lunedì 4 giugno 2012
F.Kafka: Il ponte.
Ero rigido e freddo, ero un ponte bloccato su uno sprofondo, le punte dei piedi affondate da una parte, dall’altra le mani, pezzi d’argilla tra i miei denti. Le falde della giacca sventolavano di qua e di là. Sotto, il frastuono del gelido torrente. Nessun gitante si arrischiava fino a quest’altezza impraticabile, il ponte non era ancora segnato sulla carta. Insomma, ero immobilizzato ed aspettavo; dovevo aspettare; un ponte, una volta costruito, non poteva certo smettere di essere ponte, se non venendo giù. Una volta, verso sera, la prima o la millesima non lo so, perché i pensieri mi si confondevano sempre e giravano a vuoto, verso sera, in estate, il torrente mormorava più scuro - sentii passi umani. Da questa parte, da questa parte! Ponte, distenditi, assestati, deboli travi del parapetto, rimanete sicure, compensate impercettibili l’incertezza dei suoi passi; ma, se lui incespica, allora, ponte, fatti riconoscere, e, come una divinità della montagna, scaglialo giù. Arrivò, mi colpì con la punta ferrata del bastone, poi mi sollevò le falde della giacca e le mise a posto sopra di me, spinse quindi la punta nei miei capelli cespugliosi e v’indugiò a lungo, mentre forse ci guardava dentro. Poi, mentre sognavo che si trovasse lontano, oltre la montagna e la valle, lui si mise a saltarmi, con entrambi i piedi, sulla schiena. Tremavo di un dolore bestiale, senza sapere nulla, cos’era? Un bambino? Un ginnasta? Uno spericolato? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore? E mi voltai per vederlo. Il ponte si voltò!
Non mi ero ancora girato, che cadevo e già venivo smembrato ed infilzato da quei sassi appuntiti che sempre mi avevano guardato tanto pacifici tra l’acqua furiosa.
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