giovedì 14 giugno 2012

F.Kafka:La mia ditta

La mia ditta pesa interamente sulle mie spalle. Due dattilografe e i registri dei conti nell’anticamera, e la mia stanza, dov’è una scrivania, la cassa, un tavolo per le riunioni, una poltrona di pelle e il telefono, ecco tutta la mia attrezzatura professionale. Tanto semplice da tenere sott’occhio quanto facile da gestire. Sono giovane, e gli affari mi vanno bene, non mi lamento. Non mi lamento. Dall’inizio di quest’anno uno più giovane, di colpo, ha preso in affitto l’appartamentino vuoto accanto al mio, dopo che goffamente avevo esitato tanto ad affittarlo io. Appunto una stanza e un’anticamera, ma anche una cucina. La stanza e l’anticamera avrei potuto usarle, le mie due dattilografe già stanno pigiate, ma a che cosa mi sarebbe servita la cucina? A causa di questa domanda gretta mi sono fatto soffiare l’appartamento. Ora questo giovanotto sta qui accanto. Si chiama Harras. Che cosa faccia di preciso non lo so. Sulla porta c’è soltanto “Harras, Ufficio”. Ho raccolto informazioni: mi si è fatto sapere che si tratta di un’attività simile alla mia, che con la concessione di credito non si è mai abbastanza guardinghi, che simili faccende forse hanno sì un avvenire se le tratta un giovane in ascesa, che d’altra parte i consigli in fatto di credito non sono mai troppi, dato che oggi come oggi con ogni probabilità il giovanotto non dispone di alcun capitale: le solite informazioni che si danno quando non si sa nulla. Talvolta incontro Harras per le scale, deve avere una fretta straordinaria, letteralmene mi guizza davanti, quasi non l’ho visto bene, ancora, ha la chiave del suo ufficio pronta in mano, in un attimo ha aperto la porta, scivola dentro come la coda d’un topo e io mi ritrovo davanti alla targa “Harras, Ufficio”, che ho già letto molto più spesso di quel che meriti. Le pareti miseramente sottili tradiscono l’uomo onesto e infaticabile mentre proteggono il disonesto. Il mio telefono è installato alla parete che mi separa dal mio vicino, lo evidenzio solo perché è un fatto veramente ironico, infatti, anche se il mio telefono stesse sulla parete opposta, dall’appartamento vicino si sentirebbe tutto. Ho smesso di fare il nome del cliente a cui telefono, tuttavia non c’è bisogno di molta scaltrezza per indovinare i nomi, dalle particolari inevitabili frasi dei discorsi. Capita che io, tormentato dall’irrequietezza, ballonzoli in punta di piedi accanto al telefono con il ricevitore all’orecchio, ma ciò non può impedire che i segreti si propaghino. Com’è naturale anche le mie scelte professionali, al telefono, si fanno più incerte, la voce mi trema. Cosa fa Harras, mentre telefono? Volendo esagerare molto, ma spesso ciò serve per essere chiari, potrei dire che Harras non ha alcun bisogno del telefono: adopera il mio, ha il divano accostato alla parete e ascolta. Invece io, se suona, devo correre, soddisfare i clienti, prendere decisioni importanti, persuaderli, ma, innanzitutto, fare involontariamente rapporto ad Harras attraverso la parete. Forse non aspetta quasi neanche la fine dei discorsi, dopo aver capito i punti a lui utili invece si alza, com’è sua abitudine guizza per la città e, prima che io abbia riattaccato, forse è già all’opera contro di me.

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