lunedì 25 giugno 2012

F.Kafka: Ospite dei morti


Ero ospite dei morti. Si trattava di una grande cripta ben tenuta, già vi si trovavano diverse bare con dei posti ancora disponibili, due erano aperte, dentro sembravano letti sfatti appena lasciati. Un po’ di lato, tanto che non lo individuavo con chiarezza, uno scrittoio dietro cui stava un uomo dal fisico possente. Nella mano destra teneva una penna, era come se avesse scritto e terminato proprio ora, la sinistra giocava all’altezza del panciotto con la catenella luccicante d’un orologio, la testa profondamente abbassata su di essa. Una domestica spazzava, per quanto non vi fosse nulla da spazzare.
Con una certa curiosità tiravo via il fazzoletto che le copriva il capo mettendole in ombra il viso. Solo ora la vedevo. Era una ragazza ebrea che una volta avevo conosciuto. Piccoli occhi scuri e un viso bianco sensuale. Dato che mi sorrideva dal centro dei suoi stracci che la facevano sembrare una vecchia, dicevo: “State facendo la scena, non è vero?” “Sì”, “un po’. Come la sai lunga!” Poi però indicava l’uomo allo scrittoio e diceva: “Ora va’ e salutalo, qui lui è il padrone. Fino a quando non lo hai salutato, non posso davvero conversare con te”. “Chi è mai?”, domandavo piano. “Un aristocratico francese”, diceva lei, “si chiama de Poiton”. “Com’è che si trova qui?”, domandavo io. “Non lo so”, diceva lei, “qui c’è una gran confusione. Aspettiamo uno che faccia ordine. Sei tu?” “No no”, dicevo io. “Molto assennato”, diceva lei, “Ora però va’dal signore”.
Così ci andavo e m’inchinavo; tuttavia lui non alzava la testa – vedevo solo i suoi capelli bianchi spettinati -, dicevo buonasera, ma ancora non si muoveva, una gattina svoltava l’angolo dello scrittoio, ecco, era saltata dal grembo del signore e spariva di nuovo, forse lui non stava guardando la catenella dell’orologio, ma sotto lo scrittoio. Ora volevo dimostrare in qualche modo che mi ero avvicinato, ma la mia conoscente mi tirava per la giacca e bisbigliava: “E’ già sufficiente così”.
Molto contento di questo, mi voltavo verso di lei e ritornavamo abbracciati verso le bare. La scopa mi dava noia, “buttala via”, dicevo, “no, ti prego”, diceva lei, “lasciamela tenere, lo vedi bene, no, che spazzare qui non può dare alcun fastidio, e dunque; d’altra parte, però, è qualcosa che mi fa guadagnare e non voglio rinunciarci. Rimarrai qui?”, domandava, cambiando discorso. “Per te resto volentieri”, dicevo lentamente. Ora ci muovevamo avvinti come una coppia d’innamorati. “Rimani, oh, rimani”, diceva lei; “Come mi sento, dopo che ti ho visto. Qui non è tanto male come forse temi. E cosa c’importa di quel che c’è intorno”. Per un attimo procedevamo in silenzio, avevamo sciolto reciprocamente la stretta, ora ci tenevamo a braccetto. Percorrevamo il passaggio principale, a destra e a sinistra c’erano bare, la cripta era molto grande, o almeno molto lunga. Era scuro, sì, ma non completamente, una sorta di crepuscolo che però si rischiarava in un piccolo circolo intorno a noi. D’improvviso lei diceva: “Vieni, ti mostrerò la mia tomba”. La cosa mi stupiva. “Non sei mica morta”, dicevo. “No”, diceva, “ma per la verità qui io ci capisco poco, anche per questo sono così felice che tu sia venuto. Ci metterai meno a capire tutto quanto, già ora probabilmente vedi più chiaro di me. Comunque io ho una bara”. Svoltavamo in un passaggio laterale, ancora tra due file di bare. La disposizione mi ricordava una grande cantina che avevo visto una volta. Lungo questo passaggio attraversavamo un ruscelletto che scorreva rapido, largo appena un metro. Poi in breve arrivavamo alla bara della ragazza, aveva un bel cuscino guarnito di pizzo. La ragazza ci si metteva dentro e mi attirava giù, meno con il cenno dell’indice che non con lo sguardo. “Tu sei una cara ragazza”, dicevo, le tiravo via il fazzoletto dal capo e trattenevo la mano nella soffice pienezza dei suoi capelli. “Non posso restare ancora con te. C’è qualcuno nella cripta con cui devo parlare. Non vuoi aiutarmi a cercarlo?” “Devi parlare con lui? Qui non ci sono obblighi”, diceva. “Ma io non sono di qui”. “Credi ancora di metterti in salvo?” “Certamente”, dicevo. “Ragione di più per non sprecare il tuo tempo”, diceva. Poi cercava sotto il cuscino e tirava fuori una camicia. “E’ la mia veste funebre”, diceva, e me la porgeva, “ma io non la indosso”.




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