lunedì 18 giugno 2012

F.Kafka:Il cruccio del capofamiglia

La parola Odradek deriverebbe dallo slavo, dicono gli uni, tentando di circostanziare l’origine della parola nell’ambito di tale lingua. Deriverebbe dal tedesco, pensano altri, dello slavo subirebbe soltanto l’influsso. L’incertezza di entrambe le spiegazioni fa tuttavia concludere ragionevolmente che nessuna ci abbia azzeccato, che tanto meno sia possibile, con l’una o l’altra, individuare un significato della parola. Naturalmente nessuno si prenderebbe la briga di uno studio del genere se non si desse un’entità reale di nome Odradek. Essa ha in primo luogo l’aspetto di un rocchetto da filo, piatto, a forma di stella, ed in realtà sembra avere a che fare con il filo; del resto anche semplici pezzi delle più varie specie e colori, consumati, vecchi, annodati l’un con l’altro, ma anche arruffati insieme, potrebbero far da filo. Non è tuttavia solo un rocchetto, invece dal centro della stella spunta un bastoncino che l’attraversa, e a questo bastoncino se ne adatta un altro ad angolo retto. Con l’aiuto di quest’ultimo da una parte, e di una delle punte della stella dall’altra, l’insieme può stare in piedi come su due gambe. Tale struttura avrebbe avuto nel passato qualche tipo di uso, ed oggi sarebbe soltanto rotta, si sarebbe tentati di pensare. Non sembra essere questo il caso, tuttavia; almeno, non se ne trova alcun indizio; da nessuna parte si notano rotture o pezzi aggiunti che richiamino qualcosa del genere; l’insieme pare certamente privo di senso, tuttavia di specie unica. Non si possono dare altri dettagli, del resto, perché Odradek è straordinariamente versatile e non si fa inquadrare. Lui resta o nel solaio, o per le scale, o nei corridoi, o nell’ingresso, talvolta non si vede per dei mesi, perché forse si è trasferito in altre case; poi, senza fallo, ritorna di nuovo in casa nostra. Talvolta, quando si va alla porta e lui si spenzola giù dalla ringhiera, viene la voglia di parlarci. Naturalmente non gli si fa nessuna domanda complicata, invece lo si tratta come un bambino – appunto a causa della sua piccolezza. “Allora, come ti chiami?” gli si domanda, “Odradek”, dice lui. “E dove abiti?”, “Domicilio incerto”, dice, e ride; si tratta tuttavia di una risata esprimibile come senza polmoni. Suona in qualche modo come il frusciare di foglie cadute. La conversazione per lo più finisce qui. Del resto tali risposte neanche si ottengono sempre; spesso lui tace lungamente, come il legno di cui sembra esser fatto. Mi domando a vuoto che cosa gli capiterà. Davvero può morire? Tutto quel che muore, prima ha uno scopo naturale, ha avuto una funzione naturale e poi è diventato polvere; nel caso di Odradek questo non è vero. Un giorno così potrebbe rotolare magari giù per le scale trascinandosi dietro fili di refe, incalzato dai piedi dei miei figli e nipoti? Non fa certo del male a nessuno; ma anche l’idea che mi debba sopravvivere, mi provoca una certa sofferenza.

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