venerdì 8 giugno 2012

F.Kafka: Sciacalli e arabi.

Ci eravamo accampati nell’oasi. I compagni dormivano. Un arabo alto e bianco mi passò davanti; aveva provveduto al cammello ed era diretto al posto dove avrebbe dormito. Mi girai nell’erba; volevo dormire; non ci riuscivo; l’ululato lamentoso di uno sciacallo a distanza; mi rimisi seduto. E quel che era stato tanto lontano, d’improvviso era vicino. Intorno a me un brulicare di sciacalli; occhi d’oro opaco, la cui brillantezza era sul punto di spegnersi; corpi snelli, eccitati all’agilità ed all’obbedienza come da una frusta. Da dietro ne venne uno, mi s’infilò sotto il braccio, stretto a me come se richiedesse il mio calore, poi mi si mise davanti e parlò, i suoi occhi fissi nei miei: “Sono lo sciacallo più vecchio in assoluto. Sono felice di poterti accogliere proprio qui. Avevo quasi già perso la speranza, infatti noi ti aspettiamo da un’infinità di tempo; mia madre e la madre di lei hanno aspettato e a ritroso tutte le madri, fino alla madre di tutti gli sciacalli. Devi crederci!” “ La cosa mi stupisce”, dissi, e dimenticai di accendere la legna accatastata, pronta per tener lontani gli sciacalli con il fumo, “sentirla mi stupisce molto. E’ solo per caso che vengo qui dall’estremo nord e sto facendo un breve viaggio. Che cosa volete dunque, voi sciacalli?” E loro, come incoraggiati da queste frasi forse troppo amichevoli, strinsero di più il loro cerchio intorno a me; tutti avevano il respiro corto e ansimante. “Sappiamo”, disse l’anziano, “che vieni dal nord, proprio su questo si fonda la nostra speranza. Lì c’è il giudizio che qui tra gli arabi non si trova. Sai, da questa fredda superbia non nasce alcuna scintilla di giudizio. Uccidono gli animali per mangiarli e disdegnano le carogne.” “Non parlare a voce così alta”, dissi, “qui vicino dormono degli arabi.” “Sei veramente uno straniero”, disse lo sciacallo, “altrimenti sapresti che fin qui mai nella storia universale uno sciacallo ha avuto paura di un arabo. Dovremmo averne paura? Non basta, quanto alla sfortuna, che noi siamo finiti tra gente simile?” “Può essere, può essere”, dissi, “non mi sono fatto un’opinione su cose che mi sono tanto lontane; sembra una contesa assai vecchia; dunque risiede tutta nel sangue; così forse avrà termine innanzitutto con il sangue.” “Sei molto acuto”, disse il vecchio sciacallo; e tutti ansimarono ancora più svelti; con affanno, per quanto se ne stessero ancora tranquilli; dalle fauci aperte fuoriuscì un odore più cattivo, solo appena sopportabile serrando i denti, “sei molto acuto, quel che dici è conforme alle nostre antiche dottrine. Noi dunque gli leviamo il sangue e la contesa è finita.” “Oh!” dissi con più violenza di quanto volessi, “loro si difenderanno, a frotte vi uccideranno con i loro schioppi.” “Ci fraintendi”, disse lui, “dipende dalla natura umana, che non viene meno neppure nel lontano nord. Noi mica li uccideremo. Il Nilo non avrebbe abbastanza acqua per mondarcene. Alla sola vista del loro corpo vivo ce ne scappiamo via nell’aria più pura, nel deserto, che per questo è la nostra patria.” E tutti gli sciacalli intorno, ai quali nel frattempo se n’erano aggiunti molti altri da lontano, abbassarono il muso tra le zampe anteriori e se lo pulirono; era come se volessero nascondere una ripugnanza, ma così spaventosa che io sarei balzato via volentieri dal loro cerchio. “Che cosa avete intenzione di fare”, domandai, e volevo alzarmi; ma non potevo; due giovani animali mi avevano saldamente piantato i denti nella giacca e nella camicia; dovevo restare seduto. “Ti tengono lo strascico”, disse con serietà il vecchio sciacallo a mo’ di spiegazione, “un atto di omaggio”. “Devono lasciarmi andare!”, urlai, un po’ rivolto all’anziano, un po’ ai giovani. “Certo che lo faranno”, disse l’anziano, “se tu lo chiedi. Ma ci vuole un po’, perché, come sono abituati a fare, hanno addentato in profondità, e prima devono staccare piano il morso un poco per volta. Nel frattempo, ascolta la nostra preghiera.” “La vostra condotta non mi ha reso molto sensibile all'ascolto”, dissi io. “Non farci scontare la nostra inettitudine”, disse, ed ora per la prima volta adoperò il tono lamentoso naturale della sua voce, per chiedere aiuto, “siamo poveri animali, questa è la nostra sola certezza; per tutto quello che abbiamo intenzione di fare, il bene e il male, ci resta quest’unica certezza.” “Che cosa vuoi, dunque?”, domandai, appena un po' più calmo. “Signore”, gridò lui, e tutti gli sciacalli ulularono; nella lontananza buia mi sembrò che fosse una melodia. “Signore, tu sei destinato a por fine alla contesa che divide il mondo. I nostri anziani ti hanno descritto così come sei, quello che lo farà. Noi dobbiamo ottenere la pace dagli arabi; aria respirabile; liberata della loro presenza la vista tutt’intorno, fino all’orizzonte; nessun montone macellato dagli arabi che si lamenti urlando; ogni animale è destinato a morire quietamente; dev’essere prosciugato da noi senza che veniamo disturbati, e ripulito fino alle ossa. Pulizia, non desideriamo altro che pulizia,” – ora tutti piangevano, singhiozzavano – “come fai tu, cuore nobile, sensibili viscere, anche soltanto a sopportarlo? Nell’umano i bianchi sono sozzura, sozzura i neri, orribili le loro barbe; vederne la coda dell’occhio dà il vomito; ed esce l’inferno dalle loro ascelle, quando sollevano il braccio. Perciò, o signore, o signore prezioso, con le tue mani che possono tutto, per mezzo delle tue mani che possono tutto, taglia loro la gola con queste forbici!” E, obbedendo ad uno scatto della sua testa, si avvicinò uno sciacallo che portava, su un dente canino, un paio di piccole forbici da cucito ricoperte di vecchia ruggine. “E dunque eccoci finalmente alle forbici, e con questo alla conclusione!” gridò il capocarovana arabo, che si era avvicinato strisciando contro vento ed ora agitava il suo enorme scudiscio. Tutto terminò di colpo, ma parecchi animali rimasero a poca distanza rannicchiati insieme, così stretti e immobili da sembrare una compatta barriera intorno a cui volteggiassero fuochi fatui. “Dunque, signore, anche tu hai visto e udito questa messa in scena”, disse l’arabo e rise tanto allegramente quanto il riserbo della sua stirpe gli permetteva. “Quindi tu sai quel che vogliono gli animali?” domandai. “Certo, signore”, disse lui, “è universalmente noto; finché ci sono arabi, queste forbici vagano per il deserto e vagheranno con noi fino alla fine dei giorni. Vengono proposte per il capolavoro a tutti gli europei; ogni europeo è proprio quello che a loro sembra adatto. Questi animali hanno una speranza insensata; folli, sono veramente folli. Noi li amiamo per questo; si tratta dei nostri cani; meglio dei vostri. Guarda, ora, un cammello è morto durante la notte, l’ho fatto trasportare qui.” Vennero numerosi portatori e gettarono il pesante cadavere davanti a noi. Non appena giacque lì, gli sciacalli fecero sentire la loro voce. Ognuno tirato come da funi irresistibili, si avvicinarono non senza soste, sfiorando il suolo con la pancia. Avevano dimenticato gli arabi, dimenticato l’odio, li affascinava la presenza della salma che, con il suo forte olezzo, cancellava tutto il resto. Già uno si attaccava alla gola e trovava, al primo morso, la giugulare. Come una misera pompa frenetica che, tanto perentoria quanto inutile, intenda spegnere un fuoco troppo poderoso, ogni muscolo del suo corpo ora tirava, ora sussultava. E già tutti erano all’ opera sulla salma, ammonticchiati. Allora il capo li colpì forte da ogni parte con il tagliente scudiscio. Sollevarono la testa; mezzo ebbri e inermi; videro l’arabo star loro davanti; ebbero da sentire sui musi lo scudiscio; si tirarono indietro con un salto e corsero un poco a ritroso. Tuttavia il sangue del cammello già formava una pozza, fumava, il corpo era squarciato in molti punti. Non potevano resistere; erano di nuovo lì; il capo sollevò ancora lo scudiscio; gli afferrai il braccio. “Hai ragione, signore”, disse, “lasciamoli al loro mestiere; del resto è tempo di partire. Hai visto. Prodigiosi animali, non è vero? E come ci odiano!”

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