mercoledì 13 giugno 2012

F.Kafka:D'estate

Durante una giornata d’estate molto calda, tornando verso casa, giunsi insieme a mia sorella davanti al portone di una fattoria. Lei colpì improvvisamente il portone con un pugno, non saprei se per distrazione o solo mimando, senza bussare davvero. Cento passi più avanti, sulla strada di campagna che voltava a sinistra, iniziava un villaggio che noi non conoscevamo. Subito uscì gente dalla casa più vicina e amichevolmente ci accennò di stare in guardia; erano spaventati, ingobbiti dalla paura. Indicarono la fattoria cui noi eravamo davanti e a gesti il colpo sul portone. I padroni della fattoria ci avrebbero rimproverato, e si sarebbe dato inizio all’indagine. Io calmissimo tranquillizzai mia sorella, probabilmente non aveva quasi dato il colpo, e anche se lo avesse dato per questo mai al mondo s’intenta un processo. Provai a far capire loro questa cosa, mi ascoltarono, ma non espressero un parere. Successivamente dissero che non solo mia sorella, ma anch’io come fratello sarei stato accusato. Ridendo dissi di sì, mentre tutti guardavamo in direzione della fattoria come si tiene d’occhio una nuvola di fumo lontana e si sta attenti alla fiamma. Di fatto ben presto si videro uomini a cavallo entrare nel grande portone aperto della fattoria alzando un polverone che coprì tutto e sopra cui lampeggiava solo la punta delle lance. Appena sparita quella truppa nella fattoria, subito la si vide girare i cavalli e venire verso di noi. Spinsi da parte mia sorella, avrei chiarito tutto da solo, lei si rifiutò di lasciarmi e allora le dissi che avrebbe dovuto indossare magari un abito migliore per presentarsi davanti a quei signori. Infine obbedì e si accinse a fare la lunga strada per tornare a casa. Gli uomini a cavallo già erano su di noi, dall’alto chiesero a mia sorella di non restare per ora sul posto, avrebbe sì risposto dettagliatamente, ma di presentarsi più tardi. La risposta di lei fu accolta quasi con indifferenza, soprattutto sembrava importante che fossi stato individuato io. Si trattava di due signori, un giovane ufficiale dall’aria sveglia e uno più tranquillo, il suo aiutante, il vice. Venni invitato nella stanza di soggiorno della fattoria: lentamente, scotendo la testa, stirando le mie bretelle, passai sotto gli sguardi intenti di quei signori. Pensavo ancora che bastasse una parola per essere lasciato libero, io, il cittadino, perfino con onore davanti a questi campagnoli. Invece, quando ebbi varcato la soglia di quella stanza, l’ufficiale, che mi aveva preceduto dentro e stava aspettandomi, disse: “Quest’uomo mi fa compassione”, ma era fuor di dubbio che non si riferiva tanto alla mia condizione presente, quanto a quel che mi sarebbe successo. La stanza, più che un soggiorno rustico, pareva una cella. Lastroni di pietra, fredde pareti grigio scure, qua e là certi anelli di ferro, e nel mezzo qualcosa tra la panca e il tavolo operatorio.

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