Ieri ho avuto un mancamento. Abita nella casa accanto, spesso le ho fatto un inchino vedendola entrare dentro un basso uscio. Una gran dama, abito lungo, largo e spiovente, cappello con piume. Ieri entrò di fretta in casa mia come un medico timoroso di essere arrivato tardi da un malato terminale. “Anton”, disse a bassa voce, fiera però, “eccomi”. Si lasciò cadere sulla sedia che le avevo indicato. “Stai di casa in alto, te”, disse sospirando. Sprofondato in poltrona feci un segno affermativo. Danzavano innumerevolmente gli scalini che portano fino alla mia stanza, uno dietro l’altro, instancabili ondine. “Perché fa così freddo?”, domandò lei, ma si tolse i guanti, vecchi e lunghi, e li buttò sul tavolo. Vide che tenevo la testa bassa e gli occhi serrati. Mi sentivo come un passerotto, saltellavo per le scale e lei mi scompigliava le piume morbide. “Mi duole davvero che tu ti consumi dietro a me”, disse. “Ho visto il tuo viso sciupato, quando stai in cortile e guardi verso la mia finestra, non sono mal disposta verso di te; tu non possiedi ancora il mio cuore, ma forse hai la possibilità di conquistarlo”.
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