrattuali.
Un
grande circo con la sua quantità enorme di persone, animali ed
attrezzature sempre reciprocamente articolati può necessitare di
tutti in ogni momento, anche d'un virtuoso del digiuno di pretese, è
naturale, adeguatamente modeste, e, a parte ciò, certo in questo
caso particolare non tanto era ingaggiato il virtuoso stesso, quanto
il suo vecchio famoso nome, ma non si poteva neppur dire, data la
particolarità di quest'arte col passare degli anni tramontata, che
un virtuoso d'altri tempi non più all'altezza della sua capacità
volesse rifugiarsi in una tranquilla posizione circense, al
contrario, il virtuoso assicurò che lui, ciò che assolutamente era
degno di esser creduto, digiunava bene proprio come prima, anzi
riteneva perfino che, se lo si lasciava fare, e questo gli si promise
senz'altro, avrebbe per la prima volta, proprio ora, fatto
fondatamente stupire il mondo: un'affermazione, data la mentalità
dell'epoca dallo zelante virtuoso facilmente dimenticata, che davvero
suscitò soltanto un sorriso.
In
fondo tuttavia neanche il virtuoso perdeva di vista la realtà delle
cose, ed accettò come ovvio che non lo si mettesse con la sua gabbia
in pista come all'incirca un'attrazione principale, ma invece lo si
collocasse fuori in un posto, abbastanza ben accessibile del resto,
in prossimità degli stallaggi. Grandi variopinte insegne
incorniciavano la gabbia e indicavano ciò che lì c'era da vedere.
Quando il pubblico negl'intervalli dello spettacolo si spingeva verso
le gabbie per guardare gli animali era quasi inevitabile che
transitasse davanti al virtuoso ed un poco vi si fermasse, forse ci
si sarebbe trattenuti più a lungo davanti a lui se coloro che
stavano dietro nello stretto ambulacro, i quali non capivano questa
sosta sulla via delle agognate gabbie, non avessero reso impossibile
una più lunga tranquilla osservazione. Anche questo era il motivo
per cui il virtuoso, di fronte a questi momenti di visita che lui
naturalmente desiderava come meta vitale, non mancava però di
rabbrividire. All'inizio aveva faticato nell'attesa delle pause dello
spettacolo; in estasi aveva guardato verso la folla che si avvicinava
scomposta finché presto si era convinto con coraggio - anche il più
caparbio, quasi consapevole, autoinganno non resse alle prove - che
si trattava per lo più di gente intenzionata, sempre, senza
eccezione, chiaramente a visitare le gabbie. E questa vista a
distanza rimase ancor sempre la più bella. Infatti quando essi erano
arrivati fino a lui, subito gli infuriavano attorno grida e insulti
degl'ininterrottamente formantisi nuovi partiti, del partito - presto
più indigesto per il virtuoso - che lo voleva vedere con comodità,
non per apprezzamento, all'incirca, ma per capriccio e puntiglio, e
del partito che bramava soprattutto le gabbie. Davanti c'era
l'assembramento grande, dietro i ritardatari che veramente, pur non
impediti più dal restare quanto volessero, si affrettavano a grandi
passi per arrivare in tempo agli animali, quasi senza guardare di
lato. E non capitava affatto di frequente la fortuna che un padre di
famiglia coi suoi bambini indicasse il virtuoso, che spiegasse in
modo dettagliato di che cosa si trattava lì, che raccontasse degli
anni passati, dove il virtuoso, per simili ma incomparabilmente
maggiori esibizioni, era stato, e che poi i bambini, a causa della
insoddisfacente loro preparazione scolastica e di vita, restassero
certo sempre senza capire - cos'era per loro il digiuno? - e che però
con la luce dei loro occhi scrutatori manifestassero qualcosa dei
nuovi tempi più favorevoli in arrivo. Forse, così si diceva il
virtuoso poi talvolta, tutto sarebbe cambiato un po' in meglio se la
sua ubicazione non fosse stata tanto vicina alle gabbie. La scelta
alla gente risultava così troppo facile, per non dire che molto lo
ferivano e lo tormentavano senza tregua le esalazioni delle gabbie,
l'irrequietezza degli animali durante la notte, il trasporto che
davanti a lui veniva effettuato dei pezzi di carne cruda per le
belve, lo strepito del loro mangiare. Tuttavia non osava fare le sue
rimostranze presso la direzione; per lo meno doveva, anzi, agli
animali la folla dei visitatori, tra i quali poteva trovarsene qua e
là uno destinato a lui, e chi lo sapeva dove lo si sarebbe ficcato
se lui avesse voluto ricordare che esisteva, senza contare il fatto
che lui, strettamente parlando, era solo un intralcio sulla via
verso le gabbie.
Davvero
un intralcio modesto, un intralcio sempre più modesto. Ci si era
assuefatti allo straordinario per aver voglia di rivendicare, oggi,
attenzione per un virtuoso del digiuno, e con tale assuefazione il
verdetto sul virtuoso del digiuno era pronunciato. Aveva così la
possibilità di digiunare bene quanto gli riusciva, e lo faceva, ma
niente poteva più salvarlo dal fatto che lo si passasse sotto
silenzio. Provaci, a spiegare a qualcuno l'arte del digiuno! A chi
non ci ha sensibilità, non gli si può render comprensibile. Le
belle insegne divennero luride ed illeggibili, le si strapparono via,
a nessuno venne in mente di sostituirle; la tabella con il numero dei
giorni di digiuno effettuati che nei primi tempi accuratamente ogni
giorno era stato rinnovato, già da lungo tempo restava sempre la
stessa, infatti dopo le prime settimane il personale s'era stufato
anche di questo modesto lavoro; e dunque il virtuoso seguitava a
digiunare, certamente, come in passato aveva sognato di fare, una
buona volta, e gli riusciva senza sforzo proprio come allora aveva
predetto, ma nessuno contava i giorni, nessuno, nemmeno lui stesso lo
sapeva quanto grande era la sua prestazione, e quando una volta un
perdigiorno si fermò, si burlò dell'alto numero e parlò
d'imbroglio, e ciò in tal senso fu la più sciocca delle menzogne
che l'insensibilità e la malvagità potessore escogitare, infatti il
virtuoso non imbrogliava, operava in modo onorevole, ma era il mondo
in compenso ad imbrogliarlo.
Eppure
passarono ancora molti giorni, e anche ciò ebbe una fine. Una volta
ad un sorvegliante dette nell'occhio la gabbia e lui chiese agli
inservienti perché si lasciasse inutilizzata questa bella gabbia con
dentro la paglia putrefatta; nessuno lo sapeva, finché uno si
rammentò, con l'aiuto della tabella numerata, del virtuoso. Si frugò
la paglia con dei bastoni e ci si trovò il virtuoso. "E tu
seguiti a digiunare?", domandò il sorvegliante, " ma
quando la finirai?" "Perdonatemi tutti", sussurrò il
virtuoso; soltanto il sorvegliante che teneva l'orecchio alle sbarre,
lo intese. "Certo", disse il sorvegliante appoggiandosi
alla fronte un dito per far capire al personale la condizione del
virtuoso, "ti perdoniamo". "Incessantemente desideravo
che ammiraste il mio digiuno", disse il virtuoso." Certo
che lo ammiriamo", disse il sorvegliante per compiacerlo."Ma
non dovete ammirarlo", disse il virtuoso. "Va bene, e noi
allora non lo ammiriamo", disse il sorvegliante, "perché
poi non dobbiamo?" "Perché io sono costretto a digiunare,
non posso farne a meno", disse il virtuoso. "Ma guarda un
po'", disse il sorvegliante, "perché non puoi farne a
meno?" "Perché io", disse il virtuoso, sollevò la
testolina un poco e parlò proprio nell'orecchio del sorvegliante,
con le labbra raccolte a guisa di bacio, perché niente andasse
perduto, "perché io non riuscii a trovare cibo che mi piacesse.
Se l'avessi trovato, credimi, non avrei mai dato nell'occhio ed avrei
mangiato perfettamente come te e tutti." Queste furono le ultime
parole, ma nei suoi occhi spenti c'era ancora la ferma ancorché non
più fiera convinzione di continuare il digiuno.
"Va
bene, ma ora mettiamo in ordine!", disse il sorvegliante, e si
chiuse lì con il virtuoso e con la paglia insieme. Alla gabbia
invece si assegnò una giovane pantera. Era anche nel senso più
banale un ristoro vedere aggirarsi questo selvaggio animale nella
gabbia così a lungo desolata. Ad esso non mancava niente. Il
nutrimento, che gli piaceva, i guardiani glielo recavano senza starci
troppo a pensare; neppure pareva accorgersi della mancanza di
libertà; questo nobile corpo strettamente dotato del necessario per
sbranare pareva portar con sè anche la libertà; essa appariva
nascosta da qualche parte nella dentatura; e la gioia di vivere
usciva con tanto più potente fervore dalla gola, che non era facile
per gli osservatori resisterle. Tuttavia essi si dominavano, si
stringevano attorno alla gabbia e non volevano staccarsene.
venerdì 29 luglio 2016
La Cina di Kafka
Si rifletta sulla Cina di Kafka, la quale appare in diversi suoi testi, eccellentemente in "Una vecchia pagina". Si tratta di un luogo immaginario, come del resto l'America (v. "America" o meglio "Lo scomparso", tra i romanzi di K il più bello), che permette all'autore di esercitare e precisare la sua concezione filosofico-politica, ed il suo corrosivo strumento di analisi; impossibile però non essere tentati di paragonare l'impero cinese kafkiano con l'impero di cui lui, K, ebbe diretta contezza, quello austro-ungarico.
F.Kafka: La costruzione della muraglia cinese
La
muraglia cinese è stata terminata nel suo cantiere più
settentrionale. La costruzione fu condotta da sudest e da sudovest,
e qui ebbe luogo l'unificazione. A questo sistema di frazionamento ci
si attenne in piccolo anche nell'ambito dei due grandi eserciti di
operai, l''esercito dell'est e quello dell'ovest. Avvenne così,
vennero formati gruppi di circa venti operai i quali avevano da
erigere una frazione di muraglia della lunghezza di circa cinquecento
metri, incontro a loro un gruppo adiacente edificava poi una muraglia
della stessa lunghezza. Dopo però che l'unificazione era effettuata,
la costruzione, al termine di questi circa mille metri, non veniva
proseguita, anzi, i gruppi di lavoro erano inviati in tutt'altre
regioni a edificare la muraglia. Naturalmente risultarono in questo
modo molte grosse lacune, che soltanto poco a poco, lentamente,
vennero colmate, parecchie addirittura soltanto dopo che si era
proclamata il completamento della costruzione della muraglia. Anzi,
ci devono essere lacune che proprio non sono state chiuse, secondo
molti esse sono molto più estese delle frazioni costruite,
un'affermazione del resto che appartiene forse solo alle numerose
leggende che sono sorte intorno alla costruzione e che non sono
verificabili da parte delle singole persone, almeno, non con i loro
occhi e con il loro metro, in conseguenza dell'estensione della
costruzione. Ora, si crederebbe a priori che sarebbe stato in ogni
senso più vantaggioso costruire in modo continuo o almeno in modo
continuo entro le due frazioni principali. La muraglia fu sì
pensata, come viene in genere divulgato, ed è noto, con scopo di
difesa dai popoli del nord. Come poteva tuttavia difendere, una
muraglia discontinua? Di più, una tale muraglia poteva non soltanto
non difendere, la stessa costruzione è costantemente in pericolo.
Queste frazioni di muraglia abbandonate possono anzi sempre di nuovo
esser distrutte con facilità dai nomadi, tanto più che costoro,
una volta messi in stato di angoscia dalla costruzione della
muraglia, ad una velocità misteriosa, come cavallette, cambiavano
d'insediamento, e per questa ragione forse possedevano una visione
d'insieme dell'avanzamento della costruzione migliore di quella che
avevamo noi stessi costruttori. Ciò nonostante la costruzione non
poteva certo esser condotta altrimenti che come è avvenuto. Per
comprendere questo si deve considerare quanto segue: la muraglia
doveva divenire una difesa per i secoli, la costruzione
accuratissima, l'impiego della
sapienza costruttiva di ogni popolo e tempo conosciuti, il durevole
senso della personale responsabilità dei costruttori erano perciò
presupposti non aggirabili dell'opera. Per i lavori minori potevano
dunque certamente venir impiegati ignari operai giornalieri del
popolo, uomini, donne, ragazzini, chi si offriva per una buona paga,
ma già per istruire quattro operai giornalieri era necessario un
uomo più intelligente, istruito nel ramo edilizio, un uomo in grado
di comprendere con tutto il cuore ciò che qui era in questione. E
tanto più era elevato il grado d'istruzione quanto più grandi le
esigenze, naturalmente. Uomini del genere erano effettivamente a
disposizione, anche se non erano quella massa di cui questa
costruzione avrebbe avuto la necessità, comunque erano un gran
numero. Non si era iniziata l'opera in modo sconsiderato. Cinquanta
anni prima dell'inizio della costruzione nell'intera Cina, che doveva
essere circondata dalla muraglia, si erano dati lumi in merito alla
più indispensabile scienza edilizia, con speciale riferimento al
mestiere di costruire muri, ed a tutto il resto che fosse connesso a
tal mestiere si era fatta solo menzione. Mi ricordo ancora benissimo
come noi bambini, appena in grado di stare in piedi, ci trovavamo nel
giardinetto del nostro maestro e dovevamo costruire una sorta di muro
di ciottoli, e come il maestro si tirava su il soprabito e gli
correva addosso naturalmente buttandolo all'aria, ed a causa della
sua fragilità ci rimproverava talmente che noi strillando correvamo
dai nostri genitori da ogni parte. Un evento minimo, ma indicativo
dello spirito del tempo. Ebbi la fortuna che quando a venti anni
avevo fatto l'ultimo esame della scuola inferiore cominciava appunto
la costruzione della muraglia. Dico fortuna, infatti molti che
avevano conseguito prima il massimo grado dell'istruzione loro
accessibile, a nulla seppero per anni dare il via con il loro sapere,
con in testa i più grandiosi piani edilizi si trascinarono
inutilmente in giro e si persero nella massa. Invece quelli che,
anche con il rango più basso, pervennero alla costruzione infine
come capomastri, ne erano effettivamente degni, si trattava di uomini
che molto avevano meditato sulla costruzione né cessavano di
meditarci sopra, uomini che con la prima pietra fatta da loro
piantare nel terreno si sentivano per così dire crescere insieme
alla costruzione. Naturalmente uomini del genere erano spinti oltre
che dalla brama di effettuare il lavoro più accurato, anche
dall'impazienza di vedere la costruzione ergersi finalmente nella sua
completezza. Il giornaliero, spinto dal solo salario, non conosceva
tale impazienza, anche i capi di grado superiore, anzi, anche i capi
intermedi, vedevano abbastanza della vasta crescita della costruzione
per tenersi con ciò poderosamente su di morale, invece per gli
inferiori, uomini che intellettualmente si trovavano parecchio al di
sopra del loro modesto impiego, si doveva provvedere altrimenti. Per
esempio, non si poteva lasciarli in una regione montagnosa
disabitata, lungi centinaia di miglia dal loro luogo natale, per mesi
o perfino per anni, a piazzare una pietra della muraglia dopo
l'altra; l'essere senza speranza di un tale lavoro, assiduo, ma anche
non recante alla meta nel corso d'una lunga vita umana, li avrebbe
resi disperati e soprattutto inutili in rapporto all'opera. Perciò
si scelse il sistema del frazionamento della costruzione, cinquecento
metri di muraglia potevano essere ultimati all'incirca in cinque
anni, poi i capi, certo, di regola erano mortalmente esauriti,
avevano perduto ogni fiducia in sé, nella costruzione, nel mondo,
tuttavia venivano inviati lontano, mentre ancora erano nel pieno
dell'euforia dell'assodato compimento di cento metri di muraglia,
vedevano ergersi qua e là nel corso del viaggio parti di muraglia
pronte, pervenivano agli accampamenti dei più alti capi che facevano
loro dono di medaglie, udivano l'esultare dei nuovi eserciti operai
sgorganti dalle profondità della regione, vedevano abbattere foreste
destinate a realizzare impalcature per la muraglia, vedevano
trasformare a colpi di piccone montagne in pietre per la muraglia,
udivano nei luoghi sacri canti dei religiosi invocare il
completamento della muraglia, tutto questo placava la loro
impazienza, la quieta vita del luogo natale, dove essi passavano
qualche tempo, li rendeva forti, la considerazione di cui godevano
tutti coloro che partecipavano alla costruzione, l'umiltà devota con
cui venivano ascoltati i loro resoconti, la fede che il semplice
tranquillo cittadino riponeva nel venturo completamento della
muraglia, tutto questo tendeva le corde dell'anima, essi come
eternamente speranzosi bambini prendevano congedo dal luogo natale,
di nuovo il diletto di lavorare nell'opera del popolo diveniva
invincibile, essi ripartivano da casa prima del necessario, mezzo
villaggio li accompagnava per lunghi tratti, in ogni via saluti,
bandierine, stendardi, mai avevano visto com'era grande e ricca e
bella e degna d'amore la loro terra, ogni suo abitante era un
fratello per il quale si costruiva una muraglia difensiva e che di
questo ringraziava con tutto ciò che lui era ed aveva, unità!
Unità! Petto a petto, una ridda di popolo, sangue non
più rinchiuso nella grettezza della circolazione corporea, ma invece
dolce rombante attraverso l'infinita Cina, eppur capace di far
ritorno.
Con
questo dunque il sistema della costruzione in parti diviene
comprensibile, tuttavia esso ebbe un ben altro motivo. Non è affatto
singolare che io mi soffermi tanto a lungo su tale questione, si
tratta di una questione essenziale in merito alla costruzione della
muraglia, per quanto appaia in un primo momento irrilevante. Se
voglio fornire il perimetro delle idee e le esperienze di quei tempi
e renderli comprensibili, non posso che approfondire proprio tale
questione.
Intanto
bisogna però dirsi che allora sono state compiute imprese che stanno
di poco dietro la costruzione della torre di Babele, quanto al
compiacere Dio certamente, almeno secondo umana valutazione,
rappresentanti proprio il contrario di quella costruzione. Lo ricordo
poiché all'inizio della costruzione un erudito ha scritto un libro
nel quale assai correttamente costruiva questo confronto. Vi tentava
la dimostrazione del fatto che la costruzione della torre di Babele
in nessun modo ha fallito la meta per le cause generalmente
considerate, o che, almeno, tra queste cause conosciute non si
trovano le principali. Le sue dimostrazioni consistevano non solo in
scritti e relazioni, ma invece egli pretendeva di aver eseguito
indagini sul posto e tramite queste di aver trovato che la
costruzione doveva naufragare, e naufragò, per la debolezza della
fondazione. Sotto questo aspetto il nostro tempo fu certamente molto
superiore ad ogni tempo passato, quasi ogni contemporaneo era
istruito e specializzato nell'edilizia e ferrato nella questione del
gettare fondazioni. Ma non a questo mirava affatto l'erudito,
piuttosto affermava che solo la grande muraglia per la prima volta
della storia umana provvederà una fondazione sicura per una nuova
torre di Babele. Dunque prima la muraglia e poi la torre. Il libro
allora fu in mano a tutti, ma io confesso che ancora oggi non afferro
bene come l'autore s'immaginava la costruzione di questa torre. La
muraglia, che non era affatto un cerchio, ma invece formava una sorta
di quartiere - o un semicerchio, doveva avere il ruolo della
fondazione di una torre? Ciò poteva essere però pensato solo da un
punto di vista spirituale. Tuttavia a che scopo poi la muraglia, che
pure era qualcosa di reale, risultato della fatica e della vita di
centinaia di migliaia? E a che scopo nell'opera erano indicati i
progetti della torre, certo progetti oscuri, e fatte proposte fin nel
dettaglio come se la forza del popolo si dovesse conformare alla nuova
creazione? C'era molta confusione di teste, allora - questo libro è
solo un esempio - forse proprio perché così in tanti quanto era
possibile si tentava di convergere su una meta. L'essere umano,
fondamentalmente sconsiderato, volatile come il pulviscolo, non
tollera affatto di essere imprigionato, s'imprigiona da sé,
comincerà presto follemente a scuotere i vincoli e la schiavitù
della muraglia, ed anche a disperdersi in tutte le regioni del
cielo.
E'
possibile che anche queste riflessioni addirittura contrarie alla
costruzione della muraglia non siano rimaste prive di considerazione
da parte della direzione nello stabilire la costruzione in parti. Noi
- qui io parlo certo a nome di molti - abbiamo in verità, intanto
che compitavamo le disposizioni dell'alta dirigenza, subito impariamo
a conoscere noi stessi ed abbiamo trovato che, senza la dirigenza, né
la nostra erudizione scolastica né la nostra intelligenza umana
sarebbero bastate anche soltanto per il modesto impiego che noi entro
il grande insieme avevamo. Nella stanza della dirigenza - dove fosse
e chi vi sedeva nessuno cui ho domandato lo sa o lo seppe - in questa
stanza roteavano da una parte certamente tutti i pensieri e desideri
umani e dall'altra ogni meta umana ed ogni suo raggiungimento,
attraverso la finestra però, sulle mani della dirigenza intente al
disegno dei progetti, cadeva il riverbero dei mondi divini. E perciò
all'osservatore onesto non vuol tornare che la dirigenza, anche se
l'avesse seriamente voluto, non avrebbe potute superare quelle
difficoltà che si opponevano ad una costruzione continua della
muraglia. Ne consegue dunque solo che la dirigenza progettò la
costruzione parziale. Ma essa era soltanto un pretesto, e inadeguato.
Ne consegue che la dirigenza voleva qualcosa di inadeguato.
Conseguenza bizzarra, certo. Eppure dotata di giustificazione, da un
altro lato. Oggi se ne può forse parlare senza pericolo. Ai tempi
era una massima segreta di molti e perfino dei migliori: Cerca con
tutte le tue forze di comprendere le disposizioni della dirigenza, ma
solo fino a un limite stabilito, poi smetti di pensarci. Massima
molto ragionevole, che del resto trovava un'amplificazione in un
paragone più tardi spesso ripetuto: Smetti di pensarci ancora, non
perché potrebbe danneggiarti, non è neppure del tutto certo che ti
danneggerà. In genere qui non si può parlare né di danni né di
non danni. Ti succederà come al fiume in primavera. Sale, aumenta di
portata, più forte alimenta la regione lungo le sue sponde, conserva
la sua natura più oltre fin dentro il mare,
e benvenuto diviene come il mare. Ripensa alle disposizioni della
dirigenza fino a questo punto. Poi però il fiume supera la sua
sponda, perde forma e connotati, rallenta la sua corsa, prova senza
volere a formar entro la regione un piccolo mare, danneggia i terreni
e tuttavia non riesce a durare in questo allargamento, ma rifluisce
entro le sue sponde, anzi s'inaridisce addirittura, miseramente,
nelle stagioni calde dell'anno che seguono. Non ripensare alle
disposizioni della dirigenza fino a questo punto.
Ora,
questo paragone può essere stato eccezionalmente appropriato durante
la costruzione della muraglia, eppure agli effetti della mia
trattazione attuale ha un valore a dir poco limitato. La mia indagine
è unicamente storica, dalle nuvole temporalesche da tempo trascorse
via più nessun lampo fende l'aria, ed io sono in grado per questo di
andare in cerca d'una spiegazione della costruzione della muraglia
che vada oltre ciò di cui ci si accontentò ai tempi. I limiti che
mi pone la mia capacità intellettuale sono certo abbastanza stretti,
ma il campo che qui sarebbe da percorrere è di quelli illimitati.
La
grande muraglia, contro chi doveva difendere? Contro i popoli del
nord. Io sono originario della Cina sudorientale. Nessun popolo del
nord là può minacciarci. Leggiamo di loro nei libri degli anziani,
le spietatezze cui loro in conformità alla loro natura aspirano ci
fanno sospirare nella tranquillità del nostro portico, nelle
raffigurazioni fedeli alla verità dell'artista noi vediamo questi
volti della maledizione, le fauci spalancate, le mascelle guarnite di
denti appuntiti, gli occhi sbarrati che già sembrano vagheggiare la
preda che la bocca schiaccerà e lacererà. Se i bambini fanno i
cattivi mostriamo loro queste figure e subito ci volano al colla
piangenti. Ma di questi settentrionali non sappiamo di più, non li
abbiamo visti, e, se restiamo nel nostro villaggio, mai li vedremo
anche se ci corrono addosso sui loro cavalli selvaggi.; troppo grande
è il paese e non glielo permette, essi si ostineranno a vuoto.
Perché
dunque, dal momento che è così, lasciamo il luogo natale, il fiume
e i ponti, la madre e il padre, la sposa piangente, i bambini
bisognosi di insegnamento e, invece di dirigerci alla scuola,
prendiamo per la lontana città ed i nostri pensieri si trovano
ancora oltre, presso la muraglia, nel nord, perché? Domandalo alla
dirigenza. Ci conosce. Essa sa i colossali affanni da noi ruminati,
conosce il nostro misero
mestiere,
ci vede tutti seduti insieme nei bassi tuguri, e le garba la
preghiera che il padre di famiglia dice a sera nella cerchia dei
suoi, o le dispiace. E se posso permettermi un simile pensiero sulla
dirigenza, devo dire che secondo la mia opinione la dirigenza c'era
già prima, non si formò come all'incirca alti mandarini suscitati
per mezzo di un bel sogno mattutino, che in gran fretta convocano una
seduta, in gran fretta la chiudono e già a sera fanno saltar fuori
dal letto la popolazione per rendere esecutive le decisioni, fosse
anche solo per allestire una luminaria in onore di un dio che ieri si
è mostrato benevolo ai signori, per bastonarli domani in un angolo
buio non appena i lampioni siano spenti. No, la dirigenza c'era già
da tempo immemorabile e così la deliberazione di costruire la
muraglia.
Io
mi sono occupato in modo esclusivo di storia popolare comparativa già
in parte durante la costruzione della muraglia e da allora fino ad
oggi - vi sono certe questioni al nervo delle quali per così dire
ci si avvicina soltanto con tal mezzo - ed ho per tale ragione
trovato che noi cinesi siamo dotati di certe istituzioni popolari e
statali di trasparenza straordinaria, invece altre sono
straordinariamente opachi. Indagare i motivi in particolare di
quest'ultimo fenomeno mi ha sempre affascinato, ancora mi affascina,
e tale questione riguarda assolutamente anche la costruzione della
muraglia. Ora, il governo imperiale fa senz'altro parte delle nostre
istituzioni più opache. Naturalmente a Pechino esiste nell'ambiente
di corte, se è per questo, una certa trasparenza, benché anch'essa
sia più apparente che effettiva; anche gli insegnanti di diritto
pubblico e di storia nelle scuole superiori asseriscono di essere
correttamente istruiti su queste cose e di poter riproporre agli
studenti tale conoscenza; e più si scende nelle scuole inferiori più
vanno sfumando logicamente i dubbi in fatto di sapere specifico, e la
cultura di superficie sminuzzò da secoli assiomi elevati come
montagne in poca roba piantata in terra che certo non ha perduto
nulla in fatto di verità eterna, tuttavia nel fumo e nella nebbia
rimane eternamente ignota.
Proprio
in merito al governo imperiale tuttavia, secondo la mia opinione, si
dovrebbe per prima cosa porre domande al popolo, dato che il governo
imperiale lì ha i suoi puntelli ultimi. Qui sono in grado, a dire il
vero, di parlare ancora solo del mio luogo natale. A parte le
divinità campestri cui sono dedicate tutto l'anno in modo
vario e bello funzioni religiose, tutti i nostri pensieri erano per
l'imperatore. Ma non per l'imperatore in carica, o meglio sarebbe
valso anche per lui, se lo avessimo conosciuto o ne avessimo saputo
qualcosa di preciso. Ci sforzavamo senza dubbio - unica curiosità
che ci pervadeva - anche di apprendere un qualcosa dell'indole.
Tuttavia - suona così strano - era a mala pena possibile apprendere
qualcosa, non dal pellegrino che pure percorre molto terreno, non nei
villaggi vicini, non in quelli distanti, non dalle imbarcazioni che
pure transitano non solo sul nostro fiumicello ma anche i fiumi
sacri. Si udiva in effetti molto, ma non si riusciva a ricavare
niente dai molti. Tanto grande è il nostro paese, non c'è favola
che ne raggiunga la grandezza, il cielo a mala pena lo abbraccia. E
Pechino è solo un punto, e la cittadella imperiale è solo un
puntolino. L'imperatore come tale certo è grande, d'altra parte, da
qualsiasi sezione di mondo lo si guardi. L'imperatore vivente
tuttavia è una persona come noi, si adagia cioè come noi sul suo
divano, certo riccamente fatto, eppure, in definitiva, stretto e
corto. Come noi talvolta si stira e quando è molto stanco sbadiglia
con la sua bocchina delicata. Dovremmo fare da qui mille miglia verso
sud, anche se confiniamo quasi con le montagne del Tibet? A parte
ciò, tuttavia, nel caso che ciascuna notizia venisse, ed arrivasse
fino a noi, ma troppo in ritardo, sarebbe divenuta ampiamente
vecchia. Intorno all'imperatore si pigia la massa dei cortigiani,
brillante eppure oscura, il contrappeso del governo imperiale, sempre
s'ingegna di rovesciare con frecce avvelenate l'imperatore dal
piatto della bilancia. Il governo imperiale è immortale, ma il
singolo imperatore deperisce e cade, perfino intere dinastie
finiscono per cadere e cessano di respirare in un solo rantolo. Il
popolo mai verrà a conoscenza di queste battaglie dolorose, esse,
come fossero ultimi arrivati ed estranei alla città, si trovano in
fondo a stradette laterali affollate a pascersi tranquillamente delle
provviste portate con sé, mentre molto avanti, nel centro della
piazza del mercato, l'esecuzione dei loro signori procede.
C'è
una leggenda che esprime bene questa relazione. A te l’imperatore,
proprio a te, un privato, misero suddito, ombra minuscola sfuggita
nella lontananza più remota al sole imperiale, a te, dicono, ha
appena inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha sussurrato di
far inginocchiare il messaggero vicino al letto e gli ha parlato in un’orecchio; gli premeva tanto il messaggio, che se lo è fatto
ripetere di
nuovo. Con cenni del capo ha approvato la conformità del
detto. E davanti a tutti quanti i testimoni della sua morte –
abbattute tutte le pareti che erano d’ostacolo, stava la cerchia
dei grandi dell’impero sulle alte armoniose scalinate - egli ha
dato il via al messaggio. Il messo parte subito per il suo viaggio,
forte, instancabile, si fa largo nella folla ora con un braccio, ora
con l’altro, trova resistenza, mostra il petto con su il simbolo
del sole, procede con gran facilità, come nessun altro farebbe,
tuttavia la folla, i cui alloggiamenti non accennano a terminare, è
così grande. Il messaggero si aprirà svelto la strada, volando, e
presto udrai il colpo magnifico dei suoi pugni sulla tua porta. No,
invece lui incontra difficoltà stancanti, attraversa le stanze del
palazzo interno sempre più a fatica, non le oltrepassa mai, e se gli
riuscisse non avrebbe ottenuto niente, dovrebbe lottare per scendere
le scalinate, e se gli riuscisse non basterebbe, ci sarebbero i
cortili, il secondo palazzo che circonda il primo, e ancora scalinate
e cortili, e ancora un palazzo, e così via per un migliaio di anni.
Infine il messaggero cadrebbe proprio davanti alla porta esterna, ma
la cosa non potrebbe mai, mai succedere; prima, davanti a lui, si
allargherebbe la città, che è il centro del mondo, fino ai suoi
dispersi suburbi, dove nessuno può farcela, men che meno con il
messaggio di un morto. Eppure tu siedi alla finestra e lo sogni,
quando viene la sera (questa leggenda è altrove pubblicata come testo autonomo -
n.d.t.).
Esattamente
così, così senza speranza e pieno di speranza, il nostro popolo
vede l'imperatore. Ignora quale imperatore governi e ci sono dubbi
anche in merito al nome della dinastia. Nella scuola molto viene
insegnato di ciò, in ordine cronologico, ma la generale incertezza sotto
questo aspetto è così grande che anche il migliore scolaro ci cade
dentro. Nei nostri villaggi imperatori da lungo tempo defunti sono
messi sul trono e quello che ancor vive soltanto nelle cantate ha da
poco emanato notizia di una proclamazione su cui, davanti all'altare,
il sacerdote fece affidamento. Si combattono giusto ora battaglie
delle nostre storie più antiche, e con il volto infiammato dalla
passione il vicino ti precipita in casa con la novità. Le imperiali
signore, troppo nutrite sui loro cuscini di seta, allontanate dalle
nobili costumanze da astuti cortigiani, crescenti quanto all'avidità
di dominio, furiosamente cupide, allargatesi nella voluttà, è
sempre una novità che commettano il loro delitti un'altra volta; più
tempo è trascorso, più orridi risaltano tutti i colori, e con alte
grida
di
dolore capita che il villaggio venga a sapere che una imperatrice
secoli prima bevve a lunghe sorsate il sangue di suo marito.
Così
dunque il popolo procede con gli appartenenti al passato, ma mescola
tra i defunti coloro che appartengono al presente. Una volta, una
volta in una generazione, un funzionario imperiale in viaggio nella
provincia per caso viene nel nostro villaggio, in nome di chi governa
pone chissà quali questioni, esamina i registri fiscali, assiste
all'insegnamento scolastico, interpella il sacerdote in merito al
nostro modo di agire e poi riassume tutto, prima di salire nella sua
portantina, in lunghe esortazioni alla comunità convenuta, quindi su
ogni volto scorre un sorriso, l'uno guarda l'altro furtivamente, ci
si abbassa verso i bambini per non farsi osservare dal funzionario.
Come fa a parlare, si pensa, di un morto come di uno che vive, questo
imperatore è pur morto già da tanto, la dinastia è spenta, il
signor funzionario si prende gioco di noi, ma noi facciamo finta di
non accorgercene, per non oltraggiarlo. Seriamente risponderemo però
solo ai nostri signori di oggi, ogni altra cosa sarebbe colpevole. E
dentro la frettolosa portantina del funzionario sale un qualcuno che
è arbitrariamente scappato fuori, a calcare il terreno in qualità di
signore del villaggio, dall'urna di una già polverizzata eccellenza.
Qualora
si avesse intenzione di concludere da tali apparenze che noi in fondo
non abbiamo proprio nessun imperatore, non si sarebbe molto lontani
dalla verità. Devo sempre ridirlo: non c'è forse alcun popolo più
leale all'imperatore del nostro, nel sud, ma la lealtà non è troppo
vantaggiosa per l'imperatore. Certo, sulla colonnetta che si trova
alla porta del villaggio c'è il drago sacro che omaggiante soffia da
tempo immemorabile l'ardente fiato esattamente in direzione di
Pechino, ma la stessa Pechino è più estranea alla gente del
villaggio della vita ultraterrena. Davvero ci sarebbe un villaggio
dove le case sono fitte e nascondono i campi, più esteso di quanto
dalla nostra collina lo sguardo possa arrivare, e dove tra queste
case di giorno e di notte le persone passano le ore appiccicate una
all'altra? Più facile che immaginarsi una città del genere è
credere che Pechino ed il suo imperatore siano una cosa sola,
all'incirca una nuvola, quietamente sotto il sole trasformantesi nel
corso dei tempi.
Da
tali opinioni deriva per così dire una vivere libero, privo di
autocontrollo. Assolutamente non scostumato, io quasi mai mi sono
imbattuto durante i miei
viaggi
in un'integrità morale come quella del mio luogo natale.
Eppur tuttavia si tratta di un vivere che non si trova sottoposto a
leggi in atto, e che obbedisce soltanto all'ordine ed
all'ammonizione, venuti dai tempi antichi giù giù fino a noi.
Mi
guardo bene dalle generalizzazioni e non sostengo che in tutti e
diecimila villaggi della nostra provincia le cose stiano così o,
anzi, in tutte le cinquecento province della Cina. Tuttavia sulla
base forse dei molti scritti che ho letto su questo argomento, così
come sulla base delle mie proprie osservazioni, posso ben dire -
specialmente l'umanità intenta alla costruzione della muraglia dette
occasione alla persona sensibile di viaggiare attraverso i sentimenti
di quasi tutte le province - sulla base di tutto questo, forse,
posso dire che la concezione dominante riguardo all'imperatore
continua ad indicare sempre e principalmente un certa caratteristica
simile alla concezione vigente nel mio luogo natale. Ora, non ho
davvero l'intenzione di far valere questa concezione come una virtù,
al contrario. Certo in generale essa è causata dal governo, che, nel
reame più antico della terra, fino ad oggi non fu capace, oppure
compagine dopo compagine trascurò, di portare l'istituzione del
governo imperiale a una trasparenza tale che operasse fino al più
remoto confine del reame. D'altra parte anche su questo punto si
trova una debolezza immaginativa, o di fede, nel popolo, il quale non
ce la fa a trascinar via il governo imperiale dallo stato semi onirico
pechinese al suo seno di suddito, colmo di vitalità e di attualità,
che niente vuole di più che sentire una volta questo contatto ed in
esso struggersi.
Questa
concezione dunque non è davvero virtuosa. Tanto più sorprendente è
che proprio questa debolezza sembra essere uno dei più importanti
mezzi di unitarietà del nostro popolo, anzi, se è lecito spingersi
tanto oltre nell'espressione, addirittura sembra essere il terreno su
cui viviamo. Motivare qui in modo dettagliato un biasimo non
significa scuotere la nostra coscienza, ma, quel che è molto peggio,
significa scuotere le nostre gambe. E perciò non intendo andare
oltre per ora nell'indagine di questa questione.
Dunque
in questo mondo venne fuori la notizia della costruzione della
muraglia. Anch'essa tardò circa trenta anni dopo la sua
promulgazione. Era una serata estiva. Io, decenne, mi trovavo con mio
padre sulla riva del fiume. In conformità con il significato di
quest'ora spesso commentata, mi ricordo delle circostanze minime.
Mi
teneva per la mano, gli piacque fare questo fino a quando non fu
vecchio, l'altra mano occupata con la sua lunga sottilissima pipa
quasi fosse un flauto. La sua notevole barba rada e dura sporgeva in
aria, infatti nell'usar la pipa lui guardava al di sopra del fiume
verso l'alto. Tanto più in basso scese il suo codino, oggetto della
primaria paura del bambino, appena appena facendo rumore sulla seta
intessuta d'oro dell'abito del giorno festivo. In quella una barca si
fermò davanti a noi, il barcaiolo fece cenno a mio padre se poteva
scendere il pendio, anche lui gli sarebbe salito incontro. A metà
s'incontrarono, il barcaiolo sussurrò qualcosa all'orecchio di mio
padre; accostandoglisi lo abbracciò. Non capii le parole, vidi solo
come mio padre non parve credere alla notizia, il barcaiolo tentò di
confermarne la veridicità, mio padre ancora non riusciva a crederci,
il barcaiolo con la passionalità del popolo dei barcaioli per
provare la verità quasi si stracciò l'abito, mio padre si fece
silenzioso ed il barcaiolo brontolando saltò nella braca e se ne
andò via. Cogitabondo si voltò verso di me, mio padre, svuotò la
pipa e la riempì, mi accarezzò una guancia e trasse la mia testa a
sé. Cosa che mi piacque moltissimo, mi rese felicissimo, e così
andammo a casa. Dove già fumava la pappa di riso sulla tavola,
c'erano riuniti alcuni ospiti, appunto si versava il vino nelle
coppe. Senza badarci mio padre iniziò già sulla soglia a raccontare
quel che aveva sentito. Delle parole naturalmente non ho alcun esatto
ricordo, il senso però dello straordinario della circostanza, da cui
anche un bambino veniva soggiogato, mi arrivò così in profondità
che oso però restituirne una sorta di testo verbale. Lo faccio forse
perché fu per la concezione popolare molto significativo. Mio padre
disse dunque all'incirca: (il testo non continua - n.d.t.).
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mercoledì 20 luglio 2016
Il tempo dei sogni.
Nel post precedente a questo si offre a chi legge una nuova traduzione di "Un medico condotto". Il testo adotta l'imperfetto al posto del passato remoto per questa ragione: il racconto è così onirico che sembra un peccato togliergli questa sostanza appiattendolo su tempi duri, tipo il passato remoto. Non a caso il tempo usato si chiama imperfetto, "imperfetto" come il racconto dei sogni e come le affabulazioni dei bambini che giocano. Sì, è vero, altre volte non si è fatto...
A proposito del titolo, medico condotto è meno bello di medico di campagna, però il testo indica con precisione che il protagonista dipende dall'amministrazione del circondario.
A proposito del titolo, medico condotto è meno bello di medico di campagna, però il testo indica con precisione che il protagonista dipende dall'amministrazione del circondario.
F.Kafka: Un medico condotto
Ero
in grande imbarazzo: m'incombeva un viaggio urgente; un malato grave
aveva bisogno di me in un villaggio distante dieci miglia; poderose
raffiche di neve colmavano il vasto spazio tra me e lui; avevo un
calesse leggero, a ruote grandi, adattissimo alle nostre strade di
campagna; infagottato nella pelliccia, in mano la borsa degli
strumenti, mi trovavo pronto al viaggio già in cortile; mancava però
il cavallo, il cavallo. Il mio cavallo nel corso dell'ultima notte
era crepato a causa delle fatiche eccessive dovute a questo gelido
inverno; ora la mia serva correva in giro nel villaggio per farsi
imprestare un cavallo; tuttavia non aveva speranza, io lo sapevo, e
sempre più stracarico di neve restavo lì senza scopo. Eccola al
portone, da sola, agitava la lanterna; è naturale, chi mai presta il
suo cavallo per un simile tragitto? Percorrevo ancora una volta il
cortile; non vedevo alcuna possibilità; storditamente, angosciato,
davo un calcio all'uscio malmesso del porcile già da anni inutile.
Si apriva e seguitava a girare sui cardini. Ne veniva fuori calore e
odore come di cavalli. Una fioca lanterna da stalla dondolava là
dentro da un gancio. Un uomo rannicchiato nella bassa baracca
mostrava il viso schietto dagli occhi azzurri ."Devo
attaccare?", domandava, strisciando fuori a quattro zampe. Io
non riuscivo a dir nulla e mi limitavo a piegarmi per vedere
cos'altro c'era nella stalla. La serva era con me. "Non si sa
che cosa cavolo si ha in casa propria", diceva, ed entrambi
ridevamo. "Olà fratello, olà sorella", gridava lo
stalliere, e due cavalli, bestie poderose dai vasti fianchi, uno dopo
l'altro, sol con la forza dei volgimenti dei loro tronchi, piegando,
come fossero cammelli, le zampe e le teste ben formate, strettamente
sul corpo, si spingevano fuori dal vano dell'uscio riempiendolo
completamente. Stavano subito ritti, però, alti di zampe, con i
corpi fumanti fitto vapore. "Aiutalo", dicevo, e la
volenterosa ragazza si affrettava a porgere al servo i finimenti del
calesse. E però, non appena gli si era appressata, lui l'abbracciava
e con il suo viso urtava il viso di lei. Urla e si rifugia presso di
me; sulla guancia le sono impresse due file rosse di denti. "Oh
bestia", grido con rabbia, "vuoi la frusta?", ma
rifletto, si tratta di uno straniero, non so da dove viene, mi viene
in aiuto di suo mentre tutti gli altri rifiutano. Come se fosse a
conoscenza dei miei pensieri, lui non si offende della mia minaccia,
ma si limita, ancora occupato con i cavalli, a girarsi verso di me.
"Sali", dice poi e, in realtà, è tutto a posto. Con un
tiro così bello, considero, ancora non ho mai viaggiato, e felice
monto."Guiderò io però", dico,"tu non conosci la
strada". "Certo", dice lui,"io non ci penso
proprio a spostarmi, resto con Rosa." "No", grida
Rosa, e corre in casa con il giusto presentimento della
ineluttabilità della sua sorte; odo risuonare la catena dell'uscio
che lei chiude; odo scattare il lucchetto; vedo come, oltre a questo,
lei correndo a precipizio nell'atrio e per le stanze spegne ogni luce
allo scopo di rendersi inrovabile. "Tu mi accompagni", dico
al servo, "o rinuncio al viaggio, per quanto sia urgente.
Proprio non ci penso,
a lasciarti la ragazza in pagamento per il viaggio."
"Muoversi!", dice lui; batte le mani; il calesse viene
trascinato via come un pezzo di legno nella corrente; sento ancora
come la porta di casa mia si spaccava e si scheggiava sotto l'assalto
del servo, poi gli occhi e le orecchie mi son colmati da un sibilo
che penetra in ugual misura in tutti i miei sensi. Tuttavia anche
questo solo un attimo, infatti, quasi che il portone della fattoria
del mio malato si aprisse immediatamente davanti al mio, sono già
lì; i cavalli stanno buoni; la nevicata è finita; tutt'intorno luce
lunare; i genitori del malato s'affrettano fuori di casa; dietro a
loro la sorella; quasi mi si solleva dal calesse; nella confusione
dei loro discorsi non capisco nulla; nella camera del malato l'aria è
appena respirabile; la stufa, trascuratissima, fa fumo; aprirò la
finestra; ma per prima cosa voglio vedere il malato. Smagrito, senza
febbre, né freddo né caldo, occhi vuoti, senza camicia, si solleva
il ragazzo sotto il piumino, mi si attacca al collo, mi sussurra
all'orecchio: "Dottore, lasciami morire." Mi guardo
intorno; nessuno ha udito; i genitori se ne stanno mutamente piegati
in avanti e aspettano il mio verdetto; la sorella ha portato una
sedia per la mia borsa. La apro e cerco tra i miei strumenti; il
ragazzo continua a cercarmi a tastoni sporgendosi dal letto verso di
me per ricordarmi la sua preghiera; afferro una pinzetta, la provo
alla luce della candela e la rimetto a posto."Ma certo",
penso blasfemo, "in casi simili gli Dei ti aiutano, ti mandano
il cavallo che manca, nella fretta ne aggiungono anche un secondo, ti
regalano per di più lo stalliere..." Ed ora mi torna in mente
Rosa; cosa faccio, come la libero, come gliela levo a questo
stalliere, lontano dieci miglia da lei, attaccati al mio calesse dei
cavalli incontrollabili? Questi cavalli in qualche modo hanno sciolto
il laccio; non so come, hanno con un urto aperto la finestra da
fuori; ciascuno infila il capo in una finestra, senza far caso al
grido spaventato della famiglia, essi scrutano il malato. "Io
torno subito indietro", penso, quasi che i cavalli mi
esortassero a muovermi, tuttavia lascio che la sorella, che mi crede
stordito dal calore, mi tolga la pelliccia. Mi viene preparato un
bicchiere di rum, il vecchio mi dà colpetti sulle spalle, questa
confidenza è giustificata dall'offerta del suo tesoro. Scuoto la
testa; nella ristretta mentalità del vecchiosarebbe perché mi dà
noia allo stomaco; solo per questo rifiuto di bere. La madre si
trova in piedi accanto al letto e mi chiama lì; io eseguo e, mentre
un cavallo nitrisce forte in direzione del soffitto della stanza,
appoggio la testa sul petto del malato, che trema sotto la mia barba
umida. Trova conferma quel che so: il ragazzo è sano, leggermente
anemico, rimpinzato di caffè dalla madre apprensiva, ma sano e, cosa
ottimale, da tirar fuori dal letto a calci. Non sono mica un
riformatore del mondo, lo lascio a letto. Ho la nomina distrettuale e
faccio il mio dovere al limite, fin dove quasi si esagera. Mal
pagato, ma generoso e pronto ad aiutare i poveri. Ho da preoccuparmi
anche di Rosa, dopodiché magari il ragazzo ha ragione e
anch'io voglio morire. Cosa ci faccio in questo inverno senza fine?
Il mio cavallo è crepato e non c'è nessuno nel villaggio che mi
presti il suo. E' da un porcile che devo ricavare il mio tiro; senza
il caso di questi cavalli, mi toccava di viaggiare con le scrofe.
Davvero. E con il capo accenno alla famiglia. Non ne sanno nulla e se
lo sapessero non ci crederebbero. Scrivere la ricetta è facile,
d'altronde è difficile intendersi con la gente. Orbene, la mia
visita sarebbe finita, mi si è incomodato un'altra volta a vuoto, ci
sono abituato, con l'aiuto del mio campanello notturno tutto il
distretto mi tormenta, ma che stavolta dovessi offrire anche Rosa,
questa bella ragazza che da anni viveva a casa mia e da me appena
guardata - è un sacrificio troppo grande, ed io devo in qualche modo
per ripiego escogitare acute spiegazioni nella mia testa allo scopo
di non scagliarmi su questa famiglia che neppure con la miglior
volontà può ridarmi Rosa indietro. Quando però chiudo la borsa e
accenno alla mia pelliccia, la famiglia insorge, il padre fiuta il
bicchiere di rum che ha in mano, la madre, probabilmente delusa da me
- oh, ma cosa si aspetta il popolo? - piena di lacrime si morde le
labbra, e la sorella agita un fazzoletto parecchio insanguinato,
allora sono in qualche modo disposto eventualmente ad ammettere che
il ragazzo, ebbene sì, forse è malato. Mi avvicino, mi sorride come
se gli portassi qualcosa tipo la zuppa energetica - ahi, ora
nitriscono entrambi i cavalli; il chiasso, in alto loco prescritto,
può ben facilitare la visita - ed ora trovo che sì, il ragazzo è
malato. A sinistra, nella regione del fianco, c'è aperta una ferita
larga come una mano, in molte sfumature di rosa, scura in profondità,
chiara ai bordi, morbida granulosa, sangue irregolarmente aggrumato,
aperta come una miniera a cielo aperto. Così a distanza. Da vicino è
anche peggio. Chi riesce a vederla senza emettere un lieve sibilo?
Vermi della robustezza e lunghezza del mio dito mignolo, rosei ed
inoltre spruzzati di sangue, si contorcono alla luce, stretti dentro
la piaga, con testoline bianche e molti peduncoli. Povero ragazzo,
per te non c'è niente da fare. Ti ho trovato una grossa piaga;
stando a questo fiore che hai nel fianco, per te è finita. La
famiglia è contenta, mi vede attivo; la sorella lo dice alla madre,
la madre al padre, il padre a certi ospiti che in punta di piedi,
bilanciandosi con le braccia distese in fuori entrano attraversando
il chiar di luna dell'uscio aperto. "Mi salverai?",
sussurra singhiozzando il ragazzo, che di vivere davvero s'illude,
con quella sua piaga. E' fatta così la gente della mia regione.
Pretendono sempre l'impossibile dal medico. Hanno smarrito la vecchia
fede; il parroco sta a casa sua a consumare i paramenti da messa uno
dopo l'altro; invece il medico deve sbrigare tutto con la sua debole
mano chirurgica. Allora, come vi garba: non mi sono offerto io;
impiegatemi per santi scopi, lo consento; che cosa voglio di meglio,
vecchio medico condotto derubato della mia serva! Ed eccoli, la
famiglia e i più anziani del villaggio, mi spogliano; un coro di
scolari con il
maestro in testa davanti alla casa canta una semplice estrema melodia
sul testo:
"Spogliatelo,
che poi curerà,
E
se non cura, allora uccidetelo!
E'
solo un dottore, solo un dottor."
Poi
eccomi spogliato, e, a testa china, contemplo, le dita nella barba,
tranquillamente la gente. Sono assolutamente calmo e resto di gran
lunga superiore a tutti, però non mi serve a nulla, ecco che mi
prendono per la testa e per i piedi e mi portano nel letto. Mi
mettono contro il muro, dalla parte della piaga. Poi escono tutti
dalla stanza; la porta viene chiusa; cessa il canto; la luna si
rannuvola; le coltri mi avvolgono calde; in ombra s'agitano le teste
dei cavalli nel vano della finestra. "Lo sai", mi sento
dire all'orecchio, "la mia fiducia in te è assai scarsa. Non
vieni con i tuoi piedi, anzi, sei capitato qui non so come. Invece di
giovarmi, tu mi restringi lo spazio del letto di morte. Ti cavo gli
occhi, lo preferisco." "Giusto", dico, "è
un'infamia. D'altra parte sono medico. Che devo fare? Credimi,
neanche per me è facile." "Mi devo accontentare di questa
giustificazione? Ah, certo ci son costretto. Sempre sono costretto ad
accontentarmi. Son venuto al mondo con una bella piaga; era tutta la
mia dotazione." "Giovane amico", dico,"il tuo
errore è la non lungimiranza. Io, che già sono stato in ogni genere
di stanza di malato, da ogni parte, ti dico: la tua piaga non è così
grave. Ferita inferta con due colpi di ascia ad angolo acuto. Molti
nella foresta offrono il loro fianco all'ascia, e la odono appena,
ancor meno odono che essa si avvicina a loro." "E' davvero
così oppure m'inganni nel mio stato febbrile?" "E'
davvero così, approfitta della parola d'onore d'un funzionario
medico." Ne approfittava e si calmava. Tuttavia ora era il
momento di pensare alla mia liberazione. I cavalli si trovavano
fedelmente ancora ai loro posti. Abito, pelliccia e borsa venivano
velocemente afferrati tutti insieme; non volevo perder tempo a
rivestirmi; se si affrettavano i cavalli come all'andata sarei
balzato per così dire da questo letto nel mio. Rispettosamente un
cavallo si ritirava dalla finestra; gettavo nel calesse il bagaglio;
la pelliccia volava troppo oltre, giusto con una manica restava
attaccata a un appiglio. Non c'è male. Mi lanciavo sul cavallo.
Fissando alla rinfusa i finimenti, un cavallo mal accoppiato
all'altro, il calesse scarrocciando, da ultimo la pelliccia nella
neve."Muoversi!", dicevo, ma a vuoto; come dei vecchietti
ci si muoveva nel deserto di neve; lungamente dietro di noi risuonava
il nuovo ma fallace canto dei bambini:
"Rallegratevi,
voi pazienti,
Il
medico sta nel letto con voi!"
Mai
tornato a casa in questo modo; perduta è la mia florida attività
professionale; un successore mi derubava, ma senza profitto, infatti
non poteva rimpiazzarmi; in casa mia imperversa disgustosamente lo
stalliere; Rosa ne è la vittima; non voglio pensarci. Nudo, esposto
al gelo di quest'epoca disgraziata, calesse di questo mondo, cavalli
d'un altro mondo, vecchio mi trascino in giro. La mia pelliccia pende
dal retro del calesse, ma a raggiungerla non ce la faccio, e nessuno
nella vivace marmaglia dei pazienti muove un dito. Imbrogliato!
Imbrogliato! Una volta che hai dato spago al suono fesso del
campanello notturno - non c'è più niente da fare.
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